Prima guerra d'indipendenza italiana
La prima guerra di indipendenza italiana è un episodio del Risorgimento italiano: rappresentò il primo dei numerosi conflitti che opposero il Regno di Sardegna (che in seguito diventerà il Regno d'Italia) all'Impero austriaco e che si sarebbero risolti, settant'anni più tardi, con la sparizione del secondo. Essa si divise in tre fasi: due campagne militari (23 marzo-9 agosto 1848, 20-24 marzo 1849), separate da un periodo di tregua durato alcuni mesi, e la repressione delle repubbliche di Roma e di Firenze, completate dalla riconquista di Venezia.
Prima guerra di indipendenza italiana | |
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Prima campagna militare
Prologo
Il 1848 registrò una serie di moti insurrezionali che ebbero luogo prima a Palermo e Messina, contro il potere borbonico, poi a Parigi, Vienna, ed infine Venezia e Milano. La popolazione veneziana risultava sempre più insofferente nei confronti del dominio austriaco, così che insorse e liberò due noti patrioti, cioè Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, che si posero a capo dell'insurrezione popolare e proclamarono la repubblica dopo aver costretto gli austriaci ad abbandonare la città. I combattimenti furono particolarmente aspri a Milano, dove il comandante dell'esercito del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo Radetzky, si vide costretto ad abbandonare la città dopo cinque giorni di furiosi scontri (Cinque giornate di Milano). Contemporaneamente si ebbero diverse manifestazioni in molte città del Regno e a Como l'intera guarnigione si consegnò agli insorti.
Appunto il giorno dopo la conclusione delle cinque giornate di Milano, del 18-22 marzo 1848, il re di Sardegna Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria ed ebbe inizio la prima guerra di indipendenza.
L'avanzata dal Ticino al Mincio
Il 23 marzo 1848 i primi contingenti dell'esercito sardo-piemontese varcarono il Ticino, seguiti dal grosso dell'esercito il 26. Si trattava di cinque divisioni che, al passaggio del Ticino, ricevettero una nuova bandiera: il tricolore.
Con una improvvisa lentezza, Carlo Alberto mosse all'inseguimento del feldmaresciallo Radetzky e, avanzando lungo la direttrice Pavia-Lodi-Crema-Brescia, lo raggiunse al di là del fiume Mincio, sotto le fortezze del quadrilatero.
In questa fase il re si giovò della partecipazione al conflitto dello Stato Pontificio, del Granducato di Toscana e del Regno delle Due Sicilie: ai circa 30.000 soldati piemontesi se ne aggiunsero 7.500 pontifici, 7.000 toscani e 16.000 napoletani. Questi ultimi il 15 maggio 1848 vennero richiamati in patria; tuttavia numerosi appartenenti ai corpi dell'artiglieria e del genio, fra cui lo stesso comandante Guglielmo Pepe, proseguirono la guerra come volontari.
La carica del 30 aprile dello Squadrone dei Reali Carabinieri di scorta al re Carlo Alberto, che aprì la strada alla battaglia di Pastrengo, non fu assolutamente decisiva ma dette morale ai Piemontesi e ai patrioti di tutta Italia. La storica carica dello Carabinieri a cavallo, e poi la battaglia di Santa Lucia, sotto le mura di Verona, il 6 maggio, ispirò un eccessivo ottimismo alle forze anti-austriache. L'esercito sabaudo, infatti, non seppe sfruttare il successo ottenuto. Respinse una controffensiva austriaca partita da Mantova, il 30 maggio nella battaglia di Goito, aiutato dall'eroica resistenza dei volontari toscani a Curtatone e Montanara, il 28. Lo stesso 30 maggio si arrese la fortezza austriaca di Peschiera. Quel giorno Carlo Alberto venne acclamato dalle sue truppe "Re d'Italia".
Uscita dal conflitto dell'esercito pontificio e dell'esercito borbonico
A questo punto, Pio IX pronunciò la famosa allocuzione Non semel al concistoro del 29 aprile, in cui sconfessò l'azione del suo esercito, nel frattempo penetrato in Veneto, su Padova e Vicenza, a copertura della città-fortezza di Venezia. Cosa ancor più grave, egli sconfessò per intero la guerra all'Austria. Il papa si trovava, infatti, nell'insostenibile imbarazzo di combattere una grande potenza cattolica ed era impaurito da un possibile scisma dei cattolici austriaci.[1] Il discorso del 29 aprile 1848 mise in evidenza le contraddizioni e le incompatibilità della posizione del Papa come capo della Chiesa Universale ed allo stesso tempo Capo di uno Stato italiano, cioè tra il potere spirituale e quello temporale.
Le truppe del Durando non gli ubbidirono, ma l'allocuzione diede l'occasione a Ferdinando II di Borbone per predisporre la ritirata dal conflitto, proprio quando le sue truppe avevano ormai raggiunto il Po ed erano in procinto di entrare in Veneto, a sostegno dell'esercito romano inviato da Pio IX.
Certamente, l'azione di Ferdinando II fu determinata dalle ambiguità di Carlo Alberto riguardo il Ducato di Parma (retto da una dinastia borbonica ma che la popolazione voleva annettere al Regno di Sardegna) e la Sicilia (sconvolta, sin da gennaio, da una rivoluzione che aveva relegato il "Regio Esercito" nella sola piazzaforte di Messina, aveva resuscitato l'antico Regno ed inviato una delegazione a Torino per offrire la Corona a un Principe sabaudo, pur senza incontrare alcun incoraggiamento da parte di Carlo Alberto). Tuttavia, è certo che egli non avrebbe potuto permettersi tanto, in assenza del passaggio di campo papale.
La guerra dei volontari
Del corpo di spedizione napoletano rifiutarono l'ordine l'artiglieria e il genio (le «armi dotte»); pertanto sotto la guida del generale Guglielmo Pepe, un vecchio patriota, e la partecipazione di giovani quali i fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo, Enrico Cosenz, Cesare Rosaroll, Alessandro Poerio, Girolamo Calà Ulloa e numerosi altri, parte del corpo di spedizione napoletano raggiunse Venezia dove diede un meraviglioso contributo lungo l'intero corso dell'assedio.
Molti altri volontari parteciparono al conflitto. Si possono ricordare: l'esercito toscano ed i moltissimi volontari inquadrati dal governo provvisorio della Lombardia, i volontari romani comandati dal generale Andrea Ferrari, ma anche moltissimi cittadini, più o meno noti, come i pittori Silvestro Lega e Pompeo Randi. Garibaldi e Mazzini rientrarono in Italia per partecipare alla guerra, ma la loro accoglienza da parte dei Savoia fu tiepida. Tanto che Garibaldi poté partecipare solo alle ultime fasi, conducendo una piccola guerriglia in provincia di Como, al confine con il Canton Ticino.
La controffensiva dell'Austria
Nel frattempo la linea del fronte restava fra il Mincio e Verona. Nessuno dei successi ottenuti da Carlo Alberto era stato decisivo e, sfruttando i timori del generale Eusebio Bava (e non assecondando l'indubbia audace capacità tattica e strategica del gen. Ettore De Sonnaz), l'esercito piemontese si limitò a tallonare da presso quello austriaco in piena ritirata dopo le Cinque giornate di Milano, con Radetzky che non faceva mistero di considerare perso il Lombardo-Veneto. L'incapacità di assumere l'iniziativa da parte piemontese dette invece modo agli austro-ungarici di ritirarsi senza perdite nel Quadrilatero, potentemente difeso. La posizione strategica di Radetzky a questo punto si era notevolmente rinforzata, anche grazie all'arrivo di un corpo d'armata formato dal conte Nugent sull'Isonzo e di altri rinforzi dal Tirolo. Ciò gli permise di riconquistare Vicenza, il 10 giugno e di riprendere l'offensiva, battendo l'esercito sardo-piemontese il 23-25 luglio in una serie di scontri passati alla storia come prima battaglia di Custoza.
Proprio il 10 giugno Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal podestà di Milano Casati, che recava l'esito trionfale del Plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al Regno di Sardegna.
La ritirata da Verona a Milano
Di lì cominciò una veloce, ma ordinata, ritirata verso l'Adda e Milano, dove si svolse, il 4 agosto la battaglia di Milano, al termine della quale Carlo Alberto si risolse a chiedere un armistizio.
L'armistizio
Il 5 agosto venne firmata la capitolazione. Il 6 agosto gli Austriaci rientrarono a Milano da Porta Romana. Il 9 agosto la tregua venne ratificata con la firma, a Vigevano, dell'armistizio di Salasco (dal nome del generale Carlo Canera di Salasco). L'Impero Austriaco rientrava nei suoi antichi confini, stabiliti nel 1815 dal congresso di Vienna. Tutte le città liberate tornavano nelle mani degli austriaci, con l'eccezione di Venezia, che si preparava a subire un lungo assedio.
Provvisorietà della tregua
Aveva così fine la prima fase moderata del '48 italiano. L'articolo 6 dell'armistizio prevedeva una durata minima di sei settimane: entrambi i contendenti principali (Carlo Alberto e Radetzky) sapevano che la tregua era temporanea, in quanto, essendo mancata una decisiva sconfitta sarda si sarebbe giunti, presto o tardi, alla ripresa delle ostilità. Il prestigio militare di Carlo Alberto era tuttavia fortemente indebolito. Al Parlamento Subalpino avevano ripreso vigore le tendenze radicali e, l'anno successivo, si sarebbe assistito alla iniziativa «democratica».
Seconda campagna militare
Le rivoluzioni democratiche a Roma e Firenze
Si aprì, quindi, un complesso periodo in cui l'intera politica italiana venne dominata alla prossima ripresa delle ostilità con l'Impero Austriaco: il governo sardo e i patrioti democratici cercavano di profittare della tregua per allineare quante più forze possibili. Persa ogni illusione rispetto a Ferdinando II delle Due Sicilie, la questione fondamentale riguardava l'atteggiamento di Firenze e Roma. Si aprì, quindi, un complesso periodo in cui l'intera politica italiana venne dominata dalla potenze straniere.
Nel Granducato le cose si erano chiarite a favore della causa nazionale quando Leopoldo II aveva, il 27 ottobre, conferito l'incarico al democratico Montanelli, che inaugurò una politica ultrademocratica, ovvero, nella terminologia politica dell'epoca, volta alla unione con gli altri stati italiani ed alla ripresa congiunta della guerra all'Austria.
Nello Stato della Chiesa, il partito democratico trionfò solo con l'assassinio di Pellegrino Rossi, il 15 novembre e la successiva fuga di Pio IX nella fortezza napoletana di Gaeta, il 24 novembre. Di lì a poco lo raggiunse Leopoldo II di Toscana, fuggito da Firenze il 30 gennaio per Gaeta, verso cui salpò anch'egli il 21 febbraio. A Roma venne costituito un governo provvisorio, che convocò nuove elezioni per il 21-22 gennaio 1849: la nuova assemblea venne inaugurata il 5 febbraio e, il 9 febbraio votò il decreto fondamentale di proclamazione della Repubblica Romana. In questo clima, il 12 dicembre entrava in Roma Garibaldi, con una legione di volontari. Giunti a Gaeta, Pio IX e Leopoldo II accettarono le offerte di protezione delle grandi potenze straniere.
La ripresa della guerra regia
Carlo Alberto ruppe la tregua con l'Austria il 20 marzo, solo per venire pesantemente sconfitto a Novara, il 22-23 marzo, ed abdicò in favore di Vittorio Emanuele II. La fine della guerra fu segnata dall'armistizio di Vignale, concordato il 24 marzo, firmato il 26 e seguito dalla pace di Milano del 6 agosto 1849.
La battaglia di Novara decise definitivamente della supremazia in Lombardia e costrinse il nuovo sovrano sardo, Vittorio Emanuele II, a concentrarsi sulla caotica situazione politica interna.
Nelle giornate successive Radetzky chiuse anche la partita con i patrioti lombardi, soffocando sul nascere alcuni tentativi di ribellione (Como) e soffocandone nel sangue altri (Brescia). Mentre continuava unicamente l'assedio di Venezia.
La nuove invasioni straniere
La strada era, quindi, libera per le nuove invasioni straniere. Il primo a muovere fu Luigi Napoleone, che il 24 aprile fece sbarcare a Civitavecchia un corpo di spedizione francese, guidato dal generale Oudinot. Questi tentò l'assalto a Roma il 30 aprile, ma venne malamente sconfitto. Ripiegò a Civitavecchia e chiese rinforzi. La strada era, quindi, libera per le nuove invasioni di Radetzky in Toscana, Emilia, Marche. Tutto ciò indusse Luigi Buonaparte, non ancora Imperatore, ad inviare contro Roma complessivamente oltre 30.000 soldati ed un possente parco d'assedio. Il 1º giugno il generale francese Oudinot, piegò dopo una lunghissima resistenza la Repubblica Romana. Stremata dall'assedio austriaco, dalla fame e da un'epidemia di colera, anche Venezia dovette alla fine arrendersi, sottoscrivendo la resa il 23 agosto 1849.
Seguì un corpo di spedizione napoletano, fermato da Garibaldi a Palestrina, il 9 maggio. Poi una prima armata austriaca, guidata dal d'Aspre, che assalì e saccheggiò Livorno l'11 maggio ed occupò Firenze il 25 maggio, seguita da una seconda, che assediò e prese Bologna il 15 maggio. Verso la fine di maggio arrivò a Gaeta un corpo di spedizione spagnolo, che giunse solo, e era stato inviato ad occupare l'Umbria, cosa che avvenne senza scontri memorabili.
L'assedio e la resa di Ancona
Gli Austriaci si diressero allora verso Ancona per occupare anche questa città che aveva aderito alla Repubblica Romana ed aveva promesso a Garibaldi concreto aiuto nel difenderla. Gli Austriaci incontrarono però un'eroica ed imprevista resistenza (premiata nel 1899 con medaglia d'oro al valor militare). L'assedio vide impegnati nella difesa di Ancona italiani provenienti da tutte le Marche e dalla Lombardia, in totale circa cinquemila uomini contro più di cinquantamila austriaci. Era chiaro che in gioco non era né la sorte di una città, ormai quasi segnata a causa della sproporzione di forze, né solo quella della Repubblica Romana; fu invece una prova di forza che gli Italiani affrontarono senza reali speranze di ottenere la vittoria, allo scopo di dimostrare l'attaccamento ai propri ideali di libertà ed indipendenza. L'assedio fu navale e terrestre contemporaneamente, e si segnalarono Antonio ed Augusto Elia, padre e figlio, molto legati a Garibaldi. Ora, a resistere agli Austriaci, in Italia erano rimaste solo Roma, Venezia ed Ancona. Dopo 26 giorni di aspri combattimenti (cadde il capitano cremonese Giovanni Gervasoni) il 21 giugno il capoluogo marchigiano deve cedere, e gli Austriaci concedono l'onore delle armi ai difensori. La brutale fucilazione di Antonio Elia mostrò che oramai Ancona aveva fatto il possibile; ora il vessillo della libertà doveva essere difeso a Roma e a Venezia
L'assedio e la resa di Roma
La necessità di riscattare la sconfitta del 30 aprile, e il desiderio di compensare i successi del Radetzky in Toscana, Emilia, Marche, indussero Luigi Buonaparte, non ancora Imperatore, ad inviare contro Roma complessivamente oltre 30.000 soldati ed un possente parco d'assedio. Il 1º giugno il generale francese Oudinot rinnegò un trattato di alleanza negoziato dal Lesseps ed annunciò la ripresa delle ostilità: Roma venne assaltata all'alba del 3 giugno. La resistenza fu assai più ostica del previsto, nonostante i duri bombardamenti, tanto da ottenere la resa della Repubblica solo il 2 luglio.
Lo stesso giorno Garibaldi radunò in piazza San Pietro 4.700 volontari ed uscì verso est con il vago intento di sollevare le province per poiraggiungere Venezia assediata; venne inseguito dal d'Aspre sino a Comacchio, perse la moglie, fuggì miracolosamente sino in Liguria e, di lì, nel 1850 passò a New York presso Antonio Meucci.
L'assedio e la resa di Venezia
Dopo la resa di Ancona e di Roma, la città di Venezia rimase l'ultima a non aver ancora ceduto ai nemici dell'indipendenza italiana. Gli Austriaci avevano tentato di avvicinarsi alla città lagunare lungo il ponte della ferrovia, ma, a causa della forte resistenza, furono costretti a retrocedere. Iniziarono allora un pesante bombardamento contro la città stessa. Una prima richiesta di resa da parte del comandante in capo delle forze austriache, feldmaresciallo Radetzky, fu sdegnosamente respinta. Dopo lunghissima resistenza, ultima tra tutte le città italiane, stremata anche dalla fame e da un'epidemia di colera, dovette infine arrendersi, sottoscrivendo la resa il 23 agosto 1849.
Note
- ^ Come scrive lo stesso Pontefice nella allocuzione: Sapemmo altresì che alcuni nemici della religione cattolica ne presero occasione ad infiammare gli animi dei Germani nel fervore della vendetta dall'unità di questa Santa Sede, cit. in Lucio Villari, Il Risorgimento, vol. 4, Bari, 2007.
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