Marina Warner

scrittrice inglese

Marina Warner (Londra, 9 novembre 1946) è una scrittrice inglese.


Marina Sarah Warner è una delle narratrici di maggiore spicco nel panorama letteraria dell’Inghilterra contemporanea. Intellettuale impegnata, saggista, autrice di critica “storico-culturale” e di critica d’arte, ama essere essenzialmente definita una “scrittrice”. Autrice raffinata di romanzi e racconti, scrittrice originale e innovativa nella forma e nello stile, la Warner si è guadagnata un posto a sé nella produzione narrativa britannica per il taglio trans-culturale e postmoderno di una scrittura avvincente che coniuga la passione per la cultura popolare a un lucido realismo e che sa raccontare poeticamente storie di scomoda attualità. Gli ultimi tre, dei cinque romanzi al suo attivo ‘The Lost Father’ (1988), ‘Indigo’ (1992) e ‘The Leto Bundle’ (2000), narrano tutti storie di sradicamento.

Nata a Londra il 9 novembre del 1946 da madre italiana (Emilia) e padre inglese (Esmond), la Warner confessa di sentirsi lei medesima divisa a metà: “inglese e […] non inglese”. Questo un po’ per l’eredità materna rimastale nel sangue, un po’ per l’influenza della tradizione letteraria e artistica romanza, approfondita con gli studi e la ricerca, ma anche, in qualche modo, per l’infanzia trascorsa nell’Egitto coloniale. Qui il padre, dopo la guerra, affascinato dall’atmosfera cosmopolita della città, apre una libreria al Cairo dove l’autrice parla francese a scuola, inglese con gli adulti e arabo con la gente del luogo. Non dimenticherà i suoni e il fascino di quel mondo da dove però la famiglia Warner, in seguito ai primi tumulti nazionalisti, nel 1952, è costretta a partire.

Dopo un soggiorno a Londra e un trasferimento dei Warner a Bruxelles, in Inghilterra l’autrice si sentirà in quegli anch’essa “straniera” con il suo inglese “imparato più sui libri che dalle persone […] e l’estraneità allo slang”. Frequenta la St Mary's School di Ascot dove, nonostante i contrasti, affina le sue doti intellettuali e dove prende corpo quell’amore per la pittura che resterà fonte di suggestione creativa per la sua produzione critica oltre che letteraria. A diciassette anni è ad Oxford, al Lady Margaret Hall, dove si perfeziona in italianistica e in francesistica, dove emerge la sua passione per la mitologia e dove l’autrice si formerà nel campo della filologia e della medievistica, tutte componenti che si riveleranno determinanti per gli scritti futuri. L’innesto in questi studi delle sue inclinazioni (“il mio amore […] per la metafora”), con il “sangue metà italiano […] e con […] l’infanzia francofona” daranno alla sua scrittura quell’esuberanza lirica – “non influenzata dal minimalismo americano” – che, insieme al métissage dei motivi e alla contaminazione dei generi letterari, costituirà l’inconfondibile cifra della sua narrativa che punta alla cultura contemporanea con le lenti del passato.

Cruciale per la sua ispirazione narrativa – al di là degli assunti di fede da cui prenderà le distanze – sarà, per sua ammissione, l’educazione cattolica. Le forme del culto, l’agiografia, la pittura sacra, e la meditazione sulle immagini dei riti liturgici, saranno, insieme a quelle delle mitologie d’occidente e d’oriente, un archivio ricchissimo a cui l’autrice continuerà ad attingere. Quando ‘Il Padre Perduto’, che di miti e culti è pregno, appare, dopo i primi due romanzi, nel 1988, è subito un successo. Selezionato per il “Brooker Prize” ( poi andato a ‘Oscar e Lucinda’ di Peter Carey), insieme alle opere di Bruce Chatwin, David Lodge, Penelope Fitzgerald e ai ‘Satanic Verses’ di Salman Rushdie, è nello stesso anno insignito del “Commonwealth Writers Prize” e del “PEN Silver Pen Awards”.

Il romanzo seguiva ‘Monuments and Maidens: The Allegory of the Female Form”, del 1985, indimenticato saggio (premiato col “Fawcett Prize” nel 1986) sull’iconografia di stato, sull’uso nazionalista di quelle allegorie femminili che tanta parte avranno ne ‘Il Padre Perduto’ e che sono di nuovo oggi di drammatica attualità. L’impegno nell’esame delle immagini della femminilità nella storia culturale – e non solo occidentale – sarà un tratto costante della sua produzione, anche se passerà dalla ricerca delle “figure eroiche” alla critica dei miti quotidiani (“volevo occuparmi delle figure […] più anonime e silenti […] del passato). È una ricerca sempre condotta applicando alle tradizione popolari la sua formazione colta (il primo libro nel 1972 è la biografia dell’ultima imperatrice della Cina, ‘The Dragon Emperess: The Life and Times of Tz’uhsi 1851-1908, Emperess Dowager of China’, all’inizio rifiutata da Chatto & Windus). Insieme alla rappresentazione delle immagini femminili, che hanno reso i suoi saggi dei riferimenti d’obbligo nel campo degli studi delle donne e di genere, la sua area di riflessione ruota intorno ai modi in cui allegorie e simbolismi continuano a riverberare nella cultura contemporanea, e al ruolo dell’iconografia nel nostro immaginario e nelle nostre vite. L’attenzione alle pratiche della cultura popolare, che sa trasferire dall’analisi alla narrativa, la avvicina agli intenti della scuola britannica degli “Studi culturali” e la fa penetrare nello spazio contestato della produzione critica e letteraria (post-)coloniale con cui entrerà in un dibattito critico fruttuoso, specie dopo la pubblicazione del romanzo ‘Indigo’. Queste scelte estetico-politiche, che l’hanno portata al successo internazionale, non hanno avuto sempre il favore della critica. Al contrario i suoi temi e il suo tipo d’approccio (comparatismo, transculturalismo, intreccio tra letterature, tradizione e moduli popolari e colti), che convoglia nell’indagine critica opere canoniche e delle culture “basse”, che con le sue tecniche sovrappone entro le strutture narrative, la storia, il folklore e l’arte, che ama indagare in quel luogo intermedio dei “generi misti”, all’inizio sono stati accolti con riserva dall’establishmernt letterario e critico britannico. Questo suo sottrarsi alle etichette, infatti, e il suo agire controcorrente nelle scelte professionali e nella pratica di scrittura saggistica e letteraria, le hanno anzi in un primo tempo guadagnato, se non ostilità, certo diffidenza sia nello stesso ambito femminista che in quello dell’accademia, insofferente alle sue scelte di “studiosa indipendente”. Dichiara la Warner: “volevo la libertà […] di Londra […] Quando ho cominciato io […] era troppo presto per gli studi delle donne, per gli studi interculturali e per quel genere di comparatismo letterario […] Percorsi di questo tipo […] ancora non ne esistevano […] almeno in quell’ambiente accademico”. E citando John Updike, che paragonava le favole a “frammenti di vetro erosi dal tempo e abbandonati dal mare sulla spiaggia”, la Warner osserva, appunto, come questi “detriti” culturali, ultimi residui di esperienze antiche, possano offrire insospettate chiavi reinterpretative del passato non solo europeo, e possono essere utili a riprogettare futuri comuni. Negli ultimi lavori non le interessano più soltanto gli aspetti “vittimizzanti” delle discriminazioni di classe, di genere e di razza, bensì pure “i modi in cui all’interno dei sistemi di potere, delle strutture di relazione e delle gerarchie […] gli individui […] siano riusciti a costruire, a mantenere qualcosa per sé medesimi”. Vuole dunque raccontare “non solo l’oppressione”, ma anche le risorse investite nelle strategie di sopravvivenza. La densità multi-prospettica delle sue riscritture l’hanno fatta accostare alle opere di Angela Carter (amata dalla Warner pure per la “festività Rabelaisiana”) e di Antonia Byatt, autrici con le quali lei completa, per molti critici, la triade delle scrittrici di punta della letteratura britannica d’oggi. Tuttavia il sostrato romanzo della sua formazione, con tratti mediterranei che attingono ad altre culture, danno alla sua mescolanza di temi e di stili, e alle sue incursioni in ambiti non canonicamente ‘letterari’, un’impronta del tutto particolare. La Warner sa, infatti, immergere il suo mordente critico in quella pregnanza “visionaria” che è della scrittura di “Aimé Césaire, Derek Walcott, Wilson Harris e della stessa Jamaica Kincald”, “poeti” ai quali si richiama, insieme a “Baudelaire e Rimbaud” – da cui è stata “ossessionata” – e a “Quasimodo, Montale e Pavese”, autori italiani che ha amato.

Dopo gli studi di Oxford e gli anni nel giornalismo, lavorando per il Daily Telegraph e per Vogue (che lascia nel 1971), la Warner si dedica alla ricerca in un periodo di scelte cruciali per la sua vita privata. Segue in America il giornalista William Shawcross, che sposa ma da cui divorzierà, ed ‘Alone of All her Sex’, ‘The Myth and Cult of Virgin Mary’, che appare nel 1976, è frutto delle letture di quegli anni alla “Library of Congress”. L’opera è il primo esempio di quei saggi – vere e proprie “storie culturali” – ai quali i suoi romanzi si legano quasi come dei dittici (“ogni romanzo è un po’ il poscritto di un mio saggio”). Lo studio del culto della Madonna e dei suoi modelli di femminilità è, infatti, seguito nel 1977 – anno in cui nasce il figlio Conrad – dal romanzo ‘In a Dark Wood’ (ammirato da Peter Ackroyd), centrato sulla crisi religiosa del protagonista che scopre la propria omosessualità, dove la Warner “drammatizza” il suo “distacco dal cattolicesimo” (“ne mettevo in discussione soprattutto l’atteggiamento verso la sessualità”). Nel 1918 – anno in cui sposa il pittore John Dewe Matthews, da cui si separerà tre anni dopo – pubblica ‘Joan d’Arc: The Image of Female Heroism’, che esamina le contrapposte appropriazioni del mito di Giovanna d’Arco nella cultura e nell’arte europea (Christopher Hill n esalterà lo spessore storico). Vi fa seguito, nel 1982, il romanzo ‘The Skating Party’ con i personaggi dell’antropologo e della giovane “strega”: “lei una moderna Giovanna d’Arco e lui un inquisitore del XX secolo”. Scriverà la Warner: “La figura della strega, nel romanzo, è usata dall’antropologo a sostegno dei suoi principi, proprio come fanno politici e storici con la figura salvifica di Giovanna d’Arco […]. Quello che conta cioè non è la figura per sé, bensì la gloria della sua morte”. Il tema della risemantizzazione dei miti eroici sarà ricorrente nella sua produzione fino a dominare gli utlimi suoi saggi. Questi sono destinati all’analisi dei miti contemporanei, vale a dire dei modi in cui, attraverso le varie pratiche culturali, essi possono mascherare la realtà e dislocarne i conflitti, disperdendoli nel pulviscolo accecante di quella gloria. Con il romanzo ‘Indigo’, del 1992, che scandaglia le origine seicentesche della famiglia del padre (i Warner: primi colonizzatori inglesi), il successo della scrittrice si consolida ulteriormente. L’autrice si confronta con i temi del colonialismo, dello sfruttamento, della schiavitù, ambientando nei Caraibi la sua riscrittura di ‘The Tempest’. Da scrittrice bianca, borghese ed europea, entra nel territorio contestato della categoria di razza, e narra la storia dell’isola “senza storia” e la vita di una nuova Sycorax, contaminando motivi, duplicando strutture narrative, ribaltando prospettive, moltiplicando i punti di vista. Per il carattere propositivo della sua riscrittura al femminile la Zabus usa il termine di incremento al fine di sottolineare l’orientamento verso il futuro delle sue trame. Distingue così le sue “re-visioni”, dalle mere “parodie” e ne colloca il valore eversivo al “crocevia tra il postmoderno” più criticamente avvertito, la “narrativa (post-)coloniale e quella post-patriarcale”. Il Nobel Derek Walcott e il poeta David Dabydeen, critici severi di ogni ambiguità ideologica nel trattamento letterario dei temi legati alla colonizzazione e alla decolonizzazione, apprezzano il taglio denunciatario dell’opera che, mantenendo il suo spessore poetico, rivela e condanna il “cuore di tenebra” dell’Europa. Vastissima è la produzione della scrittrice nell’ambito della critica d’arte (ricordiamo ‘The Inner Eye: Art Beyond the Visible’, del 1996), una passione antica, questa, che emerge oltre che nella narrativa, nella sua altrettanto ampia saggistica, sia letteraria che storica. Suggestivi sono altresì i suoi numerosi racconti, gran parte dei quali sono apparsi singolarmente in antologie o in periodici e che attendono di essere collezionati (ad eccezione di quelli pubblicati nel 1993 in ‘The Mermaids in the Basement’). I bei racconti di questa raccolta (alcuni ispirati ai dipinti di Tiepolo e Veronese) e le favole francesi da lei curate in ‘Wonder Tales’. ‘Six Tales of Enchantement’, del 1994, sono in diverso modo collegati al saggio del 1995: ‘From the beast to the Blond’. ‘On Fairy Tales and their Tellers’, indagine sulle metamorfosi di fiabe e leggende, nella trasmissione artistica e culturale, attraverso le forme popolari. È interessante osservare come alcune di queste fiabe (quella della Regina di Saba o quella di Carmelina e della maga Zenadia) vengano abilmente incorporate ne ‘Il Padre Perduto’. ‘From the beast to the Blond’ mette a fuoco le donne cattive della favolistica e al contempo esamina i ruoli delle narratrici nella nostra cultura. Neppure a questo testo è estranea l’educazione cattolica e in particolare la prossimità della Warner, da fanciulla, con la vita nelle monache, anche le più umili. Le ricorda con solidarietà come perfette “narratrici”, per l’arte nel raccontare le storie delle sante (di cui prendevano il nome) inventando per sé medesime nuove identità e vite gloriose. Il rapporto fra immaginario e psiche è ulteriormente ripreso in ‘No Go the Bogeyman: On Scaring Lulling and Making Mock, del 1998, dove la discorsività letteraria è intrecciata a quella medico-scientifica. Un avvincente esito narrativo di questo interesse è “The Food of Angels” (in ‘The Mermaids in the Basement’), racconto di un caso d’anoressia nelle campagne vittoriane. La storia – fra santità ed isteria – mette in scena, con i due lessici della mistica visionaria e della medicina dell’epoca, le contraddizioni sociali entro cui la fanciulla è intrappolata. ‘No Go the Bogeyman’ è imperniato sulle immagini maschili, ed esplora forme e funzioni degli orchi antichi e moderni; una sorta di viaggio nelle nostre paure e nelle strategie a cui ricorriamo per riuscire a superarle. (All’immaginario inquietante dell’infanzia, la scrittrice ha dedicato, oltre che alcuni racconti, numerosi suoi scritti critici fra i quali citiamo ‘Into the Dangerous World’, Some Reflections on Childhoodand its Costs’, del 1988). I temi ritornano in ‘Managing Monsters’. ‘Six Myths of our Time, del 1995, che raccoglie le sue “BBC Reith Lectures” del 1994, ormai un classico degli Studi culturali. L’autrice vi analizza modalità di sopravvivenza e di mutazione di miti e simboli, attraverso i diversi codici rappresentativi (orali, scritti, visivi) delle forme popolari antiche e moderne (compresi il cinema e altri media) e tende appunto a dimostrare come questo tipo d’immagini siano ogni volta “incorporate entro determinate strutture di potere”. In ‘Fantastic Metamorphoses’, ‘Other Worlds: Ways of telling the Self’ (che raccoglie le sue “Clarendon Lectures”) esamina tra l’altro le rielaborazioni mitico-favolistiche presenti nel “gotico imperiale” inglese. In ‘The Leto Bundle’, ultimo suo romanzo di successo, la figura centrale – che è insieme archetipo mitologico di ogni migrante in fuga e versione contemporanea dell’Orlando di Virginia Woolf – attraversa storia e paesi dei Balcani, teatro turbolento di una spola infinita tra oriente e occidente, proiettata sullo sfondo dei conflitti del mondo globalizzato. Oggi Peter Hulme colloca le riscritture della Warner tra gli esempi più illustri della narrativa storica contemporanea inglese. Marylin Butler ne ammira l’abilità nel portale alla luce tematiche cruciali della cultura del nostro tempo. Gillian Beer ne apprezza l’eccentricità tematica e stilistica. E Ursula Leguin esalta quel suo affondo nella letteratura e nelle radici dell’immaginario per ricondurre miti e riti a questioni di scottante attualità, trovando i nessi tra “Keats e il cannibalismo, la pornografia e il patriottismo”. Gli articoli della Warner appaiono tra l’altro su “The London Review of Books”, “The Times Litterary Supplement”, “The New York Times Books Review” e “Lettre Internationale”. Insignita di numerose onorificenze, la Warner da anni è invitata a insegnare presso istituzioni ed università prestigiose tra cui il Getty Center, Oxford, Cambridge, Yale e Stanford. Le sue opere sono tradotte in tutto il mondo. ‘Il Padre Perduto’ (‘The Lost Father’), già tradotto in molte lingue, è il primo romanzo ad essere tradotto in Italia. Marina Warner vive ancora oggi a Londra, il suo impegno di scrittrice prosegue, fedele ad un metodo che include nel suo orizzonte narrativo nodi nevralgici della contemporaneità, e che oppone la ricerca del suo “genere misto”, alle facili, o equivoche, dichiarazioni di multiculturalismo.

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