Vāc

prenome femminile

Vāc, sostantivo femminile dal significato di "parola", "voce", o anche "suono"; come nome, identifica la Dea della Parola nel periodo vedico dell'Induismo.

Vāc, la Parola

 
Il celebre Gāyatrī mantra scritto in caratteri devanāgarī. L'inno è un'invocazione al dio saloare Savitṛ, ed è considerato «madre dei Veda». La Chāndogya Upaniṣad identifica Gāyatrī con la Parola.

Nell'Induismo la parola, intendendo con questa sia la parola orale (o mentale) sia la parola rivelata, la sua genesi, il suo uso e i suoi significati nel linguaggio e nei culti, è sempre stata oggetto di attente speculazioni da parte di tutte le scuole filosofiche[1]. L'importanza della parola è già evidente nel periodo vedico.

Nei Veda la parola umana non è considerata alla stregua di un semplice strumento per comunicare: innanzitutto è tramite la parola ("parola" nel senso di "comunicazione" verbale) che è possibile apprendere e diffondere la rivelazione, i Veda stessi cioè. D'altronde, si ricorda, prima che in forma scritta, in India i testi sacri furono tramandati oralmente per generazioni. Ma la parola non è soltanto il mezzo col quale la rivelazione (śruti) diviene accessibile:

«Vāc è proprio la Parola totale vivente, vale a dire la Parola nella sua interezza compresi i suoi aspetti materiali, il suo riverbero cosmico, la sua forma visibile, il suo suono, il suo significato, il suo messaggio. Vāc è più che mero significato o suono privo di senso; è più di una semplice immagine o veicolo di determinate verità spirituali. Essa non contiene rivelazione, è rivelazione. Era al principio. È l'interezza della śruti. La śruti è vāc

Vāc già esisteva sin dal principio: fu la prima manifestazione dell'Assoluto, ed è proprio nella Parola che Dio e l'uomo si incontrano[2]. Vāc è colei che nacque per prima al dischiudersi di Brahman (l'Essere e il Non-essere), e che ora dimora in tutto il genere umano, come questo passo dell'Atharvaveda recita:

«Quella Sacra Parola che nacque per prima a Est - il Veggente l'ha rivelata dall'orizzonte splendente. - Egli dischiuse i suoi svariati aspetti, alto e basso, - il grembo dell'Esistente e del Nonesistente. -- Possa questa Regina ancestrale che dimora tra gli esseri - avanzare verso la creazione primordiale! - Io ho portato a lei questo splendente Uccello Solare. - Possano essi offrire latte caldo a colei che è assetata di adorazione.»

Secondo la tradizione, i ṛṣi, cioè i saggi che per primi cantarono le strofe dei Veda, lo fecero in uno stato di ispirazione nel quale videro i versi stessi, difatti uno dei significati attribuiti al termine ṛṣi è "veggente".

Nella saṃhitā del Ṛgveda l'inno dedicato a Vāc è uno dei più splendidi[2] fra tutti quelli dedicati al principio femminile:

«Mi muovo con i Rudra e anche con i Vasu, - mi muovo con gli Àditya e tutti gli Dei. - Sostengo sia Mitra che Varuna, - lndra e Agni e i due Asvin. -- Sostengo Soma l'esuberante; - sostengo Tvastar, Pusan e Bhaga. - Riverso ricchezza su colui che offre l'oblazione, - l'adoratore e il pio spremitore di Soma. -- Io sono la Regina che governa, colei che accumula tesori, - piena di saggezza, la prima di coloro che sono degni di adorazione. - In diversi luoghi le energie divine mi hanno posta. - Io entro in molte case e assumo numerose forme. -- L'uomo che vede, che respira, che sente parole pronunciate, - ottiene il proprio nutrimento solo attraverso me. - Pur non riconoscendomi, egli dimora in me. - Ascolta, tu che conosci! Ciò che io dico è degno di fede.»

Vāc nei Brāhmaṇa

Nei Brāhmaṇa, i testi religiosi in prosa che seguirono le saṃhitā dei Veda, la parola si riveste di significati ancora più pregnanti, acquistando quasi un potere magico, ma al contempo comincia a perdere la sua autorità, incalzata da manas, la mente. È un vero e proprio conflitto per la supremazia quello che sorge fra Mente e Parola, fra pensiero meditativo e formula orale, fra parola interiore e parola pronunciata. Se da un lato vediamo che Vāc, la Dea, diviene così importante da identificarsi col sacrificio, da diventare la consorte di Prajapati, il Creatore nella letteratura dei Brāhmaṇa, dall'altro manas, il pensiero che si svolge nell'intimo dell'uomo, si propone come mezzo per il divino.[2]

Questo passo del Tāṇḍya Mahā Brāhmaṇa (uno dei Brāhmaṇa più antichi[3]) anticipa l'incipit del Vangelo secondo Giovanni e mette in evidenza il ruolo primario della Parola nella creazione del mondo:

«Questo [in principio] era il solo Signore dell'universo. La sua Parola era con lui. Questa Parola era il suo secondo. Egli contemplò. Egli disse: «Libererò questa Parola, così che ella produrrà e creerà tutto questo mondo».»

In quest'altro del Śatapatha Brāhmaṇa è possibile invece cogliere il conflitto fra Mente e Parola:

«In principio questo universo non era né Essere né Nonessere. In principio, in verità, questo universo esisteva e non esisteva: solo la Mente esisteva. - ...Questa Mente non era, per così dire, né esistente né non-esistente. - Questa Mente, una volta creata, desiderò di divenire manifesta... - Quella Mente allora creò la Parola. Questa Parola, una volta creata, desiderò di divenire manifesta, più visibile, più fisica. Cercò un sé. Praticò una fervida concentrazione. Acquisì una sostanza. Essa era i trentaseimila fuochi del suo stesso sé, fatti della Parola, costituiti dalla Parola... con la Parola essi cantarono e con la Parola essi recitarono. Qualunque rito si compia nel sacrificio, qualunque rito sacrificale esista, esso è compiuto dalla sola Parola, come rappresentazione vocale, su fuochi composti di Parola, costituiti da Parola... - Quella Parola creò il Respiro Vitale.»

Vāc nelle Upaniṣad

Nelle Upaniṣad, i commenti di natura filosofica in parte contemporanei, in parte successivi ai Brāhmaṇa, dove l'attenzione è ormai spostata verso la realizzazione individuale, dove il rito e la liturgia hanno perso la loro importanza primaria, Vāc non può più assicurare la mediazione verso il divino, anzi proprio perché si colloca fra l'uomo e Dio, diventa ostacolo. L'interesse è tutto verso Chi rende manifesta la Parola:[2]

«Colui che dimora nella parola, che è diverso dalla parola e interno a essa, colui che la parola non conosce, colui per il quale la parola è il corpo, colui che ispira la parola dall'interno, egli è il Sé, l'Ispiratore interno, l'Immortale.»

Con le Upaniṣad lo storico conflitto fra Mente e Parola si chiude a favore della prima:

«La mente invero è più della parola. [...] Perché il Sé, atman, è mente, il mondo è mente, il brahman è mente. Venera la mente.»

E il saggista Roberto Calasso così commenta:

«Lo spartiacque fra Oriente e Occidente, a cui tanta pensosità è stata dedicata, viene tracciata in questo punto. Tutto il resto consegue da quella divergenza radicale, a cui l'India non avrebbe mai rinunciato, dal Veda al Vedānta.»

Nel periodo post-vedico, la Dea Vāc verrà assimilata nella Dea della Sapienza, Sarasvatī.


Note

  1. ^ Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Editori Laterza, 2005, cap. 12.
  2. ^ a b c d Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, Op. cit.
  3. ^ vedi Maurice Winternitz, A History of Indian Literature Volume 1, Dehli, 2003; p.177.

Bibliografia

  • Roberto Calasso, L'ardore, Adelphi, 2010.
  • André Padoux, Tantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011.
  • Raimon Panikkar, I Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano, 2001.

Voci correlate

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