Cesare Beccaria

marchese di Gualdrasco e Villareggio, giurista, filosofo, economista e letterato italiano (1738-1794)

Cesare Bonesana, marchese di Beccaria (Milano, 15 marzo 1738Milano, 28 novembre 1794) è stato un giurista, filosofo, economista e letterato italiano, figura di spicco dell'Illuminismo, legato agli ambienti intellettuali milanesi.

Cesare Beccaria

Biografia

Cesare Beccaria nacque a Milano, figlio di Giovanni Saverio di Francesco, e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Studiò a Parma, poi a Pavia dove si laureò nel 1758.
Nel 1760, contro la volontà del padre, rinunciando ai suoi diritti di primogenitura, sposò l'allora sedicenne Teresa Blasco (originariamente De Blasio) nata a Rho nel 1744, dalla quale ebbe quattro figli: Giulia Beccaria (1762-1841), Maria Beccaria (1766 - 1788), Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.
Teresa morì il 14 marzo 1774. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie, suscitando grande scalpore. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio Beccaria.
Il suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu[1].
Fece parte del cenacolo dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, collaborò alla rivista Il Caffè e contribuì a creare l'Accademia dei fratelli nel 1762, fondata secondo un suo concetto della educazione dei giovani mirante a rispettare i suoi concetti di legalità. Cesare Beccaria pensava che l'uomo acculturato fosse meno incline a commettere delitti.
Dalle discussioni con gli amici Verri gli venne l'impulso di scrivere un libro che spingesse a una riforma in favore dell'umanità più sofferente[2].
Fu stimolato in particolare da Alessandro Verri, protettore dei carcerati, a interessarsi alla situazione della giustizia[3].

Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, inizialmente anonimo, breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo (Thomas Jefferson e i padri fondatori degli Stati Uniti, che la lessero direttamente in italiano, presero spunto per le nuove leggi americane) e in particolare in Francia, dove incontrò l'apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'Encyclopédie, di Voltaire e dei philosophes più prestigiosi che lo tradussero (la versione francese è opera dell'abate filosofo André Morellet, con le note di Denis Diderot) e lo considerarono come un vero e proprio capolavoro[4]. L'opera fu messa all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato.
Per molti l'opera fu scritta in realtà da Pietro Verri, che riprese temi simili nelle Osservazioni sulla tortura e pubblicata anonima a Livorno per non incorrere nelle ire del governo austriaco. Lo stile appare diverso da quello del Verri e non vi sono prove certe a proposito: in realtà si può dire che il trattato germinò dal dibattito che animava la rivista Il Caffè, di cui i fratelli Verri erano gli intellettuali di primo piano.

Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nella circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornò a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Tornato a Milano non si mosse più, divenne professore di Scienze Camerali (economia politica) e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.

Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate[5]. Morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e fu sepolto nel cimitero di San Gregorio. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi, non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città,

La figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, era stata messa in collegio subito dopo la morte della madre e dimenticata: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. Prima della morte di Cesare, Giulia lasciò il conte Manzoni e Milano, andando a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, rompendo definitivamente i rapporti col padre.

Il pensiero

Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau (di cui condivideva l'orientamento deista, sebbene professasse sempre il cattolicesimo per tutta la sua vita) e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac.
Partendo dalla teoria contrattualistica, derivata da quella di Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica[6]. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale).

La battaglia contro l' "inutile prodigalità di supplizi"

Beccaria sosteneva quindi l'abolizione della pena di morte, perché a suo avviso non impediva i crimini e non era efficace come deterrente, nonché della tortura, perché era una punizione preventiva ingiusta e crudele e non serviva a scoprire nulla, giacché forniva dubbie confessioni. Si occupò inoltre della prevenzione dei delitti, favorita a suo avviso dalla certezza piuttosto che dalla severità della pena (principio elaborato per la prima volta dall'inglese Robert Peel).

Beccaria sosteneva che per un qualunque criminale, una vita da trascorrere in carcere con l'ergastolo privativo della libertà, è peggiore di una condanna a morte, mentre l'esecuzione non vale come monito e deterrente al crimine in quanto le persone tendono a dimenticare e rimuovere completamente un fatto traumatico e pieno di sangue, anche perché nella memoria collettiva l'esecuzione non è collegata ad un ricordo di colpevolezza (non essendo stato seguito il processo). Il vero freno della criminalità non è, secondo Beccaria, la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito, anche con una pena più mite ma certa ed inevitabile. Nel trattato si riprende anche il principio del valore rieducativo della pena, secondo un filone tipicamente italiano iniziato da Tommaso Campanella[7], che del carcere aveva avuto esperienza personale: viene rilevato come la piccola delinquenza trovi in questa realtà vitto e alloggio assicurati e abbia un "interesse" a commettere crimini pur di entrarvi[senza fonte]. Comunque è "l'estensione e non l'intensione della pena" che spinge a non commettere crimini: dunque occorrerebbero pene certe ed estese nel tempo. Invece, la pena di morte resta ammissibile soltanto nei casi in cui una fuga dal carcere del condannato potesse mettere in pericolo la sicurezza della società, specialmente nel caso di individui la cui sola esistenza è un pericolo per lo Stato. Tale motivazione fu usata da Robespierre per chiedere la condanna di Luigi XVI, che invece diede il via al Terrore, certamente non ammissibile nel pensiero di Beccaria.

Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come la seguente: "Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa".

Il rifiuto della

La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato.
Essa sarebbe necessaria solo quando l’eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti.
Essa non svolge una adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù, si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza reiterata.
Nei soggetti osservanti, essa può poi apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni, anzi lo diminuisce. Anche se la pena assumesse un aspetto deterrente, essa apparirebbe uno strumento troppo dispendioso in quanto dovrebbe essere irrogata spesso per esercitare la dovuta impressione sugli uomini.
Suggerisce invece di sostituirla con i lavori forzati, in modo che il reo, ridotto a “bestia di servigio”, fornirà esempio duraturo ed incisivo dell’efficacia della legge, risarcendo la società dai danni provocati; e, così facendo, nel contempo si salvaguarda il valore della vita.
Questa condizione è assai più potente dell’idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell’anima, il condannato viene annichilito interiormente.
E comunque Beccaria in tema di pena di morte fa prevalere le ragioni della difesa sociale su quelle di carattere umanitario.


A proposito delle sanzioni

Beccaria indica come la sanzione deve possedere cinque requisiti:

  1. la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto
  2. l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità
  3. la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile)
  4. la durata, che dev’essere adeguata
  5. la pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione

Pertanto il fine della sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri.

Secondo Beccaria, per ottenere una approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto:
- del danno subito dalla collettività
- del vantaggio che comporta la commissione di tale reato
- della tendenza dei cittadini a commettere tale reato
Non dev’essere quindi una violenza gratuita, ma dev’essere invece essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi.
La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale. Per questo è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell’istruzione nella società, il diritto premiale, una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate.

Sul porto delle armi da fuoco

Il pensiero di Beccaria sul porto delle armi da fuoco, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni:"Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale

Influenza

Anche Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene crescono coi supplizi".

Le idee del Beccaria stimolarono un dibattito ancora vivo e attuale oggi.

Altro

  • Gli è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria.
  • Il carcere minorile di Milano è a lui intitolato.
  • Il padre sposò la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni.
  • A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria.

Opere principali

Note

  1. ^ C.e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà - Percorsi modulari di lettura e di lavoro: Dall'Illuminismo al Realismo, ed. La Nuova Italia
  2. ^ C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, Percorsi modulari di lettura e di lavoro: Dall'Illuminismo al Realismo, Firenze, ed. La Nuova Italia
  3. ^ Gianmarco Gasparri (a cura di), Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767) - Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri, Milano, Adelphi, 1980
  4. ^ vedi, ad esempio, Voltaire, Commento al libro "Dei delitti e delle pene", in Grande antologia filosofica, vol. XIV, pp. 570-71
  5. ^ C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..
  6. ^ F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969)
  7. ^ Link

Voci correlate

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