Nicolò Mignogna
Nicolò Cataldo Mignogna (Taranto, 28 dicembre 1808 – Giugliano in Campania, 31 gennaio 1870) è stato un patriota e politico italiano, fu uno dei 1089 componenti della Spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi.
Biografia
Nato a Taranto il 28 dicembre 1808 da donna Anna Rosa Troncone e da Cataldantonio, ebbe nel padre e nello zio Francesco esempi di “patrioti” da tenere sempre a modelli. Infatti entrambi conobbero le persecuzioni del dopo 9 marzo 1799 e le angherie vendicative di Fabrizio Ruffo, “carnefice e cardinale”, “fatto felino nel suo trionfo di sangue dopo aver espugnato Crotone, patteggiato con Catanzaro, distruggendo Andria, mettendo a ruba e seminando la sanguinosa strage in Altamura”, come scrisse Alessandro Criscuolo in “Ricordi di Nicola Mignogna”, Taranto 1888. Il delitto di suo padre era stato quello di aver innalzato ai piedi della fontana, sotto gli occhi del vecchio Nettuno, l’albero della libertà, adorno del berretto frigio, e di aver danzato inneggiando alla “Dea ultrice della tirannide”. I persecutori di Cataldantonio finsero di ignorare, però, il suo coraggio e la sua abnegazione quando, messosi a capo dei marinai e dei pescatori, insediatosi nel castello nostrano ed esautorato dal suo compito il Castellano del momento, potè con i suoi fidi scongiurare la rivolta e lo scorrere del sangue, facendo rispettare case, donne e masserizie. Non era poco, mentre servitori infedeli quali Corbara e Colonna e un soldato e disertore quale Boccheciampe, giunti a Monteiasi, messisi d’accordo con un massaro locale, prepararono il terreno per il rientro a Taranto dei Borboni. Se a ragione Gaetano Filangieri aveva sostenuto che l’idea di libertà giunge a noi dalla natura stessa, cercando la dimostrazione del suo assunto nella storia di tutte le genti che “più mirano alla libertà quanto tirannide più la contrasta”, Stuart Mill aveva rincarato la dose, osservando che tale idea di libertà viene sì da natura, ma ben rafforzata dagli studi, dall’educazione, dalla famiglia e dalla città. E “Nicola Mignogna trasse da tutte queste scaturigini l’amore grande alla libertà”. Per questo merito una via al centro di Taranto è a lui dedicata, e sulla facciata della casa in cui nacque, in via Duomo, vi è una lapide con una epigrafe del Criscuolo: “Ma per scrivere la vita di questo grande tarantino non bastano poche fuggevoli note, … occorrerebbe un volume, come alla gloria del suo nome, poca cosa è una lapide”. Coetaneo di Cataldo Nitti, che del Nostro era più anziano di sette mesi (essendo nato Nicola il 28-12-1808 e Cataldo il 12-05-1808), studiarono entrambi al Seminario di Taranto prima e a Napoli poi giurisprudenza. Entrambi, coscienti della miseria civile e del dolore che da essa proveniva, si adoperarono perché la Puglia prima e l’Italia poi fossero scosse da un sano e rigoglioso risveglio. Comunicarono con epistole che la famiglia Nitti ha sempre conservato come “sacra cosa”. Ma già in quelle aule del palazzo arcivescovile tarantino i due avevano incominciato a riconoscersi, rincorrersi e stimarsi. Avevano cominciato le letture dei classici quali Tacito, Plutarco, ecc., anche se epurate da tutto quanto potesse destare loro giovanili entusiasmi libertari. Era ancora cocente il dramma del vescovo di Vico Equense, monsignor Michele Natale, dissacrato e appeso alla forca nel 1799, “reo di aver insegnato che Cristo volle eguali i figli dell’uomo … e che dove è sacrificio è sacerdozio”, ricorda il prof. Eduardo De Vincentis in “I Patrioti salentini”. E subito dopo riporta il distico che nel 1825, il 5 gennaio, apparve anonimo a Napoli: “Accadono in vero gran cose strane.
Moriva un lupo e l’assisteva un cane”
riferendosi all’improvvisa morte di Ferdinando I, trovato solo con il suo mastino nella camera da letto il mattino del 4-1-1825. Il trono sarebbe toccato a Francesco I, suo figlio, che avrebbe regnato fino al 1830, salendo poi al trono quel Ferdinando II, tanto implicato nelle innumerevoli sofferenze afflitte ai nostri due illustri concittadini perché “il despota è sempre despota, mentisce quando giura e giura quando trama; ma si vendica sempre” (De Vincentis, pag. 26, op. cit.) Ma ora poniamo maggiore attenzione su Nicola e sulla sua vita familiare. Dopo il saluto gioioso che il padre gli tributò ritenendolo, appena ricevuta la notizia della sua nascita dalla mammana che aveva aiutato donna Anna Rosa a partorire, nuovo ed utile virgulto antiborbonico, e dopo quegli studi in seminario, nei quali aveva evidenziato più astuzia che profondità intellettuali, muovendo i suoi più solerti docenti qualche rimbrotto di troppo, ma anche malcelato e sornione sorriso, il giovane, ormai ventenne, assistè ai preparativi e al matrimonio della sorella Teresa, avvenuto il 26-12-1828, con il patriota Serafino Salomono. Fu questa l’occasione opportuna perchè il giovane Mignogna insistesse con il vecchio padre e la famiglia tutta perché gli fosse concesso di recarsi a Napoli proprio presso quella sorella appena “provvidenzialmente” maritata. Dopo i primi “no”, tramutatisi in “ni”, il giovane ebbe la meglio. L’aria della capitale lo avrebbe mutato nella vocazione. Infatti, appena giunto a Napoli, si recò da un rigattiere scambiando l’abito talare con quello civile e con questo frequentò assiduamente le aule di giurisprudenza, laureandosi brillantemente e divenendo amico di Luigi Settembrini. Intanto a Marsiglia l’esule Giuseppe Mazzini dava vita nel 1831 alla Giovane Italia come “fratellanza degli italiani credenti in una legge di Progresso e di Dovere … repubblicana perché teoricamente tutti gli uomini di una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’Umanità, ad essere liberi, uguali e fratelli…unitaria perché senza Unità non v’è veramente Nazione, perché senza Unità non v’è forza e l’Italia, circondata da nazioni unitarie, potenti e gelose, ha bisogno anzitutto d’essere forte…” (in Giuseppe Mazzini e gli operai, Introduzione di G. Benvenuto, Roma, UIL, 1991, pag. 7). A questa associazione si affiliava Giuseppe Garibaldi nel 1833 e, secondo autorevoli cronache storiche, Nicola Mignogna nel 1836, che ne presiedè il comitato napoletano. Partecipò ai moti del 1848 e in seguito processato e condannato nel 1855 all’esilio perpetuo dal Regno delle Due Sicilie, perché era stata sorpresa una corrispondenza cifrata nella sua abitazione. Circondato da dieci gendarmi, esclamò: “Quale fortezza si espugna!”. Fu imprigionato, ma non volle rivelare la chiave di lettura del cifrario delle lettere, per cui fu condannato a 100 fustigate. Così, legato ad una panca, subì il supplizio, al termine del quale rimase per due giorni fra la vita e la morte. Ripresosi alquanto, ritornò in cella. I compagni di prigione gli fecero notare, con stupore, di avere i capelli bianchissimi, mentre prima delle frustate era di capigliatura folta e corvina. Tanto aveva potuto quell’atroce supplizio. Nel novembre del 1856 aveva perso l'adorata madre, che tanto aveva tribolato per la sua vita zingaresca. Ma il nostro, spartano di carattere e puro di cuore, aveva tempra d’acciaio, tutte qualità che gli riconobbe Giuseppe Garibaldi, conosciuto a Genova durante l’esilio forzato. Per questo lo nominò tesoriere della spedizione dei Mille (per la precisione i Mille furono ufficialmente 1089 più una donna, la moglie, ancora per poco, di Crispi). “Amiamoci che siam pochi” soleva ripetere prima dell’imbarco da Quarto il coriaceo tarantino, ormai totalmente imbiancato nella capigliatura. Giunti a Palermo, ricevette da Garibaldi l’ordine di partire per le regioni meridionali con il compito di preparare il terreno in quanto ogni movimento rivoluzionario operato nelle province napoletane prima del suo arrivo sarebbe stato utile a dare una tinta di lealtà nei riguardi della diplomazia europea. Così non sarebbe apparsa occupazione piemontese quella conquista, ma reale volontà popolare. E le cose si compirono secondo i patriarchi della nostra nazione. Con una missiva datata 31 luglio 1860 il Generale scriveva: “Caro Mignogna … qualunque ufficiale dell’esercito napoletano che si pronuncii pel movimento nazionale sarà accolto fraternamente nelle nostre file, col proprio grado e promosso secondo il merito. Dite ai vostri prodi del continente napoletano che, presto, saremo insieme a cementare la sospirata, da tanti secoli, nazionalità italiana”. Come raccontò lo storico Tommaso Pedio, Nicola aveva incontrato a Genova Emilio Petrucelli con il quale si ritrovò a Napoli, convocando entrambi il 5 agosto il comitato d’Azione. E fu proprio il Petrucelli a “mettere d’accordo” le due anime del patriottismo meridionale: Mignogna e Giacinto Albini. Il primo era tarantino, non lucano, ma era come se lo fosse. Giacinto, invece, era nato occasionalmente, per volere della madre Aurelia d’Elice, appartenente alla nobiltà baronale montemurrese, a Napoli. Era della classe 1821 (24 marzo), più giovane quindi del nostro concittadino di quasi 13 anni. Conseguita la laurea in Giurisprudenza prima e Lettere poi, fu indeciso sul proprio futuro, alternando i suoi interessi per la poesia e l’insegnamento. Pubblicò un libro di versi dal titolo “Ore poetiche” e una grammatica latina. Promotore e fondatore di un circolo costituzionale a Montemurro, si prefisse inizialmente la concessione di una costituzione al Regno delle Due Sicilie. A seguito della realizzazione della stessa e dell’altrettanta celere abrogazione, decise di contrapporsi ai Borboni appassionandosi alle idee mazziniane e al sogno dell’Unità d’Italia. Nel 1850 fondò, sempre a Montemurro, un comitato antiborbonico di stampo repubblicano. Servendosi dei commercianti montemurresi, fece diffondere con le mercanzie le idee liberali e mazziniane in tutto il regno di Napoli. Le persecuzioni, però, cominciarono anche per lui: era il 1856 e, sebbene condannato per ben tre volte dalle corti prima di Napoli, poi di Potenza ed infine di Catanzaro, riuscì sempre a evitare la cattura, rimanendo nascosto in Basilicata. Disapprovò, sconsigliò e soffrì per la fine tragica della spedizione di Sapri del 1857. Intanto un terremoto aveva raso al suolo Montemurro; così Albini, miracolosamente sopravvissuto, dopo essere rimasto sepolto dalle macerie per ben 24 ore, si trasferì in località Morroni, sempre sul territorio di Montemurro. A seguito della caccia senza quartiere dei Borboni, nel 1860 si trasferì a Corleto Perticara inizialmente e a Potenza poi (18 agosto), preparando quell’insurrezione che vide la Basilicata prima regione meridionale a combattere l’imbelle Francesco II e a proclamare l’Unità d’Italia. Così accadde che la città di Potenza, con Regio Decreto n. 395 del 4-91898, fosse l’11-12-1898 tra i 27 gonfaloni comunali insigniti della medaglia per benemerenze risorgimentali e tra queste città solo cinque del meridione. Vantare l’alto onore di aver ricevuto la medaglia d’oro per l’impegno e il sacrificio mostrato durante il periodo risorgimentale non è poco, soprattutto se si legge attentamente la motivazione: “In ricompensa del valore dimostrato dalla cittadinanza nel glorioso episodio del 18 agosto 1860, lo stesso giorno dello sbarco di Garibaldi in Calabria …”. A Corleto, già dagli inizi del ’60, si era costituito il “Comitato centrale lucano”, che a sua volta controllava dei sottocomitati. Il gruppo rivoluzionario soleva riunirsi nell’abitazione di Carmine Senise per delineare una strategia unitaria. Alla guida del comitato, nei primi d’agosto del ’60, erano proprio Nicola Mignogna e Giacinto Albini, che il 15 avevano divulgato un comunicato in tutti i paesi della Basilicata allo scopo di invitare i liberali a concentrare le proprie forze su Potenza per il 18 agosto. Così il 16 fu a Corleto ufficialmente proclamata la rivoluzione al grido di “Garibaldi dittatore, Italia e Vittorio Emanuele”. Il comando delle forze fu affidato al colonnello Boldoni. Il primo drappello d’insorti, giunto a Corleto, fu quello di Pietrapertosa. Un’altra colonna proveniva da Genzano, un’altra ancora da Avigliano agli ordini, quest’ultima, di un sacerdote, don Nicola Mancuso. In tutto erano 200 uomini. Organizzate le colonne ed impartite tutte le disposizioni per marciare su Potenza, il colonnello si avviò con gli insorti verso il capoluogo. Sulla strada si univano gruppi provenienti da Viggiano, Saponara, Tramutola, Sarconi ed altri paesi limitrofi, superando le 1500 unità. Si costituì così la terza colonna delle forze insurrezionali lucane. A Potenza le agitazioni partirono dal seminario cittadino, che si era ribellato i primi d’agosto al grido di “Viva l’Italia e viva Garibaldi”, proprio in quel collegio ove nel 1850 Ferdinando II, per frenare l’audacia degli studenti e della popolazione, aveva affidato l’educazione ai Gesuiti. Questi, per quanto si fossero adoperati a piegare le opinioni politiche, non riuscirono mai nel loro intento. Anzi …! Infatti il 13 agosto i seminaristi, insieme alla popolazione, vollero recarsi al ponte di Gallitello per festeggiare il ritorno di Emilio Petruccelli, nato a Moliterno il 24 settembre 1817 da Domenico Petruccelli e da Maria Montesano. Avvocato colto ed acuto, Emilio fu cospiratore accanito, adoperandosi per l’Unità e l’indipendenza dell’Italia. Iscrittosi al partito mazziniano, nel 1848 venne arrestato e dopo 5 anni di carcere preventivo fu condannato a un lungo periodo di detenzione. Esiliato in Inghilterra, ritornò in Italia e si stabilì a Potenza, dove fece parte di comitati rivoluzionari. Dopo l’Unità combattè il brigantaggio, essendo stato nominato giudice di Gran Corte criminale. Poco dopo la nomina, però, egli, nato per essere libero, rifiutò l’incarico. Morì, celibe, a Potenza il 4 settembre 1884. Ritorniamo, ora, all’insurrezione gloriosa di Potenza, stabilita per le ore 10 del 18 agosto. Nella raccolta di fondi per l’imminente rivoluzione, circa 250 ducati, si vide addirittura contribuire le suore di S. Luca. Intanto nella notte del 17 entrarono nel capoluogo lucano 400 soldati borbonici. Così la mattina seguente gli insorti si ritrovarono i gendarmi comandati dal capitano Castagna, che non volle allinearsi con i patrioti al grido “Viva Garibaldi”; anzi al loro incitamento il capitano rispose con il fuoco. Così nello scontro caddero una decina di persone, mentre i realisti ripiegavano verso Tito, dove furono disarmati. Il Boldoni entrava, contemporaneamente, nella città dalla parte opposta della colonna rivoluzionaria. La notte del 18 agosto, in casa Viggiani, fu costituito il governo prodittatoriale nelle persone di Albini e Mignogna. (1) Ancora una volta si ripropose il dualismo Albini/Mignogna; il primo era il rappresentante designato del comitato dell’ordine, il secondo del comitato d’azione. Erano due antagonisti amici; il primo il Mazzini lucano, il secondo amico dichiarato e referente di Garibaldi. Se Giacinto rappresentò l’anima più conciliatrice e moderata del movimento insurrezionale, Nicola quella radicale. Se il primo gridava: “Italia e Vittorio Emanuele”, Nicola rispondeva: “Viva Garibaldi”. Ci sarebbe voluto Emilio Petruccelli per mediare e conciliare le due posizioni al grido: “Italia e Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi”. Il 4 settembre 1860 Garibaldi giunse a Fortino di Lagonegro. Qui lo accolsero Mignogna e Pietro Lacava. I due posero gli omaggi del governo lucano e gli consegnarono a nome del popolo seimila ducati. Il Generale accettò tale somma per poi devolverla in sussidi nei confronti dei soldati borbonici che avevano abbandonato le truppe ed erano allo sbando in ritirata verso Napoli. L’insurrezione della Basilicata si era così compiuta: senza armi, come sostenne Liborio Romano, e con una spesa di 100 mila lire circa, di cui 12 mila furono spedite a Corleto dal comitato di Puglia, 75 mila raccolti nella provincia ed il resto portato dall’Albini a Napoli. Era stato fondato un giornale ufficiale, “Il Corriere Lucano”; intanto Nicola Mignogna nel 1862 seguì Garibaldi in Aspromonte. Tesoriere dei Mille nella VII campagna comandata da Benedetto Cairoli, viveva sostenuto dai cittadini tarantini che mantenevano l’anonimato. Chiamato a far parte della Camera dei Deputati, rifiutò la candidatura per ristrettezze economiche. Accettò, invece, di far parte del Consiglio Comunale di Napoli, coprendo tutte le cariche coscienziosamente senza soprusi né ingiustizie. Morì il 31 gennaio 1870 a Giugliano in Campania. Le cronache raccontano che si mantenne sino all’ultimo fedele ai suoi principi e, in punto di morte, l’ultima parola da lui pronunciata fu: “A Roma”. Riposa nel cimitero di Poggioreale accanto ad altri eroi immolatisi per la gloria “altrui”.
Fonti e Bibliografia
- Tommaso Pedio, Dizionario dei patrioti lucani: artefici e oppositori, (1700-1870), Bari: Grafica Bigiemme, 1969-1990.