Vallo Alpino del Littorio
Il Vallo Alpino del Littorio (anche chiamato linea non mi fido) è un sistema di fortificazioni formato da opere di difesa (bunker), voluto da Mussolini e costruito per proteggere il confine italiano dai paesi confinanti, quali la Francia, la Svizzera, l'Austria e la Jugoslavia, pochi anni prima della seconda guerra mondiale.

Prima della seconda guerra mondiale, le opere di difesa erano presidiate dalle unità della GaF, il Corpo di Guardia alla Frontiera, specificatamente creato per il presidio delle opere fortificate, il cui motto era Dei Sacri Confini Guardia Sicura.
La storia del Vallo Alpino
Prima della seconda guerra mondiale
Alla fine della prima guerra mondiale molte nazioni europee svilupparono una considerevole politica di fortificazione. I problemi territoriali, lasciati aperti dal Trattato di Versailles, diedero l'impulso ad una corsa alla difesa delle frontiere, rendendole inaccessibili tra il 1920 e il 1940.[1]
Le opere fortificate presero vari nomi tra cui:
- Linea Maginot in Francia
- Linea Sigfrido in Germania
- Linea Stalin in Russia
- Linea Rupnik in Jugoslavia
- Ridotto Nazionale in Svizzera
- Vallo Alpino in Italia
L'Italia si trovò a dover difendere una frontiera molto ampia, e soprattutto montuosa. Si trattava infatti di 1.851 chilometri di linea di confine, così suddivisi da est a ovest:
- 487 km con la Francia: il Vallo Alpino Occidentale
- 724 km con la Svizzera
- 420 km con l'Austria: il Vallo Alpino in Alto Adige
- 220 km con la Jugoslavia: il Vallo Alpino Orientale
La data di inizio della costituzione del Vallo Alpino del Littorio è posta intorno al 1931, e i lavori per il suo completamento continuarono per diversi anni, proseguendo in alcuni casi anche durante il conflitto. Il progetto iniziale comprendeva tutto l'arco alpino, partendo da Ventimiglia e arrivando all'allora città italiana di Fiume, sfruttando appieno la scarsità di rotabili, sentieri e colli e le difficoltà create dall'ambiente alpino.
Intorno al 1924-25 si ebbe un'implementazione della rete stradale civile italiana, e questo avvenne anche in seguito alla realizzazione di una rete di strade militari, necessarie per condurre le guarnigioni difensive e i relativi fabbisogni logistici in luoghi prima inaccessibili a mezzi ruotati.
In data 11 aprile 1930, il Ministero della Guerra pubblicò la circolare 7100 in cui venivano definite le caratteristiche per la costruzione delle strade militari a supporto del futuro Vallo Alpino Occidentale.[2]
Con questa disposizione, venne regolato il metodo costruttivo delle strade militari, che furono così suddivise:
- Grande camionabile (tipo A)
- strade con larghezza superiore a 6 m, praticabili in entrambi i sensi da autocarri, con fondo artificiale, pendenza massima dell'8% e raggio minimo di curve 12 m.
- Camionabile (tipo B)
- strade di larghezza di 3,50 m, con fondo artificiale, praticabili da autocarri con allargamenti a m 6 in media ogni 4 km, pendenza massima 10% e raggio di curve massimo 10 m.
- Carrareccia (tipo C)
- strada di larghezza 3 m, con fondo artificiale e pendenza non superiore al 12% e raggio minimo di curve di m 8, con allargamenti a m 5 ogni 4 km.
- Mulattiera (tipo D)
- strada con fondo artificiale ove necessario, di larghezza circa di 2,20 m, pendenza max. 17% e allargamenti di m 5 ogni chilometro circa, con opere d'arte capaci di sopportare un carico di cinque tonnellate per asse.
- Mulattiera (tipo E)
- strada di larghezza 1,50 m, con pendenza non superiore al 25%, fondo artificiale ove necessario, opere d'arte capaci di reggere una tonnellata per asse.[3]
Questa classificazione stradale rimase in vigore fino al 1936, quando il Ministero della Guerra pubblicò la circolare 94210, che suggerì di improntare la ripartizione delle strade militari a criteri più generali e meglio aderenti alle necessità operative caso per caso. La vecchia circolare venne abrogata e le strade atte al transito veicolare vennero classificate in Strade principali, con larghezza da 3,50 a 8,50 m, e Strade secondarie, con larghezza da 3 a 5 m.
Il 28 giugno 1937 un'altra circolare, la numero 42240, presentò le normative inerenti alle "Viabilità minori",[4] ossia strade più adattate alla morfologia del terreno, di facile costruzione, adatte al transito di artiglierie carrellabili, salmerie e pedoni.
La zona inizialmente più interessata a lavori di rafforzamento fu la frontiera con la Francia: le vallate alpine piemontesi e le vallate al confine franco-ligure furono pesantemente fortificate e rinnovate. Queste vallate erano state al centro di episodi bellici nelle campagne francesi del XVIII secolo e, fin dalla nascita dello stato italiano, tutti gli accessi al territorio italiano furono oggetto di attenzione militare.
Dopo la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, per potenziare la difesa dell'arco alpino occidentale, fu nominata nel 1862 una "commissione permanente di difesa" che provvide alla ricostruzione dell'intero sistema difensivo dando vita a quella che fu poi denominata la "cintura dei forti".[5]
Nei decenni a seguire nacquero così numerose fortificazioni, dal Moncenisio al Colle dell'Agnello, dal Colle di Vinadio al Colle di Tenda, dall'alta val Roja a Mentone, creando così un forte sistema difensivo, che però ebbe vita breve. Infatti con la fine della Grande Guerra e la dimostrazione dell'inefficacia difensiva dei forti ottocenteschi ai nuovi grossi calibri, ci fu un'evoluzione tecnica anche nei metodi fortificativi: i vecchi forti campali in cemento e pietra, privi di grossi spessori in cemento armato e corazzature, furono presto obsoleti e richiesero una ristrutturazione, se non la dismissione.[6]
I limiti delle fortificazioni campali, i loro metodi costruttivi obsoleti e la loro vulnerabilità ai tiri da lunga distanza delle nuove artiglierie, fecero sì che l'attenzione venisse spostata verso nuove strutture basate sui punti forti naturali,[7] come alture, valloni e strapiombi, che furono spesso trasformati in vere e proprie fortificazioni, pressochè invulnerabili, scavate nella roccia e riparate dalla morfologia stessa del terreno.
All'inizio degli anni '30, anche in risposta del fervore fortificatorio francese[8] con la costruzione della Linea Maginot, l'Italia di Mussolini iniziò la costruzione di un sistema difensivo verso il confine francese che si ispirava alla Maginot stessa. Il confine svizzero, al contrario, non fu interessato da lavori così ingenti di fortificazione,[1] data anche la presenza di molte ed efficaci opere della Linea Cadorna, risalenti alla prima guerra mondiale.[9] Il confine occidentale, e successivamente anche quello austriaco, fu invece decisamente interessato da interventi militari.
Questa nuova difesa dei confini italiani era in realtà un progetto al limite delle capacità industriali ed economiche del paese. I lavori infatti subirono negli anni consistenti rallentamenti dovuti alla scarsità di fondi, ma anche di materie prime. Alla vigilia della seconda guerra mondiale erano state ultimate all'incirca 208 opere armate con 647 mitragliatrici e 50 pezzi d'artiglieria, presidiate complessivamente da circa 2.000 uomini, ossia le forze destinate alla prima linea di fortificazioni. Successivamente i lavori proseguirono fino all'ottobre 1942.[1]
La difesa italiana era organizzata in maniera differente rispetto a quella francese o tedesca, infatti il Vallo Alpino era pensato per utilizzare armi che all'epoca erano di uso comune nella fanteria e nell'artiglieria; a queste in alcuni casi si era pensato di affiancare un'ulteriore potenza di fuoco come i lanciafiamme e i mortai, e in alcuni casi anche vecchi pezzi d'artiglieria rimasti nei forti della prima guerra mondiale. Soltanto raramente, e solo in alcune valli, fu pensato l'utilizzo di gas tossici, come ad esempio l'Iprite.[1]
Le mancanze economiche costrinsero spesso all'utilizzo di materiali inadeguati: raro era l'uso dell'acciaio per le difficoltà di reperimento di materie prime, dovuto in parte alle sanzioni imposte all'Italia per la sua invasione dell'Etiopia e in parte all'autarchia imposta dal regime fascista che creava difficoltà di produzione e reperimento. Per far fronte alla carenza di materie prime, Adolf Hitler inviò in Italia ingenti quantità di merci. L'acciaio che arrivava, che serviva per i cannoni e generalmente per le armi, veniva fuso nuovamente per poter ottenere putrelle e feritoie corazzate ad uso delle opere fortificate.
Alla fine degli anni trenta i centri "tipo 200", così denominati dal numero di protocollo della circolare che stabiliva le loro caratteristiche costruttive ("Direttive per la organizzazione difensiva permanente in montagna"[10]), erano prevalentemente di media grandezza e solo alcuni di essi potevano vantare dimensioni rilevanti. In ogni caso erano ancora piuttosto isolati e spesso, al contrario delle grandi opere multiformi della Maginot, non erano in grado di difendersi a vicenda.
Per ovviare a questo inconveniente venne decisa la costruzione di numerose piccole opere monoblocco in calcestruzzo, denominate "tipo 7000" dal numero della circolare che ne istituiva la realizzazione, che avrebbero dovuto, in breve tempo e con costi limitati, colmare gli intervalli tra le opere esistenti e coprire le zone non ancora protette da fortificazioni.
In realtà le ridotte dimensioni e la scarsa potenza di fuoco di queste opere non permettevano una efficace difesa del confine, per cui alla fine del 1939 venne emanata la circolare numero 15000, a firma del generale Rodolfo Graziani, che stabiliva le caratteristiche di una nuova generazione di opere, denominate "tipo 15000", operativamente autonome, più grandi e dotate di una maggiore potenza di fuoco.[11]
La costruzione del vallo si protrasse a singhiozzo fino al 1943 lungo tutto l'arco alpino ed interessò anche la frontiera tedesca con il Vallo Alpino in Alto Adige, che fu costruito al confine con l'Austria, annessa alla Germania, nonostante l'Italia fosse alleata con la Germania stessa.
Durante la seconda guerra mondiale
Nonostante la corsa agli armamenti subito prima dello scoppio del conflitto, e la frenetica preparazione di questi sbarramenti difensivi, il Vallo Alpino non ebbe occasione di svolgere il suo compito, se non in rare occasioni.[1]
Effettivamente negli scontri, solamente alcune delle opere occidentali ebbero il battesimo del fuoco, infatti furono adoperate in maniera marginale in azioni rivolte verso la Francia, nel giugno 1940, con un compito offensivo; ad esempio fu utilizzata la batteria dello Chaberton, che però subì un duro attacco da parte di quattro mortai Schneider francesi da 280 mm[1] e fu distrutta.
Quattro anni dopo (1943-44) le opere furono adoperate dai nazisti per rallentare l'avanzata delle truppe alleate americane ed inglesi,[1] sbarcate in Provenza e dirette verso nord.
Dopo la seconda guerra mondiale
Alla fine del conflitto la maggior parte delle opere del Vallo Alpino Occidentale rimaste in territorio italiano vennero demolite (1948) come previsto dalle clausole del trattato di pace di Parigi del 1947. Si salvarono invece dalla distruzione quelle che passarono in territorio francese in forza dello stesso trattato di pace; esse furono però disarmate e spogliate di ogni parte recuperabile e lasciate all'abbandono.[12] Le opere del Vallo Alpino Orientale entrarono invece in possesso della Jugoslavia a causa della cessione di parte del Friuli-Venezia Giulia ad essa. Gli accordi di pace sancivano inoltre che lungo il confine vi fosse una fascia di almeno 20 chilometri in cui non doveva essere costruita alcuna nuova fortificazione, o ampliamento di vecchie opere difensive.[1]
Nonostante ciò, dopo la fine del secondo conflitto mondiale si ebbe una nuova esigenza di difendere l'Italia da eventuali aggressioni dall'oriente, che portò ad una nuova valorizzazione delle opere fortificate rimaste del Vallo Alpino e alla costruzione a ridosso della nuova frontiera di nuove opere. Il progetto fu finanziato dalla NATO. Questa nuova idea difensiva prevedeva che al confine con l'Austria venissero riutilizzate le opere già esistenti della seconda guerra mondiale, mentre sul confine con la Jugoslavia si sarebbe dovuta costruire una nuova linea di difesa. L'Italia si ritrovò così con una nuova linea difensiva che partendo dal passo di Resia si estendeva fino alle sorgenti del Natisone, e ancora, lungo il corso del Tagliamento fino quasi alla sua foce.[1]
La nuova linea di difesa adottò come arma principale torrette di vecchi carri armati enucleate. Questa tecnica di utilizzare mezzi dismessi o sostituiti era stata appresa dalle linee di difesa tedesche costruite in Italia. Quest'arma permetteva un notevole volume di fuoco che poteva essere indirizzato su 360 gradi, offrendo al contempo un ridotto bersaglio.[1]
Ancora nel 1976 questo sistema difensivo, basato sulla fortificazione permanente, era considerato strategico dallo Stato Maggiore della Difesa, nonostante l'era nucleare, infatti all'epoca si considerava che le fortificazioni potessero avere una buona resistenza ad una esplosione nucleare ravvicinata.[1]
La fine del Vallo Alpino
La caduta dell’Unione Sovietica, il termine dell'ipotetica minaccia che poteva irrompere da oriente e le variazioni nei paesi del Patto di Varsavia, diedero il colpo finale ai reparti d'arresto e alle opere del Vallo Alpino.
Tra il 1991 e il 1992 tutte le opere che non erano state ancora dismesse vennero sigillate e tutti i corrispondenti reparti vennero sciolti. Attualmente nessuna delle opere è stata conservata come testimonianza di quei reparti che vi prestarono servizio. Tutte le opere inoltre vennero private dell'armamento e degli allestimenti interni e, nella maggior parte dei casi, chiuse mediante la saldatura degli ingressi e delle feritoie. Al giorno d'oggi esse rimangono soltanto silenziose testimonianze di una parte poco nota della nostra storia.[13]
Oggi, in alcuni rari casi, si riesce ad attuare una politica di conservazione e rendere quindi visitabili queste opere per tramandare alle future generazioni una testimonianza di un tormentato periodo di vita militare. Un esempio per tutti è l'opera 3 dello Sbarramento di Fortezza, restaurata e oggi adibita a museo dalla provincia autonoma di Bolzano.[14]
Le strutture degli sbarramenti
La linea difensiva del Vallo Alpino era concepita attraverso diversi sbarramenti difensivi che impedivano l'accesso attraverso le zone di transito, utilizzando i fianchi delle vallate, e il fondo valle quando vi era una valle sufficientemente ampia.
Solitamente uno sbarramento difensivo aveva come elementi fondamentali:
- un certo numero di bunker dislocati nella zona, armati con mitragliatrici e cannoni anticarro che possibilmente battessero l'intera area;
- un fossato o muro anticarro, che poteva in alcuni casi essere integrato da un campo minato e recinzione con filo spinato;
- alcune postazioni d'artiglieria armate di mortai, arretrate rispetto allo sbarramento, per l'appoggio e l'interdizione;
- osservatori posti sulle cime più alte, aventi una migliore visuale;
- ampi ricoveri per truppe, in posizione più arretrata;
- per le opere meno raggiungibili, a volte venivano costruite teleferiche;
- collegamenti stradali, per poter schierare l'artiglieria di appoggio in maniera rapida ed efficace.
- una rete di collegamenti via cavo o fotofonici;
Tipicamente gli sbarramenti erano organizzati su tre livelli di difesa, posti a distanze crescenti dal confine:[13]
- zona di sicurezza: iniziale zona di contatto con il nemico, tipicamente posta vicino al confine;
- zona di resistenza: zona con maggior presenza di fortificazioni, in grado di resistere per maggior tempo ad un attacco (vedi ad esempio le opere di Verzegnis);
- zona di allineamento: zona per un eventuale contrattacco.
Sia che si trattasse di una postazione di pianure, che di una di montagna, un'opera rappresentava una struttura stabilmente organizzata, composta da postazioni cooperanti tra loro e dotate di elevato potere d'arresto; le opere erano inoltre poste sotto un unico comando, in modo tale che queste potessero adempiere ad un compito unitario.
Normalmente un'opera costituiva un elemento difensivo autonomo, ma nella difesa era comunque sempre legata ad altri elementi dal vincolo della coesione tattica, che si realizzava con:
- la cooperazione con altre strutture statiche permanenti campali;
- il sostegno del fuoco delle artiglierie e mortai;
- le reazioni dinamiche delle riserve per le quali svolgeva funzioni di perno della manovra. In montagna per interdire vie di facilitazione erano normalmente riunite in complessi di opere (sbarramenti) sotto un unico comando. L'opera poteva essere rinforzata da armi e unità di fanteria (particolarmente l'opera in pianura).
L'opera doveva avere le seguenti caratteristiche:
- dominio del fuoco controcarro sul terreno circostante per interdire una via di facilitazione;
- reattività a giro d'orizzonte;
- unità di comando;
- autonomia tattico-logistica;
- capacità di resistenza ad oltranza.
Le differenti tipologie di opere si possono riassumere in:[13]
- tipo A: le fortificazioni più grandi, tipicamente scavate nella roccia;
- tipo B: piccoli punti di difesa sparsi;
- tipo C: grandi rifugi distribuiti e punti di raggruppamento.
Comunicazioni tra e nelle Opere
All'interno di ogni opera era prevista una rete telefonica ed altri sistemi per collegare le varie postazioni al comando. Ad esempio furono usati tubi portavoce, segnali luminosi e campanelli d'allarme.[15]
Per quanto riguarda invece i collegamenti esterni questi erano basati sulle stazioni fotofoniche, o sulle stazioni radio ed infine sulla rete telefonica con cavo sotterrato.[15]
Gli apparati fotofonici
Gli apparati fotofonici erano delle stazioni di tipo ottico, che permettevano la trasmissione in fonia, trasformando il segnale audio acquisito da un microfono in una modulazione, poi trasformata in modulazione luminosa e trasmessa mediante l'impiego di fonti luminose, normali o infrarosse. Il messaggio luminoso ricevuto dalla stazione ricevente, colpiva una cellula fotoelettrica, che doveva essere collegata su una linea retta con la lampadina trasmittente, oppure usando un sistema di specchi. La cellula fotoelettrica quando veniva colpita dal segnale, andava a generare una tensione modulata, che quindi veniva demodulata, e successivamente amplificata per poter permettere all'operatore in cuffia di ascoltare e comprendere il messaggio trasmesso. Questi apparecchi, all'avanguardia per quei tempi, furono messi a disposizione delle autorità militari dal 1935. Alloggiando le unità trasmittenti e riceventi in brevi tubi era possibile schermare l'influenza della luce ambientale.[15]
Esistevano due tipi di stazione: da 115 mm e da 180 mm, a seconda delle dimensioni dello specchio di trasmissione. Solitamente la stazione era posta nei pressi dell'ingresso, e operava tramite una feritoia costituita da due tubi paralleli. Questo sistema permetteva una comunicazione fino ai 6 km di distanza di giorno e 9 km di notte. I valori venivano dimezzati se si impiegavano schermi per infrarossi. In telegrafia ottica invece, di notte, si potevano raggiungere i 50 km di portata. Questi valori erano naturalmente soggetti alle condizioni climatiche.[15]
Stazioni radio
Data la poca resistenza dei sistemi fotofonici in caso di nebbia o fumo denso, si decise di munire l'opera con delle radio.
Un primo modello di radio fu la R4/D, successivamente sostituito dal modello RF4/D. Queste radio, oltre ad essere ingombranti (antenne di 20 m, di tipo a dipolo) e pesanti (la R4/D pesava 152 kg), avevano una portata di 50-60 km, ed operavano attorno ai 1.300-4.285 kHz la prima e 1.270-4.300 kHz la seconda. Spesso il condotto della fotofonica veniva utilizzato per riporre l'antenna.[15]
Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, gli apparecchi radio (ed anche le reti telefoniche) ebbero sempre più un ruolo principale nelle comunicazioni. Alcuni dei modelli usati furono:[16]
- Stazione "CPRC-26". Questo apparecchio in radiofonia FM semplice, veniva usato per mantenere i contatti dall'interno dell'opera con il plotone difesa vicina, quando questo usciva dall'opera ad esempio per pattugliamenti. La radio aveva le dimensioni 28,5x26x10,2 cm, con un peso complessivo di 4,8 kg (inclusi gli accessori, le batterie e la borsa). La radio aveva sei canali, con una gamma di frequenze compresa tra i 47 e i 55,4 MHz. Le pile davano alla radio un'autonomia di 20 ore. Utilizzando la propria antenna stilo, l'apparecchio aveva una portata di 1,5 km, che poteva aumentare fino a 3 km, se l'antenna veniva allungata aggiungendo uno spezzone di filo di 1,22 m.[16]
- Stazione "SCR-300". Questo apparecchio in radiofonia FM semplice, veniva usato per mantenere i contatti dall'interno dell'opera con il plotone difesa vicina, ma anche per la comunicazione opera-opera. La radio aveva le dimensioni 28x43x15 cm, con un peso complessivo di 15 kg (inclusi gli accessori, le batterie e la borsa). La radio aveva 40 canali, con frequenze attorno ai 48 MHz. A seconda delle pile che venivano utilizzate, la radio poteva avere un'autonomia di 10 o 20 ore. La radio aveva due antenne in dotazione, quella a stilo corta, e quella a stilo lunga, che davano rispettivamente una portata di 3 e 5 km.[16]
- Stazione "AN/GRC-9". Questo apparecchio in radiofonia AM (semplice e non), veniva usato per mantenere i collegamenti dal comando sbarramento ai comandi superiori. La radio era composta da tre parti fondamentali e distinte: un cofano apparati con dimensioni 40x29x22 cm, per un peso di 15 kg, un cofano alimentatore-vibratore di dimensioni 45x24x27 cm, per un peso di 37 kg e un cofano alimentatore-survoltore di dimensioni 33x28x30 cm, con un peso di 16 kg. Complessivamente l'apparecchio aveva un peso di 80 kg. La radio funzionava tra i 2 e i 12 MHz. Per l'alimentazione dell'apparato potevano essere adottate tre soluzioni, che fornivano rispettivamente 6, 12, o 24 V, e quindi davano rispettivamente 5, 8, o 14 ore di autonomia. A seconda dell'antenna la radio poteva ottenere una portata differente. Se veniva usata l'antenna a stilo, che poteva essere composta da 5 elementi lunghi 1 m, raggiungeva i 25 km in fonia, e 56 km in telegrafia. Se invece si utilizzava un'antenna filare, la radio raggiungeva i 40 km di portata in fonia, e 120 km in telegrafia.[16]
Rete telefonica
Questo tipo di collegamenti furono inseriti nelle varie circolari, e iniziati ad essere previsti negli anni '40, ma non furono ritenuti di primaria importanza, vista che la maggior parte delle opere non era ancora conclusa. Così, alla sospensione dei lavori ('41-'42), nessun opera era dotata di tale collegamento.[16]
A ciò si mise rimedio nel dopoguerra, con il reimpiego di alcune opere. Le opere furono così dotate di rete telefonica sia interna che esterna. Furono usati degli apparati suplettivi chiamati “Complessi aggiuntivi OB/9”, che comprendevano un’antenna tipo stilo, un cavo coassiale di collegamento, un adattore d’antenna e un picchetto con isolatore per il sostegno dell’antenna stessa. Alcuni degli appartati usati furono:
- apparato telefonico da campo tipo "EE-8". Fu usato per i collegamenti interni dell'opera. L'apparato era sistemato all'interno di una custodia in cuoio o di tela di dimensioni 26x21x11 cm, con un peso complessivo dell'apparato (incluse le pile) di 5,1 kg. L'alimentazione era fornita da due pile BA-30 poste in serie, che fornivano una tensione di 3 V.[16]
- centralino telefonico campale tipo "UC", a 10 linee. Fu usato per i collegamenti interni ma anche esterni verso le altre opere dello sbarramento. L'apparecchio era costituito principalmente da una scatola metallica di dimensioni 53x20x20 cm, per un peso totale dell'apparecchio di 21,5 kg. L'alimentazione era fornita da 3 pile WB-0/200 poste in serie, che fornivano una tensione di 4,5 V.[16]
- centralino telefonico campale "SB-22/PT", che andava a sostituire all'inizio degli anni '80 il modello "UC", aumentando le linee a 12. Fu usato per i collegamenti interni ma anche esterni verso le altre opere dello sbarramento. L'apparecchio era costituito principalmente da una scatola metallico a tenuta stagna di dimensioni 13x39x33 cm, per un peso complessivo dell'apparato di 14 kg. Per l'alimentazione servivano 2 pile BA-30 collegate in serie che fornivano in uscita 3 V. Di queste ne servivano due per il microtelefono, e altrettante per l'illuminazione e alimentazione suoneria.[16]
In sostanza si può affermare che, all'interno dell'opera, i locali principali fossero muniti di apparecchiaturi telefonici portatili, collegati tramite un apposito impianto al centralino telefonico.
La struttura dell'Opera
Col termine "opera" si vuole intendere un manufatto di difesa, realizzato in caverna, oppure in superficie, e successivamente ricoperto, con il compito di difendere la zona a lei assegnata.[17]
Le opere in caverna sono scavate nella roccia, e le loro strutture interne venivano realizzate in seguito in calcestruzzo. Si riutilizzava in seguito il materiale estratto per la costruzione dei malloppi esterni (sia quelli per le camere di combattimento che quelli per la difesa degli ingressi).[17] L'ipotesi migliore era di costruire le opere scavandole nella roccia, ma questo non era sempre possibile, e quindi spesso si adottava anche (o solamente) il calcestruzzo per costruire efficaci strutture difensive (con pareti da 3,5 fino a 4,5 metri di spessore). Queste erano solitamente costruite fuori-terra, e quindi dovevano essere ricoperte da terra, e vegetazione (a volte anche con alberi) per migliorarne la mimetizzazione, non sempre semplice da realizzare.[17]
Differenza tra opere del vallo e opere di fanteria
Le opere di fanteria sono costituite da delle singole piccole postazioni indipendenti con armi diverse:
- una postazione M, ovvero delle mitragliatrici;
- una postazione P, ovvero i pezzi, i cannoni anticarro;
- un Posto Comando e Osservazione (PCO), ovvero una costruzione, sempre sotterranea ma più grande e articolata, che comandava e coordinava queste postazioni, osservava l'ambiente e indicava dove dirigere il fuoco.
Le postazioni M potevano essere ad esempio una torretta metallica in superficie e qualche stanza per il personale sotto. Solitamente ad una postazione M, vi si ponevano 2 o 3 soldati: un capo arma, un servente (eventualmente 2).
Le postazioni P erano enucleate, con la torretta e sotto due o tre stanze. In alcuni casi particolari le cose cambiavano: invece dell'enucleata c'era un cannone su affusto in una postazione un po' più complessa, ma sempre era un P solo con un pezzo diverso e una costruzione differente; si trattava tuttavia di piccoli capisaldi e non di postazioni collegate tra loro come in un'opera del vallo. In una postazione P, vi erano quattro o cinque soldati: un capo pezzo, un puntatore, un servente caricatore, un servente porgitore ed eventualmente un radiotrasmettitore.
Le camere di combattimento
I punti più importanti, per lo scopo in sé dell'opera, erano le camere di combattimento (anche chiamate postazioni), ovvero quelle piccole e anguste stanze, spesso sotterranee, che ospitavano cannoni anticarro o mitragliatrici, celate dietro un'apposita feritoia, appositamente mascherata. Queste erano i punti più deboli dell'intera struttura, che per loro natura erano più esposte e vulnerabili. Si decise quindi di proteggerle inserendo delle robuste piastre d'acciaio, riducendo così anche la dimensione delle aperture. A queste piastre, annegate nel calcestruzzo, erano spesso attaccati gli affustini per i cannoni o mitragliatrici (appositamente fatti costruire nello stabilimento militare di Terni). Queste piastre, chiamate piastre di blindamento, potevano essere sostanzialmente di due tipi, piana o curva, con uno spessore di circa 15 cm in media.
All'interno di una camera da combattimento, vi era sempre un sistema di aerazione, che permetteva l'apporto di aria fresca dall'esterno a chi si trovava dentro la camera, dotato quindi di maschera, collegata al sistema di aerazione. Il sistema era azionato a manovella da un utente che si trovava all'esterno della camera.
Dato che le feritoie erano gli unici punti visibili dall'esterno, la loro mimetizzazione era ben curata. Si decise di coprire le feritoie in tempi di pace inizialmente con dei teli metallici su cui veniva fissata una rete metallica rivestita di cemento; successivamente lo si sostituì con della vetroresina. Indifferentemente dal materiale usato, questa copertura doveva confondersi ottimamente con la morfologia ed i colori dell'ambiente in cui era costruita l'opera.
Gli ingressi
Oltre alle camere di combattimento, altro punto debole dell'opera era rappresentato dall'ingresso (unico, o a volte anche doppio). Questo solitamente si trovava in direzione opposta a quella dell'ipotetica linea di invasione e, se possibile, veniva realizzato in un'apposita trincea, a volte anche coperta, per celarne l'esistenza. Anche all'ingresso era data infatti una grande importanza per quanto riguarda il mimetismo.
Dopo ogni porta d'accesso, vi era sempre un corridoio a S fatto per evitare la possibilità di tiri d'infilata verso l'interno dell'opera, spesso munito di una postazione per fucile mitragliatore (detta postazione in cunicolo armato) con tiro in direzione della porta d'ingresso per assicurarne la difesa dall'interno.[18] Nelle opere tipo 15000 l'ingresso era inoltre difeso da una apposita caponiera, anch'essa armata con fucili mitragliatori.[19]
Solitamente le opere di una certa dimensione avevano due ingressi: oltre a quello principale, si costruiva anche un'uscita di emergenza, posta in una posizione più o meno opposta all'entrata principale, per poter avere una via di fuga in caso di penetrazione all'interno dell'opera. Questa poteva essere un'altra porta o, a volte, anche una piccola botola[20] situata nel pavimento o nella parete del corridoio a S, collegata con uno stretto cunicolo che permetteva di uscire all'esterno spostandosi carponi attraverso un'uscita di soccorso, detta anche passo d'uomo.[21]
I locali
Le opere all'interno avevano lunghi e stretti corridoi, spesso interrotti da porte stagne e da scalinate che portavano alle camere di combattimento, ma anche agli altri piani, dato che le Opere potevano essere costruite anche su due o più piani.
Solitamente al piano superiore si trovavano le camere da combattimento, le riservette delle munizioni, il gruppo elettrogeno, i locali per le comunicazioni, il posto comando e i locali servizi, mentre al piano inferiore si trovavano i dormitori (ricoveri), che utilizzavano particolari strutture di letti a castello in ferro (questi altro non erano che dei corridoi allargati).[22]
Presso l'ingresso dell'opera solitamente erano dislocate le latrine, con vasi alla turca, che riducevano così la necessità di dover uscire dall'opera. Erano inoltre previsti locali adibiti ad infermeria.[23]
Le porte
Ogni locale, ma soprattutto ogni camera da combattimento, era isolata dal resto dell'opera tramite una porta stagna (come quella delle navi), che aveva il compito di evitare intossicazioni, che potevano derivare dal monossido di carbonio (CO) che le armi da fuoco producevano.[24]
Infatti i serventi al pezzo o all'arma utilizzavano maschere antigas, collegate ad un sistema di circolazione dell'aria, che si azionava manualmente attraverso delle manopole poste dietro i portelloni; il sistema di circolazione dell'aria funzionava facendo ruotare una maniglia ad una velocità di circa 40 giri al minuto.
Lo stesso gruppo di circolazione dell'aria provvedeva inoltre a mantenere in sovrapressione la camera di tiro, in modo che i gas prodotti dalle armi in azione venissero espulsi all'esterno attraverso gli appositi condotti che sboccavano sulla parte superiore della casamatta (o sulla parete frontale quando quest'ultima era completamente incavernata). La sovrapressione nella camera di tiro agiva anche da protezione contro gli attacchi chimici, impedendo l'ingresso dei gas di combattimento attraverso le feritoie o le prese d'aria.
Le porte, quella d'ingresso e quelle che collegavano le varie parti dell'opera, erano stagne, di tipo navale, con un'apertura azionata tramite un volante, del tutto simili alle porte dei sottomarini, o delle navi militari.[22]
Autonomia
Ogni opera progettata dal 1939 era concepita di tipo permanente, ed era allestita per poter ospitare la truppa ed il suo relativo comando, dandogli la possibilità di resistere senza aiuti esterni per anche un mese (la normale autonomia era invece di 8 giorni).[25] Anche per questo motivo all'interno dell'opera erano presenti alcune vasche d'acqua non potabile in eternit, taniche d'acqua potabile, magazzini per viveri e munizioni, impianti d'illuminazione, di ventilazione, di filtraggio e di rigenerazione di aria ed infine gli impianti di protezione anti-CO.[26]
Alimentazione elettrica
Inizialmente nelle opere di tipo 200 l'impianto elettrico era in corrente continua. Nella maggior parte delle opere l'energia elettrica veniva fornita da un gruppo elettrogeno del tipo Condor U 1620, prodotto dalla ditta Costruzioni Meccaniche Fratelli Guidetti - Motori Universali Condor di Milano, che erogava una potenza massima di 1,62 kW ad una tensione compresa tra 72 e 90 V. Tra il generatore e la rete si andavano a interporre degli accumulatori tampone che provvedevano ad alimentare gli utilizzatori nei momenti di non funzionamento del gruppo. Se si tiene conto della poca potenza disponibile, risulta chiaro come le lampade dovessero avere una potenza piuttosto limitata: solitamente compresa tra 16 e 24 W.[27] Erano comunque sempre previste lampade d'emergenza a petrolio o candele sistemate in apposite nicchie distribuite nei locali e lungo i corridoi.[28]
Nei centri di resistenza di minori dimensioni veniva impiegato un gruppo motogeneratore Condor PV400, anch'esso prodotto dalla Condor - Guidetti, in grado di erogare una potenza massima di 400 W.[29]
Nelle opere di maggiori dimensioni era invece previsto l'impiego di un gruppo elettrogeno da 8 kW, appositamente assemblato dalla ditta Pellizzari.[30] Nelle batterie in caverna il gruppo elettrogeno da 8 kW coesisteva spesso con quello da 1,62 kW.[31]
Nelle opere ripristinate nel dopo guerra l’energia elettrica era fornita, in tempo di pace, dall'Enel con una linea in corrente alternata trifase a 380 Volt, mentre all'occorrenza si potevano utilizzare gruppi elettrogeni.
Mimetismo
Le opere solitamente erano immerse nell'ambiente circostante e dovevano mimetizzarsi perfettamente. Particolare cura veniva data alle feritoie, alle cannoniere e agli ingressi, i punti più esposti.[13]
Per le opere della Fanteria d'Arresto, dato l'ambiente pianeggiante e poco consono a nascondere qualcosa, era più difficile mimetizzarle. Per le opere di montagna invece il mimetismo era più semplice, dato che spesso le opere venivano scavate direttamente nella roccia. Infatti tra le molte opere, si possono osservare come siano stati utilizzati materiali che imitano la roccia circostante (ai tempi si fece largo uso di vetroresina) e come sia stata impiantata vegetazione ad hoc.
In alcuni casi sono state mascherate come dei fienili, legnaie o piccole casette di contadini, quindi ricoperte di assi di legno, in modo che non potessero spiccare all'occhio anche in mezzo ad un prato (vedi ad esempio il noto "fienile" dell'Opera 23 dello Sbarramento di Versciaco o l'Opera 6 bis dello Sbarramento di Perca).
In altri casi l'opera veniva mascherata facendole prendere le sembianze di una casa o di un maso, quindi con le feritoie che sembravano finestre e porte (vedi ad esempio l'Opera 3 dello Sbarramento del Passo di Cimabanche, o l'Opera 9 dello Sbarramento di Dobbiaco).
Altre mimetizzazioni possibili si potevano ottenere simulando la presenza di depositi materiali dell'ANAS o di cabine elettriche, ma queste necessitavano di rimuovere le coperture all'occorrenza.
Casermette
Nei pressi degli sbarramenti erano quasi sempre presenti delle casermette; si possono andare a distinguere due tipi di casermette:
- quelle poste in posizioni leggermente più arretrate, adibite ad alloggiare soldati che avevano il compito di mantenere l'efficenza delle opere, sorvegliarle e in caso di necessità anche provvedere ad una immediata riattivazione delle opere, secondo piani ben prestabiliti.
- quelle poste in alta quota, solitamente lungo le linee di confine, con la possibilità di sorvegliare da posizioni elevate, ed in anticipo, le mosse del nemico.
Le casermette difensive furono costruite nel periodo del '38-'41, con lo scopo principale di alloggiare i militi della G.a.F. disposta per la copertura del confine. In Alto Adige, durante il periodo della Guerra Fredda, tali casermette furono riattivate ed occupate dai reparti alpini in servizio di vigilanza confinaria.
Sistema di aerazione
Nelle opere era in funzione un sistema per il ricambio dell'aria; questo era costituito da grate e da un sistema di tubazioni d'aerazione, con prese d'aria esterne e ventilatori azionati da manovelle o elettrici.
Per la difesa e la protezione dei serventi al pezzo e all'arma nelle camere di combattimento,in caso di attacco NBC (nucleari, batteriologiche o chimiche), ma anche per la protezione dai gas di scarico delle armi, all'interno dell'opera vi era un sistema che prevedeva l'utilizzo di una batteria di appositi filtri. Questi avevano il compito di proteggere i serventi al pezzo dai gas scaricati dalle armi, ma anche da un eventuale attacco con armi non convenzionali (nucleari, o NBC).
Il sistema di filtraggio partiva dalla conduttura primaria, e attraverso appositi tubi corrugati, spingeva l'aria fresca e depurata al pacchetto preposto al funzionamento delle armi, muniti di maschera antigas M34 o M41 se ottica, sostituite poi in seguito dal modello M59.
Armamento
Armamento prima della guerra
Ogni opera era dotata di almeno un cannone anti-carro e un certo numero di mitragliatrici.[32][20][33]
Solitamente l'armamento prevedeva:
- Mitragliatrice Fiat Mod. 14/35 per le casematte in calcestruzzo o per le cupole metalliche.
- Dal '37 si cercò di sostituirla con il Breda Mod.37, più robusta e precisa; l'ideale per il tiro d'accompagnamento e d'arresto. Fu utilizzata anche nel dopoguerra.
- Mitragliatrice Breda Mod.30, utilizzata nelle caponiere per la difesa degli ingressi delle opere, un'arma efficace nel combattimento ravvicinato fino a 500 m (fu successivamente sostituita dal fucile Beretta BM 59).
L’artiglieria invece si costutuiva in generale di due modelli di armi anti carro:
- Cannone 57/43 R.M mod. 887, posti su appositi affusti a forma di candeliere (erano in realtà cannoni dismessi dalla Regia Marina, prodotti dalla Nordenfeld). Fu successivamente sostituito dal 47/32 mod.35.
- Cannone 47/32 mod.35, posto su un sostegno a forma di coda di rondine, e ben saldato alle piastre che erano già utilizzate per il 57/43 (quando nelle casematte, non vi era la corrazzatura, il cannone veniva installato su un affusto campale). Il modello era prodotto dalla Breda, su concessione della Boheler.
Oltre ai cannoni anticarro, furono utilizzati anche cannoni per il tiro di appoggio e sbarramento:
- Cannone 75/27 Mod.06, posta su un giunto di forma sferica, collegato ad una piastra corazzata di 10 cm (con questo giunto, si riduceva la grandezza della feritoia ed inoltre si ottenevano ampi settori di tiro). Questo cannone era costruito dall'Ansaldo, su licenza Krupp.
- Obice Škoda da 100/17 Mod.14 e 16, di provenienza austriaca, come preda bellica. Fu utilizzato in casamatta sul proprio affusto campale unicamente presso il caposaldo Col dei Bovi
- Cannone d'accompagnamento 65/17 Mod.908. questo pezzo venne preso in considerazione sia all'interno delle opere che in postazioni all'aperto con funzione anticarro (unico esempio noto, opera 3 sbarramento Malles-Glorenza).
Oltre alle armi qui sopra citate, molti sbarramenti erano anche forniti di:
- Mortaio M1927 da 81 mm mod.35, come difesa degli ingressi e per battere gli angoli morti, grazie al tiro curvo. Inizialmente era impiegato all'esterno delle opere, ma comunque nei pressi degli ingressi. A volte erano previste delle apposite piazzole esterne. Successivamente venne ideate la sua installazione all'interno delle fortificazioni. Poteva essere armato con:
- bomba normale, di 3,265 kg, con 0,5 kg di alto esplosivo;
- bomba di grande capacità, di 6,6 kg, con 2 kg di alto esplosivo;
- Mortaio Brixia Modello 35 da 45 mm;
- Lanciafiamme di tipo a scomparsa, appositamente studiato per l'utilizzo nelle fortificazioni, con una portata di 50 m;
- Le armi individuali dei soldati, come le bombe a mano che potevano essere rilasciate dalle caditoie presenti in alcune opere.
L'opera oltre al suo mimetismo, era circondata solitamente da un campo minato e da del filo spinato per la difesa dai guastatori oltre che ad appositi cartelloni indicanti la presenza dell'opera (questi erano in realtà per tenere lontani i curiosi e non i nemici).
Oltre al fossato o muro con funzione anticarro, che solitamente veniva realizzato nel fondovalle per sbarrare la via ai carri dell'invasore, vi erano dei piani tattici per il posizionamento di blocchi stradali e ferroviari e dei piani di fuoco con zone da battere, da adottare in caso di attacco. Spesso le sedi stradali e ferroviarie erano sbarrate all'occorrenza con cavi o con cavalli di frisia.
Si ricorda che oltre alla normale posizione delle armi durante i combattimenti, qualora necessario, le bocche da fuoco potevano venire tolte ed appoggiate su appositi cavalletti, e anche coperte con particolari lamierini protettivi, contro acqua e umidità.
Armamento dopo della guerra
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando le opere vennero riaperte, e nuovamente presidiate, questa volta dagli Alpini d'Arresto, cambiarono in parte gli armamenti delle opere.[32][20][33]
Mitragliatrici:
- Mitragliatrice Breda Mod.37 cal. 8 mm, installata nelle opere in calcestruzzo su apposito affustino (fu successivamente sostituita dalla mitragliatrice MG 42/59 nel 1981-82);
- Fucile Beretta BM 59, utilizzato per la difesa ravvicinata delle opere e degli ingressi;
- Fucile mitragliatore Bren Mk1 cal.7.62mm, per la difesa ravvicinata e degli ingressi.
- Mitragliatrice MG 42/59, che entro in servizio tra gli anni ’70 e ’80. Ciò comportò in molti casi una modifica degli affusti.
Per l'artiglieria invece:
- Cannone 75/21 modello I.F., di produzione italiana, realizzato dall'Arsenale di Napoli utilizzando semilavorati di cannoni già in uso durante la seconda guerra mondiale;
- Cannone 75/34 modello S.F., di produzione italiana;
- Cannone 90/32, che andava a sostituire i due modelli precedenti. Questo cannone era di produzione belga, e esisteva nelle versioni leggera e pesante;
- Cannone 105/25 mod. S.F., di produzione italiana, in sostituzione del 75/27. Questo cannone fu ricavato dal semovente italiano M-43 utilizzato durante la Seconda Guerra Mondiale;
- Vecchi carri armati (M4 Sherman, M26 Pershing, M47 Patton), che montano una torretta enucleata, oppure installando l’intero scafo in apposite vasche in cemento. Il primo aveva montato un cannone 76/55 (mod. SF. di produzione inglese, noto anche come "17 libbre"), mentre gli altri due un cannone M-3 da 90/50.
- In alcuni casi è stato anche utilizzato lo scafo del Fiat M-15/42.
Inoltre le opere erano difese anche con l'impiego di campi minati.
Con la dismissione/chisura delle opere nel 1992, la maggior parte delle armi vennero rimosse, comprese le torrette, carri o parti di esse (quando era possibile farlo, in quanto molte di queste erano saldate nel cemento armato).
Simboli all'interno delle opere
All'interno dei bunker si utilizzava una particolare simbologia, che oltre ad una identificazione progressiva relativa alle postazioni di fuoco, indicava i locali e gli equipaggiamenti all'interno delle opere. Il tipo di simbologia utilizzata, per quanto simile era diversa a seconda del periodo (prima della guerra e nel dopo guerra) e anche a seconda se si trattasse di opera da montagna o da pianura.
Solitamente in tutte le opere all'ingresso dell'opera si trovavano comunque delle indicazioni o nei casi migliori un cartello di alluminio che indicava il numero e la tipologia delle postazioni da fuoco, e quindi gli eventuali vari locali con le funzioni di camerata o di riserva ad esempio.
Simbologia nelle opere di montagna
All'inizio della vita vera e propria delle opere la simbologia utilizzata erano in realtà delle scritte sui muri, in diversi stili e colori (solitamente gialle o rosse), dovuti probabilmente soltanto al particolare estro creativo del pittore. Una segnaletica di questo tipo naturalmente aveva una longevità breve, ed è quindi difficile oggigiorno trovarne in condizioni ottimali.
Nel dopo guerra e soprattutto nelle opere di montagna i cartelli erano normalmente costituiti da simboli bianchi stampati su sfondo nero incorniciato di bianco, stampati su cartellini di plastica di forma quadrata, che potevano essere appesi da soli o aggregati ad altri, formando così un cartello più complesso. Per elevare il grado della loro visibilità, solitamente i simboli erano rifrangenti.
La manutenzione della fortificazione permanente in montagna
Il Comandante di compagnia degli Alpini d'Arresto assicura la sorveglianza e manutenzione dei manufatti, delle armi, dei mezzi delle trasmissioni e dei materiali in dotazione, per tale compiti esso si avvale del plotone manutenzione opere di battaglione, del personale di truppa, della propria compagnia, specializzato, del personale di presidio allo sbarramento. Di seguito vediamo le operazioni da svolgere e la loro cadenza:
- il personale di presidio allo sbarramento provvede giornalmente alla sorveglianza delle opere, e quando necessario alla pulizia interna dei manufatti, alla manutenzione dei sentieri/strade d'accesso all'opera, pulizia del fossato diamante, taglio di cespugli, messa in moto dei generatori elettrici, controllo di efficienza degli impianti di deumidificazione, manutenzione delle armi di reparto costodite presso la casermetta corpo di guardia.
- il plotone manutenzione opere composto da sottufficiali specializzati e truppa specializzata, diviso in:
- la squadra mantenimento provvede alla manutenzione delle opere murarie, del mascheramento, dei serramenti, dei materiali del genio in dotazione all'opera (estintori, serbatoi per acqua, segnaletica interna), degli impinati di deumidificazione, degli impianti elettrici interni ed esterni, la cadenza generalmente è trimestrale o quanto se ne ravvisi la neccessità, come ad esempio i rappezzi sulla finta roccia, la pittura delle torrette M e delle baracche P, la riverniciatura dei serramenti qualora si riscontrino tracce di ruggine, o la sostituzione della segnaletica mancante o in cattivo stato.
- la squadra artiglieria provvede alla manutenzione delle artiglierie e degli affustini delle mitragliatrici e degli impianti anti CO, con una cadenza mensile o semestrale secondo quanto prescritto dalle istruzioni relative ad ogni arma.
- la squadra telecomunicazioni provvede alla manutenzione degli impianti telefonici con cadenza semestrale. Per le riparazioni che eccedevano la competenza del plotone manutenzione opere intervenivano, ognuno per la parte di propria competenza, il personale della Direzione Genio, dell'Arsenale di Napoli, di STA.ME.CO. (stabilimento mezzi corazzati), del laboratorio di precisione esercito.
Le materie prime occorrenti, secondo le spettanze stabilite dalle normative in vigore, venivano prelevate presso il battaglione logistico, il magazzino genio competente per territorio, acquistate dal commercio con appositi fondi assegnati di anno in anno. Le ispezioni, oltre al Comandante di compagnia erano eseguite dall'Ufficiale all'armamento di battaglione, dal nucleo ispettivo del Comando Brigata.
Note
- ^ a b c d e f g h i j k Alessandro Bernasconi, Giovanni Muran, Le fortificazioni del Vallo Alpino Littorio in Alto Adige, Temi, 1999, ISBN 88-85114-18-0.
- ^ M. Boglione, pag. 20
- ^ M. Boglione, pag. 20, nota riferita a tutti e 5 i metodi costruttivi
- ^ M. Boglione, pag. 21
- ^ M. Boglione, pag. 13
- ^ D. Vaschetto, pag. 2
- ^ D. Vaschetto, pag. 3
- ^ D. Vaschetto, pag. 5
- ^ (IT) Massimo Ascoli, Capitolo Quarto - §4 Al confine con la Svizzera, in la Guardia Alla Frontiera, Roma, editore Ufficio Storico SME, 2003, pag. 171, ISBN 88-87940-36-3.«Si optò per la rimessa in efficienza e potenziamento di quelle opere ed apprestamenti che, pur realizzate nei tempi precedenti o nel corso della prima guerra mondiale erano ritenute ancora balisticamente valide e si provvide a rinforzare questo sistema difensivo con alcune strutture fortificate moderne realizzate principalmente lungo la direttrice del Gran San Bernardo e nelle zone di Iselle (NO) e Glorenza (BZ).»
- ^ Il testo completo della Circolare 200 è riportato in D. Bagnaschino, pag. 163-175
- ^ D. Vaschetto, pag. 5-6
- ^ P.G. Corino; P. Gastaldo, pag. 35
- ^ a b c d Le opere fortificate, su vecio.it. URL consultato il 22-04-2010.
- ^ Opera 3 dello Sbarramento di Fortezza sul sito della Provincia di Bolzano
- ^ a b c d e Comunicazioni pre guerra, su vecio.it. URL consultato il 22-04-2010.
- ^ a b c d e f g h Comunicazioni post guerra, su vecio.it. URL consultato il 22-04-2010.
- ^ a b c Struttura di un bunker, su vecio.it. URL consultato il 22-04-2010.
- ^ P.G. Corino, pag. 43-44
- ^ P.G. Corino, pag. 45
- ^ a b c J. Urthaler e altri, pag. 59
- ^ P.G. Corino, pag. 43
- ^ a b J. Urthaler e altri, pag. 56
- ^ J. Urthaler e altri, Sbarramento di Resia, planimetria Opera 19 (pag. 106-107) e Opera 20 (pag.108-109)
- ^ P.G. Corino, pag. 58-59
- ^ (italiano e tedesco) Josef Urthaler, Christina Niederkofler, Andrea Pozza, Bunker, editore Athesia, 2005, pp. 244 pagine, ISBN 88-8266-392-2. Lingua sconosciuta: italiano e tedesco (aiuto)
- ^ P.G. Corino, pag. 56-59
- ^ P.G. Corino, pag. 47-50
- ^ P.G. Corino, Schema di un impianto di illuminazione, pag. 48
- ^ D. Bagnaschino, pag. 45
- ^ D. Bagnaschino, pag. 45
- ^ L. e L. Marcon, Batteria B3 (Capos. Tre Croci), Batteria B1 (Capos. Rivers), Batteria B3 (Capos. Ospizio), Centro 22 e Batteria B4 (Capos. Roncia)
- ^ a b Armamenti bunker, su vecio.it. URL consultato il 22-04-2010.
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- (italiano e tedesco) Josef Urthaler, Christina Niederkofler; Andrea Pozza, Bunker, 2ª ed., editore Athesia, 2006 [2005], pp. 244 pagine, ISBN 88-8266-392-2. Lingua sconosciuta: italiano e tedesco (aiuto)
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Collegamenti esterni
- Le fortificazioni in caverna del Vallo Alpino
- Le fortificazioni del Vallo Alpino in provincia di Cuneo
- Vecio.it
- (EN) Eastern Vallo Alpino
- Vallo alpino del littorio nelle attuali Slovenia e Croazia (1920-1943)
- Storia Montagne Fortificazioni, del Cai Ligure
- (DE) Il Vallo Alpino in Alto Adige
- Bunker-pedia - alcune definizioni di termini tecnici
- La Fanteria d'arresto