Ferdinando II delle Due Sicilie

re delle Due Sicilie (r. 1830-1859)

Ferdinando Carlo Maria di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810Caserta, 22 maggio 1859) fu re del Regno delle Due Sicilie dall'8 novembre 1830 al 22 maggio 1859.

Ferdinando II di Borbone
Re delle Due Sicilie
In carica1830-1859
PredecessoreFrancesco I delle Due Sicilie
SuccessoreFrancesco II delle Due Sicilie
Nome completoFerdinando Carlo Maria
NascitaPalermo, 12 gennaio 1810
MorteCaserta, 22 maggio 1859
SepolturaBasilica di Santa Chiara (Napoli)
Luogo di sepolturaNapoli
Casa realeBorbone-Due Sicilie
PadreFrancesco I delle Due Sicilie
MadreMaria Isabella di Borbone-Spagna
ConiugiMaria Cristina di Savoia
Maria Teresa d'Asburgo-Teschen

Fu l'ultimo celebre sovrano del Regno e dopo il suo governo quasi trentennale dello stato meridionale, toccò a suo figlio Francesco affrontare la crisi portata dalla spedizione garibaldina che la scarsa esperienza e preparazione di quest'ultimo portarono a gestire con scarsa lucidità e capacità, causando - insieme ad altre questioni compresa la più difficile sui sospetti di corruzione cui avrebbero ceduto i militari borbonici - la dissoluzione del Regno delle Due Sicilie.

Biografia

Primi anni

 
La famiglia di Francesco I delle Due Sicilie. Da sinistra a destra: Maria Isabella di Borbone-Spagna (seconda moglie di Francesco I), Maria Carolina Ferdinanda, Maria Antonietta granduchessa di Toscana, Luisa Carlotta, Maria Cristina regina di Spagna, Ferdinando II, Maria Amalia, Francesco I, Carlo principe di Capua e Leopoldo conte di Siracusa.

Ferdinando di Borbone nacque a Palermo il 12 gennaio 1810, primogenito di Francesco I delle Due Sicilie e della sua seconda moglie, Maria Isabella di Borbone-Spagna. I suoi nonni paterni erano Ferdinando I, figlio di Carlo III di Spagna e di Maria Amalia di Sassonia, e l'arciduchessa Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, figlia degli imperatori Francesco I del Sacro Romano Impero e Maria Teresa d'Austria, nonché sorella della regina di Francia Maria Antonietta. I suoi nonni materni, invece, erano Carlo IV di Spagna, anch'egli figlio di Carlo III e di Maria Amalia, e Maria Luisa di Borbone-Parma, figlia di Filippo I di Parma e di Elisabetta di Borbone-Francia. Nelle vene di Ferdinando, pertanto, scorreva il sangue delle più importanti dinastie europee, i Borboni di Francia, Spagna e Napoli, e gli Asburgo-Lorena. La sue effigie disegnata da Tommaso Aloisio Juvara, che compare sulla serie filatelica dei Francobolli di Sicilia, è considerata una delle più belle incisioni artistiche di tutti i tempi.

Ricevette un'educazione umanistica in ambienti ecclesiastici ed una solida preparazione politica e militare nelle accademie dove trascorse gran parte della giovinezza. Salito al trono del Regno delle Due Sicilie l'8 novembre 1830, ad appena vent'anni, diede immediata prova di decisione e di un chiaro disegno di governo mirato alla riorganizzazione dello Stato, alla riduzione del debito pubblico e alla pacificazione delle parti sociali ancora in tumulto dopo il periodo napoleonico.

Il reintegro in servizio di molti ufficiali, che avevano militato sotto Gioacchino Murat e che erano stati sospesi durante i moti del 1820, testimonia la sua volontà di contemperare il vecchio ed il nuovo in un regno che era stato spazzato furiosamente dai venti napoleonici.

Il 1848

L'ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa nel 1848 toccò anche il Regno di Ferdinando II. All'inizio dell'anno scoppiarono sommosse in tutto il regno e in modo particolare in Sicilia, dove le insurrezioni popolari assunsero quasi subito le caratteristiche di ribellione indipendentista Rivolta indipendentista siciliana del 1848, Ferdinando II, primo fra i Sovrani italiani in quel 1848, il 29 gennaio concesse la Costituzione del Regno delle due Sicilie, redatta dal liberale moderato Francesco Paolo Bozzelli e promulgata il successivo11 febbraio.

Il Governo, affidato al Duca di Serracapriola, che avrebbe dovuto provvedere alla promulgazione delle leggi per l’applicazione dello Statuto, si mosse, però, con molto ritardo. L’art. 89 della Costituzione prevedeva, infatti, l’abrogazione di tutte le disposizioni e i decreti che fossero stati in contrasto con i principi costituzionali. Era quindi necessario preparare immediatamente norme adatte al nuovo assetto istituzionale, altrimenti,il paese sarebbe precipitato nell’anarchia. Sia per negligenza dovuta ad errori di calcolo politico sulla situazione interna del Regno, sia per inesperienza, si promulgarono soltanto due leggi. La legge elettorale il 29 febbraio «pessima e malissimamente concepita, non piccola cagione dei disordini che poscia contristarono il regno[1]» e quella sulla guardia nazionale il 13 marzo, mentre la legge per regolare la libertà di stampa non fu mai fatta. Il governo non riusciva materialmente a mantenere l’ordine.

Lo scenario politico, inoltre, sia all’interno che lontano del Regno, si era modificato, poiché, il 27 marzo in Sicilia il legittimo sovrano fu dichiarato decaduto, benché Ferdinando II avesse concesso, tramite la Costituzione (art. 87) e i decreti d’applicazione dello Statuto, totale autonomia all’Isola[2].

Il 24 febbraio fu proclamata la repubblica in Francia, mentre nel marzo erano insorte Milano e Venezia e il Piemonte aveva dichiarato guerra all’Austria.

Governo Saliceti

L’opinione pubblica liberale, convinta che i ministri fossero completamente incapaci di gestire la situazione fece pressioni sul re affinché li licenziasse e così si giunse ad un rimpasto di governo. Fu chiamato a ricoprire la carica di ministro della giustizia, uno degli esponenti radicali più famosi del periodo, Aurelio Saliceti[3], che propose un programma di governo in quattro punti: abolizione della camera dei Pari i cui membri erano nominati a vita dal re e giudicata dai liberali troppo legata agli interessi del Sovrano, pieni poteri alla camera dei Deputati per provvedere a una modifica della Costituzione, modifica radicale della legge elettorale ed invio di truppe sulla linea del Po in aiuto al Piemonte. Le proposte del Saliceti furono accolte in modo benevolo da gran parte dei liberali; infatti il dibattito sulla partecipazione alla guerra d’indipendenza nazionale e la modifica della Costituzione erano diventati i nodi centrali della politica napoletana. I liberali erano fermamente convinti che solo con la concessione di maggiori diritti alla rappresentanza nazionale si sarebbe potuto compensare l’enorme potere che lo Statuto garantiva al re.

Ferdinando II, tuttavia, che aveva concesso la Costituzione soprattutto per pacificare e stabilizzare la situazione politica interna, si rifiutò di sottoscrivere il programma del suo ministro ritenuto troppo radicale e foriero di nuovi disordini politici, licenziò il Saliceti e tutto il governo.

Governo Troja

Il 3 aprile venne formato un nuovo ministero guidato dal neoguelfo Carlo Troja, composto principalmente da liberali moderati che, d’accordo con il re, stilarono un programma in dieci articoli, meno radicale di quello del Saliceti, per dare applicazione allo Statuto[4]. Si stabilì che la camera dei Pari sarebbe stata composta da 50 membri (art. 4), si fissò a 240 ducati il censo di eleggibilità, fissato il giorno per l’elezione della camera dei Deputati e stabilito in 164 il numero di membri da eleggere. All’apertura del Parlamento si decise che le due camere, d’accordo con il re, avrebbero avuto facoltà di svolgere lo Statuto, cioè la possibilità di modificarlo, in riferimento alle disposizioni che riguardavano la camera dei Pari (art. 5)[5]. Tuttavia c’è da rilevare come Ferdinando II desse dell’art. 5 una lettura restrittiva poiché, nelle sue intenzioni, una modifica costituzionale non avrebbe dovuto portare alla soppressione della camera alta, come invece desideravano i deputati, ma solo ad una limitazione delle sue competenze[6]. Il programma costituzionale stabilì, infine, la partecipazione delle Due Sicilie alla guerra d’indipendenza (artt. 7-10). Il 7 aprile fu dichiarata guerra all’Austria e per l’occasione si modificò la bandiera del Regno aggiungendovi il tricolore italiano. Il 18 aprile si tennero le elezioni, ma l’affluenza alle urne fu scarsa. La maggioranza dei seggi fu conquistata dai liberali moderati. La cerimonia d’apertura del Parlamento, fissata per il primo maggio, fu posticipata al 15, per consentire ai deputati che venivano dalle province più lontane di raggiungere comodamente Napoli. La vigilia della cerimonia, nella sala comunale del palazzo di Monte Oliveto, si raccolsero in seduta preparatoria, sotto la presidenza del Cagnazzi, i deputati già presenti nella capitale. La formula di giuramento alla Costituzione, che il giorno successivo doveva essere prestata dal re e dai deputati, fu il primo argomento di discussione posto all'ordine del giorno. Ci furono accesi dibattiti e la camera, ritenendo insufficiente il testo scritto da Ferdinando II per i deputati, decise di modificarlo, compilandone un altro in cui si decise che si sarebbe giurato di «Osservare e mantenere lo Statuto politico della nazione con tutte le riforme e le modifiche stabilite dalla rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari».[7] Il nuovo giuramento, accettato dal ministero, fu sottoposto all’approvazione del re, che lo rifiutò, infatti, egli sosteneva che i deputati non avrebbero dovuto giurare su una formula in cui era prevista un’eventuale modifica del testo costituzionale esclusivamente da parte della camera, poiché si sarebbero violati sia la Costituzione che l’art. 5 del programma di attuazione. Il re, di fronte alla risolutezza dei deputati, nella notte tra il 14 e il 15 maggio, trasmise alla camera un'altra formula di giuramento: «Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro d’essere fedele alla Costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d'accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, com’era stabilito dall'art. 5 del programma del 3 aprile[8]». Il testo fu approvato dalla maggioranza dell’assemblea. Non di meno, si erano diffuse voci, tra i membri della fazione più radicale della camera, circa la presenza di truppe regie nei pressi del Parlamento. La notizia era completamente falsa e gli stessi emissari del Sovrano, giunti nel Palazzo di Monte Oliveto per consegnare ai deputati il nuovo giuramento, dichiararono di essere disposti a condurre una delegazione di parlamentari a verificare l’inconsistenza di quelle accuse[9]. Infatti, per evitare di alimentare maggiormente la già elevatissima tensione politica con la presenza di truppe per le strade della città, il re aveva dato ordine di consegnarle nelle caserme. I deputati radicali si rifiutarono di credere agli inviati di Ferdinando II ed iniziarono, con l’aiuto di una vasto numero di popolani, giunti in larga maggioranza da fuori Napoli a loro seguito, e di alcuni reparti della guardia nazionale, la costruzione di barricate a protezione del Parlamento. A questa notizia il re mobilitò le truppe che occuparono i punti nevralgici della città[10]. La mattina del 15 maggio i parlamentari dell'ala moderata, la maggioranza, fecero pubblicare un proclama in cui esortavano i cittadini armati a tornare alle loro case. Tuttavia, i deputati anti realisti e rivoluzionari, come Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti[11], continuarono a sostenere che il re non fosse realmente intenzionato a modificare la Costituzione, poiché non avrebbe permesso alla rappresentanza nazionale di abolire la camera dei Pari e ritenevano che non ci sarebbe stata nessun tipo di riforma, finché la camera dei Deputati non avesse avuto il totale controllo del potere legislativo[12]. Il solo mezzo per dimostrare la piena autonomia dei deputati sarebbe stato l’approvazione da parte del re del giuramento redatto dalla camera. Un'ordinanza regia fissò per le due pomeridiane del 15 maggio l'apertura del parlamento e si confermò la formula di giuramento concordata con la maggioranza dei deputati. Le frange più estremiste dei rivoluzionari, riunitesi a Palazzo Gravina, fecero sapere al ministero che avrebbero tolto le barricate, consentendo al Parlamento di riunirsi, purché Ferdinando II avesse allontanato le truppe a trenta miglia dalla capitale, consegnato le fortezze cittadine alla guardia nazionale e accettato, senza riserve, la prima formula di giuramento. Il governo, pur di evitare lo scontro, accolse le richieste, mentre il re le respinse, appellandosi alle prerogative che gli affidava la Costituzione: era il garante dell’ordine pubblico e capo supremo delle forze armate, non avrebbe mai ceduto alle pressioni e ai ricatti dei deputati più rivoluzionari che sobillavano la piazza[13].

I moti del 15 maggio e lo scioglimento del parlamento

I ministri, fallita la trattativa, diedero in blocco le dimissioni, mentre i deputati dell’ala moderata tentarono ancora una volta, senza successo, di far demolire le barricate. Verso le undici del mattino, infatti, una fucilata presso la chiesa di S. Ferdinando[14], fu il segnale di inizio della lotta. Sulla reggia fu issata la bandiera rossa[15] e le artiglierie cominciarono a bombardare dalle fortezze. Le cannonate distrussero diciassette barricate innalzate nella sola via Toledo[16] e altre nelle strade limitrofe. Alcuni palazzi furono distrutti. Le truppe mercenarie svizzere e quelle regolari napoletane, protette dai cannoni dei forti e affiancate da alcune batterie da campagna, diedero l'assalto alle barricate[17], espugnandole una dopo l'altra; quindi assalirono le case sospette che più tardi furono saccheggiate dai lazzari[18] che percorsero le vie della città al grido di << Viva il re ! Morte alla Nazione ![19] >>. All'inizio della rivolta i deputati radicali costituirono un comitato di salute pubblica, presieduto dal Cagnazzi e formato dal Zuffetta, Giardini, Bellalli, Lanza e Petruccelli, non riuscendo tuttavia a far nulla: la battaglia ebbe il suo corso. L'ammiraglio francese Baudin, presente a Napoli con la sua flotta, avrebbe potuto farla cessare, ma si rifiutò[20]. Lo scontro durò fino alla tarda serata del 15 e la resistenza dei liberali fu vinta. Furono distrutte le barricate e sciolto il comitato di salute pubblica. Non si seppe mai il numero dei morti di quella giornata, le cifre date nel corso degli anni dagli storici oscillano da un minimo di duecento ad un massimo di duemila vittime. Terminata la battaglia, un capitano degli svizzeri si presentò dai deputati con il decreto di scioglimento dell’assemblea firmato dal re[21]. Il giorno successivo il Sovrano licenziò il ministero, formandone uno nuovo, e ordinò lo scioglimento della guardia nazionale della capitale. Fu decretato a Napoli lo stato d'assedio ed istituita una commissione d’inchiesta sui reati commessi contro la sicurezza dello Stato dal 10 maggio in poi. Il 17 maggio venne notificato lo scioglimento della camera dei Deputati, benché questa non si fosse ancora costituita , perché, sostenne Ferdinando II: << si era assunta un potere arbitrario e illegittimo, sovversivo d'ogni principio d'ordine civile[22] >>. La Costituzione, nonostante i gravissimi fatti del 15 maggio, fu mantenuta. Furono indetti i comizi elettorali per il 24 maggio e si fissarono nuove elezioni per la camera il 15 giugno. Il nuovo ministero, guidato dal principe di Cariati, modificò nuovamente la legge elettorale, prevedendo una soglia censitaria più bassa: 120 ducati per gli eleggibili e 12 per gli elettori, sperando così di accontentare, con una legge più “democratica ” i liberali più radicali[23].

Nuovo parlamento

Il primo luglio fu convocato il Parlamento: la sua composizione non cambiò di molto rispetto al precedente. Le Camere aprirono regolarmente i lavori: la prima discussione affrontata dal nuovo Parlamento riguardò una relazione programmatica del re, che fu approvata il primo agosto dalla camera dei Deputati ed il 5 da quella dei Pari. Un gruppo di deputati, tuttavia, ricominciò un duro ostruzionismo verso Ferdinando II rimproverandogli lo scioglimento della precedente camera e riaffermò, contro l’opinione del re, la sua volontà di continuare la guerra all’Austria[24]. Conseguenza dei fatti di maggio, infatti, fu il richiamo delle truppe inviate sul Po agli ordini del generale Pepe e della flotta da guerra nell'alto Adriatico. Questo ebbe effetti non trascurabili sull’esito del conflitto, perché anche la Toscana e lo Stato Pontificio iniziarono a ritirare le loro truppe, lasciando il Piemonte solo contro l’Austria. Inoltre, la rappresentanza diplomatica, inviata a Roma per discutere sulla formazione di una Costituente e di una lega degli Stati italiani, fu ritirata.

Repressione secessione siciliana

Alla fine di marzo del 1849 si offrì alla Sicilia, per porre termine alla secessione, una Costituzione diversa rispetto a quella napoletana, con un parlamento separato e l’abolizione della promiscuità d’impiego, nella pubblica amministrazione, tra siciliani e napoletani. Il nuovo Statuto stabilì, anche, l’amnistia per i reati politici. Ciò non bastò ai siciliani che, per bocca del loro capo Ruggiero Settimo, respinsero le proposte del re. Il 15 maggio 1849 le truppe napoletane, dopo numerosi successi, entrarono a Palermo, ponendo fine alla secessione dell’Isola . Nel periodo successivo ai moti del 15 maggio nuove camere svolsero una modesta attività, riuscendo, tuttavia, a formulare alcune leggi, fra cui ricordiamo il riassetto dell’ordinamento comunale e provinciale, l’affrancazione dei canoni del Tavoliere di Puglia, l’organizzazione della Guardia Nazionale, l’inamovibilità della magistrati e il miglioramento delle prigioni[25]. I deputati desideravano una modifica della Costituzione in senso più liberale, in conformità a quanto era stato previsto dal programma per l’attuazione dello Statuto.

Fine esperimento costituzionale

Il 6 febbraio 1849 ci fu la definitiva crisi istituzionale. Il ministro delle finanze fece un discorso sul bilancio dello Stato con la presentazione della relativa legge tributaria formulata dal ministero[26]. I deputati si opposero affermando che per redigere norme in materia fiscale sarebbe occorso un voto della camera sul progetto di legge del governo, così com’era previsto dall’art. 38 della Costituzione[27]. I deputati sostennero che per quel particolare provvedimento il ministero non godeva della fiducia della camera e quindi dell’intera nazione di cui i deputati erano i rappresentanti stabilendo che la legge dovesse essere sottoposta al voto di fiducia[28]. La Costituzione non prevedeva una simile eventualità. Le disposizioni costituzionali relative ai ministri, però, erano molto generiche. Stabiliva l’art. 71: "I ministri sono responsabili"[29], senza per altro specificare con chiarezza nei confronti di chi, aprendo, quindi, ad interpretazioni elastiche del testo, per cui la possibilità del voto di fiducia avrebbe potuto trovare spazio. Da una parte il governo volle attenersi ad un’interpretazione stretta della Carta, perciò il re poteva nominare e revocare i ministri di sua scelta senza bisogno del consenso del Parlamento dovendoli rinviare alle camere nel solo caso di tradimento( art. 74)[30]. I liberali, invece, avrebbero voluto far evolvere il regime verso un parlamentarismo che la Costituzione non aveva esplicitamente previsto, essi ritennero che il ministero dovesse necessariamente avere la fiducia della maggioranza della camera dei Deputati. Il re dichiarò che i deputati avevano violato in modo palese la Costituzione. I contrasti non si appianarono e il conflitto tra governo e deputati fu risolto il 12 marzo da Ferdinando II che sciolse la camera e indisse nuove elezioni che non ebbero mai luogo.

Il re licenziò il ministero e nominò presidente del consiglio e ministro delle finanze il lucano Giustino Fortunato, ex aderente alla Repubblica Napoletana e al governo di Murat, il quale inaugurò una politica fortemente anti-liberale. Più di mille municipi mandarono delle petizioni per invitare il re a sospendere la Costituzione, ritenuta ormai, da gran parte del popolo, come fonte di disordini. Iniziarono i processi contro i responsabili dei moti del 15 maggio, furono abrogate le poche leggi elaborate dal parlamento e tornò in uso la tradizionale bandiera nazionale bianca con lo stemma dei Borbone . La Costituzione fu sospesa ma non abrogata: così fallì il primo esperimento costituzionale italiano del 1848.

Il decennio di preparazione

 
Ferdinando II, stampa del 1855

Tra il 1849 e il 1851, a causa della dura repressione portata avanti da Ferdinando II, molti andarono in esilio; tra rivoluzionari e dissidenti, circa duemila persone furono incarcerate nei penitenziari del regno borbonico. Va ricordardata la dura repressione effettuata in Sicilia con il bombardamento di Messina con centinaia di morti, che valsero a Ferdinando II il soprannome di "Re Bomba" .

Il politico inglese William Ewart Gladstone, dopo aver visitato il regno tra il 1850 e il 1851, iniziò a sostenere gli oppositori di Ferdinando II: scrisse due lettere che inviò al Parlamento inglese, in cui descriveva la «terribile condizione» del Regno delle Due Sicilie, definito la «negazione di Dio». Invero, Gladstone non aveva affatto visitato l'intero paese e molte delle sue accuse non erano affidabili, ma nonostante ciò, le sue descrizioni sul malgoverno dei Borboni si diffusero nell'intera Europa. Queste voci che vennero accreditate come vere, ma sulle quali non v'era alcuna certezza documentabile, e che andarono ad alimentare la leggenda nera di un regno oppressore in decadenza, sarebbero state orchestrate con fini machiavellici da parte di piemontesi e inglesi. Lo stesso Gladstone ritrattò le sue affermazioni, affermando che le sue lettere erano false e calunniose, che era stato raggirato e che "aveva scritto senza vedere".[31]

La diretta conseguenza delle lettere di Gladstone fu una "sensibilizzazione" dell'Europa di fronte alla questione italiana nel Regno delle Due Sicilie a favore dell'espansionismo sabaudo di Vittorio Emanuele II. Il Governo inglese, che aveva aiutato i Borboni sia durante le guerre napoleoniche sia durante il 1848, aveva infatti le sue motivazioni nel limitare l'indipendenza del Regno delle Due Sicilie: l'Inghilterra possedeva interessi economici in Sicilia (in particolare sull'esportazione dello zolfo) e Ferdinando II aveva cercato di limitare l'influenza britannica in tale ambito. Di fronte all'ostinazione del Re nel rifiutare i consigli di Francia e Inghilterra, i due paesi richiamarono i loro ambasciatori nel 1856. Vero è che Tra il 1849 e il 1851, tra rivoluzionari e dissidenti, circa duemila persone furono incarcerate nei penitenziari del regno borbonico con l'accusa di essere dei cospiratori, praticamente quasi tutta l'intellighenzia del Regno. Tra costoro ricordiamo Luigi Settembrini. Dopo il 1848 tutte le scuole private di Napoli furono chiuse, compresa quella di De Sanctis, e l'istruzione fu affidata alla Chiesa. Nella politica estera il Regno delle Due Sicilie attuò una politica isolazionista soprattutto per evitare ingerenze nella politica di repressione del movimento liberale. In campo economico si ispirò al mercantilismo seicentesco di Colbert in un mondo radicalmente mutato. La Rivoluzione industriale inglese di fine Settecento aveva ormai contagiato l'intera Europa e il libero scambio era la regola alla base dell'economia vincente. Ferdinando II si ostinò nel perseguire il protezionismo, soprattutto nel settore dell'industria siderurgica (dazi fino al 25% sulle merci di importazione) provocando la ritorsione di Francia e Inghilterra sui prodotti agricoli del Regno, settore trainante della debole economia delle Due Sicilie. Soprattutto l'olio di oliva, che veniva usato anche come lubrificante per le macchine industriali e per fabbricare il sapone, e il vino subirono forti contraccolpi.

 
Ferdinando II delle Due Sicilie, metà del XIX sec.

L'8 dicembre 1856, giorno dell'Immacolata Concezione, Ferdinando II assistette a Napoli alla Santa Messa con tutta la famiglia, gli alti funzionari governativi e moltissimi nobili del suo seguito. Dopo la celebrazione, il sovrano passò in rassegna a cavallo le truppe sul Campo di Marte. In quel momento, il soldato calabrese Agesilao Milano, rotte le righe, si lanciò sul Re e riuscì a ferirlo con un colpo di baionetta. Ferdinando II rimase scosso dal fallito attentato, preoccupato che la baionetta dell'attentatore fosse avvelenata. Durante la degenza che lo condusse alla morte, il Re chiese al chirurgo dott. Capone di controllare se la ferita al petto infertagli dal Milano si fosse infiammata. Il chirurgo lo rassicurò che la cicatrice era intatta e senza segni di infiammazione e suppurazione, comunicando ciò, qualificò infame Agesilao Milano; il Re rimproverò il chirurgo: «non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l'ho perdonato. E basta così».[32]

Secondo alcuni Ferdinando non guarì mai completamente dalla ferita e la sua morte, avvenuta poco meno di tre anni dopo (il 22 maggio 1859 morì a Caserta), sarebbe dovuta a setticemia.

Secondo altre fonti, la malattia di Ferdinando II dipendeva dall'obesità. Secondo i referti medici a stento riusciva a stare in piedi, ma nonostante i medici lo sconsigliassero compì un viaggio nella Puglia iniziato da Caserta l'8 gennaio 1859 e terminato il 7 marzo 1859 a Bari per il matrimonio del figlio. In Bari si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio religioso del figlio primogenito erede al trono Francesco II delle Due Sicilie Duca di Calabria con Maria Sofia di Baviera, sorella della Imperatrice Elisabetta, detta "Sissi", matrimonio già avvenuto per procura, senza che gli sposi si fossero mai conosciuti. Ma il matrimonio religioso fu turbato proprio dall'aggravarsi della malattia del Re iniziata già durante il viaggio, e peggiorata in Bari, tanto che Ferdinando non assistette al matrimonio. Il medico di corte Cav. Ramaglia aveva capito ben poco della gravità del male, e le condizioni di Ferdinando II peggioravano continuamente. Pertanto fu invitato dall'Intendente di Bari Cav. Mandarini il miglior medico della Provincia, Nicola Longo di Modugno (Ba), allievo prediletto del Prof. Domenico Cotugno, l'Ippocrate napoletano. Questi, dopo aver visitato minuziosamente Ferdinando II, diagnosticò un ascesso femorale inguinale, pieno di materia grigia purulenta, e propose, dopo aver tentato inefficacemente una cura con l'uso di risolventi a base di mercurio, una operazione chirurgica per asportare manualmente la materia. Tutti gli astanti, la Regina Maria Teresa d'Asburgo-Teschen, il Duca di Calabria, l'Intendente Cav. Mandarini, il medico Ramaglia, inorridirono al solo pensiero che fosse eseguita una operazione a un Re, oltretutto da un medico che aveva grande fama di liberale, essendo iscritto alla Carboneria dal 1817. Nicola Longo avvertì Ferdinando e i presenti che, se non fosse stata fatta l'incisione all'inguine a breve, ci sarebbe stata una funesta conclusione della malattia. "Maestà" disse il Longo "la sventura vostra in questa contingenza è l'essere Re; se foste stato un povero infelice gettato in un letto d'ospedale, a quest'ora sareste guarito". Rispose Ferdinando in napoletano: "Don Nicola, adesso mi trovo sotto, fate ciò che volete, ma salvatemi la vita!". Dopo aver titubato e rinviato l'operazione per quasi un mese, Ferdinando II e i reali decisero all'improvviso di ripartire da Bari alla volta di Caserta il 7 marzo 1859, nonostante il Longo fosse contrario a tale scelta. Giunto Ferdinando II in condizioni ormai gravissime a Caserta, tutti i medici di corte, Trinchera, Capone, De Renzis, Lanza, Palasciano, dopo aver riconosciuto la giusta diagnosi e cura del medico Nicola Longo, e soprattutto che l'operazione era necessaria dal primo momento, tentarono inutilmente la stessa operazione proposta dal Longo due mesi prima, ma ormai era troppo tardi. Ferdinando II spirò il 22 maggio 1859.

Poco prima della sua morte era iniziata la seconda guerra di indipendenza che vedeva schierati Vittorio Emanuele II di Savoia e Napoleone III contro Francesco Giuseppe d'Austria. Tra il 1860 e il 1861, la spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi portò alla caduta del Regno delle Due Sicilie che fu annesso al neonato Regno d'Italia.

Economia e politica

 
Foto di Ferdinando II di Borbone

Grazie all'impulso esercitato dal sovrano napoletano si riscontrarono risultati positivi nel settore economico: la marina commerciale napoletana arriva ad essere la terza d’Europa, dopo quella di Francia ed Inghilterra, per numero di navi e tonnellaggio complessivo. Nascono, sotto la protezione e con l'intervento diretto dello Stato, le prime industrie italiane, soprattutto del settore tessile e metallurgico. Anche l'agricoltura e l'allevamento vengono sviluppate attraverso la creazione di appositi centri studi statali e un sistema di finanziamento alla piccola proprietà rappresentata dai Monti Frumentari.

Secondo alcune statistiche [33], il Regno produceva, rappresentando circa un terzo della popolazione, più del 50% dell’intera produzione agricola italiana e per quel che riguarda l'allevamento, il numero dei capi, fatta eccezione per l’allevamento bovino, era ben superiore a quello del resto d'Italia sia in valore assoluto che in rapporto alla popolazione.

Ferdinando II adottò un modello politico-economico di tipo protezionistico, ispirandosi in gran parte al modello francese di Jean-Baptiste Colbert, che aveva consentito la nascita dell'industria transalpina, propendendo decisamente per un intervento diretto dello Stato nella vita economica del paese, ma limitando gli investimenti ai surplus di cassa provenienti dalle esportazioni agricole ed evitando l’indebitamento pubblico e l’aggravio della pressione fiscale mantenuta fra le più basse d’Europa.

Un modello di sviluppo lento, in quanto gli investimenti si limitavano alle somme presenti in cassa senza ricorrere all'indebitamento bancario, ma che tendenzialmente metteva al riparo da rischi e sovraccarichi fiscali per la popolazione. Ferdinando fu vicino alle istanze contadine e alle classi produttive legate al commercio marittimo e insensibile, invece, alle aspettative borghesi che spregiativamente definiva “pennaruli e pagliette”, riferendosi ovviamente alla borghesia delle professioni, ritenuta nel suo modo di intendere l’economia e la politica un corpo parassitario all’interno dello Stato. Ferdinando II rappresenta forse l’ultimo esponente di quell’assolutismo illuminato che aveva caratterizzato il ‘700 europeo e napoletano.

Matrimoni e discendenza

Si sposò per la prima volta il 21 novembre 1832 con la principessa Maria Cristina di Savoia, quarta figlia del re Vittorio Emanuele I di Savoia. Dal matrimonio nacque:

Ferdinando II e Maria Cristina erano cugini di secondo grado poiché entrambi bisnipoti di Francesco Stefano di Lorena e di Maria Teresa d'Austria. Donna di eccezionale carità e spirito religioso, tanto da essere annoverata tra le Venerabili dalla Chiesa cattolica, Maria Cristina morì agli inizi del 1836, quindici giorni dopo la nascita del loro unico figlio Francesco, che successe al padre sul trono.

Si sposò per la seconda volta il 9 gennaio 1837 con l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria (18161867), figlia dell'arciduca Carlo, Duca di Teschen, a sua volta figlio di Leopoldo II, e sorella dell'Arciduca Alberto. Ferdinando II e Maria Teresa erano doppi cugini di secondo grado in quanto bisnipoti di di Francesco Stefano di Lorena e di Maria Teresa d'Austria e di Carlo III di Spagna e di Maria Amalia di Sassonia. La coppia ebbe dodici figli, di cui otto raggiunsero l'età adulta:

Ascendenza

Ferdinando II Padre:
Francesco I delle Due Sicilie
Nonno paterno:
Ferdinando I delle Due Sicilie
Bisnonno paterno:
Carlo III di Spagna
Trisnonno paterno:
Filippo V di Spagna
Trisnonna paterna:
Elisabetta Farnese
Bisnonna paterna:
Maria Amalia di Sassonia (1724-1760)
Trisnonno paterno:
Augusto III di Polonia
Trisnonna paterna:
Maria Giuseppa d'Austria
Nonna paterna:
Maria Carolina d'Asburgo-Lorena
Bisnonno paterno:
Francesco Stefano di Lorena
Trisnonno paterno:
Leopoldo di Lorena
Trisnonna paterna:
Elisabetta Carlotta di Borbone-Orléans
Bisnonna paterna:
Maria Teresa d'Asburgo
Trisnonno paterno:
Carlo VI del Sacro Romano Impero
Trisnonna paterna:
Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel
Madre:
Maria Isabella di Borbone-Spagna
Nonno materno:
Carlo IV di Spagna
Bisnonno materno:
Carlo III di Spagna
Trisnonno materno:
Filippo V di Spagna
Trisnonna materna:
Elisabetta Farnese
Bisnonna materna:
Maria Amalia di Sassonia (1724-1760)
Trisnonno materno:
Augusto III di Polonia
Trisnonna materna:
Maria Giuseppa d'Austria
Nonna materna:
Maria Luisa di Borbone-Parma
Bisnonno materno:
Filippo I di Parma
Trisnonno materno:
Filippo V di Spagna
Trisnonna materna:
Elisabetta Farnese
Bisnonna materna:
Elisabetta di Borbone-Francia
Trisnonno materno:
Luigi XV di Francia
Trisnonna materna:
Maria Leszczyńska

Onorificenze

Onorificenze delle Due Sicilie

Onorificenze straniere

Note

  1. ^ Cfr. Giuseppe Massari, I Casi di Napoli dal 29 gennaio 1848 in poi
  2. ^ I decreti per l’attuazione della Costituzione furono promulgati solamente il 5 marzo 1848, cioè più di un mese e mezzo dopo la concessione dello Statuto
  3. ^ Aurelio Saliceti fu protagonista della rivoluzione napoletana nel ’48 e della repubblica romana l’anno successivo, coprendo la carica di console. Cfr. E. DI CIOMMO, La nazione possibile. Mezzoggiorno e questione nazionale nel 1848, Milano 1993, pp. 188-190.
  4. ^ SFORZA G., La Costituzione napoletana del 1848 e la giornata del 15 maggio, in Regia deputazione sovra gli studi di storia patria per le antiche province e la Lombardia, 12 voll., Torino 1921, IX pp. 529-530
  5. ^ L’art. 5 del programma costituzionale del 3 aprile prescriveva: «Aperto che sarà il Parlamento, le due Camere, d’accordo col Re, avranno facoltà di svolgere lo Statuto, massimamente per ciò che riguarda la Camera dei Pari.» Ibidem
  6. ^ Sulle diverse interpretazioni, date dal re e dai liberali, della locuzione “svolgere lo Statuto”, si veda G. PALADINO, Il quindici maggio 1848 a Napoli, Milano-Roma-Napoli 1920, pp. 83-85
  7. ^ La formula di giuramento proposta dalla camera fu ribattezzata formula Pica, dal nome del deputato che l’aveva redatta. Ivi, pp. 206-207.
  8. ^ Ibidem
  9. ^ Ivi, pp. 270 ss.
  10. ^ Cfr. G. CAMPOLIETI, Il Re Bomba, Milano 2001, pp. 313 ss.
  11. ^ Per maggiori notizie sulla attività politica dei radicali Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti nella primavera 1848, cfr. G. CAMPOLIETI, op. cit., p. 312.
  12. ^ L’ art.4 della Costituzione stabiliva che il potere legislativo apparteneva congiuntamente al re e alle due Camere, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Cfr. P. CASANA, Le Costituzioni italiane del 1848, Torino 2001, p. 82
  13. ^ Le prerogative del re erano disciplinate dall’art. 63 della Costituzione: "Il re è il capo supremo dello stato: la sua persona è sacra e inviolabile, e non soggetta ad alcuna specie di risponsabilità. Egli comanda le forze di terra e di mare, e ne dispone. Provvede a sostenere la integrità del reame". Ivi, p. 89.
  14. ^ Gli storici non hanno mai appurato con chiarezza chi sparò per prima, se i rivoluzionari o le truppe regie. Cfr. G. CAMPOLIETI, op. cit., pp. 318- 319.
  15. ^ La bandiera rossa era issata sui forti della città quando scoppiavano disordini. Cfr. M. DE SANGRO, I Borboni nel Regno delle Due Sicilie, Napoli 2001, p. 189.
  16. ^ Via Toledo era, ed è tutt’ora, la strada principale di Napoli
  17. ^ Cfr. G. CAMPOLIETI, op. cit., p. 322.
  18. ^ I lazzari erano i popolani napoletani da sempre fedeli alla famiglia reale.
  19. ^ Ibidem
  20. ^ Ibidem
  21. ^ Ferdinando II, per sciogliere la camera, si avvalse del diritto concessogli dall’art. 64 della Costituzione:"Il re può anche sciogliere la camera dei deputati, ma convocandone un’altra per nuove elezioni fra lo spazio improrogabile di 3 mesi". Cfr. P. CASANA, op. cit., p. 89.
  22. ^ Cfr. G. CAMPOLIETI, op. cit., p. 326.
  23. ^ SCIROCCO A., L’Italia del Risorgimento, 1800-1860, Bologna 1990,pp. 270-271
  24. ^ Cfr. G. PEPE,Delle Rivoluzioni e delle guerre d’Italia nel 1847, 1848, 1849, a cura dell’Istituto Nazionale per gli studi Filosofici. Associazione nazionale Nunziatella, Napoli 1991, pp. 79 ss.
  25. ^ Cfr. G. MASSARI, op. cit., p. 263.
  26. ^ Ibidem
  27. ^ L’art. 38, infatti, recitava: << I progetti di legge, che intendono a stabilire contribuzioni d’ogni specie debbono prima essere, necessariamente, presentati alla Camera dei Deputati >>. Cfr. P. CASANA, op. cit., p. 85.
  28. ^ Cfr G. MASSARI, op. cit., pp. 264- 270.
  29. ^ Cfr. P. CASANA, op. cit., p. 90.
  30. ^ Art. 74 " La sola camera de’Deputati ha il diritto di mettere in istato di accusa i ministri per gli atti, di cui questi sono responsabili. La camera de’Pari ha esclusivamente la giurisdizione di giudicarli".
  31. ^ Vittorio MESSORI, Le cose della vita, Paoline, Milano 1995, p. 304 s.
  32. ^ M.Topa - Così finirono i Borbone di Napoli - Fratelli Fiorentino
  33. ^ Correnti e Maestri, Annuario Statistico Italiano, 1860

Bibliografia

  • Nisco, Niccola, Ferdinando II. e il suo regno, Napoli, Morano, 1884
  • De Crescenzo Gennaro, Industrie del Regno di Napoli, Grimaldi editore, Napoli 2003
  • De Bernard Mathieu et D'André Devècge, Tableau généalogique de la Maison de Bourbon Edit. de La Tournelle, 1984
  • Forte Nicola, Viaggio nella memoria persa del Regno delle due Sicilie, Imagaenaria, 2007
  • AA.VV., La storia proibita, Edizioni Controcorrente, Napoli 2001 - ISBN 88-89015-57-8
  • Raffaele de Cesare-La fine di un Regno-Longanesi & C.Terza edizione-1969 Milano
  • Carlo Longo de Bellis-Archivio privato famiglia Longo

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