Microarray di DNA

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È una tecnica di ibridazione inversa, consiste cioè nel fissare tutti i probe su un supporto e nel marcare invece l'acido nucleico target. È una tecnica che è stata sviluppata negli anni '90, il primo lavoro con l'uso dei microarray per profili di espressione genica fu pubblicato nel 1995 su Science; oggi permette l'analisi dell'espressione genica monitorando in una sola volta gli RNA prodotti da migliaia di geni. I microarray sono praticamente dei vetrini da microscopio sui quali sono presenti un grande numero di frammenti di Dna, ciascuno contenente una sequenza nucleotidica che serve da sonda per un gene specifico. Per studiare gli mRNA, essi vengono prima estratti dalle cellule, convertiti in cDna e allo stesso momento marcati con una sonda fluorescente. Quando si fa avvenire l'ibridazione fra la sonda presente sul vetrino e il cDna target, quest'ultimo rimarrà legato alla sonda e può essere identificato semplicemente rilevando la posizione dove è rimasto legato. Le principali applicazioni dei microarray sono l'analisi dei polimorfismi SNP, il confronto di popolazioni di RNA di cellule diverse e l'utilizzo per nuove metodologie di sequenziamento del Dna. I microarray e i chip sono due diversi tipi di matrici; in ambedue i casi una grande quantità di sonde di Dna, con sequenze diverse, vengono fissate in un posto definito su una superficie solida, quindi è conosciuta la sequenza esatta e la posizione di ogni sonda sul vetrino o sul chip. La differenza fra i chip e i microarray dipende essenzialmente dalla tecnica usata per la stampa delle sonde sul tipo di microarray. Microarray: in questo caso si tratta di acidi nucleici pre-sintetizzati, spesso derivati da una collezione di cDna amplificati per PCR. Ogni singolo clone viene posizionato nell'esatta locazione sul vetrino da un robot. È evidente che questa tecnica richiede apparecchiature robotiche molto sofisticate. Il nucleo dell'apparecchiatura è costituito da una "gruppo scrivente" che preleva un o più campioni di cDna mediante l'utilizzo di pennini e li trasferisce su vetrini per microscopio, il movimento è ovviamente controllato da un computer. Durante la deposizione il sistema di controllo del robot registra automaticamente tutte le informazioni necessarie alla caratterizzazione ed alla completa identificazione di ciascun punto della matrice. Una volta che la sonda è sul vetrino si effettua il processing, il passaggio cioè in cui la sonda viene legata covalentemente al supporto attraverso una reazione innescata dall'irraggiamento con luce ultravioletta o incubando il vetrino a 80 °C per 2 h. Infine il cDna viene reso a singola catena attraverso una denaturazione termica o chimica. Con questa tecnica però era possibile creare solo microarray a bassa densità (ovvero con poche sonde per mm quadrati). Inizialmente si usavano come sonde librerie di cDna, ma questo causava dei problemi, poiché molte librerie usate per i cDna erano contaminate, inoltre, i cDna essendo di lunghezza variabile legavano in maniera diversa i filamenti dando vita a segnali diversi. Per questo oggi è possibile comprare vetrini ad alta densità, dalle ditte specializzate, con qualsiasi parte di tutto il genoma. Questi microarray presentano oligonucleotidi della lunghezza ideale, cioè 60 nucleotidi e per questo sono detti sessantimeri e solitamente presentano l'analogia col 3' del gene da analizzare. Chip: in questo caso gli oligonucleotidi sono sintetizzati in situ, questa tecnica è stata utilizzata per prima ed è stata brevettata dall'Affymetrix, utilizzando una tecnica detta fotolitografia, con la quale è possibile sintetizzare molte migliaia di differenti oligonucleotidi sulla superficie di un vetrino. I nucleotidi che formeranno gli oligonucleotidi sono degli nucleotidi modificati che presentano un gruppo protettivo fotolabile, che finché è presente non permette loro di legarsi all'oligonucleotide in crescita. Questo gruppo può essere distrutto con una fonte luminosa e permette quindi ai nucleotidi di reagire. Si usa una "maschera" per determinare quale nucleotidi in quale posizione devono essere attivati dalla luce. In questa maniera sequenze oligonucleotidiche specifiche possono essere costruite in posizioni predeterminate. Questa tecnica permette di preparare microarray ad alta densità. Anche se questa tecnica di sintesi è molto accurata, la massima lunghezza degli oligonucleotidi che è possibile raggiungere è di 25 nucleotidi, ma oligonucleotidi di queste dimensioni non sono sufficienti a dare specificità al microarray, per questo servono almeno 3 oligonucleotidi che legano un gene, e altri 3 oligonucleotidi che presentano un mismatch che serviranno da controllo negativo. Per cui le analisi di un singolo gene richiedono lo studio di sei spot che devono avere come risultato: i tre oligonucleotidi corretti, positivi, mentre i tre oligonucleotidi con il mismatch, negativi. Inoltre ogni volta bisogna fare un chip per il controllo e uno del soggetto da analizzare, perché non si può effettuare un'ibridazione per competizione. Sui microarray a bassa densità solitamente si usavano marcatori radioattivi, questo tipo di marcatori però non permettono una risoluzione sufficientemente elevata per i chip ad alta densità, con i quali è necessario utilizzare marcatori fluorescenti. Una volta che il microarray è stato costruito o comprato e il campione di acidi nucleici da analizzare è stato isolato si fa avvenire la reazione di ibridazione, che permette la formazione degli eteroduplex. Per ottenere dei buoni microarray è essenziale difenderli dall'umidità (se l'ambiente è secco la soluzione evapora, se invece è umido si deposita dell'acqua) e dalla polvere (ogni spot è grande circa 50 micron,un granello di polvere e più grande di 50 micron, per cui può coprire vari spot), per questo motivo esistono delle camere apposite per l'ibridazione dei microarray che vengono sigillate. Dopo l'ibridazione il microarray viene lavato per rimuovere il cDna che non si è legato. Generalmente il Dna fluorescente dei campioni sperimentali è mescolato con un Dna di un soggetto di controllo marcato con un colorante fluorescente diverso. Per i microarray si usano solitamente Cy3 (che emette una lunghezza d'onda nel campo del verde) e Cy5 (che emette nel campo del rosso). In questo modo se la quantità di RNA espressa da un gene nelle cellule di interesse è aumentata (up regolata) rispetto a quella del campione di riferimento, lo spot che ne risulta sarà del colore del primo fluorescente. Viceversa se l'espressione del gene è diminuita (down regolata) rispetto al campione di riferimento lo spot sarà colorato dal secondo fluorescente. La fluorescenza è rilevata poi grazie ad uno scanner a laser, grazie al quale si acquisisce un'immagine per ogni fluoroforo. Poi vengono usati dei software appositi per convertire i segnali in una gamma di colori dipendente dalla loro intensità. Il segnale rilevato dallo scanner viene poi sottoposto ad altri algoritmi di filtrazione e di pulizia e convertito in valori numerici. Il principale problema dei microarray e la mancanza di standardizzazione, che causa difficoltà nel confronto di dati; inoltre, se oggi con questa tecnica è possibile analizzare i livelli di espressione di un singolo gene ottenendo degli ottimi risultati, la combinazione dello studio di molte migliaia di geni risulta molto complicato e può portare spesso a dei falsi positivi, questo accade anche a causa del fatto che alcuni cDna possono cross-ibridare altre sonde (che avrebbero dovuto rilevare altri geni). Un altro problema è presentato dai fluorofori, che nonostante siano molto simili fra loro presentano delle differenze problematiche. Esista una diversa efficienza di fluorescenza tra Cy3 e Cy5 che deve essere standardizzata dai software di rilevazione, inoltre poiché Cy3 è più piccolo di Cy5, c'è un diverso livello di incorporazione del due fluorofori, in quanto la polimerasi presenta più difficoltà a inserire il nucleotide marcato con Cy5 a causa dell'ingombro sterico; come se non bastasse Cy5 si presenta più labile di Cy3, quindi una prima scansione di Cy3 con il laser potrebbe ridurre la fluorescenza di Cy5. Per ovviare a tutte questa problematiche e per creare un minimo di standardizzazione si effettua il Die swap: consiste nel effettuare un secondo microarray scambiando l'uso dei fluorofori. Se nel primo microarray Cy3 è stato usato per marcare il cDna sperimentale, nel secondo microarray si userà Cy3 per marcare il cDna del soggetto di controllo, e viceversa per Cy5.

Protein Microarray Si ottengono utilizzando differenti proteine, fissate su microarray, come sonde. I protein microarray sono usati per identificare le interazioni proteina-proteina o, ad esempio, per identificare i substrati delle proteine chinasi o ancora per identificare gli obiettivi di piccole molecole biologicamente attive. Le proteine più comunemente usate durante un protein microarray sono gli anticorpi monoclonali, dove gli anticorpi sono stampati sul vetrino e usati come sonde per rilevare le proteine del lisato cellulare. L'uso di anticorpi monoclonali però creano alcuni problemi, compreso il fatto che non esistono anticorpi per la maggior parte delle proteine. Più recentemente ci si sta spingendo verso altri tipi di molecole da usare come sonde, quali peptidi di piccole, medie e grandi dimensioni. Tuttavia, oggi gli anticorpi rappresentano ancora la sonda più efficace per i protein microarray. I protein microarray (detti anche biochip, proteinchip) sono utilizzati nelle applicazioni biomediche per determinare la presenza e/o la quantità di proteine in campioni biologici, ad esempio nel sangue. Anche se i protein microarray usano metodi di rilevazione simili ai DNA microarray, i protein microarray presentano un altro problema: le concentrazioni delle proteine in un campione biologico può presentare molti ordini di grandezza di differenza da quello degli mRNA. Di conseguenza, i metodi di rilevazione dei protein microarray devono avere una gamma molto più vasta di rilevazione. Comunque il metodo preferito di rilevazione è ancora la rilevazione per fluorescenza, poiché è sicuro, sensibile e può dare alte risoluzioni.