Utente:Franco aq/sandbox0
Battaglia di Didgori | |
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La Battaglia di Didgori fu combattuta tra gli eserciti del Regno di Georgia e del cadente Impero selgiuchide, on 12 agosto 1121 a Didgori, 40 km a sud-ovest di Tbilisi, l'attuale capitale della Georgia. La battaglia si concluse con una decisiva vittoria del re Davide IV di Georgia sull'esercito d'invasione selgiuchide guidato da Ilghazi e la successiva riconquista di Tbilisi, che era rimasta per secoli in mano ai musulmani e che divenne la capitale del regno. La vittoria a Didgori inaugurò l'"Età aurea" medievale della Georgia ed è celebrata nella cronache georgiane come una "vittoria miracolosa" (ძლევაჲ საკვირველი, dzlevay sakvirveli), mentre i moderni Georgiani continuano a ricordare l'evento ogni anno a settembre in una festa conosciuta come Didgoroba ("[il giorno] di Didgori").[1]
Scenario
Il Regno di Georgia era stato un tributario del Grande impero selgiuchide sin dagli anni 1080.
Tuttavia, negli anni 1190 l'energico re georgiano Davide IV, sfruttando delle tensioni interne alla nazione selgiuchide ed il successo degli europei occidentali della Prima crociata contro il controllo musulmano della Terra Santa, riuscì ad istituire una monarchia relativamente forte, riorganizzò il suo esercito e reclutò Kipčaki, Alani ed anche "ifranj" mercenari per condurli alla riconquista delle terre perdute ed alla cacciata dei predoni turchi. Davide revocò i tributi ai Selgiuchidi nel 1096/7, pose fine alle migrazioni stagionali dei turchi in Georgia e recuperò varie importanti fortezze in una serie di campagne dal 1103 al 1118. Il suo principale obiettivo fu la riconquista di Tbilisi, un'antica città georgiana che era stata sotto il governo musulmano per oltre quattro secoli, Davide intraprese azioni militari anche fuori dalla Georgia, penetrando fino al bacino dell'Aras ed al litorale del Caspio e terrorizzando il commercio musulmano per tutta la Transcaucasia. Entro il mese di giugno 1121 Tbilisi era sotto assedio georgiano e la sua élite musulmana fu costretta a pagare un pesante tributo a Davide IV.[2]
La battaglia
La risorgente energia militare georgiana portò ad una risposta coordinata dei musulmani. Sia le fonti georgiane che quelle islamiche testimoniano che, a seguito dei lamenti dei Musulmani di Tbilisi, il Sultano Mahmud II b. Muhammad (r. 1118-1131) inviò una spedizione in Georgia alla quale presero parte l'artuqide Ilghazi di Mardin, il mazyadide Dubays II b. Sadaqa di Al Hillah e il fratello del sultano, Tughrul signore di Arran e Nakhichevan, con il suo atabeg Kun-toghdi. Questo esercito combinato sotto il comando generale di Ilghazi entrò nella valle di Trialeti nella Georgia orientale e si accampò nelle vicinanze di Didgori e Manglisi nella metà dell'agosto 1121.[2]
Il numero dei combattenti così come il corso della battaglia sono riportati in maniera diversa nelle relazioni storiche contemporanee. La forza dell'esercito selgiuchide varia dalle 200.000 alle 605.000 unità a seconda delle fonte medievali islamiche, georgiane, armene od europee. L'esercito di re Davide è stato tradizionalmente stimato in 40.000 Georgiani, 15.000 Kipčaki, 500 Alani e 100 crociati "ifranj". Secondo il cronachista arabo Ibn al-Asir, prima della battaglia, Davide inviò 200 soldati al campo selgiuchide che finsero di essere rinnegati ed attaccarono improvvisamente quando raggiunsero le linee nemiche. Mello stesso tempo la principale forza georgiana, condotta da Davide e suo figlio Demetrio, attaccò il fianco dei Selgiuchidi. In tre ore di battaglia campale le truppe selgiuchidi furono sopraffatte completamente e costrette alla fuga lasciando grandi quantità di bottino ai vincitori.[3]
Conquista di Tbilisi
Dopo la vittoria, David mosse inesorabilmente contro le rimananeti sacche di resistenza islamica e l'anno successivo, nel 1122, egli invase Tbilisi, così che la città potesse divenire, secondo un cronachista georgiano, "per sempre un arsenale e capitale per i suoi figli.". Le fonti medievali sottolineano le rappresaglie di re Davide contro i musulmani di Tbilisi. Tuttavia lo storico arabo al-'Ayni (1360-1451), che utilizza fonti in parte andate perdute, dice che la città fu saccheggiata ma ammette che alla fine il re georgiano mostrò pazienza e "rispettò i sentimenti dei musulmani più quanto avevano fatto i governanti musulmani."[2][3]
Note
- ^ (EN) Suny, Ronald Grigor (1994), The Making of the Georgian Nation, p. 36. Indiana University Press, ISBN 0253209153
- ^ a b c (EN) Minorsky, Vladimir, "Tiflis", in: M. Th. Houtsma, E. van Donzel (1993), E. J. Brill's First Encyclopaedia of Islam, 1913-1936, p. 755. Brill, ISBN 9004082654.
- ^ a b (KA) Javakhishvili, Ivane (1982), k'art'veli eris istoria (The History of the Georgian Nation), vol. 2, pp. 184-187. Tbilisi State University Press.
Bibliografia
- (inglese) Raymond C. Smail, Crusading Warfare 1097-1193, New York, Barnes & Noble Books, 1995 [1956], pp. 272 pagine, ISBN 1-56619-769-4. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) John Beeler, Warfare in Feudal Europe 730-1200, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1973, ISBN 9780801491207. URL consultato il 2 novembre 2008. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
Further reading
- (DE) Fähnrich, Heinz (1994). "Die Schlacht am Didgori". Georgica 17, 33-39.
Teoctisto vescovo | |
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Morte | tra il 257 ed il 259 |
Teoctisto (... – tra il 257 ed il 259) fu vescovo di Cesarea Marittima[1] attorno alla metà del III secolo.
Quando Origene riparò in Palestina per sfuggire alle persecuzioni di Caracalla, nel 215 o 216, Teoctisto lo accolse a Cesarea e, insieme ad Alessandro di Gerusalemme, lo indusse a di predicare pubblicamente anche se era ancora un laico [2] [3]. Allora Demetrio gli scrisse un rimprovero, ritenedo che un laico non dovesse predicare pubblicamente in presenza di un vescovo.Teoctisto e Alessandro difesero la loro condotta con una lettera nella quale citarono precedenti casi di predicatori laici, ma Demetrio richiamò ugualmente Origene ad Alessandria[4].
Più tardi, attorno al 230, Teoctisto consacrò presbitero Origene, con l'approvazione di Alessandro[3][5][6][7]e suscitando le ire di Demetrio[2].
Teoctisto morì probabilmente tra il 257 ed il 259 quando Sisto era vescovo di Roma, gli successe Domnus[1][8][9].
Note
- ^ a b (EN) Eusebio di Cesarea, The Bishops that flourished at that Time (PDF), in Historia Ecclesiastica, Vol. VII cap. 14, Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 20 marzo 2011.«..; ed essendo morto Teoctisto di Cesarea di Palestina, Domnus ricevette quell'episcopato. Ma lo tenne per poco tempo e Teotecno, nostro contemporaneo, gli successe. Egli era anche un membro della scuola di Origene.»
- ^ a b (EN) Fozio, Pamphilus & Eusebius, Defense of Origen, in Myriobiblon, Codice 118, Early Church Fathers - Additional Texts.«Si dice che il movimento contro Origene nacque in questo modo:
- Demetrio, vescovo di Alessandria, aveva un'alta opinione di Origene e lo aveva ammesso tra i suoi amici più intimi. Ma mentre Origene era in procinto di partire per Atene, senza il permesso del vescovo fu ordinato da Teotecno, vescovo di Cesarea di Palestina, in contrasto con la norma della Chiesa ma con l'approvazione di Alessandro, vescovo di Gerusalemme. Questo incidente cambiò l'amore di Demetrio in odio e la sua lode in biasimo. Per condannare Origene fu convocato un sinodo di vescovi e alcuni presbiteri che, secondo Panfilo, decisero che non avrebbe potuto rimanere o insegnare in Alessandria ma gli consentirono di conservare il sacerdozio. Ma Demetrio e alcuni vescovi egiziani, con l'assenso di coloro che in precedenza lo avevano sostenuto, lo esonerarono anche dalle sue sacre funzioni.
- Dopo essere stato bandito da Alessandria fu accolto da Teotecno, vescovo di Cesarea di Palestina, che gli consentì di vivere a Cesarea e gli diede il permesso di predicare. Tali sono le ragioni, secondo Panfilo, per l'attacco ad Origene.»
- ^ a b Tixeront, p. 90
- ^ (EN) Eusebio di Cesarea, Circumstances related of Origen (PDF), in Historia Ecclesiastica, VI cap. 19, Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 22 marzo 2011.«Ma qualche tempo dopo gravi violenze si verificarono in città ed egli lasciò Alessandria e pensando che sarebbe stato pericoloso rimanere in Egitto, si recò in Palestina dove si fermò a Cesarea. Mentre si trovava lì i vescovi della Chiesa di quel paese gli chiesero di predicare e di esporre le Scritture pubblicamente, anche se non era ancora stato ordinato presbitero.
Questo è evidente da quello che Alessandro, vescovo di Gerusalemme e Teoctisto di Cesarea scrissero a Demetrio riguardo la questione, difendendosi così:
"Egli ha affermato nella sua lettera che non si era mai sentito parlare prima di una cosa del genere, né era mai accaduto che un laico potesse predicare in presenza dei vescovi. Io non so come egli arrivi a dire ciò che è chiaramente falso. Poiché ogni volta che si trovano persone in grado di istruire i fratelli queste sono esortate dai santi vescovi a predicare al popolo. Così a Laranda, Euelpis da Neon e in Iconio, Paolino da Celso, e in Sinnada, Teodoro da Attico, nostri fratelli benedetti. E probabilmente questo è stato fatto in altri luoghi a noi sconosciuti."
Egli fu onorato in questo modo, quando era ancora un giovane, non solo dai suoi connazionali ma anche da vescovi stranieri. Ma Demetrio gli mandò una lettera e tramite i membri e diaconi della chiesa, lo esortò a tornare ad Alessandria. Così egli tornò e riprese le sue funzioni abituali.»
- ^ Cattaneo, p. 360
- ^ (EN) Eusebio di Cesarea, Origen's Daring Deed (PDF), in Historia Ecclesiastica, VI cap. 8, Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 22 marzo 2011.«Ma i vescovi di Cesarea e Gerusalemme, che erano particolarmente importanti e illustri tra i vescovi della Palestina, considerando Origene degno d'onore al più alto grado, lo ordinarono presbitero. ... Demetrio ... lo ha accusò aspramente, ed osò includere in queste accuse coloro che lo avevano innalzato al presbiterio. ... A Severo, che aveva governato per diciotto anni, successe suo figlio Antonino.»
- ^ (EN) Eusebio di Cesarea, Origen's Zeal and his Elevation to the Presbyterate (PDF), in Historia Ecclesiastica, VI cap. 23, Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 22 marzo 2011.«Mentre accadevano queste cose Urbano, che era stato per otto anni vescovo di Roma, fu sostituito da Ponziano, e Zebino successe a Fileto ad Antiochia. In quel tempo Origene fu mandato in Grecia a causa di una necessità urgente relativa ad affari ecclesiastici e quando attraversò la Palestina fu stato ordinato presbitero, a Cesarea, dai vescovi di quel paese.»
- ^ Clinton, 245, 271, 287, n. 83
- ^ Le Quien, III p. 541
Bibliografia
- Eusebio di Cesarea. Historia Ecclesiastica tradotta in inglese da Christian Frederic Crusé. New York: Swords, Stanford & Co., 1833.
- Enrico Cattaneo, I ministeri nella Chiesa antica: testi patristici dei primi tre secoli, Paoline, 1997, ISBN 9788831513708.
- (inglese) Joseph Tixeront, A handbook of patrology, 2ª ed., Londra, B. Herder book co., 1923, p. 90. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) Henry Wace, William Coleman Piercy; William Smith, Theoctistus, bishop of Caesarea, in Dictionary of Christian Biography and Literature to the End of the Sixth Century A.D., with an Account of the Principal Sects and Heresies., J. Murray, 1911. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- Michel Le Quien, Oriens christianus in quatuor patriarchatus digestus, in quo exhibentur Ecclesiae patriarchae caeterique praesules totius Orientis, Parigi, Typographia regia, 1740.
- (EN) Henry Fynes Clinton, Fasti Romani: The Civil and Literary Chronology of Rome and Constantinople, from the Death of Augustus to the Death of Justin II, Vol. I, Cambridge University Press, 2010 [1845], ISBN 9781108012478.
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La cosiddetta Lettera di Aristea o Lettera dello pseudo Aristea a Filocrate è una pseudoepigrafia ellenistica del II secolo a.C.[1][2] È probabilmente il primo documento relativo alle origini della Bibbia greca dei Settanta.
Si sono conservate più di venti copie manoscritte di questa lettera che è spesso citata in altri testi.
L'autore
Secondo Flavio Giuseppe[3] che ne parafrasa circa i due quinti, la lettera è indirizzata da un certo Aristea (nome dato da Flavio Giuseppe) a suo fratello Filocrate. Il presunto autore si presenta come un greco, seguace della religione olimpica e pretende di essere un cortigiano di Tolomeo II Filadelfo (regno 281-246 a.C.) Le incongruenze e gli anacronismi dell'autore, che in realtà è un ebreo alessandrino che scrisse attorno al 170-130 a.C., sono stati esaminati nel 1522 da Luis Vives[4] seguito nel 1685 da Humphrey Hody (1659-1706)[5] che dimostrarono che si tratta in realtà di uno pseudonimo; da qui il nome convenzionale di pseudo-Aristea[6] che gli è stato attribuito.
La tesi di Hody a Oxford del 1685 provocò una "irosa e scurrile risposta" da Isaac Vossius in appendice al suo Observations on Pomponius Mela, 1686, alla quale Holy replicò in modo conclusivo nelle note alla sua ristampa del 1705.[7]
Contenu
Aux termes de la lettre, Démétrios de Phalère, fondateur et responsable de la bibliothèque d'Alexandrie, propose au pharaon (probablement Ptolémée II Philadelphe) de faire traduire les textes religieux juifs, afin de les inclure dans ses collections. Il suggère de s'adresser au grand prêtre juif, Éléazar, et de lui demander six hommes par tribu, afin de réaliser la traduction. Ptolémée accepte et le projet est mis en œuvre. Dans sa lancée, il fait libérer tous les esclaves juifs d'Égypte.
Éléazar, contacté, sélectionne 72 habitants de Jérusalem « maîtres dans les lettres judaïques, mais aussi adonnés à la culture hellénique. » Ceux-ci voyagent jusqu'à Alexandrie où le pharaon les reçoit et se prosterne par sept fois devant les rouleaux de la Loi. S'ensuit un banquet qui dure sept jours, au cours duquel le roi interroge chacun des 72 traducteurs.
Enfin, les traducteurs se retirent dans une île (probablement Pharos), où ils travaillent durant 72 jours. Lecture en est faite devant la cour de Ptolémée et l'assemblée des Juifs alexandrins. il est convenu que le texte ne devra pas être modifié, Démétrios s'exclamant même que la traduction « vient de Dieu ».
Contenuto
Narra la redazione della Septuaginta ad opera di settantadue interpreti inviati in Egitto da Gerusalemme su richiesta del bibliotecario di Alessandria per tradurre in greco la legge ebraica.
L'opera racconta come il re d'Egitto, presumibilmente Tolomeo II Filadelfo, fu spinto dal suo bibliotecario Demetrio Falereo[8] a far tradurre la Bibbia ebraica in greco: la Septuaginta. Il re rispose positivamente, offrendo anche la libertà agli ebrei che erano stati posti in cattività dai suoi predecessori ed inviando ricchi doni (che sono descritti molto dettagliatamente) al Tempio di Gerusalemme insieme con i suoi emissari. Il sommo sacerdote scelse esattamente sei uomini da ognuna delle dodici tribù,[9] 72 in tutto e fece una lunga predica in lode della Legge Lege. Quando i traduttori arrivarono ad Alessandria il re pianse di gioia e per i successivi sette giorni, pose loro domande filosofiche, le sagge risposte sono riportate per intero. I 72 traduttori completarono il loro lavoro esattamente in 72 giorni. Gli ebrei di Alessandria, quando sentirono leggere in greco la legge, chiesero delle copie e lanciarono una maledizione su chiunque avesse cambiato la traduzione. Il re allora premiò riccamente i traduttori che tornano a casa.
Anche se alcuni hanno sostenuto che questa storia della creazione della traduzione greca della Bibbia ebraica sia fittizia,[10] è il più antico testo a parlare della Biblioteca di Alessandria.
Sembra che l'autore del II secolo abbia tra gli obiettivi principali quello di affermare la superiorità del testo greco della Septuaginta su ogni altra versione della Bibbia ebraica. L'autore è decisamente filo-greco, ritraendo Zeus semplicemente come un altro nome per Hashem, e mentre la la critica è diretta contro l'idolatria e l'etica sessuale greco, le argomentazioni sono formulate in modo tale da cercare di persuadere il lettore a cambiare piuttosto che come un attacco ostile. Il modo in cui l'autore si concentra nella descrizione del giudaismo e in particolare il suo tempio di Gerusalemme potrebbe essere considerato un tentativo di fare proselitismo.
L'analisi filologica di Luis Vives, publicata in XXII libros de Civitate Dei Commentaria (1522), ha rilevato che la lettera è un falso. Nel 1684, Humphrey Hody pubblicò Contra historiam Aristeae de LXX. interpretibus dissertatio, nel quale ha sostenuto che la cosiddetta "Lettera di Aristea" è un falso di un Ebreo ellenizzato, originariamente messo in circolazione per conferire autorevolezza alla versione della Septuaginta. Isaac Vossius (1618–1689), che era stato il bibliotecario della regina Cristina di Svezia, pubblicò una confutazione di ciò, nell'appendice della sua edizione di Pomponius Mela, ma gli studiosi moderni sono unanimemente con Hody.
Victor Tcherikover (Università Ebraica) nel 1958 ha riassunto il consenso accademico:
Nel 1903, Friedlander ha scritto che la glorificazione del giudaismo nella lettera non era altro che auto-difesa, anche se "il libro non menziona gli antagonisti del giudaismo per nome, né ammette che la sua intenzione è quella di confutare gli attacchi diretti." Stein vede nella lettera "un particolare tipo di difesa, che pratica tattiche diplomatiche" e anche Tramontano parla di "una tendenza apologetica e propagandistica". Vincent lo caratterizza come "un piccolo romanzo apologetico scritto per gli egiziani" (cioè i greci in Egitto). Pheiffer ha detto: "Questo racconto fantasioso dell'origine dei Settanta è solo un pretesto per difendere il giudaismo dai suoi detrattori pagani, per esaltarne la nobiltà e la ragionevolezza e soprattutto si sforza di convertire i Gentili di lingua greca." Schürer classifica la lettera in un particolare tipo di letteratura, "propaganda ebraica in travestimento pagano", le cui opere sono "dirette al lettore pagano, per fare propaganda a favore dell'ebraismo tra i Gentili." Andrews, inoltre, ritiene che il ruolo di greco è stato assunto da Aristea allo scopo "di potenziare la forza del ragionamento e qualificarlo agli occhi dei lettori non ebrei. Persino Gutman che riconosce, giustamente, che la Lettera nacque "da un bisogno interiore degli ebrei istruiti," vede in essa "un valido strumento per fare propaganda ebraica nel mondo greco."[11]»
Ma Tcherikover continua,
Gli studiosi, avidi delle scarse informazioni circa la Biblioteca e il Museo di Alessandria, dipendevano dallo pseudo-Aristea che "ha la qualità meno attraente in una fonte: essere attendibile solo se corroborata da prove migliori, e perciò non necessaria" ha concluso Roger Bagnall.[12]
Vedi anche
Note
- ^ Harris
- ^ Pelletier
- ^ Grecia(EN) Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XII, 12-118 , passim, York University
- ^ Luis Vives, XXII libros de Civitate Dei Commentaria, 1522
- ^ Humphrey Hody, Contra historiam Aristeae de LXX (Oxford) 1705, una ristampa della sua tesi di laurea, Oxford, 1685.
- ^ Prosographia Ptolemaica, 6 (Lovanio, 1968: §14588) lo considera probabilmente immaginario.
- ^ Jellicoe, p. 31
- ^ Demetrio, un consigliere di Tolomeo I Sotere, non è un buon candidato come collaboratore di Tolomeo II: secondo Bagnall, p. 349, "fece l'errore strategico, all'inizio del regno, di sostenere il fratellastro maggiore di Tolomeo, e fu punito con l'esilio in Alto Egitto, morendo poco dopo."
- ^ L'autore della lettera suppone che all'epoca vi fossero dodici tribù di Israele.
- ^ Il racconto è "aperto ai più gravi sospetti e la lettera è ricca di inverosimiglianze ed ora è generalmente considerata più o meno una favola", ha osservato The Classical Review 33, 5/6 (agosto–settembre 1919:123) riportando Template:Cita opera
- ^ a b Tcherikover, pp. 59-85
- ^ Bagnall, p. 352
Bibliografia
- (EN) Dries De Crom, The Letter of Aristeas and the Authority of the Septuagint (abstract), in Journal for the Study of the Pseudepigrapha, vol. 17, n. 2, gennaio 2008, pp. 141-160, DOI:10.1177/0951820707087066.
- (EN) Roger S. Bagnall, Alexandria: Library of Dreams (PDF), in Proceedings of the American Philosophical Society, vol. 146, n. 4, dicembre 2002, pp. 348-362.
- (EN) Sidney Jellicoe, The Septuagint and Modern Study, ristampa, Eisenbrauns, 1993, ISBN 0931464005, 9780931464003
ISBN
non valido (aiuto).
- (EN) Stephen L. Harris, Understanding the Bible, II edizione illustrata, Palo Alto:, Mayfield Pub. Co., 1985, ISBN 087484696X, 9780874846966
ISBN
non valido (aiuto).
- (FR) André Pelletier, La Lettre d'Aristée à Philocrate, in Sources chrétiennes, n. 89, 1962.
- (EN) Victor Tcherikover, The Ideology of the Letter of Aristeas, in Harvard Theological Review, vol. 51, n. 2, aprile 1958, pp. pp. 59-85.
External links
- Online version in English translation from the Christian Classics Ethereal Library
- Online version of the Greek text from the Online Critical Pseudepigrapha
- Jewish Encyclopedia article (1901–06).
- Scholarly assessments, Early Jewish Writings website
- Lecture summary, Dr James Davila (1999), University of St Andrew's.
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Guglielmo di Malines o Messines (... – 27 settembre 1145/7) è stato un prelato fiammingo, era originario di Malines.
Fu priore del Santo Sepolcro, dal 1128 fu il primo Arcivescovo di Tiro di Rito latino e Patriarca di Gerusalemme dal 1130 fino alla morte.
Morì il 27 settembre 1145 in Palestina.
Guglielmo di Malines or Messines (died 1145/7) was the first Latin Arcivescovo di Tiro from 1128 to 1130 and thereafter Patriarca di Gerusalemme until his death.
A volte è stato chiamato Guglielmo I per distinguerlo da Guglielmo II di Tiro e da Guglielmo di Agen, secondo patriarca con questo nome.
Guglielmo proveniva dall'Inghilterra, forse era il figlio cadetto di una famiglia nobile, ed in precedenza era stato priore della Basilica del Santo Sepolcro, un uomo dalle "lodevoli abitudini".[1] Nel 1127 Baldovino II di Gerusalemme inviò Guglielmo ed il Vescovo di Ramla Ruggero a Roma a chiedere l'approvazione di Papa Onorio II alla scelta di Baldovino di fare di Folco V d'Angiò il suo successore[2].
Nel tardo 1130, quando fu trasferito a Gerusalemme, a Tiro gli successe Fulcherio di Angoulême. Egli ebbe la soddisfazione di risolvere una disputa tra il monarca ed il precedente patriarca, Stefano de La Ferté, in favore del monarca[3].
Fu un importante sostenitore di Melisenda durante la reggenza di lei, ed è descritto come un uomo capace ed allo stesso tempo flessibile.[4]
Nel 1132-33, insieme ad alcuni cittadini, Guglielmo assunse l'iniziativa di costruire un castello a Yalo per sorvegliare la strada tra Gerusalemme e Giaffa; fu chiamato Castrum Arnaldi e divenne in seguito una piazzaforte dei Templari.[5]
Nel 1139 Guglielmo si oppose ad un progetto di Fulcherio di Angoulême che, allo scopo di ricostituire l'unità della sua provincia, aveva offerto di sottomettersi al patriarca di Antiochia in cambio delle sue suffraganee che si trovavano nel Principato d'Antiochia e quindi sotto l'autorità del suo patriarca. Nonostante Roma avesse dato il suo consenso Gugliemo non accettò e l'arcivescovo di Tiro dovette accontentarsi dell'obbedienza dei vescovi della vecchia Phoenicia che avevano sede all'interno dei confini confini del Regno di Gerusalemme e del suo patriarcato, mentre i tre vescovati di Tripoli continuarono a dipendere da Antiochia.[6]
Note
Bibliografia
- (francese) Charles D. Du Cange, Nicolas Rodolphe Taranne; Emmanuel Guillaume Rey, Les familles d'outre-mer, Parigi, Imprimerie Impériale, 1869, p. 727. Lingua sconosciuta: francese (aiuto)
- (francese) L. De Mas Latrie, Les patriarches latins de Jérusalem, in Revue de l'Orient latin, vol. 1, 1893, pp. p. 18. URL consultato il 3 ottobre 2009. Lingua sconosciuta: francese (aiuto)
- (inglese) Christopher Tyerman, England and the Crusades, 1095-1588, Chicago, University of Chicago Press, 1996 [1988], ISBN 0226820130, 9780226820132. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) Malcom Barber, The Templars: selected sources, Manchester University Press, 2002, ISBN 071905110X, 9780719051104. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) Robert L. Nicholson, XIII: The Growth of the Latin States, 1118-1144, in Marshall W. Baldwin (a cura di), The first hundred years, Volume I di A History of the Crusades, Madison, University of Wisconsin Press, 1969, ISBN 9780299048341. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) Ambroise, The history of the Holy War: Ambroise's Estoire de la guerre sainte, tradotto in inglese da: Marianne Ailes, note di Marianne Ailes e Malcolm Barber, Boydell Press, 2003, ISBN 1843830019, 9781843830016. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
- (inglese) Jean Richard, V: The Political and Ecclesiastical Organization of the Crusader States, in Zacour, N. P.; Hazard, H. W. (a cura di), The impact of the Crusades on the Near East, Volume V di A History of the Crusades, Madison, University of Wisconsin Press, 1985, ISBN 9780299048341. Lingua sconosciuta: inglese (aiuto)
Collegamenti esterni
- Giosuè Musca, Crociata, in Treccani.it.
Filippo di Antiochia (... – 1226, avvelenato in prigine) fu un membro della casata dei Ranulfidi, figlio di Boemondo IV, Principe di Antiochia e Plaisance Embriaco di Gibelletto.
Nel giugno 1222 sposò la figlia del re Leone II della dinastia dei Rupenidi, la decenne Isabella d'Armenia che dal 1219 era regina della Piccola Armenia. In quanto marito della regina fu, de jure uxoris, re del Regno armeno di Cilicia dal 1222 al 1224.
Storia
La Cilicia armena che, indebolita dalle guerre, aveva bisogno di un alleato forte, trovò una soluzione temporanea in un legame con il Principato d'Antiochia:[1] il reggente Costantino di Barbaron suggerì al principe Boemondo IV di mandare il suo quarto figlio, Filippo, a sposare Isabella, insistendo solo sul fatto che lo sposo avrebbe dovuto unirsi alla separata Chiesa armena.[2] Filippo accettò di adottare la fede, la comunione e le usanze degli armeni e di rispettare i privilegi di tutti i popoli della Cilicia armena.[1][3]
Filippo sposò Isabella a Sis nel giugno 1222 e fu accettato come principe-consorte, [1] ma il regno congiunto di Isabella e Filippo durò solo poco tempo: il disprezzo di Filippo per il rituale armeno, che egli aveva promesso di rispettare, ed il suo marcato favoritismo per i baroni latini irritarono la nobiltà armena.[4] Filippo, che trascorreva più tempo possibile ad Antiochia, [2] si rese rapidamente impopolare tentando di imporre il rito e le abitudini latine al clero ed al popolo armeno.
Quando si sparse la voce che Filippo voleva dare la corona ed il trono ad Antiochia il paese si sollevò e Costantino di Barbaron guidò la rivolta (alla fine del 1224).[1] Filippo ed Isabella furono catturati a Tall Hamdun (l'odierna Toprakkale in Turchia) mentre si recavano ad Antiochia e riportati indietro a Sis dove Filippo fu strappato dalle braccia della moglie, che lo amava teneramente, gettato in prigione e probabilmente avvelenato all'inizio del 1225[1] o, secondo altre fonti, il il 24 gennaio 1226.
Alla morte del marito Isabella decise di abbracciare la vita monastica,[5] fuggì a Seleucia[4] e cercò rifugio presso gli Ospitalieri;[4] questi ultimi non avrebbero voluto consegnarla a Costantino di Barbaron ma temeva il potente reggente, così tacitarono le loro coscienze vendedogli la fortezza con dentro Isabella.[4]
Boemondo IV, furioso, era determinato alla guerra anche se tale conflitto era stato espressamente vietato dal papa in quanto dannoso per tutta la cristianità,[1] così si alleò con il sultano di Iconio, Kai-Qobad I e nel 1225 devastò il settentrione della Cilicia.[1] Costantino di Barbaron prese accordi con il reggente di Aleppo, Toghril, per muovere su Antiochia[2] e quando quest'ultimo attaccò Bagras Boemondo IV dovette tornare nei suoi territori.[1]
Aitone, il figlio di Costantino, sposò Isabella.
Note
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Voci correlate
Collegamenti esterni
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al-Malik al-Afdal ibn Badr al-Jamali Shahanshah (in arabo الأفضل شاهنشاه بن بدر الجمالي?; San Giovanni d'Acri, 1066 – 11 dicembre 1121[1]) fu un visir dei califfi fatimidi d'Egitto.
In latino il suo nome fu tradotto come "Lavendalius" o "Elafdalio".
Biografia
Ascesa al potere
Nacque a San Giovanni d'Acri, figlio di Badr al-Jamali, un Mamelucco armeno che fu il potente visir dei califfi fatimidi, a Il Cairo, dal 1074 fino alla sua morte nel 1094[2], quando al-Afdal ne fu nominato successore dal califfo Al-Mustanṣir che, a sua volta, morì poco tempo dopo.
Erede designato del Califfo era il suo figlio maggiore Nizâr, un cinquantenne, ma al-Afdal piuttosto che rischiare di dover condividere il potere, preferì sostenere il figlio cadetto ventenne, che mise sul trono califfale con il titolo di al-Musta'li. La corte, i notabili del Cairo e la missione (da'wa) ismailita riconobbero Al-Musta'li come nuovo califfo ed imam ismailita. La voce che al-Mustansir avesse cambiato parere in merito al nome del suo successore e la testimonianza della sorella del califfo sostennero questa operazione[3].
Al-Afdhal attaccò poi Alessandria, dove Nizar aveva trovato rifugio ed appoggio; inizialmente fallì e fu respinto fino alla periferia de Il Cairo, ma alla fine del 1095 al-Afdhal tornò, pose sotto assedio Alessandria e questa volta riuscì a catturare Nizar, che condusse a Il Cairo dove fu murato vivo per ordine di suo fratello al-Musta'li[3]; Nizâr morì nellla sua prigione nel 1097[4]. Contemporaneamente fu ucciso anche suo figlio Nizar bin `Ali al-Hadi. Solo il figlio minore di Nizar scampò alla morte grazie a servitori fedeli che lo condussero in Persia dove si rifugiò ad Alamut presso Ḥasan-i Ṣabbāḥ, che ne ebbe cura e lo crebbe in gran segreto perpetuando l'ismailismo nizarita[5].
Scegliendo al-Musta'li al posto di Nizar, al-Afdhal divise, e quindi indebolì, la comunità ismailita. Gli Ismailiti d'Egitto, Yemen e dell'India occidentale riconobbero al-Musta'li, i siriani invece si divisero; questa maggioranza formò l'ismailismo mustaliano. Al contrario, in Persia, sotto l'influenza di Ḥasan-i Ṣabbāḥ insediato ad Alamut, fu Nizar che venne considerato come il solo imam legittimo. Ḥasan-i Ṣabbāḥ teorizzò l'ismailismo nizarita[3].
All'epoca il potere fatimide in Palestina era stato ridotto dall'arrivo dei Turchi selgiuchidi, ma nel 1097 al-Afdal conquistò Tiro togliendola ai Selgiuchidi. Nel 1098, approfittando delle difficoltà dei Selgiuchidi, alle prese con la Prima crociata, al-Afdal Shahanshah attaccò la Palestina e, nel luglio 1098, mise sotto assedio Gerusalemme, che suo padre aveva perduto nel 1078 davanti ai Selgiuchidi guidati da Tutush. Quest'ultimo aveva affidato il governatorato della città ad Artuq (fondatore della dinastia degli Artuqidi) e poi ai suoi figli Soqman ed Il Ghazi che, il 26 agosto 1098, furono costretti a capitolare ed a consegnare la città. Al-Afdal espulse gli Artuqidi, ai quali fu permesso di raggiungere liberamente Damasco,[6] ed affidò la città ad uno dei suoi ufficiali, Iftikhar al-Dawla[7]; così riportò la maggior parte della Palestina sotto il controllo dei Fatimidi, anche se per breve tempo.
Conflitto con i Crociati
Al-Afdhal commise un grave errore di valutazione sulla natura dell'invasione della Terra santa da parte dei Crociati, che scambiò per mercenari bizantini e considerò naturali alleati contro il comune nemico, i turchi selgiuchidi[8]. Gli approcci dei Fatimidi per un'alleanza con i cristiani furono respinti ed i Crociati continuarono verso sud da Antiochia verso Gerusalemme. Quando divenne evidente che non si sarebbero fermati prima di aver conquistato la città, al-Afdal mosse da Il Cairo, ma era troppo tardi per salvare Gerusalemme, che cadde il 15 luglio 1099.
Il 12 agosto, i Crociati al comando di Goffredo di Buglione sorpresero al-Afdal alla Battaglia di Ascalona e gli inflissero una sonora sconfitta[8]. Al-Afdal potè riaffermare il controllo fatimide su Ascalona, poiché i Crociati non tentarono di tenerla, e la utilizzò come base logistica per i successivi attacchi agli Stati crociati. Al-Afdal mosse ogni anno contro il nascente Regno di Gerusalemme, nel 1103 ottiene un primo successo contro Baldovino, nel 1105 tentò di instaurare una cooperazione con l'atabeg di Damasco ma senza risutlato[8], fu sconfitto di nuovo a Ramla.
Al-Afdal e il suo esercito conseguirono effimeri successi solo fintanto che nessuna flotta europea interferì, poi non colsero altre vittorie. Anche se egli mandò a combattere le sue truppe migliori perse gradualmente il controllo delle fortezze costiere e le città della Palestina caddero una per una nelle mani dei Crociati. Nel 1109 Tripoli fu conquistata, nonostante la flotta ed i rifornimenti inviate da al-Afdal, e divenne il centro di una importante contea crociata. Nel 1110 il governatore di Ascalona, Shams al-Khilafa, si ribellò contro al-Afdal con l'intenzione do consegnare la città a Gerusalemme in cambio di grosso compenso, ma le sue stesse truppe berbere lo assassinarono e mandarono la sua testa ad al-Afdal. Baldovino arrivò a spingersi nello stesso Egitto, dove razziò Pelsium, ma morì durante la ritirata (1118). In seguito i Crociati presero Tiro come pure San Giovanni d'Acri e rimasero a Gerusalemme per decadi, fino all'arrivo di Saladino.
Morte e lascito
Al-Afdal introdusse in Egitto la iqta, una riforma fiscale che rimase immutata fino all'ascesa al potere di Saladino; egli fu soprannominato Jalal al-Islam (gloria dell'Islam) e Nasir al-Din (Protettore della Fede). Ibn al-Qalanisi lo descrive come:
Nel dicembre 1121[9], durante la Id al-adha, al-Afdhal fu aggredito per strada da tre nizariti venuti da da Aleppo[10] e morì poco dopo per le ferite[8]. Secondo Ibn al-Qalanisi:
La vera causa fu il risentimento per il potere di al-Afdal del figlio del califfo al-Musta'li, che alla morte di quest'ultimo nel 1101, al-Afdhal aveva messo sul trono, quando aveva solo cinque anni, con il titolo di Al-Amir bi-Ahkâm Allah e che, divenuto adulto aveva deciso di sbarazzarsi del suo ingombrante visir.
Ibn al-Qalanisi afferma che:
Gli successe come visir Al-Ma'mum.
Note
- ^ Sourdel, p. 36, articolo Al-Afḍal
- ^ Becker, p. 146, pone la morte di Badr al-Jamali tra novembre 1094 e gennaio 1095.
- ^ a b c Farhad Daftary, pp. 256-262
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Ebbe grande importanza nella storia del Regno armeno di Cilicia.
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Il Passo della Siria, conosciuto anche come Passo di Belen, è un valico di montagna presso la città di Belen, Provincia di Hatay, nel centro-sud della Turchia.
Lo stretto passaggio attraverso i Monti Nur, si dice che sia largo 300 passi, è la via più importante tra la regione costiera della Cilicia e l'entroterra della Siria.
Il passo è forse meglio conosciuto come il punto attraverso il quale Alessandro Magno inseguì le forze di Dario III di Persia dopo la battaglia di Isso.
Inoltre, vicino all'estremità occidentale del passo si trova il Pillastro di Giona, dove il profeta Giona su presumibilmente rigettato dalla balena che lo aveva inghiottito.
Bibliografia
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Voci correlate
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