Enrico Gras

regista e sceneggiatore italiano
Versione del 1 dic 2008 alle 14:43 di Ary29 (discussione | contributi) (f, w, template bio)

Enrico Gras (Genova, 7 marzo 1919Roma, 5 marzo 1981) è stato un regista e sceneggiatore italiano.

Biografia

Vincitore di 2 Berlin International Film Festival: nel 1951 per “Il Paradiso perduto(1948)”, insieme a Luciano Emmer, nella categoria Best Art/Scientific Film (Bronze plaque) e nel 1955 per “Continente perduto” (1954), insieme a Giorgio Moser (Grand Silver Plaque). Sempre nel 1955 “Continente perduto” riceve: il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes (premio condiviso con Giorgio Moser, Mario Craveri, Leonardo Bonzi, Francesco Lavagnino) e la nomination per la Palma d’Oro sempre all’interno dello stesso festival, riconoscimenti questi che gli conferiscono fama internazionale. Sempre a Cannes presenta film quali: “Turay, enigma de las llanuras” (1951), girato in Argentina; “Macchu Picchu”(1953) e “Castilla, soldato de la Ley”(1953), entrambi film di produzioni peruviane, come anche “El soldato de Sayan”(1954) Nel 1950 viene invitato al Festival di Venezia per il film “Pupila al viento”(1950) e l’anno successivo viene premiato con una menzione speciale della giuria per il film “Jose Artegas, protector de los pueblos libres”(1951). Due Nastri d’Argento (Premio della Giuria a Mario Craveri e Premio per la Miglior Musica ad Angelo Francesco Lavagnino) vengono assegnati sempre a “Continente perduto” nel 1955. Un altro Nastro d’Argento viene assegnato a Mario Craveri per “L’impero del sole”(1956 - miglior fotografia) Sempre nel 1956 “L’impero del sole” (diretto con Giorgio Moser e Mario Craveri) vince il Premio David di Donatello per la miglio produzione. Un secondo Premio David di Donatello (categoria miglior attrice a Lea Massari) lo riceve nel 1962 il film “I sogni muoiono all’alba” di cui cura la regia insieme a Mario Craveri e Indro Montanelli, autore dell'omonima opera teatrale dalla quale è stata tratta la pellicola. Nel 1976 riceve il Premio Chianciano della critica radiotelevisiva.

Ha lavorato come regista e sceneggiatore di cinema e televisione per più di 40 anni dedicandosi principalmente all’attività di documentarista. E’ stato un regista alquanto « misterioso » come più volte è stato definito da chi aveva avuto l’occasione di conoscerlo, poiché nelle occasioni in cui si è trovato al centro dell’attenzione internazionale, (è stato celebrato da Bazin oltre ad aver vinto numerosi premi internazionali ) si è prontamente ritratto dai riflettori della celebrità, preferendo continuare il suo lavoro in una dimensione appartata, anziché sfruttare le occasioni che si trovavano a portata di mano. Un regista, che ha sempre amato dirigere i suoi film in collaborazione con amici con i quali ha costituito dei lunghi sodalizi, e che ha sempre mostrato un sostanziale disinteresse verso il cinema a soggetto. Il contributo apportato dall’opera di Enrico Gras al cinema e alla televisione è di notevole rilevanza : grazie ai suoi primi lavori, insieme ad Emmer negli anni della guerra, si aprirono grandi prospettive teoriche sul rapporto tra Arte e Cinema. Gras e i suoi colleghi del tempo svilupparono in seguito il discorso sul « documentario esotico » che permetteva di proporre allo spettatore splendide immagini di luoghi lontani, in un’epoca in cui non esisteva ancora l’inflazione televisiva. Grazie all’opera di Enrico Gras è stato possibile conoscere il cosiddetto « documentario spettacolare », un tipo di documentarismo magniloquente e improntato sulla proiezione di immagini di grande effetto e impatto scenico, in grado di sbalordire ogni genere di pubblico e che portò all’esaltazione delle potenzialità spettacolari del cinema in un contesto documentaristico; questo fu, tra l’altro, anche il modello seguito dal celebre Folco Quilici. Tuttavia è proprio quest’aspetto di immagini forti, impostate per lo più su lotte cruente tra animali, a suscitare oggigiorno orrore e critiche negative. La sensibilità e l’educazione al rispetto animale, maggiormente sentito oggi rispetto ad allora, comporta severi giudizi di pubblico. L’innovazione tecnica più importante introdotta dall’opera del regista genovese fu senz’altro quella del Cinemascope e del Ferraniacolor. Tutti i film di Gras e Craveri sono infatti in Cinemascope e Ferraniacolor e in particolare “Continente perduto” fu il primo film italiano che utilizzò questa tecnica innovativa, impiegando le pesantissime lenti Bausch and Lomb della Fox davanti agli obbiettivi. Anche negli anni della televisione continuò insieme a Craveri a produrre programmi di carattere teledocumentaristico con il fine di educare, senza però privare il documentario di quei caratteri tipicamente cinematografici che avevano caratterizzato tutto il suo lavoro.

BIOGRAFIA

Gli esordi con i documentari d’Arte

Enrico Gras naque a Genova il 7 marzo 1919, penultimo di 6 figli : il padre Stefano avvocato apparteneva ad una nobile famiglia ormai decaduta di origini francesi (marchesato Cernon d’Anglours), la madre Regina Costa veniva da una famiglia di armatori (compagnia mercantile Italmar), originaria di San Lorenzo della Costa che lavorava da anni tra l’Italia e il sud-America. Nel 1923 la madre morì, e il padre dovette partire per l’Argentina come dirigente della compagnia della famiglia Costa a Buenos Aires. Convinto di poter riunire un giorno laggiù tutti i suoi figli si rese conto successivamente che le cose erano più complicate di quanto si aspettasse e i ragazzi vennero in breve tempo divisi tra i nonni. Dopo qualche tempo trascorso ancora a Genova, Enrico Gras andò così a vivere presso la nonna paterna a Milano, dove fece i suoi studi al Collegio San Carlo, nel quale era compagno di studi del fratello di Luigi Comencini, e proprio con lui cominciò a fare cinema. Come famiglia erano amici dei Risi (Dino Risi) e frequentava, insieme a sua sorella minore Laura Gras, dei gruppi cinematografici milanesi e la Cineteca Italiana. Successivamente sempre a Milano, finito il liceo si iscrisse alla facoltà di Ingegneria e iniziò a coltivare seriamente la sua più grande passione : il cinema. Enrico Gras dimostra quindi da subito la sua grande passione ed esordisce come documentarista ancora studente fondando nel 1938 a Roma, con l’amico e collaboratore Luciano Emmer, una piccola casa di produzione che si segnala per la realizzazione di vari documentari negli anni della seconda guerra mondiale. Si tratta di lavori innovativi che hanno come oggetto delle opere d'arte, presentate al pubblico con un uso originale del montaggio e della musica. Con questa tecnica, vengono illustrate opere di Giotto, (nel 1941 "Racconto da un affresco" la cappella degli Scrovegni nella foto in b/n dei Fratelli Alinari) Goya, Bosh, Leonardo, Piero della Francesca e Picasso. Le principali opere prodotte in questi anni sono oltre alla precedente : “Romanzo di un’epoca” (1942); “Il Paradiso terrestre”(1942) sceneggiato attraverso Hyeronimus Bosch, trittico del “Giardino delle delizie”, musiche di Roman Vlad; “Guerrieri” (1942); “Destino d’amore “(1942); “Il Cantico delle creature” (1942); “il Paese della nascita Mussolini” (1943). Il suo primissimo lavoro fu però un brevissimo cortometraggio di animazione (di meno di 3 minuti) intitolato “il Giuseppe” (1938) e venne presentato ai Littorali. Quel piccolo film andò perso in una maniera insolita: secondo il racconto di Luciano Emmer, quando i due si erano da poco recati a Roma vennero aggrediti nei pressi del Pantheon da un gruppo di teppisti che rubarono i loro cappotti con l’unica copia del film di poche centinaia di metri conservata nella tasca. Con Emmer in uno scantinato, realizzò i suddetti documentari d’arte in condizione del tutto avventurose: con una vecchia Pathé degli anni ’10 e una truka ricavata da un tornio appeso al muro nacquero così i loro due primi successi: “Racconto di un affresco” e “Il Paradiso terrestre”, e non avendo i soldi per recarsi a fare le riprese sul posto, si limitarono a riprendere le immagini dalle fotografie di Alinari, reinventandole in un racconto di natura essenzialmente cinematografica. Emmer ricorda come Gras volesse addirittura rifare gli affreschi di Giotto in animazione, e questo da forse l’idea di quanto il cinema fosse per lui una sorta di reinvenzione privata della realtà. Enrico Gras non ebbe il tempo di godersi le attenzioni suscitate da quei piccoli film. Venne infatti chiamato al servizio militare e una volta arruolato venne inviato come ufficiale dell’Esercito Italiano a Rodi in Grecia. Nel 1943 l’attività cinematografica venne quindi bruscamente interrotta a causa della seconda Guerra Mondiale. Seguirono le tristi vicende della storia italiana sviluppatesi in seguito all’armistizio del settembre ’43 ed Enrico venne fatto prigioniero dai tedeschi e deportato nel campo di concentramento di Dachau dove rimase fino al maggio del ‘45 quando fu liberato dalle truppe americane. Fu quello un periodo terribile dove fu a diretto contatto con gli orrori del nazismo e questo segnò profondamente il suo già difficile carattere. Gras non parlò mai volentieri dell’esperienza della guerra e tantomeno di quella in campo di concentramento. Al ritorno dalla guerra nell’agosto del ’45 scoprì che Emmer era riuscito ad evitare il servizio militare emigrando in Svizzera e che si era prodigato per far conoscere quei due film. Emmer aveva infatti stretto amicizia con Henri Langlois, già conosciuto alla Cineteca milanese, e nell’immediato dopoguerra si recava spesso a Parigi, dove i loro documentari d’arte suscitarono gli entusiasmi di molti intellettuali. Secondo André Bazin, i film di Gras ed Emmer compiono quella che definirà la “prima rivoluzione dei film sull’arte (…) così splendidamente sviluppata nelle sue conseguenze da Alanis Resnais”. “il quadro è centripeto, lo schermo è centrifugo – scriverà nel saggio Peinture et cinéma – ne consegue che se , rovesciando il processo pittorico, si inserisce lo schermo nel quadro, lo spazio del dipinto perde il suo orientamento e i suoi limiti per imporsi alla nostra immaginazione come indefinito. Senza perdere gli altri caratteri plastici dell’arte, il dipinto si trova contaminato dalle proprietà spaziali del cinema, partecipa di un universo pittorico virtuale che deborda da tutti i lati. E’ su questa illusione mentale che si è basato il lavoro di Luciano Emmer ed Enrico Gras, ndt nelle fantastiche ricostruzioni estetiche che sono in gran parte all’origine del film d’arte contemporanea e specialmente nel Van Gogh di Alanis Resnais”. In questo modo secondo Bazin, “il cinema non gioca affatto il ruolo subordinato e didattico delle fotografie in un album o delle proiezioni fisse in una conferenza. Questi film sono essi stessi delle opere. La loro giustificazione è autonoma. Non bisogna giudicarli affatto solo in riferimento alla pittura che utilizzano, ma in rapporto all’anatomia, o piuttosto all’istologia di questo nuovo genere estetico, nato dalla congiunzione della pittura e del cinema. Non si trattava di un entusiasmo isolato, infatti il primo numero della rivista Revue du Cinéma del febbraio ’46, viene ampiamente dedicato proprio al “caso” parigino del momento: il rapporto “teorico” tra pittura e cinema, sviluppatosi dalla proiezione dei documentari di Gras ed Emmer. Vi intervengono ampiamente Jean Gorge Auriol, Piero Bargellini e successivamente anche Pierre Kast (Ecrain Francais, agosto ’46), Herbert Margolis (Sight&Sound del ’47) e poi Kracauer, Raggianti Carné e Prévert. Gli intellettuali del cinema si eccitano davanti alle prospettive teoriche che vengono aperte da quei piccoli film. All’origine di tutto c’è proprio la gran voglia di far cinema di Emmer e Gras, il desiderio istintivo di creare un film dotato di una vita autonoma là dove si era solito attribuirgli un ruolo secondario e subordinato. Sostenuti dall’entusiasmo internazionale i due riprendono quindi nel dopoguerra la loro attività documentaristica, e per un paio di questi film ("La leggenda di Sant’Orsola" e "Romantici a Venezia") lo stesso Jean Cocteau chiede di poter scrivere il testo da accompagnare alle immagini. In questi anni la sorella minore di Gras, Laura, dimostrò grande interesse per il cinema e per il lavoro del fratello e collabora con lui nella lavorazione di alcuni film tra cui “Inquietudine” diretto da Carpignano (cognato di Emmer), girato un po' a Milano e un po’ a Merate e di cui Enrico aveva scritto al sceneggiatura. Mentre le riviste internazionali continuano ad occuparsi dei due autori, succede però qualcosa che viene a rompere la loro esaltante collaborazione. Nel 1947, Gras abbandona Emmer e l’Italia per recarsi in Argentina, dove già si trovano altri familiari. Il motivo della rottura è difficile stabilirlo, sicuramente Gras andò in Argentina per un breve soggiorno (doveva infatti sbrigare degli affari per conto di suo padre) e poi lì trovò delle occasioni di lavoro migliori e si costruì una famiglia, sposandosi e avendo una figlia, ma forse, molto più probabilmente, vi fu qualche screzio tra i due, che avevano un carattere profondamente diverso e differenti ambizioni: Gras era quasi esclusivamente interessato al documentario e aveva un temperamento più schivo, mentre Emmer era più attento alla promozione del loro lavoro e soprattutto voleva dedicarsi a quello che chiamava il “cinema vero”, e cioè al lungometraggio di finzione. Non a caso, dopo la separazione, Emmer passò ai film a soggetto con “Domenica d’Agosto, mentre Gras, stabilitosi in sud-America, si dedicò all’attività di documentarista, senza più dare quasi sue notizie agli amici in Italia. Si pone così fine al sodalizio tra Gras ed Emmer, che tra il 1938 e il 1948 ha dato vita a una ventina di opere.


Il periodo in America del sud

Nel 1947 Gras andò quindi in sud-America dove vi rimase per anni: “era andato a seppellirsi laggiù” diranno i suoi amici, che avevano in parte perso le sue tracce. Su questa parte della sua attività in sud- America permangono parecchi punti oscuri, ed è probabile che altri titoli vadano aggiunti a quelli che ora si conoscono. Le storie del cinema sudamericano lo ricordano comunque come uno dei registi più importanti di quel periodo soprattutto per quanto riguarda l’Argentina, l’Uruguay e il Perù. Nel 1950 diresse “Pupila al viento”(invitato al festival di Venezia), con il testo di Rafael Alberti. Questo film viene considerato, ancora oggi, come l’opera maestra del cinema sperimentale uruguayano. All'epoca,“Pupila al viento”, fu definito come un “documental poético" e successivamente ne derivò il termine di “cinepoema” per indicare il genere: la spiegazione sta nel fatto che R. Alberti riprese gran parte del testo (in forma di poema) del libro “Poemas de Puntas del Este” del ’61 sotto il titolo di “Pupila al viento. Palabras sincrónicas para un film, de Enrico Gras sobre Punta del Este”. Di quegli anni sono anche: “Jose Artegas, protector de los pueblos libres”(1951) premiato con menzione speciale a Venezia’51; “Turay, enigma de las llanuras” (1951); “Macchu Picchu”(1953); “Castilla, soldato de la Ley”(1953) e “El soldato de Sayan”(1954) tutti cortometraggi presentati a Cannes. Suoi sono anche “La ciudad frente al rio” e “Aventura de los sieglos”. In Les Cinemas de L’Amerique Latine (Paris 1981) di Guy Hennebelle e Alfonso Gumuchu, si dice che questi ultimi tre film si staccano nettamente dal resto delle produzione locale di quel periodo, per la superiore qualità tecnica, anche se rimproverano ai film di Gras “una magniloquenza un po' invadente”, tipica del resto di molti documentari di quel periodo. Quanto a “Turay, enigma de las llanuras”,all’inizio del decennio aveva appassionato parecchi membri dell’entourage surrealista come Georges Goldfayn, Ado Kyrou e Jean-Louis Bédouin. Ado Kyrou lo ricorda così nel suo surréalisme au cinéma: “considero Turay come una delle più meravigliose riuscite del cinema poetico. Questo film che mi sconvolge, scopre i miti dell’America Latina. Degli studiosi scoprirono nelle pianure dell’Argentina i resti di una civiltà sconosciuta di 3.000 anni fa, alla quale fu dato il nome di “Impero delle pianure”. Nel deserto arido, solo i serpenti, le formiche, i cactus nani e il sangue degli antichi sacrifici danno delle indicazioni sulle urne seccate al sole torrido. Partendo dalle ceramiche, Gras ha indagato sui grandi misteri dei miti sanguinari. Turay, la sorella, diviene sotto lo sguardo fisso dei gufi, il Kukuy, uccello notturno del Chaco. Il sole, serpente di fuoco, non è altro che il fratello che non dovrà assaggiare il miele rituale e la luna, uccello notturno, si posa sul vaso cactus. Gras fa scaturire l’unione perfetta di elementi disparati. Il serpente è cranio di morte, l’urna piange le lacrime della donna uccello, le formiche solcano la pianura dei tempi. La paura, l’amore, il sole, la follia, i cactus sono gli elementi del mito che solo il cinema, trasformato in miele rituale, può perpetuare. Quello che successe dopo fu molto curioso. Lo stesso Gras, in un programma televisivo ricordava: “partii per l’Argentina nel 1947, pensavo di starci 2 o 3 mesi….invece ci rimasi 7 anni, mi sposai ed ebbi una bambina laggiù e forse non sarei mai tornato in Italia se il caso non mi avesse fatto incontrare, nel modo più incredibile e romanzesco, Mario Craveri”. Enrico Gras e Mario Craveri si conoscevano da quando nel dopoguerra avevano fatto insieme una serie di documentari d’arte (“Sant’Orsola di carpaccio”, "Sulle vie di Damasco”, Isole della Laguna” e “Romantici a Venezia”), ma si rincontrarono,per caso, molti anni dopo a Lima nel'52, mentre stavano camminando tranquillamente per strada. Gras stava girando un documentario per conto del governo peruviano mentre Craveri aveva appena finito il viaggio di "Magia Verde", prodotto dal conte Leonardo Bonzi, una nota figura sportiva a livello olimpionico, ma soprattutto un uomo avventuroso che aveva comandato molte spedizioni (Groenlandia, Turkestan, Persia, Sahara, Asia Sud orientale…) e per suo conto alcuni collaboratori realizzavano film e documentari seguendolo nei suoi viaggi (“L’Angelo dei Bambini” su Don Gnocchi insieme a Lualdi, “Una lettera dall’Africa”, “Magia Verde”, “Continente perduto”). Bonzi dopo “Magia Verde” aveva in programma un altro film e fu per questo fortuito incontro che Bonzi e il direttore della fotografia Craveri chiesero a Gras di curare la regia di questo nuovo documentario che stavano per realizzare con Giorgio Moser e il musicista Francesco Lavagnino. Gras accettò e diresse al loro fianco il suo capolavoro “Continente perduto” del 1954 e tornò quindi a stabilirsi in Italia insieme alla moglie e alla figlia di 2 anni. “Magia Verde” aveva inaugurato un nuovo filone del cinema italiano, il documentario esotico, che permetteva di proporre allo spettatore splendide immagini di luoghi lontani, in un’epoca in cui non esisteva ancora l’inflazione televisiva. Con l’uso del colore e del Cinemascope questo settore era destinato a conoscere un rapido successo prima di ridimensionarsi con la fine degli anni ’50 e deteriorarsi nello pseudodocumentarismo scandalistico del ’61.


Il successo con “Continente perduto” e “L'impero del sole

La squadra Bonzi (produzione), Craveri (fotografia), Lavagnino (musiche) Gras e Moser (Regia) si recò in Siam, Borneo, Giava, Sumatra, Malesia ed Indonesia per realizzare “Continente Perduto”. Accettando l’incarico Gras rientrò improvvisamente nel grande cinema: anche se, la sua attività in America Latina, geograficamente e produttivamente emarginata, avevano avuto in quegli anni, lusinghieri riconoscimenti. Nacque così “Continente perduto”. Il film prese il via seguendo le popolazioni cinesi che si spinsero verso il mare e i cineasti che salparono alla ricerca esplicita del sogno di una natura incontaminata, dell’ultimo Oriente e delle sue “isole felici” filmeranno qualche momento quotidiano del loro viaggio, ma si dedicheranno soprattutto a sequenze ad effetto, come il sacrificio degli animali gettati nel vulcano, la corse dei tori e degli aratri, danze, lotte e funerali, mostrandoci infine i cacciatori di teste e la loro cerimonia nuziale con i teschi. Nel maggio del 1955 il film fu presentato a Cannes, dove conquistò pubblico e giuria. Venne proiettato nell’ultima serata del festival e si vide attribuire trionfalmente il premio speciale della giuria, prendendo un po' in contropiede la stampa italiana che non si era preparata all’evento. Dopo la proiezione i giornali dell’epoca parlano di “applausi continui” del pubblico e infine scrive Arturo Lanocita sul Corriere della sera: “l’applauso è stato scrosciante,forse come mai nelle serate di quest’anno a Cannes”, l’inviato del Secolo XIX, Angelo Maccario, non solo riferisce che alla premiazione “l’applauso più caloroso è risuonato nella sala allorché è stato citato il lungometraggio italiano “continente perduto”, al quale è stato attribuito il premio speciale” ma si slancia anche in una considerazione condivisa da altri giornalisti: “ il nostro documentario – scrive- aveva perfino sbalordito pubblico ed esperti per la suggestione dei suoi colori e la novità della colonna sonora. A quanto pare la giuria è stata incerta se assegnarli la Palma d’Oro del primo premio e solo il suo carattere di documentario avrebbe evitato la decisione rivoluzionaria”. Per il regista del film, si trattava di un’improvvisa consacrazione internazionale. Ne derivò un successo di pubblico internazionale, e se in Italia il film uscì a termine della stagione, subito dopo Cannes, ottenendo buoni incassi ma non memorabili, in altre nazioni raggiunse straordinari risultati di botteghino: a cominciare dal Giappone, dove secondo Craveri venne definito “Continente perduto, tesoro ritrovato” a causa degli alti incassi, e dove scomodò perfino l’imperatore Hiro Hito e la famiglia imperiale. “La famiglia imperiale nipponica – fatto eccezionale – è intervenuta oggi ad uno spettacolo cinematografico, in occasione della “prima” giapponese del film italiano continente perduto, di Bonzi, Craveri, Gras, Lavagnino e Moser” scriveva Il Lavoro il 5 maggio ’56. E aggiungeva:”Allo spettacolo i cui proventi saranno devoluti alla Croce Rossa genovese, hanno assistito Leonardo Bonzi, giunto appositamente dall’Italia, numerosi diplomatici e personalità del mondo della politica e della cultura. L’intervento della famiglia imperiale ad uno spettacolo cinematografico è un evento assolutamente straordinario: l’imperatore Hiro Hito, prima di oggi aveva assistito ad una sola proiezione cinematografica, in occasione a Tokyo del primo film in cinerama, nel febbraio scorso. Quanto all’imperatrice Nagako, non si era mai recata al cinema prima di oggi”. Anche in questo caso il film fu al centro di molte discussioni e critiche, i teorici del documentarismo avanzarono alcune obiezioni ad un film che riconoscevano di ottima fattura, ma che forzava in molti punti il rigore documentaristico e conquistava soprattutto per la forza spettacolare delle immagini: si legge sul Morandini 2007, dizionario dei film: “…apprezzabile a livello tecnico-formale per l'uso del Cinemascope e del Ferraniacolor (fotografia di M. Craveri), lo è meno sul piano della sostanza documentaristica per la premeditata ricerca degli effetti spettacolari…” I quotidiani dell’epoca furono entusiastici nelle corrispondenze da Cannes, e molto positivi nelle recensioni dell’uscita nelle sale italiane: con grandi elogi per la spettacolarità, per la resa cromatica della fotografia e delle musiche, e con qualche obiezione (ad esempio Tullio Ricciarelli) per il commento di Orio Vergani. Le maggiori obiezioni vennero dai francesi. Nella nota da Cannes apparsa sui Cahiers du cinéma, con la firma collettiva di Bazin, Chabrol, Doniol-Valcroze e Richer, si legge ad esempio: “Continente perduto, film italiano nello spirito di Magia Verde, ma questa volta sulla Malesia. Trionfo del Cinemascope nel documentario”. La conferma del rilievo internazionale ottenuto dal film viene anche da Roland Barthes, che lo inserisce addirittura tra i Miti d’oggi, dedicandogli un intero articolo e prendendolo ad esempio della più generale mitologia dell’esotismo. “Un film, Continente perduto, chiarisce bene il mito attuale dell’esotismo” esordisce, scrivendo poi che “fra l’orso mascotte e la burla esotico, in realtà profondamente simile all’occidente spiritualista”. La conclusione è che “l’esotismo rivela qui la sua giustificazione profonda: negare ogni collocazione della storia”. L’osservazione più interessante, tuttavia, è forse quella che investe un discorso più direttamente cinematografico: “colorare il mondo è sempre un mezzo per negarlo” scrive Bartes, che aggiunge: “e forse a questo punto bisognerebbe cominciare un processo al colore nel cinema. Privato di ogni sostanza, respinto nel colore, disincarnato dal lusso stesso delle immagini, l’oriente è pronto a sparire nell’abile operazione che il film gli riserva”. In questo modo Bartes riporta Continente perduto nel suo aspetto fondamentale, che lo lega cioè alla grande esplosione spettacolare del cinema a colori e in scope, andando al di là delle considerazioni più scontate sui suoi contenuti. Rivedendolo oggi il film si fa ancora apprezzare per quell’eleganza della scrittura cinematografica che è tipica di Gras e che compare soprattutto nella prima parte, mentre è maggiormente datata l’enfasi spettacolare nella ricostruzione davanti alla macchina da presa di riti locali, oppure l’insistenza sugli aspetti religiosi, quasi a riscattare l’idillio pagano della faccenda. Sappiamo del resto che il commento e la convenzionale struttura narrativa sono sempre stati la parte più caduca di questi documentari anni ’50, con i loro miti del buon selvaggio, dell’ultimo paradiso e via dicendo: è semmai interessante notare come il commento venisse solitamente affidato ad esponenti della cultura o del giornalismo, portandone così alla luce pregiudizi e cliché. Lo spirito religioso, saggiamente sottolineato dal commento del film, salva l’intera operazione da interventi censori: all’epoca infatti si potevano ammettere tali nudità femminili solo in popoli esotici. L’importanza di "continente perduto", del resto, non sta certo nell’approccio antropologico a usi e costumi di popolazioni indigene, quanto nella sua esaltazioni delle potenzialità spettacolari del cinema così come si andavano definendo con l’uso del Cinemascope e del colore (Ferraniacolor), nella forza della visione come impatto meraviglioso sullo spettatore. E il film va inserito all’interno di un genere da considerarsi popolare proprio nelle sue piccole ambizioni cultural-estetizzanti, anche se con profonde differenze qualitative tra i singolo prodotti: in quello stesso anno vennero distribuiti anche “Sesto Continente” che segnava l’esordio di Folco Quilici ed “Eva Nera” di Giuliano Tomei. Dopo il successo internazionale di “Continente perduto” , Gras, Craveri e Lavagnino furono subito messi al lavoro dalla Lux per realizzare un altro film in Cinemascope e Ferraniacolor: “L’impero del sole”(1956), che venne presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1956 e valse a Craveri il Nastro d’Argento per la miglior fotografia. Questa volta si recarono in Perù, che del resto Gras conosceva assai bene per l’attività che vi aveva svolto negli anni precendenti, non a caso le immagini iniziali sono dedicate a Macchu Picchu, dove aveva girato uno dei suoi documentari peruviani. Attraverso sequenze spettacolari, questa volta assistiamo alla vita e alle usanze dei vari gruppi di indios: il corteggiamento, il carnevale, le ceneri e i riti dei morti, le mandrie dei lama, il villaggio sulle palafitte e la danzatrice col serpente. Tra le usanze più curiose, quella del parto, in cui il marito urla e si lamenta per distrarre gli spiriti mentre la moglie partorisce; oppure l’altro parto con al donna legata e sospesa in posizione verticale ad un albero, o la cattura del condor da parte dello sposo e il combattimento del toro contro il condor. Vi sono anche immagini di Lima, col facile contrasto tra abiti occidentali e costumi andini, e spettacolari riprese degli uccelli guaniferi e del loro cimitero. Il documentario illustra vaste zone del Perù in cui i discendenti degli antichi abitatori dell'impero degli Incas conducono la loro vita errabonda, tra le rovine delle città, dei templi; delle fortezze; delle antiche necropoli. Su alcuni isolotti del lago Titicaca vivono gli Urus, una delle più antiche razze dell'America. Il film venne accolto ancora positivamente dalla stampa e dal pubblico, ma diede luogo sulle riviste ad un inevitabile dibattito di tipo più teorico sul documentarismo, anche perché il commento scivola effettivamente in considerazioni un po' grossolane: ad esempio, nel passo in cui “di tutto quello che i bianchi hanno portato nel paese, la fede era l’unica cosa che gli indios accettassero con trasporto: era come se aspettassero Cristo e non l’hanno più lasciato”. Guido Aristarco dedicò su Cinema nuovo un ampio spazio al film, sostenendo in apertura dell’articolo sulla Mostra di Venezia che “uno dei motivi più interessanti di questa diciassettesima Mostra di Venezia è emerso dall’italiano L’impero del sole, che doveva inaugurare la rassegna (…) Il lungometraggio di Enrico Gras e Mario Craveri – documentarista interessante il primo e operatore di lunga esperienza il secondo – può infatti dare l’avvio ad un discorso inedito per la letteratura cinematografica”. Il discorso riguarda il rapporto col folklore e l’etnologia, e l’accusa che viene fatta al film è che “il Folklore viene inteso come elemento pittoresco, è concepito come una bizzarria , una stranezza, una curiosità, e non già, sulle indicazioni lasciate da Gramsci, come una cosa molto seria e da prendersi sul serio (…) Craveri e Gras hanno ripreso una parte delle tradizioni popolari dell’impero del sole, il Perù: materiale ricco e interessante, episodi ora “emozionanti”, ora “di riposo”, “distensivi”: la costruzione dell’isola degli Urus, il carnevale indio, la purificazione dei lama, il parto della chama, il rito della pubertà presso li Yagua, il lavoro nelle isole del guano popolate da milioni di uccelli, la corrida con il condor; e ancora: idilli fra giovane indios, le carovane, il trenino delle Ande, la vita della “balsa”, il “parto” dell’uomo, i balli frenetici dei negri”. Quello che Aristarco rimprovera loro è di non approfondire ad esempio il rapporti con il cattolicesimo popolare, la crudeltà con cui i conquistadores “imposero la loro religione a questo popolo eminentemente pacifico e dalla cultura evoluta”, e di “ignorare” un movimento storico contemporaneo come la Alianza Popular Revolucionaria Americana (APRA), la lotta da essa intrapresa contro l’imperialismo in favore della riforma agraria, la industrializzazione, la nazionalizzazione di alcune industrie” e così via. Se Aristarco fa delle obiezioni di tipo culturale e ideologico, in buona parte accettabili va però ricordato che apprezza le qualità più strettamente cinematografiche del film e le accosta, sia pur con cautela, al lirismo etnografico di Flaherty. E’ però interessante notare come i documentari d’arte di Gras ed Emmer erano stati accolti con entusiasmo perché interpretati dal punto di vista strettamente cinematografico, in polemica contro i fautori della “fedeltà” ai dipinti ripresi, mentre i documentari esotici suscitarono critiche negli ambienti intellettuali proprio perché letti in buona parte dal punto di vista dei contenuti storici ed etnografici, più che dell’efficacia cinematografica.


Gli ultimi film e la televisione

Dopo “L’impero del sole”, Gras si lascia convincere ad inserire una vicenda convenzionalmente narrativa all’interno di un contesto documentaristico. Nel 1958 realizza così “Soledad”, una coproduzione italo-spagnola della Lux in Cinemascope e Ferraniacolor, dove è ancora affiancato da Craveri e Lavagnino, con Fernando Fernán Gómez, Pilar Cansino e German Cobos. La vicenda riguarda una la storia d’amore tra due giovani: per convincere la ragazza ad accettare i suoi corteggiamenti, cerca di dimostrarle che suo marito è morto. L’intreccio è solo un pretesto per mostrare usi, costumi e paesaggi andalusi, ma l’ibrido tra racconto e struttura semidocumentaristica non riuscì molto bene, e del resto il paesaggio spagnolo disponeva di motivi esotici assai meno attraenti del Borneo o del Perù: l’attenzione critica fu perciò assai minore rispetto ai film precedenti e gli incassi scesero sensibilmente rispetto ai 283 milioni di lire di “Continente perduto” e ai 200 di“L’impero del sole”( in entrambi i casi considerando solo quelli italiani, i quali superano i 550 milioni di lire ciascuno se si calcolano anche quelli all’estero). Né toccò una sorte molto migliore a “I sogni muoiono all’alba” del 1961, film sui fatti di Ungheria realizzato insieme a Indro Montanelli partendo da un lavoro teatrale del giornalista che ebbe anche un certo successo. I motivi del coinvolgimento di Gras in quest’ultima operazione sono abbastanza complessi: secondo Craveri, infatti i due dovevano prendere parte ad un film di Montanelli da girarsi interamente in Israele, e che quindi sarebbe rientrato a pieno titolo nei loro interessi. All’ultimo momento, però, Rizzoli rinunciò al progetto e Gras con Craveri vennero dirottati su “I sogni muoiono all’alba”, che però si svolgeva tutto in un albergo di Budapest ed aveva come protagonisti i corrispondenti di alcuni giornali italiani. A complicare le cose, sempre secondo Craveri, intervenne un incidente a Montanelli, che si ruppe una gamba, ed ebbe così ancor più bisogno dell’apporto di Gras per dirigere il film: apporto che forse si può intuire in alcune scene maggiormente elaborate nei movimenti della macchina da presa e più in generale nella regia da un punto di vista strettamente cinematografico. “I sogni muoiono all'alba” è un film drammatico con attori come Lea Massari, Ivo Garrani, Aroldo Tieri, Gianni Santuccio, Mario Feliciani e Renzo Montagnani. Si legge sul Morandini 2007, dizionario dei film: “A Budapest, la notte tra il 3 e il 4 novembre 1956, cinque giornalisti italiani aspettano in una camera d'albergo l'arrivo dei carri armati sovietici che soffocheranno la rivolta popolare. Crisi di coscienza, tentato suicidio, disillusioni. Un giovane militante comunista decide di morire al fianco di una rivoltosa ungherese. Da una pièce teatrale (1960) di I. Montanelli, messa in scena con un certo successo, un film inerte, statico, verboso, diretto da 2 noti documentaristi impacciati tra quattro mura”. Il film vince comunque il premio David di Donatello per la miglior attrice a Lea Massari. Con “I sogni muoiono all’alba”, che incassò appena 89 milioni di lire termina l’attività di Gras nel cinema, e si apre un capitolo totalmente nuovo. Del resto, il periodo d’Oro del documentario esotico e dei suoi derivati stava ormai finendo, e dopo essere passato al filone sexy dell’interessante Europa di notte (1959) di Blasetti, il turismo cinematografico stava ormai per sfociare nell’effettismo voyeristico di Mondo Cane (1961) e dei suoi epigoni, che con un po’ di provocazione potremmo forse considerare l’altra faccia della religiosità artefatta dei continenti perduti. A quel punto Gras, che era sempre stato poco interessato a realizzare film a soggetto, per non dire totalmente ostile, decise di rivolgersi al nuovo mezzo televisivo, che con l’inizio degli anni sessanta intendeva lanciare una politica didattica e informativa in cui potevano trovare spazio i suoi interessi documentaristici. Dice la sorella Laura Gras: “quando iniziò a declinare l’ondata di documentari per le sale passò alla televisione. Per continuare a fare documentari il suo passaggio alla Rai TV avvenne un po’ per passione e un po’ per sopravvivenza, visto che al cinema ormai se ne facevano sempre meno”. Cominciò così a lavorare per la Rai come regista TV e all’inizio degli anni ’60 prese a realizzare con la propria società di produzione, fondata insieme a Craveri, ampi reportages da varie parti del mondo. I primi, nel 1960, riguardavano Brasilia e Israele: forse non a caso, quest’ultimo fu prodotto nel periodo in cui Gras e Craveri pensavano di realizzare il film su Israele con Montanelli. E in quei primi anni si fece anche tentare dalla pubblicità dove realizzò 4 brevi serie di Caroselli per la Lanerossi e la Martini & Rossi, nel 1960-61, ma abbandonò presto il settore che non lo interessava molto, e che invece divenne terreno assai fertile per l’amico e ex-compagno di un tempo, Luciano Emmer. Da quel momento Gras e Craveri si dedicarono definitivamente con la Telecentauro Films ad una intensa attività teledocumentaristica. Era il periodo delle grandi inchieste, che di volta in volta lo portavano ad indagare sulle città italiane di provincia e i loro problemi, il mito delle socialdemocrazie nordiche ("La società del benessere": nella seconda puntata venne anche intervistato Dreyer), l’Olanda ("la conquista della Terra"), il Brasile, l’Inghilterra, e poi la scuola nei vari paesi del mondo. In questo contesto si collega anche un’iniziativa curiosa, come una versione del romanzo di Albert Rorida: XX secolo, a disegni animati e con la partecipazioni di Alighiero Noschese. La critica televisiva sui quotidiani dedicava sempre grande attenzione ai loro programmi, ricordandoli sempre come due grandi specialisti del documentario. L’unica voce contraria si levava invece talvolta da L’Unità, dove è però sintomatico che venisse rivolta l’accusa di essere troppo cinematografici: un’opinione che può forse essere ricondotta al gusto teorico di individuare uno specifico televisivo da imporre come modello, ma che è anche un forte indizio di come Gras desse l’impressione, almeno nei primi anni, di voler continuare a fare cinema, il suo tipo di cinema, anche sul piccolo schermo. Questo avvenne soprattutto negli anni ’60, perché col decennio successivo la Rai iniziò a non affidare più le sue inchieste ad esterni, del resto sempre più ridotte e meno ambiziose. Gras e Craveri iniziarono così una lunga attività con Giulio Macchi su di un settore più strettamente scientifico, la trasmissione era "Orizzonti della scienza e della tecnica", limitandosi per il resto a fornire supporti per programmi altrui. L’occasione per tornare ad occuparsi di una grande reportage giunse a Gras nel 1980, quando iniziò a lavorare ad un programma a più puntate sulla morte ("il grande tabù"): proprio durante la lavorazione, però fu colto da un infarto, e morì a Roma il 5 marzo 1981, prima di poter portare a termine l’inchiesta.

FILMOGRAFIA

Cortometraggi

1939: Racconto da un affresco (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer, Tatiana Grauding; produzione: Dolomiti Film. Riedito nel dopoguerra con musiche di Roman Vlad e il titolo Dramma di Cristo)

1940: Il Paradiso Terrestre (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer, Tatiana Grauding; produzione: Dolomiti Film. Riedito nel dopoguerra con musiche di Roman Vlad e titolo Paradiso perduto, col quale venne presentato alla mostra del cinema di Venezia del’49 e vinse la Bronze Plaque al Berlin International Film Festival del’51)

1942: La sua terra (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer e Tatiana Graunding. Documentari)

1942: Romanzo di un’epoca (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer e Tatiana Graunding. Documentari)

1942: Destino d’amore (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer e Tatiana Graunding. Documentari)

1942: Guerrieri (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer e Tatiana Graunding. Documentari)

1942: Il Cantico delle creature (Italia; di Enrico Gras, Luciano Emmer e Tatiana Graunding. Documentari)

1947: La terra del melodramma - Il Conte di Luna – (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer)

1947: Sulle vie di Damasco (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer; fotografia: Mario Crateri. Presentato alla mostra cinematografica di Venezia del’47)

1947: Bianchi Pascoli (Italia; Enrico Gras e Luciano Emmer. Presentato alla mostra cinematografica di Venezia ’47 – segnalazione della Giuria)

1948: La leggenda di S. Orsola (Italia¸ di Enrico Gras e Luciano Emmer; fotografia: Mario Craveri; musiche: Roman Vlad; commento: Jean Cocteau)

1948: Romantici a Venezia (Italia, di Enrico Gras e Luciano Emmer; fotografia: Mario Craveri; musiche: Roman Vlad; commento: Jean Cocteau)

1948: Fratelli miracolosi – Beato Angelico – (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer; musiche: Roman Vlad)

1948: Isole della Laguna (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer; fotografia: Mario Craveri; musiche: Roman Vlad; commento: Diego Fabbri; voce: Gino Cervi)

1948: Luoghi Verdiani – Sulle orme di Verdi – (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer. Documentario)

1948: La colonna Traiana (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer. Docuementario)

1948: Invenzione della Croce – Piero della Francesca – (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer)

1948: Allegoria delle primavera - Botticelli – (Italia; di Enrico Gras e Luciano Emmer)

1950: Pupila al viento (Uruguay; di Enrico Gras; produzione: Comission Nacional de Turismo del Uruguay; commento: Rafael Alberti. Documentario presentato alla mostra cinematografica di Venezia del ’50)

1951: Turay, enigma de las llanuras (Uruguay; di Enrico Gras. Documentario presentato alla mostra cinematografica di Cannes del ’51)

1951: José Antigas, Protector de los Pueblos Libres (Uruguay; di Enrico Gras; produzione: Ministerio de la Defensa Nacional del Uruguay. Documentario presentato alla mostra cinematografica di Venezia del’51 con menzione della giuria per il gruppo dei film biografici e storici)

1953: Macchu Picchu (Perù; di Enrico Gras. Documentario presentato al Festival di Cannes del’53)

1953: Castilla, soldado de la ley (Perù; di Enrico Gras. Documentario presentato al Festival di Cannes del’53)

1954: El solitario de Sayan (Perù; di Enrico Gras. Documentariopresentato al Festival di Cannes del’54)

1948-1954: Don Segundo Sombra; La ciudad frente al rio; Aventura de los sieglos; Biblioteca Nacional; Plaza de Majo; Punta del Este (Tutti documentari che risulta abbia realizzato in America Latina, ma di cui non sia hanno notizie precise)


Lungometraggi

1946: Inquietudine (Italia; di Vittorio Carpignano; soggetto e sceneggiatura: Enrico Gras e Glauco Pellegrini; fotografia: Massimo Dallamano; musiche: Mario Nascimbene; montaggio: Vittorio Carpignano; scenografia: Damiano Damiani; costumi: Anna Gobbi; collaboratori: Emilio Cordero e Laura Gras; interpreti: Adriana Benetti, Vittorio Duse, Luisella Beghi, Aldo Silvani, Aldo de Franchi, Vittorio Ripamonti, Ennio Ameri, Silvia Bagolini, Lia Gollmar, Jone Morino; direttore di produzione: don Cesanelli; produzione: R.E.F. (Romana Editrice Film)

1954: Continente Perduto (Arcipelago Malese ed Indonesia; di Enrico Gras, Leonardo Bonzi, Giorgio Moser; soggetto e sceneggiatura: Ennio Flaiano e Giorgio Moser; commento: Orio Vergani; fotografia: Mario Craveri; operatori: Giovanni Raffaldi e Franco Bernetti; musiche: Angelo Francesco Lavagnino; montaggio: Mario Serandrei; produzione: Astra Cinematografica, Leonardo Bonzi; distribuzione 20th Century Fox. Vincitore del premio speciale della giuria al Festival di Cannes e del Nastro d’Argento per la migliore musica (Lavagnino) e il miglior cinemascope (Craveri)

1955: L'impero del sole (Perù; di Enrico Gras e Mario Craveri; testo: Gian Gaspare Napoletano; fotografia: Mario Craveri; operatori: Giovanni Raffaldi, Franco Bernetti, Ubaldo Marelli; musiche: Angelo Francesco Lavagnino; montaggio e collaborazione artistica: Mario Serandrei; capo spedizione: Egidio Campori; voci: Giancarlo Sbragia, Alberto Lupo; organizzatore produzione: Piero Cocco; produzione: Lux Film. Nastro d’Argento a Craveri per la miglior fotografia. Dal Film fu tratto il volume Empire du soleil)

1958: Soledad (Italia-Spagna; di Enrico Gras e Mario Craveri; soggetto e sceneggiatura: M.Craveri, Ennio De Concini, Vicente Escrivà, Enrico Gras, Ugo Guerra, Antonio Navarro Linares; fotografia: Mario Craveri; musiche: Angelo Francesco Lavagnino; montaggio: Mario Serandrei e Lina Caterini; interpreti: Fernando Fernán Gómez, Pilar Cansino e German Cobos; produzione: Lux Film (Roma) e Aspa Producciones (Madrid)

1961: I sogni muoiono all’alba (Ungheria; di Indro Montanelli, Enrico Gras e Mario Craveri; sceneggiatura: Indro Montanelli, dal suo lavoro teatrale omonimo; fotografia: Giovanni Raffaldi, Ubaldo Marelli; musiche: Angelo Francesco Lavagnino; scenografie: Piero Zuffi; interpreti: Lea Massari, Ivo Garrani, Aroldo Tieri, Gianni Santuccio, Mario Feliciani e Renzo Montagnani; produzione: Roberto Dandi per Rire Cinematogr.; produttore esecutivo: Franco Magli)


Televisione

1961: Città di domani: a proposito di Brasilia (realizzazione: Enrico Gras e Mario Craveri)

1961: Le nuove città del mondo: Israele città del deserto (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; operatore: Ubaldo Marelli; musiche: Gino Pertugi)

1962: 1962: anno del concilio (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; fotografia: Ubaldo Marelli, M.Ekren, Roberto Alzani; montaggio: Mario Bonotti; animazioni: Enzo Sabatini; adattamento musicale: Ugo Giacomozzi; documentazione storica: Boris Ulianich, Luciana Mortari, Isa Mari)

1962: La scienza in Israele (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; montaggio: Giovanna Sartia, Ubaldo Marelli, Roberto Alzani; musica: Franco Potenza; voce: Ralf Tasna)

1963: Strade e città d’Italia (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; riprese: Giovanni Raffaldi, Roberto Alzani, C.Nebiolo; consulenza: Antonio Cederna, F.Fiorentini; musica: Franco Potenza; montaggio: Angela Cipriani; voci: Franco Volpi; segretaria di produzione: Isa Mari)

1963: Raiomondo Fianchetti esploratore della Dancalia (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; musica: Gino Perugi; operatore integrativo: Ubaldo Marelli; montaggio: Renato Poccioni; testo e presentazione: Ettore Della Giovanna)

1963: Fantascienza di ieri: XX secolo (versione in due puntate del romanzo Le XX siècle, roman d’une parisienne d’après-demain (1883) di Albert Rorida. Realizzazione: Enrico Gras e Mario Craveri; presentato e interpretato da: Alighiero Norchese; riprese: Roberto Alzani; animazioni: Sergio Rosi; musica: Franco Potenza; montaggio: Angela Cipriani)

1963: Cronache del XX secolo: la via dei diamanti (realizzazione: Enrico Gras e Mario Craveri)

1964: La società del benessere (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; musica: Franco Potenza; montaggio Liliana de Benedetto; fotografia: Franco Castelli; voce: Riccardo Cucciola. In 4 puntate.)

1965: La conquista della Terra (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; musica: Sandro Brugnolini; montaggio: Clara Mariño; fotografia: Franco Castelli, Roberto Alzani. In 3 puntate.)

1965: Rio 400 anni (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; voce: Riccardo Cucciola; musica: Peppino De Luca)

1965: Pianeta Brasile (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; musica: Sandro Brugnolini; voce: Riccardo Cucciola. In 3 puntate.)

1966: Al di là della Manica (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; fotografia: riprese: Franco Castelli; musiche: Peppino de Luca; voce: Paolo Pacetti. In 3 puntate)

1967: Ritratti di città (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; riprese: Franco Castelli; musiche Peppino De Luca; voce: Riccardo Cucciola. Due serie in 6 puntate, riguardanti Brindisi, Oristano, Prato, Cuneo, Modena, Bergamo, Matera.)

1969: La scuola degli altri (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri; riprese: Franco Castelli; musiche: Franco Potenza)

1978: I pensieri dell’occhio (realizzazione: Enrico Gras, Mario Craveri)

1978-1980: Orizzonti della scienza e della tecnica (servizi per conto della trasmissione diretta da Giulio Macchi)

1980-1981: Il grande tabù (non terminato)


Pubblicità – Caroselli

1959: Oroscopomania – L’oroscopo di Alberto Telegalli (produzione: Mario Craveri ed Enrico Gras; regia: Fabio de Agostini; sceneggiature: Craveri, Gras, Talegalli, Ciorciolini, interpreti: Alberto Telegalli, Corrado Anicelli. Serie di 4 caroselli realizzati per la Lanerossi)

1959: Orlando Orfei e i suoi numeri (produzione, regia e sceneggiature: Mario Craveri ed Enrico Gras; interpreti: Orlando e Liana Orfei.

1960: Il conte du Plex

1961: Vale la pena (produzione, regia e sceneggiature: Mario Craveri ed Enrico Gras. Interpreti: Virgilio Savona, Lucia Mannucci, Felice Chiusano, Tata Giacobetti. Due serie di caroselli ciascuna, realizzata per la Martini & Rossi. Scenette e canzoni del Quartetto Cetra)