Utente:AlessandroAM/Sandbox3

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Il Regno di Carlo III di Borbone

 
Carlo III.

Nel 1734 la Sicilia si ritrovò unita a Napoli, allorché Carlo, infante di Spagna, mosse alla conquista del Regno di Sicilia diventandone Re col titolo di Carlo III. Egli non aveva trovato difficoltà a cacciare gli austriaci il cui esercito non aveva opposto molta resistenza. I siciliani, da parte loro, non avevano fatto nulla per ribellarsi all'Austria e per chiedere l'aiuto spagnolo per la liberazione, tuttavia la costituzione della nuova monarchia borbonica, che riuniva in un unico stato indipendente e sovrano il Mezzogiorno continentale ed insulare, fu salutata dalla popolazione con straordinario entusiasmo. Questo era dovuto al fatto che, liberato dalla condizione di provincia, il Mezzogiorno poteva affrontare un processo di trasformazione che consolidasse il nuovo dell'indipendenza.

Il 2 settembre 1734, il generale spagnolo Montemar prese possesso dell'ufficio di Viceré a Palermo; ma Montemar non rappresentava il solito Viceré, come tanti in precedenza, in quanto il suo mandato era quello di gettare le premesse militari e politiche per la fondazione di una nuova monarchia. La novità era evidente per il fatto che le truppe spagnole, per tanto tempo strumento di dominio straniero, adesso concorrevano a dar vita ad uno stato indipendente e nazionale che avrebbe rappresentato il fatto nuovo del settecento italiano.

L'incoronazione di Carlo

I nobili palermitani anelavano da molto tempo ad avere un proprio Re che garantisse loro tutti i simboli del potere e del prestigio, per questa ragione si sentirono lusingati quando Carlo III di Borbone si fece incoronare a Palermo. Solo dopo che il Re giurò nel Duomo di Palermo sui Vangeli il rispetto e l'osservanza della Costituzione e dei Capitoli del Regno di Sicilia, oltre che dei privilegi e delle consuetudini della sua capitale, i baroni e gli ecclesiastici siciliani gli giurarono fedeltà ma senza manifestare mai nulla di più che un consenso di massima.

L'incoronazione avvenne mentre le cittadelle di Messina, Siracusa e Trapani erano ancora in mani austriache. La fretta di ricevere la corona proprio a Palermo non fu dettata dal desiderio di compiacere i siciliani, bensì dall'atteggiamento dello Stato Pontificio al quale occorreva contrapporre un pronto riparo. La Santa Sede considerava i Regni di Napoli e di Sicilia feudi della Chiesa romana, anche se con differenti condizioni di vassallaggio. Riguardo Napoli i giuristi del tempo si chiedevano se la Chinea offerta al Papa il giorno di SS. Pietro e Paolo potesse considerassi atto di vassallaggio; il dubbio esisteva, ma nessuno si sentiva di escludere il preteso diritto della Chiesa.

Per la Sicilia, invece, si aveva motivo di affermare che non si trattava di feudo soggetto a servitù poiché il Re, per diritto ereditario, agiva quale rappresentante del capo della Chiesa e non era quindi tenuto a sottoporsi all'investitura papale.

Non sentendosi certo di essere dalla parte della ragione, nello smentire il preteso diritto della Chiesa sul Regno di Napoli, Carlo III scelse la formula ambigua di Re delle Due Sicilie e, bruciando i tempi, il 3 luglio del 1735 riceve dalla Arcidiocesi di Palermo per mano di Matteo Basile, O.F.M. † (arcivescovo dal 3 settembre 1731 - deceduto nel 1736) la corona di Sicilia legittimando di fronte a Roma il nuovo regime borbonico e la conquista del regno meridionale. Fu un successo per la sua diplomazia e di conseguenza uno scacco per la politica vaticana.

La grande cerimonia dell’incoronazione a Palermo, imposta da circostanze di forza maggiore, fece pensare che Carlo volesse fissare la propria dimora nella capitale siciliana invece che a Napoli. Fu una cerimonia fastosa e solenne rimasta celebre negli annali della cronaca palermitana; ma la speranza di una corte reale insediata a Palermo durò solo una settimana, infatti allo scadere di questa il Re spostò la capitale a Napoli lasciando a Palermo un Viceré.

La partenza di Carlo da Palermo rappresentò per i siciliani un affronto che generò quel clima di profonda delusione nel quale si rafforzò l'antico dualismo tra Napoli e Palermo che avrebbe avuto, negli anni seguenti, risvolti drammatici.

Il piano riformistico di Montallegre

Carlo III si trovò a regnare su uno stato nel quale molti dei poteri della sovranità, che altrove costituivano normali attributi del regno, risultavano concentrati parte nel clero e nel baronaggio, parte nelle comunità territoriali e parte negli stessi organi amministrativi e giudiziari che, seppure formalmente dipendenti dal Re, nella sostanza risultavano appannaggio di ceti e gruppi particolari. La nuova monarchia meridionale, che non poteva contare sul sostegno apprezzabile di forze interne, si trovò quindi nella necessità di costruire un apparato politico ed amministrativo che ne garantisse il funzionamento. Ma per attuare un simile programma si rendeva indispensabile riportare alla corona poteri che di fatto s'erano perduti nei meandri della consuetudine, oppure erano divenuti strumenti di forza nelle mani di caste privilegiate.

Nel 1738, dopo la firma del trattato di Vienna e la concessione dell'investitura da parte del Papa, Carlo III affidò a Montallegre la direzione politica di un piano di riforme contenente una serie di proposte ufficialmente tendenti al buon governo e al miglioramento del Regio erario, ma che in effetti scaturivano dalle raccomandazioni della corte spagnola in base alle quali vi era da tener testa al baronaggio per non esserne sopraffatti. Il piano di riforme, una vera e propria strategia volta a rafforzare il potere regio, si era avvalso di uno studio sull'amministrazione della giustizia affidato ad un gruppo di giuristi e alti funzionari; si prevedeva di limitare il numero dei chierici e dei religiosi, di ridurre la consistenza del patrimonio ecclesiastico proibendo alla Chiesa l'acquisto di nuovi beni immobili, inoltre si prospettava la necessità di togliere ai baroni la giurisdizione ritenuta di provenienza illegale. Altri suggerimenti riguardavano la concessione di vantaggi ai commercianti e l’attuazione di misure di austerità tendenti a moderare il lusso e a ripartire più equamente il peso fiscale tra i sudditi.

La nomina del principe Bartolomeo Corsini a Viceré di Sicilia rappresentò un fatto politico e rilevante, nel senso della precisa volontà di perseguire l'obiettivo delle riforme acquisendo un minimo di consenso. Corsini, infatti, una volta insediatosi a Palermo, non si comportò mai da Viceré assolutista ma ritenne di dover agire da Viceré costituzionale. Questo metodo, insolito per quel tempo, lo rese ben visto negli ambienti politici palermitani e gli consentì di svolgere una certa mediazione tra le direttive assolutistiche del governo e le opposizioni che puntualmente nascevano nella capitale siciliana. Per evitare che contrasti ampi e diffusi nei due regni potessero bloccare il piano di riforme, fu previsto uno sviluppo separato, articolato e anche differenziato nei tempi. Si decise, che alcune riforme venissero attuate ora nel Regno di Napoli ed ora nel Regno di Sicilia e, infine, che altre ancora fossero proposte esclusivamente nell'uno o nell'altro regno.

Il riformismo di Carlo di Borbone venne però sempre considerato, dal ceto nobile e dall'ambiente ecclesiastico, come una sorta di provocazione, in particolare quando questi decise di avvalersi della collaborazione di personale ebraico nell'intento di sviluppare le attività commerciali e finanziarie dei due regni. Preti e gesuiti fomentarono la popolazione con una propaganda sfrenata a base di pregiudizi e di superstizioni, tanto da costringere il governo a tornare sui propri passi.

Ancora più forti furono le resistenze, specie da parte dell’aristocrazia, quando Carlo III decise di istituire la figura del Supremo Magistrato del Commercio tanto a Napoli che a Palermo. L'iniziativa provocò la sollevazione degli ambienti giudiziari partenopei e siciliani nonché del baronaggio e delle istituzioni rappresentative dei due regni. In Sicilia il Parlamento, espressione diretta del potere baronale, arrivò ad offrire al Re un donativo di duecentomila scudi affinché si riducessero le competenze del Tribunale del Commercio, annullando in pratica la riforma. Tale opposizione rappresentò la prima manifestazione di lotta politica nei confronti del nuovo regno, condotta all'insegna di comuni propositi e iniziative da parte delle magistrature siciliana e partenopea e delle due nobiltà. Montallegre, al cospetto di un'opposizione così estesa ed ostinata, dovette soccombere.

Ma il programma di riforme doveva continuare, per cui sul fronte della giurisdizione baronale e di quella ecclesiastica si decise di adottare provvedimenti differenziati, allo scopo di non provocare una comune resistenza della nobiltà e del clero nei due regni.

La questione di Sortino e il fallimento del piano di Montallegre

Il contrasto, comunque, apparve evidente quando, nel 1740, il comune di Sortino chiese di passare dal dominio baronale a quello regio pagando un congruo riscatto. Tale singolare decisione con iniziativa apparentemente circoscritta e limitata a quel Comune, mise in discussione la giurisdizione baronale in Sicilia. L'Università di Sortino avanzava la sua richiesta con evidente consenso e manifesto appoggio del governo, infatti, il suo passaggio sotto il dominio regio avrebbe portato al fisco un'entrata straordinaria annua di mille onze. I baroni sapevano che se fosse passata la richiesta, molti altri comuni feudali dell'isola avrebbero seguito il suo esempio ed essi avrebbero perduto buona parte del loro effettivo potere. La difesa delle ragioni della nobiltà venne affidata al maggior avvocato del tempo Carlo Di Napoli, e questi diede alla causa un carattere preminentemente politico. La sua proposizione divenne argomento privilegiato della giurisprudenza siciliana e punto di riferimento del pensiero dominante dell'aristocrazia isolana. La tesi di Di Napoli rivendica l'esistenza di diritti feudali, la cui origine e natura sono originari e fondamentali, pertanto in Sicilia, tanto la monarchia quanto il feudo, essendo nati entrambi contemporaneamente con la conquista normanna hanno pari dignità e la momentanea riduzione al fisco regio di un bene feudale non ne muta la natura a differenza di quello demaniale che può trasformarsi in feudale. Questa visione della feudalità in Sicilia venne accolta dal Tribunale del Real Patrimonio che dichiarò infondata la pretese del Comune di Sortino e respinse la sua richiesta di passare sotto il dominio regio. Il governo si affrettò a chiudere la vertenza mentre i baroni, approfittando della clamorosa vittoria, attaccarono a viso aperto le pretese riformatrici di Carlo tra cui, in modo particolare il Supremo Magistrato al Commercio.

Dopo la conclusione della causa di Sortino, il programma di riforme di Montallegre subì il definitivo arresto prima in Sicilia e poi a Napoli. Lo stesso Montallegre, qualche tempo dopo, fu costretto a lasciare la guida del governo e rientrare a Madrid. La stessa politica riformistica di Carlo III si spense ed il re venne indotto a cercare sempre di più l'accordo coi baroni.

Il nuovo Viceré Labieufuille, succeduto a Corsini nel 1747, in mancanza di coerenti direttive da Napoli si guardò bene dal prendere posizione contro i baroni siciliani; così la giurisdizione baronale divenne, giorno dopo giorno, diritto incontrastabile tanto che Fogliani, divenuto Viceré nel 1755, affermava di ispirarsi alle istruzioni del ministro spagnolo conte Olivares: “Coi baroni in Sicilia si è tutto, senza i baroni si è niente”. Il regno di Carlo III che era nato nel segno del riformismo e con l'intento di limitare il più possibile il dominio dei baroni, si concluse con un governo basato su una filosofia politica del tutto opposta.