«Verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto»

La verità processuale è l'insieme dei giudizi formulati seguendo le regole del diritto processuale. Non necessariamente corrisponde alla verità in senso assoluto.

Il rispetto delle regole è finalizzato al rispetto dei diritti: se le regole vengono violate, il risultato non potrà concorrere a formare la verità processuale. Alcune violazioni debbono essere rilevate entro termini molto stretti e solo su impulso di parte, mentre altre sono rilevabili anche al giudice e senza limiti temporali (invalidità dell'atto processuale penale).

Per esempio, il codice di procedura penale, all'articolo 188[1] (“libertà morale della persona nell’assunzione della prova”) stabilisce che non è ammessa la tortura dell'interrogato. Se tale regola viene violata, anche se l'interrogato confessa un crimine, la confessione non è utilizzabile e dunque non può concorrere a formare la base della verità processuale (pure nel caso in cui il fatto confessato fosse realmente accaduto nei termini e modi descritti). Infatti, "la prova, per risultare idonea all'accertamento dei fatti, non può prescindere da forme volte a garantire genuinità e affidabilità sicura".[2]

In più casi la sentenza stabilisce una verità processuale diversa da quanto in realtà accaduto: la prescrizione, per esempio, è una formula di assoluzione nonostante accerti la responsabilità per i fatti ascritti.

La non necessaria corrispondenza tra verità processuale e realtà è uno degli argomenti principe contro la pena di morte: l'esito del processo (verità processuale, per l'appunto) può essere infatti influenzato da numerosi fattori che divergono dall'effettivo svolgimento dei fatti, e una tal pena risulterebbe perciò spropositata - e irreversibile - all'eventuale fatto commesso.

Il processo penale, dunque, non può che accertare la sola verità processuale.

Note

  1. ^ Codice di procedura penale, Art. 188
  2. ^ Cassazione penale, sez. VI, 1 marzo 1993

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