Sulla natura (Parmenide)
Il poema di Parmenide Sulla natura, o Intorno alla natura a seconda delle traduzioni (dal greco Περί Φύσεως, Perí Physeos), può essere considerato il vero e proprio inizio della storia della filosofia. Il Poema, di cui ci sono giunti diciannove frammenti, per un totale di circa 160 versi, si compone di un Proemio (fr. I, 1-32), e di una trattazione in due parti: La via della Verità (fr. II, 8-49) e La via dell'Opinione (fr. VIII, 50; fr. XIX, 3). Il Proemio ci è pervenuto interamente, la prima parte in larga misura[1], della seconda resta ben poco.
Il Poema sulla natura ci è pervenuto grazie alle citazioni di Simplicio in De coelo (De cœlo 556, 25) e nei suoi commenti alla Fisica di Aristotele (In Aristotelis Physica commentaria), di Sesto Empirico in Adversus mathematicus (libro VII), e di altri scrittori antichi.
Dopo il Proemio, di natura allegorica, la prima parte del Poema si occupa della Verità (alethèia, e quindi dell'Essere), la seconda delle opinioni dei mortali (doxa) e della loro corretta interpretazione. Se nella prima sezione si trova dunque la celebre teoria parmenidea dell'essere, nella seconda trova posto la sua cosmologia (e antropologia).
Il tema cardine della prima parte dell'opera è l'affermazione che solo l'essere è, il non-essere non è. Poiché il non-essere non è e non può essere (di fatto non è nemmeno pensabile), ne consegue che l'essere è ingenerato e imperituro (perché non può derivare dal o finire nel non-essere). Di più, poiché per Parmenide ogni alterità e ogni divenire implicherebbero il non-essere, l'essere è uno, indivisibile, immutabile, continuo, immobile, "simile a una ben rotonda sfera" (sul fatto che quest'ultima descrizione vada interpretata in senso più o meno metaforico il dibattito è aperto). Questa concezione riduce ovviamente il mondo del divenire a mera apparenza: "Per esso [per il vero essere]saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore".
Nella seconda parte Parmenide ritorna sul mondo dell'apparenza per darne la corretta interpretazione (nei limiti posti comunque nella prima parte, cioè con la consapevolezza che non siamo in ogni caso nell'ambito della verità ma della semplice doxa). Si tratta nella sostanza di una classica "filosofia della natura", in cui si spiegano le origini del cosmo, il fatto che la luna rifulge di luce non propria ma riflessa, il modo in cui vengono "concepiti" gli esseri umani, ecc.
Uno dei problemi aperti nell'interpretazione del Poema, interpretazione non semplice data la sua incompletezza e il linguaggio a tratti criptico e allegorico, è la piena armonizzazione della seconda parte dell'opera con quanto sostenuto nella prima. Un tentativo in tal senso è rappresentato da una linea di interpretazione per qualche verso riduzionistica (banalizzante?) seguita ad esempio in una certa misura da Giovanni Reale e, in modo assai più marcato, da Luigi Ruggiu[2]. Secondo quest'ultimo l'opera di Parmenide è perfettamente coerente, avendo una struttura di questo tipo: 1) affermazione dell'impossibilità del non-essere; 2) reinterpretazione del mondo "fenomenico" alla luce di questa conquista, cioè senza negare la realtà delle cose divenienti, ma interpretandola in un'ottica che, diversamente da quanto fa il volgo, escluda l'implicazione del non-essere. Resta da vedere se questa lettura sia coerente con le lapidarie affermazioni della prima parte del Poema, che non per nulla hanno generato le prospettive rigorosamente moniste dei discepoli di Parmenide Zenone e Melisso.
Note
- ^ Secondo Hans Diels (Parmenides Lehrgedicht, 1897, pp. 25-26) della prima parte che tratta della Verità ci sono giunti circa nove decimi
- ^ Parmenide, Poema sulla natura, Rusconi, 1991
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