Autocoscienza

coscienza di sé
«Conosci te stesso»

L’autocoscienza è l'attività riflessiva del pensiero con cui l'io diventa cosciente di sé.

L'autocoscienza in filosofia

In filosofia si tratta di un principio che ha avuto un'importanza fondamentale nell'ambito di quasi tutta la storia della filosofia occidentale, perché considerata la prima e unica forma di sapere certo e assoluto (essendo innato e non acquisito), sul quale costruire la conoscenza filosofica stessa, per preservarla dalle derive del relativismo e dello scetticismo.[1] L'autocoscienza era inoltre ciò che contraddistingueva propriamente la filosofia da ogni altra disciplina, essendo indagine rivolta su di sé e non sul mondo esterno, che critica e mette in discussione principalmente se stessa.

Nell'antica Grecia

Presso gli antichi greci l'autocoscienza non era riferita ad un "io" in particolare, ma era vista come un principio intellettivo universale e impersonale, fondamento non solo del sapere, ma anche della realtà. Anassagora parlava di un Intelletto cosmico originario (o Noùs) il quale, come conseguenza involontaria del proprio "pensarsi", metteva ordine nel caos primordiale. Parmenide attribuiva all'essere il pensiero, senza specificarne un contenuto, in quanto identico all'essere stesso. Per Parmenide, pensare e pensare l'essere sono infatti la medesima realtà: l'essere non è un semplice "pensato", ma è la fonte del pensare, anzi è il pensare stesso.

Socrate

Fu con Socrate che l'autocoscienza passò a indicare per la prima volta la riflessione dell'anima umana su di sé,[2] intesa come io individuale. Socrate era convinto di non sapere, ma proprio per questo egli si accorse di essere il più sapiente di tutti. A differenza degli altri, infatti, pur essendo ignorante come loro, Socrate era dotato di autocoscienza, perché "sapeva" di non sapere, cioè era consapevole di quanto fosse vana e limitata la propria conoscenza della realtà. Per Socrate tutto il sapere è vano se non è ricondotto alla coscienza critica del proprio "io", che è un "sapere del sapere". L'autocoscienza è quindi per lui il fondamento e la condizione suprema di ogni sapienza. «Conosci te stesso» sarà il motto delfico che egli fece proprio, a voler dire: solo la conoscenza di sé e dei propri limiti rende l'uomo sapiente, oltre a indicargli la via della virtù e il presupposto morale della felicità. Per Socrate infatti una vita inconsapevole è indegna di essere vissuta.

Una tale autocoscienza tuttavia non è insegnabile né trasmissibile a parole, poiché ognuno deve trovarla da sé; il maestro può solo aiutare i discepoli a farla nascere in loro, all'incirca come l'ostetrica aiuta la madre a partorire il bambino: non lo partorisce lei stessa. Questo metodo socratico era noto come maieutica; e l'oggetto a cui mirava era da lui chiamato dàimon, ovvero il demone interiore, lo spirito guida che alberga in ogni persona.

Con Socrate vennero posti in tal modo i capisaldi di tutta la filosofia successiva, basata sul presupposto che la vera conoscenza non deriva dai sensi, ma nasce dall'uso consapevole della ragione.[3]

Platone

Platone, suo allievo, rivalutò ulteriormente l'importanza dell'autocoscienza, da lui intesa come una sorta di reminiscenza delle Idee, cioè di quei fondamenti eterni della sapienza che sono già presenti nella mente umana, ma sono stati dimenticati all'atto della nascita: conoscere significa dunque ricordare, cioè diventare coscienti di questo sapere che giace già a livello inconscio dentro la nostra anima, ed è perciò innato. Gli organi di senso, per Platone, hanno solo la funzione di risvegliare in noi l'autocoscienza sopita, ma questa non dipende dagli oggetti della realtà sensibile, ed è perciò qualcosa di assoluto (da ab + solutus, ovvero etimologicamente "sciolto da", indipendente). Nel diventare coscienti delle Idee, ci si accorge così della relatività e caducità del mondo terreno, nonché dell'impossibilità di fondare una conoscenza certa sulla base di dati acquisiti unicamente dall'esperienza, prescindendo cioè dall'autocoscienza del pensiero. Il problema dell'autocoscienza in Platone emerge oltre che nel Filebo,[4] soprattutto nel Carmide, dove per bocca di Socrate egli prova ad analizzare questa forma peculiare di conoscenza che non ha un oggetto ben definito, se non il conoscere in se stesso.[5]

Aristotele

Anche secondo Aristotele, seppure in modo diverso da Platone, l'autocoscienza è in grado di fornire la "scienza" degli universali, mentre i sensi possono dare solo una conoscenza limitata e parziale: «[...] la sensazione in atto ha per oggetto cose particolari, mentre la scienza ha per oggetto gli universali e questi sono, in certo senso, nell'anima stessa» (Aristotele, Sull'anima II, V, 417b). La vera conoscenza per Aristotele è opera dell'intelletto attivo: mentre l'intelletto passivo si limita in una prima fase a recepire gli aspetti contingenti e transitori della realtà, quello attivo supera criticamente tali particolarità riuscendo a coglierne l'essenza, portando a compimento il processo di consapevolezza facendolo passare dalla potenza all'atto. E l'atto puro, che è Dio, sarà quindi autocoscienza pura, cioè "pensiero di pensiero", un pensiero che pensa perennemente sé stesso, e che in maniera simile all'Intelletto ordinatore di Anassagora rappresenta la realizzazione compiuta di ogni ente in divenire, pur restando immobile.[6] Scopo della filosofia si colloca così per Aristotele nella contemplazione fine a se stessa, ovvero nel raggiungimento di quella capacità di autocoscienza che differenzia l'uomo dagli altri animali.[7]

Il neoplatonismo

L'Intelletto autocosciente lo si ritroverà nel sistema filosofico dei neoplatonici e in particolare di Plotino, il quale ne fece la seconda ipostasi del processo di emanazione dall'Uno. Anche per Plotino l'Autocoscienza è il fondamento supremo del sapere, superiore alla conoscenza di tipo mediato propria della razionalità discorsiva (e superiore alla conoscenza sensibile). Essa è la diretta espressione dell'Uno, il quale traboccando esce fuori da sé, in uno stato di estasi contemplativa, producendo la propria autocoscienza. Il Nous o Intelletto è appunto questa autocoscienza dell'Uno, che si sdoppia così in un soggetto contemplante e un oggetto contemplato, i quali formano una realtà sola, perché il soggetto pensante è identico all'oggetto pensato: si tratta dell'identità immediata di Essere e Pensiero di cui aveva parlato Parmenide, situata al di là dell'opera mediatrice della ragione, e quindi raggiungibile solo tramite intuizione.

L'uomo è l'unica creatura vivente in grado di riviverla, prendendo coscienza di sé: si tratta di un sapere non acquisito né comunicabile oggettivamente, perché non può essere ridotto a una semplice nozione, ossia a un semplice "pensato": esso è la coscienza che l'Io ha di sé come soggetto "pensante", la consapevolezza del pensiero come "atto" e non come fatto misurabile o quantificabile. Plotino la paragonò alla luce che si rende visibile nel far vedere. Poiché tuttavia ogni riflessività è ancora un raddoppio, da questa forma di auto-intuizione occorre risalire più in alto fino all'Uno assoluto, che è l'origine suprema e ineffabile dell'autocoscienza. Nel risalire alla propria origine, il pensiero non può possederla, perché pensarla significherebbe sdoppiarla in un soggetto pensante e un oggetto pensato (e quindi non sarebbe più Uno, ma due). La fonte della coscienza rimane quindi non consapevole. Ad essa tuttavia ci si può avvicinare per gradi tramite il metodo della teologia negativa, secondo un procedimento per certi versi simile a quello usato dalle filosofie orientali, eliminando progressivamente ogni contenuto dalla coscienza. Per approdare all'autocoscienza e da questa all'Uno, occorre diventare consapevoli non di cosa siamo, ma di cosa non siamo; prendendo coscienza delle false illusioni in cui identificavamo il nostro "io", la verità potrà finalmente sgorgare da sé, senza sforzo. Più che costruire dunque la propria autocoscienza, un tale metodo consiste piuttosto nel rimuovere gli ostacoli che sono di impedimento al suo fluire naturale.

Una volta che il pensiero sarà privato di ogni contenuto, esso stesso si fermerà, poiché non può esistere un pensiero senza contenuto, e quindi uscendo da sé si avrà l'estasi, quando la propria individualità si identifichi con quella di Dio. Vivere una tale esperienza è dato a pochissimi, a causa della situazione paradossale per cui, come dice Plotino, «per superare sé stessi occorre sprofondare in sé stessi».

L'autocoscienza nel pensiero cristiano

L'autocoscienza divenne quindi un tema di rilievo nell'ambito della riflessione cristiana, essendo vista come la manifestazione più diretta e immediata di Dio, che secondo il cristianesimo alberga nell'interiorità di ogni essere umano. Diventare coscienti di sé significava dunque diventare coscienti della voce divina.

Agostino, rifacendosi a Plotino, avvertì fortemente il richiamo dell'interiorità: «Gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, e non pensano a sé stessi» (da Le confessioni). Egli mise in risalto come Dio, in quanto non è oggetto ma Soggetto, sia presente nell'interiorità del nostro io più di noi stessi, e rappresenti per il nostro pensiero la condizione del suo costituirsi e la sua meta naturale. Nel risalire a Lui, occorre però attraversare la fase del dubbio, che è un momento essenziale e indicativo del disvelarsi della verità. Nel dubbio si è portati a non credere a niente, e tuttavia non si può dubitare del dubbio stesso, ossia del fatto che sto dubitando. La coscienza del mio dubbio è garanzia sicura di verità, perché è un sapere innato, che presuppone qualcosa di superiore come sua causa. Il dubbio consapevole permette così di riconoscere le false illusioni che sbarravano l'accesso alla verità, dopodiché l'anima non può propriamente possedere Dio, ma piuttosto ne verrà posseduta. Questa autocoscienza, che si produce in un lampo di intuizione, è essenzialmente un dono di Dio.

Dopo Agostino l'autocoscienza venne identificata, sulla base dello schema neoplatonico delle tre ipostasi, con la seconda Persona della Trinità: il Verbo, eterna Parola di Dio, il Figlio Unigenito attraverso cui il Padre conosce e rivela se stesso. L'autocoscienza rimase quindi, in forme più o meno velate, al centro degli interessi filosofici e teologici dei pensatori cristiani, ad esempio di Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, San Bonaventura, e nel Quattrocento di Nicola Cusano, essendo vista sempre come l'unione immediata e di essere e pensiero, fondamento non solo della conoscenza in atto di sé, ma anche di ogni affermazione filosofica sull'anima e su Dio. Persino nel sensismo naturalista di Telesio, l'autocoscienza verrà posta a fondamento del suo sistema filosofico (Telesio ne parlerà come di un «sentire di sentire»).

Ancora in Tommaso Campanella, l'autocoscienza è vista come intimamente legata all'essere stesso della realtà. L'autocoscienza è per lui una caratteristica fondamentale di tutti gli enti, a partire da quelli più inferiori fino all'uomo, in cui giunge a maturare pienamente, e senza la quale un individuo sarebbe simile a una pietra. Essa consiste in un'originaria e innata conoscenza che ogni anima ha di sé: egli la chiama sensus innatus, o notitia indita, a indicare una visione intuitiva e immediata che viene però offuscata dalle conoscenze esterne sul mondo (le notitiae additae), diventando notitia abdita. Scopo della filosofia è recuperare questa originaria coscienza di sé, sulla quale è possibile costruire le basi del nostro sapere, sconfiggendo il dubbio scettico. Riprendendo Agostino, Campanella osserva questo: anche chi afferma di non sapere nulla, ha però coscienza di sé come di persona che non sa. E quindi conosce cosa sia il sapere e la verità, perché altrimenti non sarebbe neppure consapevole di ignorarli. Campanella fonda su quest'autocoscienza una metafisica dell'assoluto, mirante a recuperare il concetto di partecipazione a Dio di tutti gli esseri, in cui si rispecchiano le tre primalità divine di Potenza, Sapienza, Amore, reciprocamente intrecciati al punto da fargli dire che il «conoscere è essere» (Metafisica, II, 59).

Gli sviluppi della filosofia moderna

Si può affermare che fino al Seicento tutta la filosofia classica ruotò intorno al principio dell'autocoscienza, come condizione fondamentale che sola può dare coerenza e organicità al pensiero, senza il quale si avrebbe caduta nell'irrazionalismo. Presupposto dell'autocoscienza era che il proprio pensare deve provenire da un essere che lo rende possibile.

Con Cartesio avvenne invece una svolta: con lui sarà l'essere a venir sottomesso alla coscienza: Cartesio infatti porrà l'autocoscienza al di sopra della realtà ontologica al fine di oggettivarla. Mentre nella filosofia classica l'autocoscienza era l'atto mai concluso (né esprimibile a parole) con cui il soggetto rifletteva su di sé, Cartesio ritenne di porterlo oggettivare nella celebre espressione Cogito ergo sum. Il Cogito per lui non è più l'atto "pensante" originario da cui nasce il filosofare, ma diventa un "pensato". L'evidenza del Cogito offre, secondo Cartesio, un metodo sicuro e infallibile di indagine razionale, tramite il quale poter distinguere il vero dal falso. La verità cioè risulta sottomessa a tale metodo: esiste solo ciò che è evidente.

In seguito però Spinoza ristabilì il primato dell'Essere, riportando l'autocoscienza al livello dell'intuizione: Deus sive natura è la formula che riassume l'esatta corrispondenza di "io" come soggetto ed "io" come oggetto: è l'unione immediata di Dio e Natura, essere e pensiero, superiore al metodo razionale e scientifico.

Anche Leibniz concepì l'autocoscienza come la intendeva la filosofia classica: a differenza di Cartesio secondo cui esiste solo ciò di cui ho coscienza (e quindi se non ne ho coscienza non esiste), per Leibniz esistono anche pensieri di cui non si ha coscienza. Egli le chiama "percezioni", e si trovano a un livello inconscio della mente. Ma nel momento in cui diventano coscienti si ha l'"appercezione", che è appunto l'autocoscienza, ossia il percepire di percepire. L'autocoscienza più alta appartiene alla monade suprema che è Dio, il quale riassume in sé le coscienze di tutte le altre monadi. Leibniz criticò anche l'empirismo inglese, secondo il quale le idee della mente erano come oggetti plasmati direttamente dall'esperienza, per cui (in maniera simile a quanto affermava Cartesio) esiste solo ciò di cui ho un'idea chiara e oggettiva. Leibniz fu invece un sostenitore dell'innatismo platonico della conoscenza: l'autocoscienza è un atto fuori dal tempo, e non un fatto o una semplice nozione.

Kant e l'idealismo tedesco

Con Kant l'autocoscienza diventa appercezione trascendentale o io penso: egli la pose al livello supremo della conoscenza critica. Per Kant l'intelletto non si limita a recepire i dati dell'esperienza, ma li elabora attivamente, sintetizzando il molteplice in unità (l'io). Se non ci fosse questa appercezione di me, cioè che io resto sempre identico a me stesso nel rappresentarmi il molteplice, dentro di me non ci sarebbe pensiero di nulla. Questa unità, o io penso, è "trascendentale", cioè funzionale al molteplice, nel senso che si attiva solo quando riceve dati da elaborare. Non può essere ridotta pertanto ad un mero "dato"; l'unico modo per pensarla è dire: «io penso che io penso che io penso...» all'infinito. Questo perché l’io penso non è una semplice conoscenza empirico-fattuale della realtà interiore dell'individuo, ma è la condizione formale di ogni conoscenza, il contenitore della coscienza, non un contenuto.

L'autocoscienza, o Io puro-trascendentale, sarà quindi il fondamento dell'idealismo tedesco di Fichte e Schelling: l'Io per Fichte diventa attività non solo ordinatrice dell'esperienza (com'era in Kant) ma anche creatrice; è un'attività autoponentesi all'infinito: è un conoscere e al tempo stesso un produrre perennemente la propria autocoscienza. Essa costituisce il punto di partenza non solo del pensiero ma della stessa realtà, poiché questa non si può concepire al di fuori dei principi del pensiero. È un contenitore che crea da sé anche il proprio contenuto, giacché non esiste oggetto se non per un soggetto, e a sua volta il soggetto è tale solo in rapporto a un oggetto. Prendere coscienza di ciò vuol dire riappropriarsi di sé, accorgersi che il non-io è in realtà un mio prodotto, che l'io non riconosceva ancora come tale perché frutto di una produzione inconscia. Ma questo supremo "sapere del sapere" è afferrabile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione intellettuale (un concetto simile per certi versi al Noùs di Plotino). Ciò significa che il pensiero filosofico, che della ragione si serve, si limita solo a ricostruire le condizioni di possibilità della coscienza e della realtà, non le produce esso stesso: se così fosse, il pensiero filosofico sarebbe creatore, poiché coinciderebbe con l'atto creativo dell'Io. L'autocoscienza invece è un atto intuitivo, non razionale, nel ricercare l'origine del quale il pensiero deve necessariamente naufragare nell'Uno assoluto, negando sé stesso (teologia negativa).
Anche per Schelling l'autocoscienza è l'intuizione intellettuale che l'io ha di sé, e senza il quale l'idealismo filosofico stesso risulterebbe incomprensibile. Essa consente di cogliere l'Assoluto inteso come unione immediata di essere e pensiero, Spirito e Natura. Quest'ultima in particolare è vista da Schelling in un'ottica finalistica, come un'intelligenza potenziale che si evolve dai gradi inferiori verso quelli superiori, fino a diventare piena autocoscienza nell'uomo, il quale rappresenta il vertice in cui la natura prende finalmente coscienza di sé. Il processo inverso dall'autocoscienza alla natura si attua invece nell'idealismo trascendentale.

Da Hegel a Marx

Con Schelling si ha l'ultima formulazione dell'autocoscienza quale era concepita dalla filosofia classica. Con Hegel infatti essa non è più l'atto originario e immediato situato al di sopra del pensiero oggettivo, ma sarà invece il risultato di una mediazione razionale, di un processo tramite il quale la coscienza arriva dialetticamente a farsi autocoscienza; quest'ultima finisce così per coincidere col pensiero filosofico stesso. Ma con Hegel l'autocoscienza acquista soprattutto un valore sociale e politico, venendo appunto raggiunta, secondo Hegel, non più al livello immediato dell'intuizione, ma tramite il rapportarsi dialettico della nostra singola esistenza con quella degli altri. Il riconoscimento delle altre autocoscienze avviene attraverso la lotta, ossia il confronto, per cui alcuni individui arrivano a sfidare la morte per potersi affermare su quelli che hanno paura e finiscono per subordinarsi ai primi. È questo il rapporto di signoria-servitù.

L'autocoscienza viene così identificata in un sistema oggettivo, diventando infine Ragione, Spirito assoluto che concilia e rende reciprocamente trasparenti soggetto e oggetto. Dalla filosofia di Hegel, Marx riprenderà l'idea che l'autocoscienza abbia un valore esclusivamente sociale e politico. Egli la identificò con la coscienza di classe, che è per lui la coscienza del vero essere (materiale) degli individui. Ad essa si arriva tramite la lotta, cioè la contrapposizione dialettica tra classi, che fa nascere nel proletariato la coscienza della propria condizione materiale e dei rapporti economici di produzione. L'autocoscienza pura di tipo divino e intuitivo, su cui si basava la filosofia classica e che aveva un valore universale e trascendente la storia, è per Marx una falsa coscienza che ottunderebbe le menti, offuscando la vera e oggettiva coscienza sociale che l'uomo ha di sé come individuo storico.

Nel Novecento

Nel Novecento il concetto di autocoscienza è stato ripreso dal neoidealismo e poi dall'esistenzialismo.
In particolare è stato approfondito da Heidegger per analizzare la dimensione dell'essere umano: egli contrappose la situazione di vita inautentica a quella autentica dell'angoscia, in cui l'uomo ha la rivelazione di sé e dell'Essere.

L'autocoscienza in psicoanalisi

L'autocoscienza è stata utilizzata anche dal pensiero psicologico e psicoanalitico per analizzare il modo in cui il soggetto si rapporta a sé stesso e agli altri. In essa consiste in gran parte il metodo di guarigione dai contenuti conflittuali inconsci della mente, usato dalle scuole freudiane, junghiane, e adleriane. Particolare importanza viene data ad un atteggiamento di osservazione e attenzione al proprio stato emotivo interiore, che sia privo però di senso critico, al fine di evitare filtri mentali che interferiscano col libero fluire dell'autocoscienza.

La formazione dell'autocoscienza

In particolare, secondo gli psicanalisti di scuola junghiana [8] l'autocoscienza è una condizione latente che si risveglia nel bambino a seguito dei primi attriti col mondo esterno.
All'inizio della vita tutto è Uno per il neonato: egli vive in simbiosi totale con ciò che lo circonda, senza sentimenti di separazione. Questa originaria forma di autocoscienza gli fa confusamente comprendere che egli è, ma non gli consente ancora di capire "chi" è.

Con la ripetizione di piccole frustrazioni, come il biberon che non arriva subito o la mancanza di risposta al suo pianto, il neonato finirà per prendere sempre più coscienza della propria individualità come separata da quella degli altri. Ecco quindi che proprio la separazione col mondo esterno gli permette di dare un contenuto alla propria autocoscienza: egli può dire "chi" è in rapporto a ciò che non è, solo dopo aver perduto la consapevolezza dell'unione col tutto.

Sarà questa tensione tra sé e l'universo ad alimentare la vita psicologica dell'individuo e a porre le basi del suo rapporto con gli altri anche nell'età adulta. Una tale tensione rappresenta il respiro fondamentale dell'essere, perché non ci sarebbe vita soggettiva, vale a dire cosciente di sé, senza questo "prender forma" dal caos originario.

Via via che il bambino cresce l'autocoscienza si stabilizza insieme all'impressione della sua continuità nel tempo. L'io in un certo senso "si cristallizza", passando attraverso il cosiddetto stadio dello specchio elaborato dallo psicanalista Jacques Lacan, nel quale il bambino prova un piacere narcisistico nel riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio. E' così che nasce il complesso dell'io, che rappresenta il modo in cui ci conosciamo, e la cui emozione centrale è costituita da questa impressione di identità e durata nel tempo.

Un complesso dell'io troppo forte potrebbe finire tuttavia per ostacolare l'adattamento al mondo circostante. Accanto allo sviluppo della propria autonomia, infatti, permane al contempo il bisogno di restare uniti a ciò che ci circonda. Il paradosso del processo di individuazione, come è stato chiamato da Jung, si basa sul fatto che l'io non potrebbe svilupparsi senza gli altri, cioé senza l'amore. Per tutta la vita la nostra individualità ha bisogno degli altri per affermare le differenze e sposare le somiglianze. Si tratta di un equilibrio costantemente in bilico tra fusione e separazione. Un tale paradosso si risolve solo quando, nell'età adulta, l'io riesca ad entrare in rapporto con il livello più profondo dell'essere, cioé con il sé: allora egli supera la divisione tra sé e gli altri, ed è al contempo più originalmente se stesso e in comunione col mondo. Si tratta del mistero dell'identità, coglibile attraverso un lungo lavoro analitico sulla propria autocoscienza, che consiste nel restare Uno nella differenza.

Note

  1. ^ Cfr.: Giuseppe Errera, Il concetto di autocoscienza. La filosofia per tutti e per sempre; Dieter Henrich, Autocoscienza e pensiero di Dio; Gustavo Bontadini, Appunti di filosofia (v. bibliografia).
  2. ^ Cfr. "autocoscienza" in Dizionario dei termini socratici
  3. ^ «Il messaggio di Socrate è l'invito a riconoscere e coltivare la propria capacità di orientarsi nel mondo sulla base della propria autocoscienza. Socrate dà questo contributo alla civiltà occidentale», tratto da Istituto italiano per gli studi filosofici
  4. ^ Cfr. S. Lavecchia, Sophia e autocoscienza nel pensiero di Platone.
  5. ^ Cfr. P. Natorp, Dottrina platonica delle idee, a cura di G. Reale e V. Cicero: «è degno di nota in che modo Platone consideri il tratto problematico del concetto di autocoscienza, di questo concetto di cui nessuna filosofia può fare a meno», p.40. «Il rendiconto del nostro agire, nella misura in cui esso è un agire buono, è rendiconto di se stessi e davanti a se stessi, è autocoscienza pratica [...] La legge del Bene è la legge della coscienza pratica, quindi l'autoconoscienza è tutt'uno con la conoscenza del Bene», p.42.
  6. ^ «Le pagine dedicate al dio sono all'origine di quella riflessione che individua proprio nella capacità di pensare se stesso, e dunque in ultima analisi di possedere consapevolezza e libertà, la caratteristica fondante dell'uomo in generale, e non solo del dio.[...] E' certo che per Aristotele c'è un legame stretto tra quello stato di perenne perfezione autocosciente posseduta dal dio e la riflessione alla quale l'uomo libero aspira con tutte le sue capacità. Questa è anche la prospettiva finale che viene indicata in sede etica: "Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana" (Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31)», tratto da Mneme - Aristotele
  7. ^ «Ora, mentre negli esseri vegetali e sensitivi il bene (l’entelechia) si attua senza alcuna possibilità di coscienza da parte di quelli, l’attuazione della perfezione umana consiste proprio nella consapevolezza del valore da attuare, cioè nell’autocoscienza», tratto da Aristotele - Antropologia ed etica, di Antonio Livi
  8. ^ Cfr. Mario Jacoby, Individuation and Narcissism. The Psycology of Self in Jung and Kohut, Routledge, 1990

Bibliografia

  • Salvatore Lavecchia, Sophìa e autocoscienza nel pensiero di Platone, Esercizi Filosofici 2, 2007, pp. 126-136 ISSN 1970-0164
  • L.M. Napolitano Valditara, Il sapere dell’anima: Platone e il problema della consapevolezza di sé, in Interiorità ed anima: la ‘psychè’ in Platone, Vita e pensiero, Milano 2007, pp. 165-200.
  • Giorgia Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Univ. Gregoriana, 1996
  • N. Badaloni, La metafisica di Tommaso Campanella, Marzorati, Milano 1968
  • Luca Forgione, L' io nella mente. Linguaggio e autocoscienza in Kant, Bonanno, 2006
  • Giovanni Cogliandro, L'autocostruzione dell'intuizione intellettuale nella Darstellung der Wissenschaftslehre di J. G. Fichte, articolo in "Annuario Filosofico" 2003, pp. 141-188, Mursia editore
  • A. Biral, Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Roma-Bari 1997
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  • Luca Guidetti, Alcuni spunti per un'analisi del problema dell'autocoscienza in Platone, in "Annali di Discipline Filosofiche dell'Università di Bologna", 7 (1985-1986), pp. 131-154
  • Fabrizio Desideri, L'ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica, Feltrinelli, 1998
  • Thomas A. Szlezák, Platone e Aristotele nella dottrina del Nous di Plotino, traduzione di Alessandro Trotta, Vita e pensiero, Milano 1997 ISBN 88-343-0872-7
  • P. Natorp, Dottrina platonica delle idee, a cura di G. Reale e V. Cicero, Vita e Pensiero, 1999 ISBN 8834301501
  • Giuseppe Errera, Il concetto di autocoscienza. La filosofia per tutti e per sempre, Ibiskos 2005
  • Dieter Henrich, Autocoscienza e pensiero di Dio, Seminario alla Scuola di Alta Formazione Filosofica, 23/03/07
  • R. Amerio, Forme e significato del principio di autocoscienza in S. Agostino e Tommaso Campanella, RFN Suppl 23 (1931)
  • Salvino Biolo, L'autocoscienza in s.Agostino, Pontificia Univ. Gregoriana, 2000
  • Gustavo Bontadini, Appunti di filosofia, Vita e Pensiero, 1996
  • Terence Irwin, I principi primi di Aristotele, a cura di G. Reale e A. Giordano, Vita e Pensiero, Milano 1996 ISBN 8834308506
  • T. Sante Centi, L’autocoscienza immediata nel pensiero di S. Tommaso, Sapienza 3 (1950)

Bibliografia psicanalitica

  • Carl Gustav Jung, L'io e l'inconscio, vol. VII, in Due testi di Psicologia Analitica, Bollati Boringhieri, Torino 1993
  • Erich Neuman, Storia e origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978
  • Mario Jacoby, Shame and the Origins of Self-Esteem. A Jungian Approach, Routledge, Londra 1994

Voci correlate

Collegamenti esterni

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