Equità

concetto giuridico
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L'equità in diritto è un criterio di giudizio talvolta ammesso dalla legge. Essa consente al giudice una decisione svincolata dall'applicazione di una norma astratta, ed elaborata invece nella sua coscienza.

Si distinguono due specie di equità:

  • l'equità integrativa ha ambito limitato, e permette al giudice solo di specificare la portata di alcune norme (ad es., determinare l'ammontare un'indennità);
  • l'equità sostitutiva permette invece proprio di superare il dettato di una regola astratta, sostituita da un'altra regola che viene creata e applicata dal giudice in riferimento al caso concreto (non è detto, peraltro, che questa nuova regola contraddica quella prevista in astratto dal legislatore).

In quest'ultimo senso, l'equità trova il suo fondamento nella considerazione del rilievo socioeconomico, oltre che giuridico, di una controversia. La rigida applicazione della legge astratta a tutti gli infiniti possibili casi della vita reale potrebbe infatti determinare, nella singola ipotesi, situazioni di sostanziale ingiustizia; per questo motivo, a date condizioni, il legislatore permette al giudice di creare e applicare una regola ad hoc. La dottrina parla perciò dell'equità come di "giustizia del caso singolo" o, meglio, "regola di giudizio del caso singolo".[1]

Perché il ricorso all'equità sia possibile si richiede però:

  • che si tratti di un giudizio davanti al giudice di pace per controversie di valore non superiore a 1.100 euro (salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 del codice civile; art. 113 del codice di procedura civile),
  • oppure che le parti, concordemente, attribuiscano al giudice il potere di decidere secondo equità; in questo caso, la controversia deve tuttavia vertere su diritti disponibili (art. 114 c.p.c.).

Note

  1. ^ Crisanto Mandrioli. Diritto processuale civile. Giappichelli. Torino, 2004.