Pace

condizione personale, sociale, relazionale, politica caratterizzata da armonia e assenza di tensioni e conflitti

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Simbolo della pace. Il CND è nato nel 1958, creata da un artista e designer britannico, Gerald Holtom, come simbolo della Campagna per il Disarmo Nucleare per diventare poi simbolo dell'antimilitarismo negli anni sessanta. Rappresenta la sovrapposizione delle lettere N e D (Nuclear Disarmament) dell'alfabeto semaforico
Bandiera della pace, nata in Italia negli anni sessanta e diffusa soprattutto durante la campagna contro l'invasione dell'Iraq.
La bandiera arcobaleno priva della scritta PACE e con l'ordine dei colori invertiti è mondialmente conosciuta come il simbolo del gay pride

La pace è una condizione sociale, relazionale, politica o legata ad altri contesti caratterizzata da condivisa armonia ed assenza di tensioni e conflitti.

Il termine deriva dal latino pax (il quale a sua volta deriva dalla radice della lingua sanscrita paç = pak-, pag- fissare, patuire,[1] legare, unire, saldare[2]; alla quale sono legate anche pagare[3] e pacare[4]) ed è il contrapposto di bellum (guerra) in senso politico e sociologico, ovvero dello stato dei rapporti tra individui o gruppi di individui. Trattandosi di uno dei concetti più antichi e profondi in senso antropologico il termine ha quindi assunto significati più estensivi e generali, compresi verbi come appacificare e rappacificare, con i relativi riflessivi: appacificarsi e rappacificarsi.

Per ulteriore estensione semantica, il concetto di pace come "non-turbamento" è poi passato dai campi sociologico e politico a quello individuale in senso spiccatamente psicologico, assumendo il significato di pace dell'anima o pace interiore, uno stato di quiete o tranquillità dell'animo umano percepita come assenza di turbamenti e agitazione. Tale pace interiore (o dell'animo) ben risponde agii antichi concetti di eutimìa (in Democrito), di aponìa (in Epicuro), di atarassia (negli Stoici), di eireneusi in etiche recenti.

Più specificatamente, la pace viene considerata (o dovrebbe essere considerata, secondo l'opinione corrente) un valore universalmente riconosciuto che sia in grado di superare qualsiasi barriera sociale e/o religiosa ed ogni pregiudizio ideologico, in modo da evitare situazioni di conflitto fra due o più persone, due o più gruppi, due o più nazioni, due o più religioni[5].

La pace nelle opere degli storici e dei filosofi antichi

Antica Grecia

Secondo Eraclito non può esistere una pace totale, assoluta ed eterna. Esiste una pace perché prima si è verificata una guerra, ed il fatto che ci siano la pace e la guerra crea l'armonia nel divenire. La guerra viene intesa come indispensabile strumento per la più generale arte politica: "Polemos (la guerra) è padre di tutte le cose".

Platone intende la guerra non come qualcosa di negativo o condannabile ma come elemento che partecipa dell'attività di governo e quindi al mantenimento dell'ordine e della pace all'interno della polis. Platone sottolinea la naturalità e, quindi, la non eliminabilità definitiva della guerra.

Il concetto platonico esprime una tipica ottica globale, che non abbraccia il solo orizzonte politico ma si estende anche alla sfera etica e morale. Nel mondo greco antico la pace non era, infatti, da intendersi come la semplice astensione dal conflitto militare o una sua cessazione, ma veniva sempre strettamente associata a concetti che ne esprimono bene le altre dimensioni citate: tale associazione è presente già in età arcaica quando, in Esiodo[6], la sua personificazione, Eirene, è associata a Eunomia (il buon governo) e a Diche (giustizia), tutte figure delle Ore figlie di Themis. Interessante è anche l'associazione con Pluto, che, in braccio a Eirene e con sembianze di bambino, personifica l'abbondanza recata dalla pace. L'iconografia è famosa per una raffigurazione di Cefisodoto, padre di Prassitele, una cui statua, posta sull'acropoli di Atene, offriva la scena del bambino portato in braccio che accarezzava il volto della dea. Una significativa ripresa è nella commedia Eirene di Aristofane.

Sempre nella stessa ottica etico-politica si muoveva Aristotele quando, nel sesto libro della Poetica, indicava la pace come il fine ultimo della polis ideale, al cui conseguimento doveva essere indirizzata e conformata l'educazione politica del cittadino.

È lo stesso quadro delle relazioni politiche internazionali, maturato nel IV secolo a.C. a promuovere un'evoluzione del concetto di pace, quando questa, a seguito dei contatti più stretti con l'oriente persiano, non poteva essere più ricondotta alla dimensione delle relazioni tra le sole polis o, addirittura, all'angusto ambito dei rapporti interni alla singola polis: è il concetto della pace comune (Koinè eiréne), un obiettivo tendenzialmente stabile e duraturo, che acquisiva il suo senso in una logica multilaterale nel quale si componessero e bilanciassero gli interessi di un ambito di comunità più ampio di quelle in conflitto, venendo garantita in maniera anche coercitiva da un organismo sovraordinato alle singole individualità comunitarie. L'esempio proveniente dal IV secolo a.C. è quello della Pace del Re, ma il prototipo di questo tipo di relazioni può essere rintracciato nella genesi di quelle embrionali associazioni multilaterali che evolveranno nel fenomeno delle Anfizionie.

Mondo romano

Storicamente la prima enunciazione del concetto di pace in ambito romano risale a Cicerone, che all'inizio del I secolo a.C. la definiva come "tranquilla libertas" nelle Filippiche (II, 44, 113). Questa definizione si sovrapponeva a quella platonica e a quella aristotelica per costituire il punto di vista romano in generale, ma in senso politico prevaleva il significato espresso dal celebra adagio: si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra. Successivamente verrà coniata l'espressione pax romana per indicare l'assenza di conflitti nell'impero e ai suoi margini, grazie alla messa in pace manu militari delle regioni di conquista.

Lo storico Publio Cornelio Tacito, uno dei più grandi dell'antichità, visse al tempo della più ferrea applicazione del concetto di pax romana, quella ottenuta attraverso la sottomissione dei popoli bellicosi e la riduzione di essi all'impotenza. Il seguente brano è tratto dalla Vita di Agricola, in cui lo storico riporta le presunte parole di Calgaco (Calgax) capo dei Britanni nell'ultimo tentativo di questi di opporsi alla conquista di Roma. Calgaco si sta rivolgendo ai suoi guerrieri prima dello scontro.[7]

(latino)
«Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant»
(italiano)
«Rubare, trucidare, rapinare con falso nome chiamano impero, e dove fanno il deserto, la chiamano pace»

La pace e le religioni

L'induismo

In lingua indù la traduzione di pace è Shanti.

L'ebraismo

L'Antico Testamento

Nell'Antico Testamento, la pace si esprime con la parola shalom (שלום). Questa parola va considerata e compresa in rapporto al contesto in cui viveva il popolo ebraico, che per la maggior parte della sua storia antica si è trovato in una sofferta lotta per la sopravvivenza, minacciato e minacciando continuamente di aggressione e schiavitù qualche popolo vicino.

Ciò avveniva sia nell'epoca più antica, quando gli ebrei erano un popolo nomade o seminomade, sia più tardi, quando, a partire dal XII secolo a.C., essi si stanziarono in città e villaggi.

Quando nell'antico testamento si legge la parola pace, bisogna pensare a una situazione ideale dove il popolo può vivere in tranquillità, senza minacce esterne. La pace favorisce lo sviluppo delle attività umane e il servizio di Yahweh.

I profeti che annunciano i tempi del messia (per esempio Isaia 11,6) amano descrivere la pace in termini paradisiaci, dove persino tra gli animali non ci sarà la lotta per la sopravvivenza...

L'insegnamento di Cristo e il Nuovo Testamento

 
La pace nella simbologia cristiana

Gesù Cristo resuscitato si presenta agli apostoli la sera dello stesso giorno di Pasqua e dice loro: "La pace sia con voi" (Giovanni 20,21). Questa pace è la piena comunione con Dio, frutto del sacrificio redentore di Gesù. Gesù predica l'avvento del Regno di Dio: il Padre offre agli uomini la salvezza promessa dai profeti; è necessario prendere una decisione e aderire alla sua persona e coinvolgersi nell'annuncio della buona notizia.

In questo contesto, per Gesù, il valore della fedeltà e della testimonianza alla sua persona è più importante che il valore della pace.

Sebbene viva in un momento di dominazione straniera, Gesù non si schiera né con i patrioti né con i collaborazionisti. Piuttosto invita tutti a essere fedeli a Dio. Sembra che riguardo alla pace voglia dire: non importa la situazione esterna, quanto la fedeltà a Dio che chiama.

Per questo, usando una forma di esprimersi per contrapposizioni comune nel suo tempo, Gesù afferma che non è venuto a portare la pace, ma la guerra[8], e che i primi nemici dell'uomo saranno i suoi stessi familiari. Con questo intende dire che non si può sacrificare la fedeltà alla parola e alla chiamata di Dio per non entrare in conflitto con la propria famiglia.

La pace e le tre maggiori confessioni del Cristianesimo (cattolica, ortodossa, protestante)

I Papi nel Novecento

La presa di Roma nel 1870 e la conseguente perdita del potere temporale da parte del Papa mise fine alla impressionante serie di guerre intestine e imprese militari di cui fu protagonista lo Stato Pontificio dal primo Medioevo al Rinascimento. La corruzione politica e la dissoluzione morale di papi emblematici quali Bonifacio VIII, Alessandro VI e Giulio II fece posto a figure più spirituali. Forse in questo è il seme che porterà alle tante nette e inequivocabili prese di posizione in favore della pace da parte dei papi nel Novecento.

«[La guerra è] una inutile strage.»

Celeberrimo il discorso radiofonico di Pio XII del 24 agosto 1939 e la sua presa di posizione contro la guerra imminente.

«Tutto è perduto con la guerra, niente è perduto con la pace.»

È però doveroso dire che la difficoltà e l'importanza cruciale delle scelte connaturate all'attraversamento, durante il suo pontificato, di un periodo storico caratterizzato da scontri ideologici e militari tra i più duri che la storia ricordi, non potevano che porre Pio XII al centro d'una controversia storiografica - ben lungi dall'esser conclusa - e di aspre critiche e polemiche relative al suo operato.

Giovanni XXIII scrisse l'enciclica Pacem in Terris, dedicata al tema della pace.

Papa Paolo VI ha osservato nell'enciclica Populorum Progressio (26 marzo 1967) che la pace è legata alla giustizia (n. 5). Per questo, dice, ha creato la Pontificia Commissione Giustizia e Pace:

«Infine, recentemente, nel desiderio di rispondere al voto del concilio e di volgere in forma concreta l'apporto della Santa Sede a questa grande causa dei popoli in via di sviluppo, abbiamo ritenuto che facesse parte del Nostro dovere il creare presso gli organismi centrali della chiesa una commissione pontificia che avesse il compito di «suscitare in tutto il popolo di Dio la piena conoscenza del ruolo che i tempi attuali reclamano da lui, in modo da promuovere il progresso dei popoli più poveri, da favorire la giustizia sociale tra le nazioni, da offrire a quelle che sono meno sviluppate un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso»[9]. «Giustizia e pace» è il suo nome e il suo programma. Noi pensiamo che su tale programma possano e debbano convenire, assieme ai Nostri figli cattolici e ai fratelli cristiani, gli uomini di buona volontà. È dunque a tutti che Noi oggi rivolgiamo questo appello solenne a un'azione concertata per lo sviluppo integrale dell'uomo e lo sviluppo solidale dell'umanità.»

La stessa enciclica aggiunge più avanti un altro importante elemento: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace" (n. 76):

«Le disuguaglianze economiche, sociali e culturali troppo grandi tra popolo e popolo provocano tensioni e discordie, e mettono in pericolo la pace. Come dicevamo ai padri conciliari al ritorno dal nostro viaggio di pace all'ONU: «La condizione delle popolazioni in via di sviluppo deve formare l'oggetto della nostra considerazione; diciamo meglio, la nostra carità per i poveri che si trovano nel mondo - e sono legione ìnfinita - deve divenire più attenta, più attiva, più generosa»[10]. Combattere la miseria e lottare contro l'ingiustizia, è promuovere, insieme con il miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell'umanità. La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini.[11]»

Per Paolo VI è chiaro che non ci può essere pace finché non ci sia giustizia e possibilità di un sano sviluppo per tutti i popoli.

«Mai più la guerra!»

Infine Paolo VI nel 1967 ha istituito la Giornata Mondiale della Pace invitando i cristiani a pregare per questo scopo il 1º gennaio di ogni anno.

Giovanni Paolo II ha più volte alzato la voce sull'inutilità della guerra e sulla necessità del dialogo per risolvere i conflitti tra le nazioni.

Riflessione teologica

Secondo la fede cristiana, la pace è il dono offerto agli uomini dal Signore risorto ed è il frutto della vita nuova inaugurata dalla sua resurrezione. La pace, pertanto, si identifica come "novità" immessa nella storia dalla Pasqua di Cristo. Essa nasce da un profondo rinnovamento del cuore dell'uomo.

È un dono da accogliere con generosità, da custodire con cura, e da far fruttificare con maturità e responsabilità. Per quanto travagliate siano le situazioni e forti le tensioni e i conflitti, nulla può resistere all'efficace rinnovamento portato dal Cristo risorto.

Cristo è la pace di tutti gli uomini. Con la morte in croce, Cristo ha riconciliato l'umanità con Dio e ha posto le basi nel mondo di una fraterna convivenza fra tutti.

I credenti sperimentano la potenza rinnovatrice del suo perdono. La misericordia divina apre il cuore al perdono verso i fratelli, ed è con il perdono offerto e ricevuto che si costruisce la pace nelle famiglie e in ogni altro ambiente di vita.

L'Islam

La radice della parola Islam è silm, il cui significato è pace. Il Corano descrive la sua via come la via della pace (5:16); la riconciliazione è presentata come la strada migliore (4:128) ed è scritto che Allah aborrisce tutto ciò che disturba la pace (2:205). Secondo il Corano, uno dei nomi di Allah è As-Salam, che significa pace, e la società ideale è Dar as-Salam, la dimora della pace (10:25). Il Corano presenta l'universo come un modello caratterizzato da armonia e pace (36:40). Quando Allah creò il cielo e la terra, fece le cose in modo che ogni elemento potesse assolvere alla sua funzione pacificamente, senza scontrarsi con gli altri elementi. "Al sole non è permesso sorpassare la luna e la notte non può venire al posto del giorno. Ogni cosa segue il suo cammino." (36:40)

I musulmani ortodossi credono che l'uomo sia nato in uno stato di islam (sottomissione a Dio) che comporta pace, amore e purezza. Il contatto con l'impuro che è nel mondo insieme con l'influsso di Shaytan (Satana) e dei Jinn (il maligno) allontanano l'uomo dalla purezza dell'Islam. Per questo motivo un credente musulmano deve praticare la dawah (l'invito), ossia invitare gli infedeli verso l'Islam e farli partecipi del messaggio di pace e giustizia attraverso la diffusione della verità rivelata da Allah nel Corano e dall'adīth, ossia dalla tradizione narrativa della vita del profeta Maometto.

Secondo una interpretazione moderata del Corano, è chiaramente detto che la guerra di aggressione non è permessa nell'Islam. Un Musulmano può quindi intraprendere solo una guerra difensiva, mai offensiva (2:190). In obbedienza a questo precetto, la pace è la regola mentre la guerra è l'eccezione. Nemmeno la necessità di rispondere ad un atto di aggressione è sufficiente ad un Musulmano per intraprendere una guerra. Egli dovrà considerare l'intera situazione e, se non è sicuro del risultato di una possibile guerra, dovrà adottare una condotta volta ad evitare la violenza. Quindi anche in caso di difesa, se il risultato è dubbio, un Musulmano dovrà evitare la guerra.

D'altra parte, il concetto di jihad (lotta) è uno degli insegnamenti più importanti dell'Islam. Ma la parola jihad non è per nulla sinonimo di guerra visto che un'altra parola, "qital", è usata nel Corano invece di jihad per indicare la lotta violenta. In realtà jihad significa lotta pacifica, finalizzata alla pratica della dawah. È scritto nel Corano: Fai una grande jihad con l'aiuto del Corano (25:52). Ma il Corano è soltanto un libro, non certo una spada, quindi il vero significato della frase è "lotta con tutta la forza della tua fede e la potenza dei precetti del Corano". Infatti, jihad è solo un altro modo di indicare un attivismo pacifico, il quale è la sola arma attraverso cui l'Islam vuole raggiungere tutti i suoi scopi ed obiettivi. Secondo l'esplicito insegnamento del Corano, la vocazione verso Allah è la vera ed eterna missione dell'Islam, laddove la guerra è un qualcosa di temporaneo ed eccezionale.

Secondo l'Islam, la pace non è semplicemente l'assenza di guerra. Infatti lo svolgimento pianificato delle attività umane è possibile solo in uno stato di pace, da cui l'importanza della riconciliazione. Allo stesso modo il profeta Maometto ha osservato: "Allah riconosce alla mitezza ciò che non riconosce alla violenza. (Sunan Abu Dawud 4/255)

Alcuni legano la giustizia alla pace ma questa non è la visione dell'Islam, che crede nella pace per amore della pace stessa. La giustizia non è quindi il risultato diretto della pace poiché la pace crea solo l'ambiente adatto nel quale lavorare per la giustizia.

L'insegnamento di Bahá'u'lláh

Bahá'u'lláh (il cui nome in persiano significa "la gloria di Dio"; morto nel 1892) fu il profeta e fondatore della religione chiamata Bahaismo.

Il principio fondamentale della Fede Bahá'í è che la verità religiosa non sia assoluta, ma relativa: c'è un unico Dio inconoscibile, che progressivamente si rivela all'umanità attraverso il suo verbo che si manifesta nei vari messaggeri divini. Tutte le religioni sono viste come stadi della rivelazione della volontà e degli scopi di Dio, i loro insegnamenti sono sfaccettature di un'unica verità.

Lo scopo ultimo della religione bahá'í è l'unità del genere umano e la pace universale. Dice Bahá'u'lláh: "La Terra è un solo paese e l'umanità i suoi cittadini". La fede tende all'instaurazione di una comunità mondiale in cui tutte le religioni, razze, credenze e classi siano strettamente e definitivamente unite. Secondo Bahá'u'lláh una società globale per poter fiorire deve basarsi su certi principi fondamentali, che includono: la libera indipendente ricerca della verità, l'eliminazione di tutte le forme di pregiudizio; piena parità di diritti tra uomo e donna; riconoscimento della unicità essenziale delle grandi religioni mondiali; unicità di Dio, eliminazione degli estremi di povertà e ricchezza; istruzione universale; armonia tra religione e scienza; equilibrio sostenibile tra natura e tecnologia; una lingua ausiliaria universale e lo stabilirsi di un sistema federativo mondiale, basato sulla sicurezza collettiva.

Seguendo il suo insegnamento, Shoghi Effendi (1897 - 1957) definì la sua epoca come l'Età formativa, coincidente con l'emergere della religione bahá'í dall'oscurità e l'espansione del credo in tutto il mondo. L'Età formativa sarebbe seguita da una situazione di crisi mondiale tale da costringere i popoli e le nazioni a rivedere i loro concetti di politica internazionale fondando una confederazione mondiale, dotata di vero governo mondiale espressione di un vero parlamento mondiale eletto dai popoli del mondo e non dai loro governi, e dotata, inoltre, di un tribunale internazionale per dirimere le contese di interessi tra nazioni ed evitare la guerra con sentenze vincolanti fatte valere da uno stabile esercito mondiale con totale abolizione degli eserciti nazionali da esso sostituiti; questa situazione di unità confederale mondiale e semplice cessazione della guerra è definita "Pace Minore" a cui poi, nei secoli, seguirà una futura età d'oro in cui la religione bahá'í sarà abbracciata dalla maggioranza delle persone in un gran numero di stati confederati del mondo e che viene chiamata "Pace Maggiore" e nella quale l'unità mondiale non sarà solo istituzionale e confederale ma anche sentita dai popoli come parte ed espressione dell'unità divina.

La pace nelle opere degli storici e dei filosofi moderni

Illuminismo

Immanuel Kant

Immanuel Kant (17241804) è stato uno dei più grandi filosofi della storia. La sua concezione della storia deriva dalle concezioni illuministe della storia considerata universale, appartenente a tutti gli uomini senza distinzioni, a prescindere dalle singole storie delle singole nazioni.

La riflessione kantiana sulla storia trova un approfondimento nello scritto Per la pace perpetua (Zum ewigen Frieden) [1], un progetto filosofico del 1795 nel quadro della situazione storica del tempo profondamente mutata con lo scoppio della Rivoluzione Francese. In essa il filosofo propone una struttura mondiale che dovrebbe favorire la pace, organizzata sulla base di tre articoli, che riguardano rispettivamente il diritto pubblico interno, il diritto internazionale e il diritto chiamato da Kant cosmopolitico. Quest'ultimo definisca i diritti nei rapporti degli stati fra loro e con i singoli individui all'interno di uno stato sovranazionale detto civitas gentium.

  1. la costituzione di ogni stato deve essere repubblicana
  2. il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi stati
  3. il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell'ospitalità universale (cioè al diritto per ciascuno di muoversi liberamente e proporre relazioni commerciali con i cittadini di altri stati, come passo preliminare per l'istituzione di una costituzione civile mondiale)
«La guerra è il male peggiore che affligge la società umana ed è fonte di ogni male e di ogni corruzione morale.[…] Ad essa non è possibile fornire una cura assoluta e immediata.»

Paul Henri Thiry d'Holbach

Tra gli illuministi, anche il barone Paul Henri Thiry d'Holbach esprime una dura critica alla guerra offensiva (ammette invece la difesa armata da aggressioni), che considera un retaggio dei tempi barbari. Egli è ateo, e motiva la sua scelta non su motivi religiosi ma tramite l'uso della ragione: la guerra è un'ingiustizia, l'esercito va fortemente ridimensionato, poiché anche in tempo di pace i militari rappresentano una minaccia per i cittadini, spesso costretti anche ad arruolarsi, essendo usati anche per reprimere le proteste. Il filosofo francese d'origine tedesca è uno dei primi antimilitaristi moderni.

Successivi

Bertrand Russell

Bertrand Russell fu un convinto pacifista. Si oppose alla partecipazione del Regno Unito alla prima guerra mondiale. Per la sua posizione fu prima allontanato e poi perse la cattedra al Trinity College dell'Università di Cambridge; infine fu incarcerato per sei mesi. Negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, Russell fu fautore di una politica di pacificazione, ma alla fine riconobbe che Hitler doveva essere combattuto.

Russell chiamò la sua posizione "pacifismo relativo": egli riteneva che la guerra fosse un male, ma anche che, in circostanze estreme (ad esempio, quando Hitler minacciava di occupare l'Europa intera), la guerra stessa potesse essere il male minore.

A partire dagli anni cinquanta Russell, dopo avere sostenuto in una conferenza pubblica del 1948 la necessità di un attacco nucleare preventivo contro l'Unione Sovietica, divenne assieme a Albert Einstein un sostenitore autorevole del disarmo nucleare. Nel 1961 Russell fu processato e condannato a una settimana di prigione in seguito a una manifestazione a Londra contro il proliferare delle armi nucleari. La guerra in Vietnam fu l'ultimo obiettivo polemico del pacifismo di Russell, che insieme a Jean-Paul Sartre fondò il tribunale che prese il suo nome per processare gli Stati Uniti per crimini di guerra.

La pace e i grandi personaggi del Novecento

Mahatma Gandhi

Sul finire del 1800[12] in India sorgono i primi movimenti per ottenere l'indipendenza dall'Inghilterra a capo dei quali si pone Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma (in sanscrito significa Grande Anima, soprannome datogli dal poeta indiano Tagore). Gandhi, fortemente influenzato dall'induismo e dalla pratica del giainismo i quali diffondono da sempre il concetto di non-violenza, guida le diverse anime dell'India nella rivolta agli inglesi con due sole armi: la "non collaborazione" e la "disobbedienza civile", rifuggendo l'uso della violenza.

La non-collaborazione o boicottaggio non-violento significava per Gandhi non acquistare liquori e tessuti provenienti dall'impero britannico, non iscrivere i figli alle scuole inglesi, non investire i propri risparmi in titoli di stato britannici, ecc.

La disobbedienza civile consisteva nel violare pubblicamente le leggi ritenute ingiuste accettando però le punizioni previste dalla legislazione vigente per le violazioni commesse, non considerandosi il rifiuto della sanzione prevista un atteggiamento non-violento. A questo proposito bisogna ricordare come Gandhi trascorse un totale di 2338 giorni di detenzione in Sudafrica ed India a causa degli arresti dovuti alle sue lotte politiche.

Per Gandhi la disobbedienza civile rappresentava, insieme allo sciopero della fame e della sete, la forma culminante di resistenza non-violenta; egli la definì “un diritto inalienabile di ogni cittadino”, e affermò che “rinunciare a questo diritto significa cessare di essere uomini”.

Gandhi rivoluzionò l'idea di lotta rivoluzionaria. Per quanto divergenti nei loro obiettivi politici, le teorie classiche della rivoluzione hanno in comune due componenti fondamentali:

  • la teoria del “diritto alla resistenza” (John Locke), secondo cui è legittimo – se non doveroso – che le masse popolari si ribellino alle autorità sociali e politiche, quando subiscono una evidente e intollerabile situazione di ingiustizia (“Ribellarsi è giusto”, diceva Mao Tse Tung);
  • la teoria della “guerra giusta”, secondo cui il popolo ha diritto di ricorrere alla violenza rivoluzionaria, quando questa serve a correggere torti e ingiustizie molto gravi (questa teoria, con origini medievali, giustificava la violenza e le guerre).

Gandhi condivise il primo di questi due principi ma rifiutò il secondo. Anche per lui ribellarsi all'ingiustizia era un diritto-dovere dei popoli, ma era sua convinzione che l'unica forma di lotta rivoluzionaria giusta e legittima fosse la rivoluzione (lotta, resistenza, ribellione) non-violenta, da lui battezzata satyagraha (dal sanscrito: "vera forza" o “forza della verità”), che ha ispirato generazioni di attivisti democratici. Il satyagraha era una forma attiva e radicale di lotta rivoluzionaria, da non confondersi con la resistenza passiva. Per Gandhi i “satyagrahi”, cioè i militanti della rivoluzione non-violenta, dovevano essere dediti anima e corpo alla causa rivoluzionaria. La non-violenza non è passività e rassegnazione all'ingiustizia, perché assoggettarsi vigliaccamente all'oppressione significa annientare la propria umanità: «Nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza». E ancora: «Nessun uomo può essere attivamente non-violento e non ribellarsi contro l'ingiustizia dovunque essa si verifichi». Gandhi inoltre insisteva spesso sulla distinzione tra la non-violenza del debole, che consiste nel subire passivamente e vigliaccamente l'oppressione o nell'opporsi ad essa con la semplice “resistenza passiva”, e la non-violenza del forte. Quest'ultima è il satyagraha, l'attiva e coraggiosa ribellione all'ingiustizia, che una volta Gandhi definì come «l'equivalente morale della guerra».

Quindi, contro l'idea antica che la guerra violenta sarebbe un elemento essenziale per ripristinare l'ordine e la pace, Gandhi afferma il principio della ahimsa, una parola sanscrita tradotta nelle lingue europee moderne con il termine “non-violenza” (“a” = “non”; “himsa” = “violenza”, “ingiuria”, “male”). Ahimsa significa non usare violenza, non far del male, amare, ma anche essere giusti nei confronti degli altri e astenersi da qualsiasi forma di sfruttamento.

L'esercizio della non-violenza richiede lo straordinario coraggio di non temere la morte e di soffrire senza desiderio di vendetta, e si ottiene solo con preghiera, disciplina e fede. La non violenza va esercitata sempre, non è solo non cooperazione con le ingiustizie ma costante rifiuto di qualunque cosa sia inaccettabile per la coscienza.

La guerra può essere evitata perché nessun uomo, nessuna nazione, nessun gruppo sociale è inevitabilmente guerriero. Le frustrazioni e i contrasti d'interesse che sono alla radice delle guerre possono essere ridotti ed indirizzati diversamente, come ad esempio contro gli ostacoli che impediscono lo sviluppo economico e sociale. Quando le cose sembrano non andare per il verso giusto, l'uomo tende ad addossare le responsabilità alla società oppure a poteri superiori che vogliono decidere del futuro di tutti. Invece ciascuno di noi deve assumersi le proprie responsabilità e la parte di lavoro che gli spetta per opporsi alla guerra, trasformandosi in un costruttore di pace. Gandhi ha dimostrato che la forza di un singolo individuo può diventare la forza di un popolo intero perché la pace è legata alla crescita della coscienza umana e può nascere solo dall'impegno unitario di tutti gli uomini.

«La Pace non si ottiene con un parziale adempimento delle condizioni, così come una combinazione chimica è impossibile senza l'osservanza completa delle condizioni necessarie per ottenerla. Se i capi riconosciuti dell'Umanità che controllano gli strumenti di distruzione rinunciassero completamente al loro uso, con piena conoscenza delle relative implicazioni, si potrebbe ottenere la pace permanente. Questo è evidentemente impossibile, se le grandi potenze della terra non rinunciano al loro programma imperialistico. E questo sembra a sua volta impossibile, se le grandi nazioni non cessano di credere nella competizione che uccide l'anima e di desiderare la moltiplicazione dei bisogni e, quindi, l'accrescimento dei beni materiali.»

Martin Luther King

Martin Luther King fu un pastore battista afro-americano nell'Alabama, leader dei diritti civili della minoranza di colore negli Stati Uniti. È stato il più giovane Premio Nobel per la pace della storia, riconoscimento conferitogli nel 1964 all'età quindi di soli trentacinque anni. Significativo è il discorso che tenne il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington e nel quale pronunciò più volte la celebre frase "I have a dream" (Ho un sogno), che sottintendeva la (spasmodica) attesa che egli coltivava, assieme a molte altre persone, perché ogni uomo venisse riconosciuto uguale ad ogni altro, con gli stessi diritti e le stesse prerogative

«La vera pace non è solo la assenza di tensione: è la presenza della giustizia[13]»

Più volte imprigionato, perseguitato dagli ambienti segregazionisti del sud degli Stati Uniti, nel mirino dell'FBI, King fu assassinato a colpi d'arma da fuoco prima di una marcia il 4 aprile 1968, mentre si trovava su un balcone del Lorraine Motel di Memphis, Tennessee.

Johan Galtung

Johan Galtung (Oslo, Norvegia 24 ottobre 1930) è un sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 dell'International Peace Research Institut e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti. È uno dei padri della peace research (o peace studies). Le sue opere ammontano a un centinaio di libri e oltre 1000 articoli. Le istituzioni internazionali si sono spesso rivolte a lui per consulenze tecniche in fatto di mediazioni di conflitti.

Il punto di forza del pensiero di Galtung è quello di avere fatto della pace un concetto ben determinato, al centro di un vastissimo campo di ricerche. Sua è la concettualizzazione di pace negativa (assenza di guerre), positiva (tensione verso una società più giusta), non-violenta (superamento delle ingiustizie con mezzi nonviolenti). L'indagine di Galtung sulla pace e la nonviolenza parte da Gandhi e passa per il buddhismo, che gli appare come l'unica filosofia in grado di spiegare pienamente l'essenza della pace.

Tenzin Gyatso

Tenzin Gyatso è il XIV Dalai Lama, massima personalità del buddhismo ed esponente del pacifismo. Presiede il governo tibetano in esilio e per questa ragione il suo ruolo politico è largamente controverso. D'altra parte il suo messaggio di lotta non-violenta è molto diffuso attraverso la pubblicazione di numerosi libri e articoli e attraverso la partecipazione a seminari e conferenze in tutto il mondo.

Il 10 dicembre 1989 venne conferito a Tenzin Gyatso il Premio Nobel per la pace. In un comunicato il Comitato annunciò le motivazioni:

«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di attribuire il Nobel per la pace per il 1989 al 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, leader politico e religioso del popolo tibetano. Il Comitato desidera sottolineare il fatto che il Dalai Lama nella sua lotta per la liberazione del Tibet ha sempre e coerentemente rifiutato l'uso della violenza, preferendo ricercare soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza ed il rispetto reciproco, per preservare il retaggio storico e culturale del Suo popolo. Il Dalai Lama ha sviluppato la propria filosofia di pace a partire da un reverente rispetto per tutto ciò che è vivo, basandosi sul concetto della responsabilità universale che unisce tutta l'umanità al pari della natura. Il Comitato ritiene che Sua Santità abbia avanzato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, e per affrontare il problema dei diritti umani e le questioni ambientali globali.»

La nonviolenza e il pacifismo come fenomeno di massa

Le filosofie e le religioni orientali vantano secoli di predicazione della nonviolenza. Il pacifismo è invece un fenomeno sostanzialmente occidentale nato in tempi moderni dalla diffusione in America e in Europa del pensiero di Gandhi e dalla grande stagione dei movimenti per i diritti civili, in primis le due grandi battaglie per la parità dei diritti tra bianchi e neri e tra uomini e donne. L'opposizione dei giovani alla guerra in Vietnam è stata il motore del movimento pacifista. Grandi comunicatori vicini al mondo giovanile come Bob Dylan e John Lennon hanno aiutato a sviluppare una coscienza più chiara del fatto che le grandi questioni nazionali e internazionali possono essere risolte senza ricorrere alla violenza.

 
John Lennon mentre registra la canzone Give Peace a Chance

Il variegato mondo pacifista ha comunque al suo interno differenziazioni dovute al momento storico e ai riferimenti culturali: mentre alcuni non negano la violenza militare (e dunque statale e dunque non privata) in alcune particolari circostanze, altri negano a priori qualunque azione militare, esclusa la reazione all'invasione militare da parte di un esercito straniero. Benché sottile, esiste una differenza tra pacifismo e nonviolenza: il primo rifiuta a priori la lotta in ogni sua forma mentre il secondo si oppone alla lotta violenta come metodo di risoluzione dei conflitti, secondo l'insegnamento del Mahatma Gandhi, fondando la propria azione su alternative quali la disobbedienza civile e la resistenza non-violenta (ahimsa). È comunque doveroso aggiungere che spesso le manifestazioni pacifiste, a causa di frange minoritarie intransigenti e disinteressate a qualunque forma di dialogo, sfociano in aspri scontri con le forze dell'ordine (significativo in Italia l'esempio del G8 di Genova).

In Italia seguaci della nonviolenza della prima ora sono stati il filosofo Aldo Capitini, il primo obiettore di coscienza Pietro Pinna, il MIR (Movimento Internazionale per la Riconciliazione), il MN (Movimento Nonviolento), la LDU (Lega per il Disarmo Unilaterale). Una originale elaborazione ha poi tentato il sacerdote e filosofo Ernesto Balducci che influenzò particolarmente il movimento contro i missili a Comiso e per il disarmo della prima metà degli anni ottanta. Il quel movimento si impegnarono figure come Luciana Castellina, Chiara Ingrao, Tom Benettollo, Davide Ferrari.

Misurare i livelli di pace

L'Indice Globale della Pace (Global Peace Index) rappresenta uno dei primi tentativi di misurare i livelli di pace interni ed esterni ai paesi (assenza di violenza). L'indice valuta i paesi tenendo conto di 24 criteri, tra cui la criminalità interna, numero dei reati violenti, stabilità politica, spese militari e possibili azioni terroristiche. La ricerca mette in relazione una serie di condizioni sociali come la democrazia, la trasparenza, l'istruzione, i diritti civili, il benessere, per capire meglio i fattori che generano e sostengono la pace. Lo studio prende in esame elementi come il livello di violenza all'interno del paese, il crimine organizzato, l'accesso alle armi, il numero di persone detenute nelle prigioni, il dispendio militare. Lo scopo del progetto è di andare oltre lo studio delle guerre e misurare l'"assenza di violenza" considerata come indicatore di pace, portando ad una maggiore comprensione dei meccanismi che la generano e la consolidano.

Il Diritto alla pace

 
Il simbolo della pace fatto con l'aglio

La Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace, adottata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 12 novembre 1984 durante la 57ma Seduta plenaria, sottolinea che:

"per garantire l'esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli stati tenda alla eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all'abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie internazionali sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite."

Ma questa appare oggi una visione assolutamente riduttiva del problema. Dall'insegnamento di Gandhi e attraverso le parole di Martin Luther King e gli scritti di Johan Galtung, si è fatta strada l'idea di una pace positiva[14], considerata non semplicisticamente come assenza di guerra bensì come presenza di condizioni di giustizia reciproca tra i popoli che permettano a ciascun popolo il proprio libero sviluppo in condizioni di auto-governo.

In queste condizioni, la pace è molto più che il risultato di trattati tra governi o di accordi tra persone potenti, come molti credono. La pace risulta dal modo in cui un popolo si relaziona con un altro popolo, nel rispetto dei reciproci diritti e doveri riconosciuti dalla comunità internazionale. Non è quindi la forma di governo che garantisce la pace, né tanto meno un insieme di trattati o un accordi internazionali. Essa è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui che insieme costituiscono il comportamento e le scelte di un popolo.

Di qui nasce la necessità di una cultura della pace intesa come conoscenza diffusa e consapevole dei fattori tutti che contribuiscono a creare condizioni di giustizia reciproca tra i popoli.

Il concetto di Cultura della Pace fu formulato al Congresso Internazionale sulla Pace in Costa d'Avorio nel 1989. Il Congresso raccomandò all'UNESCO di lavorare per costruire una nuova visione della pace basata sui valori universali di rispetto per la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la tolleranza, i diritti umani e l'uguaglianza tra uomo e donna.

Negli anni seguenti si tennero forum e convegni internazionali per sollecitare ONG, associazioni, giovani e adulti, media nazionali e locali e leader religiosi attivi per la pace, la non-violenza e la tolleranza a diffondere in tutto il mondo una Cultura della Pace.

Il 13 settembre 1999 l'Assemblea generale dell'ONU approvò la risoluzione 53/243 adottando con essa la Dichiarazione per una Cultura della Pace[15]

Educare se stessi alla cultura della pace[16], informandosi e prendendo consapevolezza dei problemi e delle scelte da fare per risolverli, è il dovere di tutti coloro che, nelle varie forme culturali e associative, esprimono una volontà di contribuire alla costruzione della pace nel mondo.

«La pace esiste quando tutti sono liberi di sviluppare sé stessi nel modo che desiderano, senza dover lottare per i propri diritti.[17]»

Il peace-building e il ruolo della Organizzazione delle Nazioni Unite

Il preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite recita:

«Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra (...), a riaffermare la fede nei diritti fondamentali della persona (...), a promuovere il progresso sociale (...), abbiamo deciso di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini»

Ciò detto, il sistema politico sul quale si basa l'Organizzazione ha dato spazio all'elaborazione di numerosi trattati internazionali ma anche, nel tempo, alla loro scarsa applicazione.
Oltre alle numerose risoluzioni dell'Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza, l'ONU ha anche frequentemente operato con osservatori, inviati speciali e forze militari di interposizione con lo scopo di creare condizioni favorevoli alla cessazione di ostilità nei luoghi di conflitto.

Il 12 novembre 1984 la Dichiarazione sul Diritto dei Popoli alla Pace fu approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 39/11.
"L'Assemblea generale, (...) riconosciuto che ogni Stato ha il sacro dovere di garantire ai popoli una vita pacifica: proclama solennemente che i popoli della Terra hanno un sacro diritto alla pace; dichiara solennemente che la salvaguardia del diritto dei popoli alla pace e la promozione di questo diritto costituiscono un obbligo fondamentale per ogni Stato".[18]

Il 21 febbraio 1992 fu istituita la Forza di protezione delle Nazioni Unite (in inglese United Nations Protection Force, abbreviata in UNPROFOR) col compito di «creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione complessiva della crisi jugoslava». Nacque così il concetto di peace-keeping, azione volta ad aiutare i Paesi colpiti dalla guerra a creare condizioni di pace sostenibile.[19]

Le varie missioni di peace-keeping succedutesi nel tempo hanno ottenuto pochi successi e grandi fallimenti. Le ragioni sono molteplici e andrebbero analizzate caso per caso, ma in fondo possiamo affermare la mancanza di un'idea completa di cosa sia la pace. Infatti, parallelamente all'istituzione delle varie missioni di peace-keeping, si faceva spazio il concetto ben più completo di cultura della pace.

Il concetto di cultura della pace fu formulato al Congresso Internazionale sulla Pace in Costa d'Avorio nel 1989. Il Congresso raccomandò all'UNESCO di lavorare per costruire una nuova visione della pace basata sui valori universali di rispetto per la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la tolleranza, i diritti umani e l'uguaglianza tra uomo e donna. Questa iniziativa nacque in un contesto internazionale influenzato dalla caduta del muro di Berlino e la conseguente scomparsa delle tensioni legate alla Guerra Fredda.

Nel 1994 si tenne il primo Forum Internazionale sulla Cultura della Pace in San Salvador. L'anno dopo la 28ma Conferenza generale dell'UNESCO introdusse il concetto di Cultura della Pace nella Strategia a Medio Termine per il quinquennio 1996-2001, durante il quale fu sviluppato il progetto Towards a Culture of Peace (Verso una Cultura della Pace). ONG, associazioni, giovani e adulti, media nazionali e locali e leader religiosi attivi per la pace, la non-violenza e la tolleranza si impegnarono nel diffondere in tutto il mondo una Cultura della Pace.

Nel 1997 l'Assemblea generale dell'ONU stabilì un punto separato dell'agenda dei lavori intitolato Towards a Culture of Peace e proclamò il 2000 "Anno Internazionale per la Cultura della Pace" approvando la Risoluzione 52/15.

Nel 1998 l'Assemblea generale dell'ONU, su proposta di alcuni premi Nobel per la pace, approvò la risoluzione 53/25 con la quale proclamò il 2001-2010 "Decennio Internazionale per una Cultura della Pace e della Non-Violenza per i Bambini del Mondo".[20]

Il 13 settembre 1999 l'Assemblea generale dell'ONU approvò la risoluzione 53/243 adottando con essa la Dichiarazione per una Cultura della Pace[21] nella quale si afferma:

"Una cultura di pace è un insieme di valori, attitudini, tradizioni e modi di comportamento e sistemi di vita basati sul:

  • a. rispetto per la vita, sulla cessazione della violenza e sulla promozione e la pratica della non violenza tramite l'educazione, il dialogo e la cooperazione;
  • b. sul pieno rispetto dei principi di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica degli Stati e sul non intervento in quelle questioni che rientrano essenzialmente nell'ambito della giurisdizione nazionale di uno Stato, in conformità con quanto previsto dallo Statuto delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale;
  • c. sul pieno rispetto e sul progresso di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali;
  • d. sull'impegno in favore di una soluzione pacifica dei conflitti;
  • e. sugli sforzi per soddisfare le esigenze inerenti allo sviluppo e all'ambiente delle generazioni presenti e future;
  • f. sul rispetto e sulla promozione del diritto allo sviluppo;
  • g. sul rispetto e sulla promozione dell'uguaglianza di diritti e opportunità per donne e uomini;
  • h. sul rispetto e sulla promozione del diritto di ognuno alla libertà di espressione, di opinione e di informazione;
  • i. sull'adesione ai principi di libertà, giustizia, democrazia, tolleranza, solidarietà, cooperazione, pluralismo, diversità culturale, dialogo e comprensione a tutti i livelli della società, e fra le nazioni; e sostenuta da un ambiente nazionale e internazionale favorevole e orientato alla pace."[22]

Peacemaking, peace enforcing e peacekeeping

Attraverso questi anni l'esperienza fallimentare del peace-keeping si trasforma nell'idea ben più ragionata del peace-building. L'idea della Commissione di Peace Building (PBC) viene proposta per la prima volta nel 2004. Nel 2005, Kofi Annan presenta l'idea della PBC come uno strumento per l'identificazione di strategie per i Paesi in situazione di post-conflitto. Alla fine dello stesso anno avviene l'istituzione della PBC con un atto congiunto dell'Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. La Commissione è creata come un organismo intergovernamentale con una composizione mista che coinvolge gli organi principali delle Nazioni Unite, gli stati che contribuiscono maggiormente in termini di fondi o di personale militare e gli stati usciti da conflitti. Si tratta di un organismo con funzioni consultive che ha come finalità principali di: proporre strategie integrate per la ricostruzione post-conflitto; aiutare ad assicurare i fondi necessari sia per le attività di riabilitazione che per quelle di medio e lungo periodo; contribuire a mantenere alto il livello di attenzione internazionale sui paesi che emergono da un conflitto; migliorare la coordinazione e la collaborazione tra tutti gli attori importanti all'interno e all'esterno delle Nazioni Unite e sviluppare best practices. Questo nuovo strumento ha lo scopo di creare una soluzione di continuità tra interventi umanitari e di sviluppo aiutando a costruire una pace durevole in un quadro di sviluppo sostenibile.

Il peacemaking è una forma di risoluzione dei conflitti che si concentra sulla creazione di parità di rapporti di potere tra le parti sufficientemente solida da prevenire futuri conflitti, e che stabilisce alcuni mezzi per accordarsi sulle decisioni etiche all'interno di una comunità che ha già vissuto il conflitto. Quando viene applicato in materia di giustizia penale, di solito è chiamato giustizia trasformativa. Quando viene applicato a questioni che non danneggiano la comunità nel suo insieme, può essere chiamato mediazione cosciente.
Il termine peacemaking, tuttavia, è riservato per grandi conflitti sistematici tra fazioni, in cui nessun membro della comunità è in grado di evitare il coinvolgimento, e in cui nessuna fazione o segmento può pretendere di essere completamente privo di responsabilità. Ad esempio, una situazione di post-genocidio, o di estrema di oppressione, come l'apartheid.
Il processo di peacemaking è distinto dalla logica del pacifismo e dall'uso della protesta nonviolenta o di tecniche di disobbedienza civile, anche se sono spesso praticate dalle stesse persone. Infatti, coloro che usano tecniche nonviolente sotto la pressione di violenza estrema, e che portano altri verso tali forme di resistenza, hanno dimostrato la rara capacità di non reagire alle provocazioni di natura violenta, e la difficile capacità di mantenere coordinato e in buon ordine attraverso tale esperienza un gruppo di persone che soffrono di oppressione violenta. Questi sono i leader che sono di solito più qualificati per negoziare la pace quando scoppia un conflitto tra due parti già belligeranti in precedenza.

Un'operazione di mantenimento della pace o peacekeeping, come definito dalle Nazioni Unite, è "un modo per aiutare i paesi lacerati da conflitti a creare le condizioni per una pace sostenibile". I peacekeepers devono monitorare e osservare i processi di pace nelle aree di post-conflitto e di aiutare gli ex combattenti a eseguire gli accordi di pace firmati. Tale assistenza si presenta in molte forme, tra cui le misure per alimentare la fiducia reciproca, accordi di condivisione del potere, il sostegno elettorale, il rafforzamento dello stato di diritto e lo sviluppo economico e sociale. Di conseguenza i peacekeepers dell'ONU (spesso denominati Caschi Blu a causa del colore dei loro elmetti) possono includere soldati, funzionari di polizia civile e altro personale civile.
La Carta delle Nazioni Unite conferisce al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il potere e la responsabilità di azioni collettive per mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Per questo motivo, la comunità internazionale si rivolge di solito al Consiglio di sicurezza per autorizzare operazioni di peacekeeping, siccome tutte le missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza.
La maggior parte di queste operazioni sono stabilite e attuate dalle Nazioni Unite con le truppe in servizio al comando operativo delle Nazioni Unite. In questi casi, i peacekeepers rimangono membri delle rispettive forze armate, e non costituiscono un "esercito delle Nazioni Unite", visto che le Nazioni Unite non hanno una forza di questo tipo. Nei casi in cui il coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite non è considerato appropriato o fattibile, il Consiglio autorizza le organizzazioni regionali quali l'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO), la Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, o coalizioni di Paesi disposti ad intraprendere missioni di peacekeeping o peace-enforcement.
Le Nazioni Unite non sono l'unica organizzazione ad avere autorizzato missioni di peacekeeping, anche se alcuni sostengono che è l'unico gruppo legalmente autorizzati a farlo. Non comprendono le forze di mantenimento della pace delle Nazioni Unite la missione della NATO in Kosovo e la Forza multinazionale e di osservatori sulla Penisola del Sinai.

L'imposizione della pace o peace enforcement è la pratica di garantire la pace, in una zona o regione. Parte di una scala di tre gradini tra il mantenimento della pace (peacekeeping) e pacificazione (peacemaking), è talvolta considerato il punto medio. Il peace-enforcement si differenzia dal peacekeeping nel momento in cui le regole d'ingaggio utilizzate per portare le parti in conflitto a negoziati di pace possono includere anche la forza. Anche se si tratta di un approccio per il mantenimento di una pace già esistenti, e possono quindi essere fatti solo da un partito che è riconosciuto come neutrale, questo è differenziato dal peacekeeping in larga misura per il livello di forza che il gruppo neutrale è disposto a utilizzare, in risposta alle violazioni degli accordi di pace.
Mentre l'imposizione della pace è stata in gran parte evitata in passato, il livello di violenza con la quale le operazioni di mantenimento della pace in molte aree (tra cui gli eventi del 1994 in Ruanda, dove diversi soldati belgi sono stati costretti a guardare i massacri in corso e sono anche stati uccisi alla fine senza che gli fosse consentito di reagire) hanno scioccato la comunità internazionale e hanno condotto a una situazione di crisi in cui la volontà di entrare in operazioni di peacekeeping, senza la possibilità di usare la forza è raffrontata con una scarsa volontà delle nazioni di inserire le loro forze e in conflitti potenzialmente "caldi" che non li coinvolgono direttamente. In ogni caso la nozione di pace imposta, salita alla ribalta internazionale in seguito alle varie operazioni di peace enforcement (Serbia, Afghanistan, Iraq), è considerata, dalla maggioranza dei pacifisti, avulsa dal vero significato intrinseco della parola.

La pace e lo sviluppo

Tutte le missioni di pace, sia militari che civili, messe in cantiere negli ultimi decenni dalle maggiori organizzazioni intergovernative pongono l'accento sul tema dello sviluppo in quanto mezzo per superare le discordie politiche.

Lo sviluppo di un territorio, dal punto di vista teorico, è inteso come il miglioramento della capacità autonoma del territorio stesso di dare soluzioni ai problemi esistenti e di produrre ricchezza sufficiente ai bisogni di tutti coloro che vi abitano. Dal punto di vista pratico sviluppare un territorio significa migliorare la possibilità di uso del territorio stesso da parte degli uomini in termini di:

  • drenaggio, irrigazione, fertilizzazione del suolo;
  • gestione del territorio in termini di rischio idrogeologico;
  • riforestazione e protezione delle risorse ambientali;
  • costruzione di vie di comunicazione;
  • costruzione di infrastrutture necessarie alla vita umana, dal pozzo all'ospedale.

Si assume che i conflitti tra gruppi umani sono spesso radicati nella povertà relativa di un gruppo rispetto ad un altro. Laddove tutti possano raggiungere un adeguato livello di sviluppo, essendo in capacità di far fronte autonomamente ai propri bisogni, si eliminano alla base le ragioni di molti conflitti.

Il peace-building e il ruolo delle Organizzazioni Non Governative

Peace Studies

I "peace studies" ("studi sulla pace") sono una recente subdisciplina delle scienze politiche che si occupa dell'analisi dei fattori psicologici, sociologici e politici determinanti nell'ottenimento di una pace positiva, mentre normalmente gli studi sulle relazioni internazionali si occupano dei fattori, problemi, fenomeni e genesi della guerra ignorando quelle che sono le basi della pace. Illustri Protagonisti di questa giovane disciplina sono Kenneth E. Boulding, Dieter Senghaas, Johan Galtung, Ernst-Otto Czempiel, Lothar Brock.

I "peace studies" si sono sviluppati recentemente anche in Italia con la nascita di corsi di laurea e master universitari[23].

La pace e l'arte

 
Personificazione della Pace, Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, 1337-1340, Palazzo Pubblico, Siena

Minerva protegge la Pace da Marte (Pace e Guerra) è un dipinto di Pieter Paul Rubens. Esso attraverso la mitologia classica, rappresenta la pace che porta con se felicità e prosperità, e va quindi protetta dalla guerra attraverso le arti.

La pace e la musica

Il compositore Michelangelo Mangiaracina ha composto l' Inno Mondiale della Pace per pianoforte. Una frase del musicista Michelangelo Mangiaracina sulla Pace è: (Spero, che nel Mondo non ci siano più guerre, schiavitù e violenze, ma che in futuro ci sarà e regnerà un Mondo di Pace e Libertà).

Voci correlate

Altri progetti

Collegamenti esterni

Peacey -La Colomba della Pace [2]

  • Rivista italiana di Conflittologia - www.conflittologia.it
  1. ^ [3]
  2. ^ [4]
  3. ^ [5]
  4. ^ [6]
  5. ^ Cfr. Andrea Salvatore, Il pacifismo, Roma, Carocci, 2010. ISBN 978-88-430-5433-6.
  6. ^ Esiodo, Teogonia, 901-903. Uno sviluppo del tema è anche, ad esempio, in Le opere e i giorni, 213 e segg.
  7. ^ La seconda parte di questa frase (Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace) divenne famosa durante la Guerra del Vietnam (anni settanta) in quanto usata in numerosi manifesti di protesta con riferimento al comportamento delle truppe statunitensi.
  8. ^ Matteo 10,34: "Non pensate che sia venuto a portar pace sopra la terra: non sono venuto a portare pace ma la spada. Sono venuto, infatti, a separare l'uomo da suo padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; i nemici dell'uomo saranno i suoi stessi familiari."
  9. ^ (Lettera apostolica motu proprio Catholicam Christi Ecclesiam: AAS 59 (1967), p. 27)
  10. ^ (AAS 57 (1965), p. 896)
  11. ^ (Cf. papa Giovanni XXIII, enciclica Pacem in Terris: AAS 55 (1963), p. 301)
  12. ^ K.M. Mohsin, Canning, (Lord), in Banglapedia, Asiatic Society of Bangladesh. URL consultato il 7 maggio 2007.
    «Indian Council Act of 1861 by which non-official Indian members were nominated to the Viceroy's Legislative Council)»
    Dopo la ribellione del 1857, anche conosciuta come "Prima Guerra d'Indipendenza", il primo passo verso un'India indipendente e democratica fu la nomina di politici indiani come consiglieri del Vicere nel 1861, cui segui la nomina di COnsigli Provinciali con membri indiani.
  13. ^ M.L.King - Lettere dal carcere (in inglese)
  14. ^ La pace positiva è l'assenza di ogni forma di violenza strutturale, di quella violenza cioè, più o meno nascosta, subdola, indiretta, ma non per questo meno grave o lesiva, che caratterizza i rapporti sociali ed economici, che opprime l'individuo, viola i diritti fondamentali e impedisce di esprimere pienamente le potenzialità personali. In definitiva la pace positiva coincide con l'assenza di ingiustizia sociale e più in generale, di sfruttamento umano. ARIETE
  15. ^ Archivio delle Nazioni Unite
  16. ^ Commissione Italiana per l'UNESCO
  17. ^ Picozzi, Bruno (2007). BIPPI iniziativa indipendente per la pace
  18. ^ Declaration on the Right of Peoples to Peace sito dell'Alto Commissariato dell'ONU per i Diritti Umani
  19. ^ Organizzazione delle Nazioni Unite in inglese
  20. ^ UNESCO 2002
  21. ^ Archivio dell'ONU
  22. ^ Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova
  23. ^ [7], [8], [9] e [10]