Attentato di via Rasella
L'attentato di via Rasella fu un'azione partigiana condotta il 23 marzo 1944 a Roma dai Gruppi di Azione Patriottica contro un reparto delle truppe di occupazione tedesche, l'SS-Polizei-Regiment "Bozen" (reggimento di polizia delle SS "Bolzano")[2].
L'azione si svolse nell'ambito della lotta di liberazione nazionale condotta contro il nazifascismo[3] e causò un totale di 42 morti (37 soldati tedeschi e 5 civili italiani)[4][5]. Seguì l'efferata rappresaglia tedesca consumata alle Fosse Ardeatine.
Il contesto storico
L'attacco di via Rasella e l'eccidio delle fosse Ardeatine sono due degli episodi più drammatici e sanguinosi dell'occupazione tedesca di Roma, della quale si fornisce qui un breve inquadramento storico.
Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la fuga del re e del governo, Roma divenne teatro di una battaglia contro i tedeschi, cui era indispensabile il possesso delle sue strade e dei ponti sul Tevere per arrestare l'avanzata alleata incedente da Sud.[6] Nei combattimenti di quei giorni[7] caddero 1.167 militari e oltre 120 civili italiani[8]. Pesanti perdite soffrirono anche i tedeschi, che però si impadronirono in breve della capitale[9]. Roma passò nominalmente sotto il governo della Repubblica Sociale Italiana, costituito il 23 settembre 1943, ma di fatto era nelle mani delle autorità militari tedesche[10]. Il clima politico e i sentimenti della popolazione si orientarono in direzione antifascista ed antinazista[11].
La città era stretta fra l'offesa dal cielo da parte alleata[12], e l'oppressione dell'occupante germanico e fascista. Fin dall'armistizio si erano formati gruppi antifascisti armati[13], in particolare quelli di ispirazione troskista ("Bandiera Rossa") e militare ("Centro X") agli ordini del maggiore Brandimarte e del colonnello Montezemolo. La città inoltre era un crocevia per tutte le principali organizzazioni di spionaggio dei belligeranti.[14].
I tedeschi, ben consci del valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano, tentarono di far fruttare propagandisticamente la pur solo formale e mai riconosciuta dichiarazione di "città aperta"[15] emessa da quel governo (Badoglio) che, dall'ottobre 1943, era in guerra contro di loro. Allo scopo, fu evitata un'intensa militarizzazione, facendo passare il grosso dei rifornimenti destinati al fronte ai margini dell'Urbe[16], mantenendo all'interno della cerchia cittadina reparti di polizia, polizia militare (Feldgendarmerie) e SS-Polizei (Abt. IV e VI), nonché truppe di comando e servizi.
Lo sbarco di Anzio cambiò il quadro tattico; il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma fu dichiarata "zona di operazioni"[17] e capo della Gestapo di Roma, gestore dell'ordine pubblico, divenne l'ufficiale delle SS Herbert Kappler[18][19]. Kappler pianificò frequenti rastrellamenti, arrestò numerosi sospetti antifascisti, organizzò in Via Tasso un centro di detenzione e tortura, creò nella città un clima di terrore. Nonostante ciò i GAP, formati per la maggior parte da partigiani del partito comunista, attaccarono i tedeschi numerose volte[20]. Le forze di polizia tedesche, italiane e le "bande"[21], reagirono lanciando in fasi successive una campagna di rastrellamento della città, talora violando le extraterritorialità vaticane in cui avevano trovato ospitalità centinaia di esponenti dell'antifascismo ed ebrei. Furono decapitate le formazioni partigiane romane, in particolare "Bandiera Rossa" e il "Fronte Militare Clandestino", i cui esponenti[22], furono rinchiusi in diverse prigioni.
Dopo tali operazioni, i GAP[23] rimasero l'unica formazione del CNL ad avere ancora capacità operative a Roma e, continuando la guerra parallela e coordinata con lo sforzo alleato, intensificarono i propri sforzi per attaccare militarmente l'occupante. I due comandanti dei GAP centrali, dai quali dipendeva la rete clandestina, Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco", ebbero così un ruolo decisivo nella preparazione dell'attacco che si decise di condurre a via Rasella contro un numeroso reparto tedesco.
Ordine di operazione
Giorgio Amendola[24] rappresentante del Partito Comunista Italiano presso la giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), dichiarò di aver ideato l'azione partigiana[25]. Gli altri membri della giunta, Riccardo Bauer (PdA), Manlio Brosio (PLI), Mario Cevolotto (DL), Sandro Pertini (PSIUP) e Giuseppe Spataro (DC), non furono informati preventivamente del piano, come da consuetudine e per «ragioni di sicurezza cospirativa», secondo quanto dichiarato dallo stesso Amendola.
Nel dopoguerra Amendola dichiarò inoltre[25] di aver scelto personalmente l'SS-Polizei-Regiment Bozen come obiettivo, avendo notato la quotidiana puntualità del reggimento nel passare per via Rasella di ritorno dalle esercitazioni di addestramento a piazzale Flaminio[26]. Successivamente fu dato ordine al comando dei Gruppi di Azione Patriottica, formazioni partigiane direttamente ed esclusivamente dipendenti dal PCI,[27] di progettare l'attentato nei particolari operativi[28]
Circostanze degli eventi
La data scelta per l'attacco, il 23 marzo 1944, fu scelta non casualmente onde farla coincidere con il XXV anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento.
Per l'occasione i fascisti - sotto la guida del segretario locale del Partito fascista repubblicano Giuseppe Pizzirani - avevano programmato una solenne commemorazione da tenersi presso il Teatro Adriano, in piazza Cavour. L'adunata fu annullata per ordine del comandante militare tedesco della piazza di Roma, il tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer, timoroso del possibile scoppio di incidenti e deciso ad evitarli. Infatti, in seguito all'azione partigiana gappista in Via Tomacelli del 10 marzo, ove fu attaccato un corteo di fascisti, il comando tedesco vietò ai fascisti repubblicani di svolgere manifestazioni pubbliche.
L'attacco in via Rasella avrebbe dovuto svolgersi in concomitanza con un'altra azione da compiersi al Teatro Adriano, in occasione della suddetta manifestazione, ma in seguito allo spostamento di quest'ultima al chiuso, presso il Ministero delle Corporazioni in Via Veneto, l'azione stessa fu annullata.
I fatti
Già nei giorni precedenti il 23 marzo il Comando Centrale Garibaldino aveva notato il transito di una compagnia tedesca di SS-Polizei che, dopo essere entrata da Porta del Popolo provenendo dal Flaminio, imboccava via del Babuino dirigendosi verso via del Tritone. Qui, costeggiando l'imbocco del traforo, all'epoca occupato dagli sfollati, entrava in via Rasella e, proseguendo, giungeva al Viminale (già sede del Ministero dell'Interno, dal dicembre del 1943 trasferito a Salò) dove era acquartierata.
Per alcuni giorni furono studiati gli spostamenti di questi soldati, che percorrevano in tenuta di guerra le strade di Roma cantando, preceduti e seguiti da pattuglie motorizzate munite di mitragliatrice pesante.
Si trattava della 11ª compagnia del III battaglione dello SS-Polizei-Regiment Bozen, composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, altoatesini/sudtirolesi arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1º ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno (riunite nel cosiddetto "Alpenvorland", sul quale la sovranità della RSI era meno che nominale)[29]. Altri reparti dello stesso reggimento (che come l'11ª compagnia erano impiegati nella guerra anti-partigiana, nella caccia agli ebrei, agli antifascisti, ai renitenti alla leva militare e del lavoro, ecc.) operavano nel Bellunese, nella Valle del Biois, in Istria, ecc. e sarebbero stati processati e condannati per aver compiuto crimini di guerra alla fine della guerra da tribunali militari Alleati.
In seguito ai diversi appostamenti, si appurò che tale compagnia percorreva quotidianamente lo stesso tratto di strada alla stessa ora (verso le due del pomeriggio) e che il punto migliore per attaccarla sarebbe stata appunto via Rasella, una strada in salita poco frequentata, scelta, oltre che per creare un imbottigliamento alla compagnia, anche per la scarsa presenza di botteghe e portoni, che portava ad uno scarso transito di civili.
Per l'esecuzione dell'attacco furono impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all'8 settembre 1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona del centro storico. I partigiani che avrebbero partecipato all'azione sarebbero stati numerosi: uno di essi, travestito da spazzino, al segnale convenuto avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all'interno di un carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.
Il compito di far brillare l'esplosivo fu affidato al partigiano Rosario Bentivegna ("Paolo"), studente in medicina, il quale il 23 marzo travestito da spazzino partì dal deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il carretto contenente l'ordigno. Dopo essersi appostato ed aver atteso circa due ore in più, rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via, alle 15:52 accese con il fornello di una pipa la miccia, preparata per innescare l'esplosione dopo circa 50 secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra il punto a valle usato per la segnalazione ed il carretto, posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.
Subito dopo l'esplosione due squadre dei GAP, una composta da sette uomini l'altra da sei, sotto il comando di Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco", lanciarono bombe a mano e fecero fuoco sui sopravvissuti all'esplosione.
Modalità di azione
Il Salinari ha in seguito testimoniato che i partigiani erano così disposti: Bentivegna accanto al carretto, Carla Capponi (che aveva un impermeabile nascosto, da mettere addosso allo stesso Bentivegna per coprirne la divisa da spazzino, ed una pistola sotto i vestiti), in cima alla via; Fernando Vitagliano, Francesco Curreli, Raul Falcioni, Guglielmo Blasi ed altri, vicino al Traforo; nei pressi Silvio Serra; all'angolo di via del Boccaccio si trovava Franco Calamandrei. Alcuni altri gappisti erano sistemati per coprirne la fuga.
Calamandrei si tolse il copricapo (segnale per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano avvicinando e che quindi doveva accendere la miccia ed allontanarsi velocemente). Immediatamente dopo l'esplosione gli altri partigiani raggiunsero Calamandrei per eseguire il lancio delle bombe a mano e colpire i militari con colpi di pistola.
Nell'immediatezza dell'evento rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9 militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.[30]
L'SS-Polizei-Regiment Bozen secondo Robert Katz
Sull'appartenenza organica alle SS dei militari tedeschi colpiti in via Rasella così ha scritto Robert Katz nel suo Roma Città Aperta - settembre 1943 - giugno 1944[31]:
Il reggimento Bozen, diviso in tre battaglioni, era agli ordini del generale Karl Wolff, comandante delle SS e di tutte le squadre speciali di polizia tedesche in Italia. (p. 240)»
Dobbrik, comandante del 3o battaglione SS del Polizeiregiment Bozen, semidistrutto in via Rasella, viene indicato da Katz come "maggiore delle SS" e, spiega Katz, riceve l'ordine di far eseguire la "rappresaglia" ai superstiti del suo reparto, ma rifiuta (p. 280) Per questo, aggiunge Katz,
In nota (p. 444) Katz sulla denuncia scrive che essa si fermò senza conseguenze per Dobbrik sulla scrivania di Wolff e che anzi:
Bilancio dell'attacco
Vittime di via Rasella
Militari (Forze Armate tedesche)
Lista dei 33 soldati del Polizeiregiment Bozen rimasti uccisi sul posto dalla deflagrazione[30] [32]
- Andergassen Karl, nato nel gennaio 1914 a Kaltern (Caldaro)
- Bergmeister Franz, nato nel settembre 1906 a Kastelruth (Castelrotto)
- Dissertori Josef, nato nel giugno 1913 a Eppan (Appiano sulla Strada del Vino)
- Eichner Georg, nato nell'aprile 1902 a Sarnthein (Sarentino)
- Erlacher Jakob, nato nel luglio 1901 a Enneberg (Marebbe)
- Fischnaller Friedrich, nato nel novembre 1902 a (?)
- Fischnaller Johann, nato nel novembre 1904 a Mühlbach (Rio di Pusteria)
- Frötscher Eduard, nato nel dicembre 1912 a Latzfons (frazione di Chiusa)
- Haller Vinzenz nato il (?) a Ratschings (Racines)
- Kaspareth Leonhard, nato nel gennaio 1915 a Kaltern (Caldaro)
- Kaufmann Johann, nato nell'ottobre 1913 a Welschnofen (Nova Levante)
- Matscher Anton, nato nel giugno 1912 a Brixen (Bressanone)
- Mittelberger Anton, nato nel novembre 1907 a Gries di Bolzano
- Moser Michael, nato nel settembre 1904 a Kitzbühel (Austria)
- Niederstätter Franz, nato nel giugno 1917 ad Aldein (Aldino)
- Oberlechner Eugen, nato nell'aprile 1908 a Mühlwald (Selva dei Molini)
- Oberrauch Mathias, nato nell'agosto 1910 a Bolzano
- Palla Paul (o Paulinus), nato il 31 dicembre 1915 a Buchenstein (Livinallongo del Col di Lana)
- Pescosta Augustin (o August), nato nel maggio 1912 a Colfosco
- Profanter Daniel, nato nel maggio 1915 ad Andrian (Andriano)
- Raich Josef, nato nel dicembre 1906 a St. Martin (San Martino)
- Rauch Anton, nato nell'agosto 1910 a Völs (Fiè allo Sciliar)
- Rungger Engelbert, nato nel dicembre 1907 a Welschellen (frazione Rina di Marebbe)
- Schweigl Johann, nato nell'agosto 1908 a St. Leonbach (Sankt Leonhard in Passeier?)
- Seyer Johann, nato il 3 giugno 1904 a Gais
- Spiess Ignatz, nato il 4 luglio 1911 a Schweinsteg (frazione Sant'Orsola di San Leonardo in Passiria)
- Spögler Eduard, nato l'11 luglio 1908 a Sarnthein (Sarentino)
- Stecher Ignatz, nato l'11 maggio 1911 a Schluderns (Sluderno)
- Stedile Albert, nato il 26 giugno 1915 a Bolzano
- Steger Josef, nato il 10 agosto 1908 a (?)
- Tschigg Hermann, nato nel 1911 a St. Pauls (frazione di Appiano sulla Strada del Vino)
- Turneretscher Fidelius, nato il 19 gennaio 1914 ad Untermoi (frazione Antermoia di San Martino in Badia)
- Wartbichler Josef, nato nel novembre 1907 a (?).
Altri soldati morirono successivamente per le ferite riportate.
Civili (italiani)
- Chiaretti Antonio - anni 48
- Zuccheretti Pietro - anni 13
Rastrellamento dopo l'attentato
Secondo Pierangelo Maurizio, immediatamente dopo la cessazione dei combattimenti in via Rasella, i superstiti del Bozen - coadiuvati da altre forze tedesche e fasciste affluite sul posto - iniziarono a rastrellare la popolazione della zona circostante, arrestando abitanti e passanti; i rastrellati furono allineati sotto la minaccia delle armi contro la cancellata di accesso a Palazzo Barberini e quindi condotti in parte presso l'intendenza della PAI, in parte presso il palazzo del Viminale[33]. Una parte dei rastrellati fu poi uccisa alle Fosse Ardeatine.
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Soldati nazisti a Roma accanto ad un morto dopo l'attacco partigiano in via Rasella
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Retata di fronte a Palazzo Barberini, da parte di truppe naziste e repubblichine, dopo l'attacco
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I catturati nella retata a via Quattro Fontane, lungo il muro del giardino di Palazzo Barberini
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Palazzo Barberini a Roma: inquadratura dall'altro lato delle persone catturate
Controversie
Nonostante la Corte di Cassazione abbia catalogato la strage di via Rasella come un "legittimo atto di guerra", affermando anche che è "lesiva dell'onorabilità politica e personale" di Bentivegna "la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l'ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all'attentato di via Rasella e l'assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna", non è stato raggiunto un giudizio storiografico unanime sull’attacco.
Si elencano dunque qui di seguito le principali controversie aperte nel corso degli anni e che la sentenza del 2007 ha sanzionato. Le controversie riguardano principalmente due ipotesi circa le finalità dell'attacco, più alcune polemiche "minori" sulle modalità, la scelta dell'obbiettivo e il successivo comportamento dei GAP e della Resistenza romana.
La "rappresaglia cercata"
La principale tesi sostenuta in sede revisionista è quella della "rappresaglia cercata". È noto infatti che i tedeschi non avessero mai proceduto a rappresaglie di massa a Roma, pur procedendo ad una violenta repressione ed a molte condanne a morte, sebbene secondo alcuni autori[34] fosse altrettanto noto quale fosse il loro modus operandi solito (il famigerato "dieci a uno"[35]). Nella situazione di complessiva apatia della maggior parte della popolazione di Roma nei confronti dei tedeschi e dei fascisti repubblicani[senza fonte], il comando dei GAP avrebbe deciso di intraprendere un'operazione di impatto talmente grave da scuotere l'intera città, per farla sollevare contro le forze dell'Asse, alla luce del fallimento della controffensiva tedesca contro la testa di Ponte Alleata ad Anzio, contando su una rapida avanzata angloamericana su Roma. Chi contesta questa tesi, fa rilevare che la scelta di Via Rasella fosse stato solo un ripiego dopo aver dovuto rinunciare ad un altro obbiettivo, non tedesco, ma fascista repubblicano, dunque non era possibile che si cercasse la rappresaglia tedesca a tutti i costi (i tedeschi non si interessavano alle questioni fra italiani, che anzi trovavano utili per la loro politica di divide et impera). Inoltre, secondo i critici di questa tesi, i gappisti non erano affatto a conoscenza della politica tedesca del "dieci contro uno"[36], oppure confidavano nel fatto che i germanici avrebbero continuato a sopportare gli attacchi senza procedere a sanguinose rappresaglie contro innocenti[37], preoccupati com'erano di mantenere buoni rapporti con il Vaticano a fini propagandistici, onde far ricadere solo sugli Alleati la responsabilità delle sofferenze, dei lutti e delle distruzioni subite dalla capitale italiana.
La tesi "complottista"
Una tesi di matrice "complottista" invece - sostenuta da Giorgio Pisanò, Pierangelo Maurizio[38] ed altri autori[39] - è che, ben conoscendo le modalità con cui i nazisti selezionavano i fucilandi per le rappresaglie, il PCdI avrebbe fatto arrestare progressivamente la maggior parte degli esponenti delle reti clandestine non comuniste o dissidenti [40] attraverso una ben orchestrata campagna di delazioni, e quindi abbia proceduto all'attacco perché costoro finissero fucilati per rappresaglia[41]. A sostegno di tale tesi viene anche citata l'atroce fine toccata al direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, linciato brutalmente durante il processo a Pietro Caruso, sebbene il suo ruolo nel fornire le vittime ai nazisti sarebbe stato addirittura di ostruzionismo: per i sostenitori di questa tesi complottista, la fine di Caretta sarebbe servita a "tappare la bocca" all'uomo che conosceva il segreto della compilazione delle liste dei fucilandi: assieme all'uomo, infatti, sparirono anche migliaia di documenti del carcere, bruciati dalla folla (abilmente guidata, secondo i sostenitori di tale tesi). Inoltre dalle liste furono espunti pressoché tutti i pochi comunisti in carcere, normalmente con la scusa dello "stato di salute" (le convenzioni vietano infatti di giustiziare infermi o malati). Un criterio che tuttavia non fu applicato nel caso - un esempio fra molti - del colonnello Montezemolo, fucilato nonostante fosse gravemente sofferente ed invalido per le torture subite a via Tasso[42]. Chi contesta questa tesi, oltre a muovere gli stessi rilievi della tesi precedente (ovvero che non era affatto scontato che i tedeschi avrebbero proceduto alla rappresaglia e, quand'anche, i gappisti non erano a conoscenza dei loro usi di guerra) afferma che questa tesi prevede una malafede nell'agire dei partigiani che non trova riscontri o prove, e che è esplicitamente ed ufficialmente negata dai riconoscimenti al Valore per gli autori dell'attacco e dalle successive sentenze giudiziarie sul caso.
L'attacco "inutile"
Secondo questa tesi, 156 uomini della 11ª compagnia del III battaglione Bozen al comando del maggiore Hellmuth Dobbrick non erano nulla più che un reparto di polizia[43] (ancorché dipendente dalle SS) formato da riservisti altoatesini che avevano optato per il Reich (tuttavia alcuni erano ancora cittadini italiani, secondo l'Andrae), impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana[44], in quel momento impegnato in periodo addestrativo[45]. Pertanto il risultato dell'attacco sarebbe stato militarmente inutile[46]. A questa obiezione si risponde che quel reparto era inquadrato in un reggimento, il Bozen, utilizzato anche in operazioni di rastrellamento e di grande polizia contro i partigiani in Alta Italia. Inoltre, il Codice penale militare di guerra italiano in vigore dal 1 ottobre 1941,[47] riportava: «Il presente codice comprende: 1° sotto la denominazione di militari, quelli dell'Esercito, della Marina, della Aeronautica, della Guardia di finanza, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, della Polizia dell'Africa Italiana e le persone che a norma di legge acquistano la qualità di militari»; quindi anche le forze di polizia italiane, secondo la legge italiana allora in vigore, erano militari e di conseguenza simili reparti di paesi nemici potevano essere considerati obbiettivi legittimi di azioni di guerra, per tutti gli italiani che riconoscessero il governo monarchico insediato a Bari, in quanto occupanti militarmente il territorio nazionale. Pertanto, non solo era obbiettivo legittimo, ma anche opportuno, perché costringeva il comando tedesco a distogliere altre forze dal fronte per presidiare la città, creando un clima di insicurezza e di sfiducia nei tedeschi in quella che doveva essere una "città di retrovia". Furono coinvolti anche civili italiani: l'esplosione non uccise solo trentatré militari tedeschi, ma anche due civili italiani (di cui un bambino di 13 anni), ferendone anche altri quattro (secondo altre fonti le vittime furono 7, o addirittura 10. La Cassazione tuttavia ha stabilito il numero in due[48]. ). Ai famigliari dei due civili morti nell'attacco non è mai stato riconosciuto alcun risarcimento dalla magistratura italiana, in quanto l'attacco è stato successivamente catalogato come legittimo atto di guerra, a riprova di quanto sopra citato.
La "rappresaglia evitabile"
Alcuni hanno sostenuto che la rappresaglia si sarebbe potuta evitare. Kappler, al processo del 1948 ha dichiarato che «se i responsabili si fossero presentati entro 24 ore dall'accaduto, la rappresaglia sarebbe stata evitata». Tuttavia, allo stesso processo Roberto Bentivegna ha affermato che «i tedeschi non hanno intimato la consegna dei responsabili»[49] . Secondo lo storico Paolo Simoncelli vi sarebbe effettivamente stata una richiesta di consegna[50] prima di effettuare il massacro. Tuttavia i tedeschi non attesero le canoniche 24 ore prima di dare inizio al massacro[51]. Nel libro citato, Roberto Roggero fa notare come nulla garantisce che se gli autori dell'attentato si fossero presentati all'autorità tedesca, la rappresaglia non sarebbe comunque stata messa in atto. Mentre, ad esempio, la rappresaglia è stata evitata nel caso di Salvo D'Acquisto, che pur innocente si era accusato responsabile della morte di alcuni soldati tedeschi, in un altro caso, quello di Vincenzo Giudice, nonostante egli si fosse consegnato, la rappresaglia era stata effettuata causando la morte di 71 persone, fra le quali molti bambini. Tali questioni si posero fin dal processo per le Fosse Ardeatine a carico del comandante Kappler presso il Tribunale Militare di Roma, il 20 luglio 1948. Rosario Bentivegna, presente in aula in qualità di testimone, fu contestato da alcuni famigliari dei fucilati delle Fosse Ardeatine, i quali lo accusarono di non aver evitato la rappresaglia consegnandosi ai tedeschi. Bentivegna si difese immediatamente affermando che i tedeschi non richiesero la consegna degli autori dell’attacco, e che non era certo che la sua consegna avrebbe evitato la rappresaglia. La sentenza della Cassazione del 2007 ha confermato il fatto che nessuna richiesta di consegna degli autori dell'attacco per evitare la rappresaglia fosse stata affissa dalle autorità di occupazione.
L'attacco "controproducente"
Secondo questa tesi, l'attacco pregiudicò la Resistenza romana e Roma stessa: ben lungi dal migliorare le condizioni della popolazione romana, l'attacco inferocì tedeschi e fascisti che, per questo, avrebbero accresciuto la repressione sulla Resistenza e sui civili.
Questa questione fu riaperta nel giugno del 1980, quando Marco Pannella affermò pubblicamente che, secondo le informazioni da lui raccolte, «gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI e lo stesso comando ufficiale della resistenza romana erano contrari all'ipotesi dell'azione terroristica» e sempre Pannella definì via Rasella come «un atto di terrorismo» paragonandolo ad un’azione delle Brigate Rosse[52]. Ne nacque una feroce querelle con Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che a quell’azione aveva partecipato, in prima linea. I protagonisti finirono in tribunale e la polemica dura tuttora.
Nel 2012, in occasione della morte di Rosario Bentivegna, lo storico Alessandro Portelli, autore del saggio sulle Fosse Ardeatine L'ordine è stato eseguito, ha detto sull'attentato di Via Rasella «Fu la più grande vittoria militare della Resistenza».[53]
Riepilogo delle sentenze
- All’interno della sentenza di condanna del 20 luglio 1948, emessa contro Herbert Kappler e altri coimputati per la strage delle Fosse Ardeatine, il Tribunale Territoriale Militare di Roma negava la qualifica di legittima azione di guerra dell'attentato di Via Rasella, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti"[54]. I partigiani autori dell'attentato non avrebbero infatti rispettato tutti i requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907 per il riconoscimento della qualifica di legittimi belligeranti anche ai civili organizzati in corpi di volontari, ossia essere comandati da una persona responsabile per i propri subordinati, indossare un segno di riconoscimento fisso riconoscibile a distanza, portare le armi apertamente e condurre le operazioni secondo le leggi ed i costumi di guerra[55]. La mancanza di tali requisiti veniva confermata il 15 ottobre 1950 anche dal Tribunale Supremo Militare, all’interno della sentenza di rigetto del ricorso presentato da Kappler contro la condanna[56].
- Con l'ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell'attacco. Il Giudice escludeva la qualificazione dell'atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l'estinzione del reato a seguito dell'amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi "per motivi di guerra". Decidendo con sentenza n.1560/99 sul ricorso presentato da Bentivegna, Balsamo e dalla Capponi, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ribadiva la natura di legittimo atto di guerra dell'attacco di Via Rasella, inquadrabile ai sensi del decreto legislativo luogotenenziale n. 194 del 1945, successivo all'amnistia, che ha escluso la natura di reato, inserendola tra gli atti di guerra ad ogni operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione fascista. La legittimità dell'azione, per la Suprema Corte, deve essere pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di "azione di guerra".
- Il 7 agosto 2007 la Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento inflitta dalla Corte d'appello di Milano al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni di Rosario Bentivegna[57][58]. La Corte, partendo dalla qualificazione dell'attacco come legittimo atto di guerra rivolto a colpire esclusivamente i militari occupanti, ha ritenuto che alcune affermazioni contenute in articoli pubblicati dal quotidiano milanese nel 1996, per i Supremi Giudici tendenti a parificare le responsabilità degli esecutori dell'attacco di Via Rasella e dei comandi nazisti nella causazione della strage delle Fosse Ardeatine, erano gravemente lesive dell'onorabilità personale e politica del Bentivegna. Le affermazioni del Giornale furono:
- che il battaglione Bozen fosse costituito interamente da cittadini italiani, mentre per la Cassazione facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica.
- che i componenti del Bozen fossero "vecchi militari disarmati", mentre per la Cassazione essi erano soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e "machinepistolen".
- che le vittime civili fossero sette, mentre per la Cassazione nessuno mette più in discussione che furono due.
- che dopo l'attacco erano stati affissi manifesti in cui si intimava ai responsabili dell'attacco di consegnarsi per evitare una rappresaglia ma, per la Corte l'asserzione trova puntuale smentita nel fatto che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine era iniziata circa 21 ore dopo l'attacco, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si tenesse nascosta la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta[59].
- Il 22 luglio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Elena Bentivegna (figlia di Carla Capponi e Rosario Bentivegna) contro il quotidiano Il Tempo che aveva pubblicato un articolo dove gli autori dell'attacco di via Rasella venivano definiti "massacratori di civili". La sentenza ha stabilito che l'epiteto utilizzato è lesivo della dignità dei partigiani e per questo diffamatorio, in quanto quello di via Rasella fu "legittimo atto di guerra contro il nemico occupante".[60]
Note
- ^ Servizio Topografico online del Comune di Roma.
- ^ Al momento dell'attacco il reparto era a disposizione del comando militare tedesco della città di Roma.
- ^ È questa la lettura più diffusa in ambito storiografico a livello internazionale. Dopo la sua esecuzione, e per via delle dimensioni della susseguente strage delle Ardeatine, l'azione è stata oggetto di polemiche e controversie anche aspre di natura politica e di conseguenti opinioni critiche a livello storiografico, con molteplici riflessi nell'ambito giudiziario italiano che, nelle sue massime istanze, ha più volte definito l'episodio una "legittima azione di guerra". Per una panoramica delle sentenze, vedere il riepilogo dedicato.
- ^ Dei circa 160 uomini dell'11ª compagnia del 3º battaglione dell'SS-Polizei-Regiment Bozen (unità della Ordnungspolizei dipendente dalle SS), oggetto dell'attacco, oltre venti caddero sul posto e parecchie decine rimasero feriti, alcuni gravemente: il bilancio si fissò a trentadue morti entro la serata, un trentatreesimo morì nella tarda mattinata del 24 marzo. Altri nove morirono successivamente, con un bilancio totale di 42 caduti. Nell'immediatezza dell'azione morirono almeno due civili italiani, il tredicenne Pietro Zuccheretti e un uomo mai identificato con certezza. Durante la sparatorie successive, caddero sotto il fuoco tedesco almeno altri tre civili, Antonio Chiaretti (48 anni, da alcune fonti ritenuto il non identificato di cui sopra), Pasquale Di Marco (34 anni) e Annetta Baglioni (66 anni), mentre 11 rimasero feriti. Il poliziotto italiano Erminio Rossetti, l'autista che aveva accompagnato il questore fascista Pietro Caruso sul posto, fu ucciso dai tedeschi perché scambiato per un partigiano: era sceso in borghese, e pistola in pugno dall'auto di servizio. L'Agenzia Stefani, il 26 marzo, riportò in tutto sette morti italiani, indicandoli come "quasi tutti donne e bambini", ed attribuendoli interamente ai "comunisti badogliani", tesi rilanciata ancor oggi dalla pubblicistica e dalla stampa di destra. Tutti e dodici i gappisti protagonisti dell'attentato restarono illesi e sfuggirono all'arresto. (Fonti: * Alessandro Portelli, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli Editore, Roma, 2005, ISBN 88-7989-793-4, p. 191 per i due civili morti nell'immediatezza dell'azione; p. 192 per Di Marco, Baglioni ed i feriti civili; p. 194 per Chiaretti, l'autista di Caruso, i sette morti italiani; p. 198 per l'identificazione del reparto del Bozen; p. 411 per la Stefani e polemiche successive. * Robert Katz, Roma Città Aperta - settembre 1943 - giugno 1944, Il Saggiatore, Milano, 2003, ISBN 88-428-1122-X, p. 240 per la dipendenza dalle SS, p. 241 per il numero dei tedeschi; p. 252 per il numero di gappisti; p. 260 per i tedeschi caduti sul colpo e la stima dei feriti invalidati, 60% della compagnia distrutta; p. 283 per il trentatreesimo caduto tedesco; p. 441 per il nome di Rossetti ed i feriti civili, tra i quali "un passante". * Cassazione - Sezione I Penale sent. n. 1560/99, par. IV, num. 6, lett. a, per il numero totale di caduti tedeschi. * Lutz Klinkhammer, Stragi Naziste in Italia 1943-44, Roma, Donzelli Editore, 2006. ISBN 88-6036-054-4, p. 12 per l'appartenenza alla Ordnungspolizei.)
- ^ La ricostruzione esatta del numero dei caduti italiani, della loro identità e delle cause esatte della morte di ciascuno di essi, è resa estremamente difficile dalla mancanza di una reale indagine sui fatti, che non risulta essere stata condotta, all'epoca nella quale essi si svolsero, da nessuna autorità, fascista repubblicana o tedesca, e dalla non totale coincidenza nei dati forniti dalle fonti consultate, pur tra le più autorevoli disponibili in materia.
- ^ Dalla sera dell'8 settembre fino al pomeriggio del 10 le truppe di due divisioni tedesche rinforzate tentarono di impadronirsi della città.
- ^ Sostenuti da unità e reparti del Corpo d'Armata Motocorazzato e della Difesa Capitale, cui si unirono anche manipoli di privati cittadini
- ^ Cenni Storici sull'8 settembre a Roma dal sito ufficiale del comune di Roma
- ^ Il rischio non accettabile da parte tedesca di vedere le proprie forze assorbite a lungo nella battaglia per Roma, anziché essere libere di trasferirsi rapidamente verso la testa di ponte alleata a Salerno fu evitato abilmente dai tedeschi intavolando trattative con le autorità militari italiane ed approfittando del caos al loro interno determinato dall'abbandono dei posti di comando da parte di gran parte dei politici e dei generali, seguite da un ingannevole accordo di "pacifica coabitazione", presto tradito con la completa occupazione della capitale da parte delle forze naziste. Per la questione della difesa di Roma si vedano Albert Kesselring, Soldato fino all’ultimo giorno, LEG, Gorizia, 2007; Stato Maggiore Esercito - Ufficio Storico, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma; Gioacchino Solinas, I granatieri di Sardegna nella difesa di Roma, E.F.C.; Giorgio Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia, CED; Ugo Cavallero, Comando Supremo, Cappelli, 1948; Ruggero Zangrandi, L' Italia tradita. 8 settembre 1943, Mursia, 1971
- ^ Che intendevano in questo modo sfruttarne in pieno politicamente e militarmente il grande valore
- ^ Nonostante il Fascio repubblicano costituito nella capitale fosse stato uno dei più importanti numericamente (Cfr. Giorgio Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia, cit.), esso rappresentò l'unico centro di raccolta dei pochi fascisti della capitale. Un segno di scollamento della città dal fascismo e dello strapotere tedesco è stato rilevato nel maggior tasso di renitenza alla leva registrato a Roma rispetto al resto della RSI. I tedeschi tentarono infatti a più riprese di sabotare ogni tentativo fascista di ricostituire forze armate autonome, preferendo gestire autonomamente le risorse umane italiane attraverso retate di uomini atti al lavoro da inviare a elevare fortificazioni sui fronti di Anzio e Cassino , in Germania o, nell'Organizzazione Todt, anche in Alta Italia. Cfr. R. De Felice, Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini&Castoldi, Milano, 1995, pag. 60, e Mussolini l'alleato, tomo II, Einaudi; Giorgio Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia, cit.. La renitenza alla leva era superiore del 15-20% alla media, mentre, secondo i dati dei Servizi segreti USA, solo il 2% dei cittadini romani si presentava spontaneamente alle chiamate al lavoro o alle armi imposte dai comandi del Reich (Cfr.Umberto Gentiloni Silveri, Maddalena Carli, "Bombardare Roma - Gli Alleati e la «città aperta» (1940-1944)", Il Mulino, Biblioteca storica, Bologna, 2007, ISBN 978-88-15-11546-1, pag. 13).
- ^ Concentrata soprattutto sulle vie d'accesso periferiche, in particolare le Vie Consolari
- ^ Secondo Gioacchino Solinas le armi furono fatte distribuire dal generale Carboni direttamente il 9 e 10 settembre a nuclei comunisti. Cfr. Solinas, I granatieri ...", cit.
- ^ Sulla "guerra segreta" condotta a Roma e dai contorni tutt'ora oggetto di studio, vedere Peter Tompkins, L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore - 2005
- ^ Il governo Badoglio dichiarò unilateralmente Roma "città aperta" trenta ore dopo il secondo bombardamento alleato della capitale, il 13 agosto 1943 (Cfr. Giorgio Bonacina, Obiettivo Italia - I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Mursia, 1970, pag. 236.). L'attacco, eseguito da bombardieri statunitensi, aveva causato danni forse ancora maggiori del primo, che l'aveva colpita il 19 luglio (bombardamento di San Lorenzo): nei due bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro. In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile. Gli Alleati avevano già dichiarato, prima ancora del "25 luglio", che una eventuale dichiarazione di "città aperta" del governo italiano - ove non accompagnata da smilitarizzazione con possibilità di verifica da parte di osservatori neutrali - non avrebbe avuto alcun valore. ("Roma potrebbe venire considerata una città aperta soltanto nel caso in cui l'esercito, le installazioni militari, gli armamenti e le industrie di guerra venissero rimossi [...] Qualora il regime fascista decidesse di salvare Roma facendone una città aperta, dovrebbe rilasciare una precisa dichiarazione in modo da consentire agli Alleati, agendo attraverso rappresentanti neutrali,di determinare quando la necessaria smilitarizzazione abbia avuto luogo", H. Callender, Open City Status by Rome Doubted. Washington feels. Capital is Too important for Axis to Demilitarize it. Rail Lines Called Vital. Vast Shifting of Italian War Plants Involved - Sicilian Resistence Expected, in "The New York Times del 21 luglio 1943, citato (pag. 31) in Umberto Gentiloni Silveri, Maddalena Carli, "Bombardare Roma - Gli Alleati e la «città aperta» (1940-1944) - Il Mulino - Biblioteca storica, Bologna, 2007, ISBN 978-88-15-11546-1); dopo i grandi bombardamenti dell'estate 1943, la città fu nuovamente bombardata altre 51 volte, sino alla liberazione il 4 giugno 1944 (cfr. Cesare De Simone, "Venti Angeli sopra Roma - I bombardamenti aerei sulla Città Eterna 19 luglio e 13 agosto 1943", Mursia, Milano, 1993, ISBN 88-425-1450-0, pag. 310)
- ^ Di fondamentale importanza fu per questo il ponte della Magliana (oggi non più esistente), all'altezza della "collina dell'Esposizione", oggi EUR, che univa la consolare via Aurelia - tramite la strada di Ponte Galeria - all'Appia e alla via Casilina tramite le vie suburbane del Divino Amore e della via Laurentina
- ^ Sotto la responsabilità del generale von Mackensen, comandante della 14ª Armata, reduce dal fronte russo. Alle sue dipendenze era il comandante della piazza di Roma, tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer. Kesselring, comandante del fronte meridionale, considera i due incapaci della «durezza brutale, forse anche ingiusta, ma necessaria nel quinto anno di guerra». Cfr. Joachim Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, Il Mulino, Bologna, 2007, pag. 36.
- ^ Gianni Oliva, "L'ombra nera: le stragi nazifasciste che non ricordiamo più", Mondadori, Milano, 2007, ISBN 978-88-04-56788-3, pag. 117
- ^ Già protagonista nella capitale della pianificazione della liberazione di Benito Mussolini, della razzia del ghetto ebraico e della successiva deportazione, il 15 ottobre 1943 di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio
- ^ Di rilievo tra le altre l'azione del 19 dicembre 1943, quando penetrarono in zona di alta sicurezza e fecero esplodere ordigni contro l'Hotel Flora, sede del Tribunale Militare germanico.
- ^ O "polizie private", formate da personale italiano ma al comando esclusivo dei tedeschi
- ^ Primo fra tutti il colonnello Montezemolo, catturato il 10 gennaio 1944
- ^ Anche se raccoglievano intellettuali, giovani e studenti precedentemente non politicizzati[senza fonte], i GAP, nel giugno successivo formalmente inquadrati entro il CVL e sotto il controllo politico del CLN[senza fonte], erano una formazione militare del Partito Comunista che, sin dagli ultimi mesi del 1943, li aveva organizzati in una efficiente struttura militare clandestina a Roma, dividendo la città in otto settori, ciascuno dei quali affidato ad un Gruppo di Azione Patriottica
- ^ Giorgio era figlio di Giovanni Amendola, preminente esponente politico liberaldemocratico ed irriducibile oppositore del fascismo, massacrato dagli squadristi fascisti nel 1926
- ^ a b Lettera di Giorgio Amendola a Leone Cattani sulle vicende di via Rasella, pubblicata sul sito dell'Associazione Italiana Autori Scrittori Artisti "L'ARCHIVIO".
- ^ Giorgio Amendola, lettera a Leone Cattani: «Dell'attentato di Via Rasella mi sono assunto – in diverse sedi – piena e personale responsabilità, non solo come comandante delle Brigate Garibaldi per Roma e per l'Italia centrale, e come tale membro della Giunta militare del C.L.N., ma perché fui io personalmente che, andando più volte in Piazza di Spagna, in casa di Sergio Amidei – dove c'era in quel momento la sede clandestina della redazione de "l'Unità" – ebbi occasione di vedere passare ogni pomeriggio un reparto di gendarmeria tedesca in pieno assetto di guerra, ciò che era aperta e provocatoria violazione dello statuto di città aperta. Avevo segnalato perciò al comando dei GAP questo reparto perché fosse oggetto di un attacco, lasciando poi – come sempre avveniva – al comando assoluta libertà d'iniziativa, e di preparare l'operazione con le modalità ritenute più opportune.»
- ^ Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004, p. 44 e 250.
- ^ . Giorgio Amendola intervistato da Gianni Bisiach in Gianni Bisiach, Pertini racconta, Milano, Mondadori, 1983, p. 130: «L'azione di via Rasella nacque perché sostando parecchie ore in piazza di Spagna, mi accorsi che ogni giorno il plotone tedesco della formazione Bozen passava alla stessa ora, con precisione teutonica. Passava cantando, quasi a sottolineare la sicurezza delle forze d'occupazione. Come comandante delle Brigate Garibaldi, decisi che fosse questo plotone l'obiettivo di una azione di carattere anche politico. Diedi al comando dei GAP l'ordine di eseguire l'attacco. Non entrai nei particolari per ragioni cospirative: spettava a loro scegliere il giorno e l'ora. Mi limitai a dare le disposizioni generali e a indicare anche il punto dell'esplosione: via Rasella.»
- ^ Cfr. Christoph v. Hartungen, Die Südtiroler Polizeiregimenter 1943-1945, in "Der Schlern", 55, 1981, p. 494-516.
- ^ a b Cassazione - Sezione I Penale sent. n. 1560/99, par. IV, num. 6, lett. a, ove si legge: «L'azione fu attuata facendo esplodere, mediante detonatore collegato ad una miccia, 18 kg. di tritolo contenuti in un carretto per la spazzatura, in coincidenza del passaggio, usuale e previsto, di una compagnia del battaglione "Bozen". Secondo la ricostruzione del consulente tecnico della parte offesa Zuccheretti, riportata nel provvedimento impugnato (pag. 14), l'esplosione dell'ordigno ebbe a determinare la morte di 42 soldati tedeschi (dei quali 32 morti quasi immediatamente e gli altri), e di almeno due civili italiani, il minore Pietro Zuccheretti e Antonio Chiaretti.»
- ^ Robert Katz, Roma Città Aperta - settembre 1943 - giugno 1944, Il Saggiatore, Milano, 2003, ISBN 88-428-1122-X
- ^ Lorenzo Baratter. Le Dolomiti del Terzo Reich. Milano, Mursia, 2005
- ^ Pierangelo Maurizio, Via Rasella, cinquant'anni di menzogne, p. 27. Secondo le testimonianze ivi citate, gli arrestati nei locali della PAI furono trattati bene, mentre quelli concentrati al Viminale furono ammassati in una stanza in condizioni igieniche disumane e malmenati crudelmente
- ^ Cfr. Jo di Benigno, Occasioni mancate, S.E.I., 1945, pag. 234: «Era ormai cosa nota a tutti che per ogni tedesco ucciso, dieci italiani venivano sacrificati». Secondo Bruno Spampanato, all'epoca dei fatti direttore del quotidiano Il Messaggero, stretto collaboratore di Mussolini, nonché membro dell'ufficio propaganda della Decima MAS (Contromemoriale, cit. pag. 686) alla notizia dell'attacco, «a chi conosceva la legge di guerra si fermò il cuore in petto»
- ^ Tuttavia F. Andrae, in op.cit. pag. 120 rileva che i tedeschi avevano reagito «minacciando dure rappresaglie». Dunque, secondo tale autore, la minaccia quantomeno doveva essere nota. Anche Giorgio Amendola, Lettera a Leone Cattani sulle vicende di via Rasella, integrale in "Appendice n° 2" del Mussolini l'Alleato - la Guerra civile di Renzo de Felice (Einaudi) scrive: «La più grossa responsabilità morale che abbiamo dovuto assumere nella guerra partigiana è quella dei sacrifici che si provocano, non soltanto i compagni di lotta che si inviano incontro alla morte, (...) ma gli ignari che possono essere colpiti dalle rappresaglie. (...) Soltanto dei pavidi o degli ipocriti potevano fare finta di non comprendere le conseguenze che derivavano dalla posizione assunta».
- ^ Friedrich Andrae, La Werhmacht in Italia, ed. Riuniti, pag.121: «...Kappler propone di fucilare 10 italiani per ogni poliziotto militare ucciso, il che corrisponde all'uso nei territori di competenza del comandante in capo del fronte sud-ovest».
- ^ Di quest'avviso Giorgio Amendola, ibidem, pag. 566
- ^ Pierangelo Maurizio, Via Rasella, cinquant’anni di menzogne, Maurizio Edizioni, Roma 1996 et al.
- ^ Per esempio F. Andrae, in op. cit. pag. 120
- ^ principalmente i militanti di Bandiera Rossa Roma
- ^ Cfr. Via Rasella: la storia per sentenza giudiziaria e un mistero che dura da sessant’anni di Pierangelo Maurizio - su Il Giornale del 10 agosto 2007
- ^ Questo particolare è a sua volta oggetto di controversia. Si veda la voce relativa al colonnello Montezemolo
- ^ Lorenzo Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Mursia, Milano, 2008
- ^ «Noi eravamo a Roma e non abbiamo fatto altro che le guardie su in Vaticano» dall'intervista ad un sopravvissuto della strage di Via Rasella
- ^ Eugene Dollmann, Roma Nazista, Longanesi, Milano 1952, pag. 239
- ^ Di questa opinione anche Jo di Benigno, in op. cit. ibidem e ss.
- ^ libro primo, "Dei reati militari, in generale", Titolo I "Della legge penale militare", articolo 2 comma 1 "Denominazioni di "militari" e di "forze armate" dello Stato" pubblicato con Regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303.
- ^ Giorgio Pisanò, Storia della guerra... cit. Friedrich Andrae, La Werhmacht in Italia, ed. Riuniti, note a fondo volume.
- ^ Cfr. Roberto Roggiero, Oneri e onori, Greco&Greco, p. 407
- ^ http://www.avvenire.it/GiornaleWEB2008/Templates/Articles/Article.aspx?NRMODE=Published&NRNODEGUID={CE9865FC-BFB7-4FF1-8B3C-AA0250E113BA}
- ^ La strage iniziò 21 ore dopo l'attentato gappista secondo la Sentenza della Corte di Cassazione 6 agosto 2007, n. 17172
- ^ Marco Pannella: «Via Rasella fu un atto di terrorismo» da RadioRadicale.it
- ^ Francesca Numberg, Basta infangare la memoria della Resistenza, su Il Messaggero, 4 aprile 2012, pagina 16.
- ^ "Secondo il diritto internazionale (art. 1 della Convenzione dell'Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari, i quali ultimi rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i suoi subordinati, abbiano un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi. Ciò premesso, si può senz'altro affermare che l'attentato di Via Rasella, qualunque sia la sua materialità, è un atto illegittimo di guerra per essere stato compiuto da appartenenti ad un corpo di volontari il quale, nel marzo 1944, non rispondeva ad alcuno degli accennati requisiti" (Sentenza del Tribunale Territoriale Militare di Roma n. 631 del 20 luglio 1948. Vedi : [[1]])
- ^ Seconda Convenzione dell’Aia del 18 ottobre 1907 , articolo IV “"Leggi e costumi di guerra terrestre", annesso "Regolamenti relativi alle leggi ed ai costumi della guerra terrestre", sezione I, capitolo I, articolo 1. Vedi [[2]] (in inglese) o [[3]] (in francese)
- ^ "L'attentato di Via Rasella, alla luce delle norme di diritto internazionale, si pone in termini di rigorosa linearità: la sua qualificazione non può essere altro che quella di un atto di ostilità a danno di forze militari occupanti commesso da persone che non hanno la qualità di legittimi belligeranti".(Sentenza del Tribunale Supremi Militare n.1950 del 15 ottobre 1968. Vedi : [[4]] (pagina 67) )
- ^ "Repubblica" online del 7 agosto 2007, "Cassazione: 'Via Rasella fu atto di guerra' - Il Giornale condannato per diffamazione"
- ^ la sentenza della Cassazione, 6 agosto 2007
- ^ All'interno della rivista Storia in rete del settembre 2007 fu pubblicata un'intervista all'ambasciatore Roberto Caracciolo, testimone di aver veduto un bando tedesco, affisso però solo nelle bacheche degli uffici tedeschi e non nelle pubbliche strade.
- ^ I partigiani di via Rasella non furono 'massacratori' - Adnkronos Cronaca
Bibliografia
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- Lorenzo Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Milano, Mursia, 2005.
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- Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Prima e dopo via Rasella. Mursia, 2004. ISBN 978-88-425-3218-7.
- Rosario Bentivegna, Via Rasella. La storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa. Roma, Manifestolibri, 2006. ISBN 978-88-7285-447-1.
- Alberto Benzoni, Elisa Benzoni, Attentato e rappresaglia. Il PCI e via Rasella, Venezia, Marsilio, 1999, ISBN 88-317-7169-8.
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- Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah. Cooper, 2004
- Robert Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine. Net/Il Saggiatore, 2004. ISBN 978-88-515-2153-0.
- Albert Kesselring, Soldato fino all’ultimo giorno. Gorizia, LEG, 2007
- Aurelio Lepre, Via Rasella. Leggenda e realtà della Resistenza a Roma, Bari, Laterza, 1996, ISBN 88-420-5026-1.
- Sandro Pertini, Gianni Bisiach, Pertini racconta, Milano, Mondadori, 1983.
- Giorgio Pisanò, Storia della Guerra civile in Italia. CED, 1967
- Alessandro Portelli, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli Editore, 1999, ISBN 88-7989-457-9. URL consultato il 21-3-2009.
- (DE) Steffen Prauser, Mord in Rom? Der Anschlag in der Via Rasella und die deutsche Vergeltung in den Fosse Ardeatine im März 1944, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 50, 2002, pp. 269–302.
- Bruno Spampanato, Contromemoriale. CEN, 1974
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- Gerald Steinacher, Roma, Marzo 1944: il Polizeiregiment Bozen e l’attentato di Via Rasella, in: Carlo Romeo, Piero Agostini (a cura di), Trentino e Alto Adige, Province del Reich, Trento 2002, pag. 283-288.
- Renato Venditti, La cricca. Vita di famiglia nella dittatura, Roma, Nutrimenti 2008 ISBN 978-88-95842-14-1.
- Ascanio Celestini, Radio Clandestina. Memoria delle Fosse ardeatine. Roma, Donzelli, 2005 (testo e DVD; con un'introduzione di Alessandro Portelli). ISBN 978-88-7989-920-8.
Filmografia
- Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella) (1962), diretto da Filippo Walter Ratti, con Gino Cervi, Andrea Checchi, Sergio Fantoni, Ivo Garrani.
- Rappresaglia (1973), diretto da George Pan Cosmatos, prodotto da Carlo Ponti, con Marcello Mastroianni, Richard Burton, Renzo Montagnani, Delia Boccardo. Tratto da Morte a Roma di Robert Katz. Il film, anche se un po' romanzato, offre una valida ricostruzione dell'azione di via Rasella, dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e del comportamento della Chiesa in merito a tali avvenimenti.
- La buona battaglia - Don Pietro Pappagallo (2006), miniserie televisiva di Gianfranco Albano, con Flavio Insinna.
Collegamenti esterni
- La Storia siamo noi, "Morte a Roma" ampio documentario storico, documenti e testimonianze sull'Eccidio delle Fosse Ardeatine e l'attacco di via Rasella.
- I testi completi di tutte le sentenze relative alle Fosse Ardeatine
- Sentenza della Cassazione: via Rasella fu un legittimo atto di guerra (2007)
- Sentenza della Cassazione: via Rasella fu una "legittima azione di guerra" (1999).
- Scheda sul sito Novecento italiano: itinerari storico-culturali nel Lazio
- La testimonianza di Alberto Filippi sui fatti di Via Rasella, da memoro.org