Giovan Battista Marino
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori preziosi e quelli;
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr delle rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli. [...]»
Giovan Battista Marino (Napoli, 14 ottobre 1569 – Napoli, 26 marzo 1625) è stato un poeta e scrittore italiano.
È considerato il massimo rappresentante della poesia barocca in Italia, identificata, dal suo nome, anche come marinismo.

Biografia. Napoli (1569-1600).
Rimase nella sua città natale, Napoli, fino al 1600, conducendo una vita libera e spensierata dopo aver troncato ogni rapporto con il padre che voleva per il figlio una carriera giuridica. Gli anni della formazione napoletana sono molto importanti per la maturazione della sua poetica, anche se la sua carriera si svolgerà prevalentemente al Nord, e poi in Francia, pur considerando che fino ai trentun anni il Marino non metterà piede fuori dal Regno. Soprattutto il letterato svizzero Giovanni Pozzi, il primo studioso organico dell'opera mariniana, ha eccessivamente enfatizzato una presunta influenza esercitata su di lui da parte degli ambienti culturali settentrionali, portando a qualche squilibrio valutativo la critica successiva. In séguito altri studiosi, (come Marzio Pieri), più consapevoli del più ampio contesto culturale in cui si mosse il giovane Marino, hanno messo l'accento sul fatto che la Napoli dell'epoca, per quanto decadente e gravata dal dominio spagnolo, era tuttora ben lontana dall'aver perso la sua eminente posizione tra le capitali d'Europa; e hanno dimostrato come la "rivoluzione" mariniana abbia avuto riconoscibili e dimostrabili presupposti nella cultura napoletana e meridionale del tempo.
Il padre era Giovanni Francesco, notaio ("scrivano di vicaria") del medio ceto, non facoltoso ma di ottima cultura e forti inclinazioni letterarie; stranamente il nome della madre (oggetto di una rigida e dolente ode funebre in strofe complesse, nelle Rime, poi Lira II, canz. XIV, "Torno piangendo a riverir quel sasso", da cui si può solo dedurre che morisse prima del 1600) non è stato tramandato. Da una sorella maggiore, Camilla, coniugata Chiaro, sarebbe nato Francesco Chiaro, poi canonico a Napoli grazie all'interessamento del famoso zio, e suo biografo ed esecutore testamentario e letterario, in contrasto con Giovan Battista Manso.
La famiglia era probabilmente oriunda calabrese. Giovan Vincenzo Marino era un frequentatore del cenacolo di Giovanni Battista Della Porta. Sembra che presso le "Due Porte" sia il notaio sia il figlio partecipassero alle messinscene domestiche delle commedie dell'illustre "mago" e scienziato; il giovanetto Giambattista dovette recitare ne La fantesca. Ma soprattutto in quest'àmbito visse a contatto diretto con la filosofia naturale del maestro, in rapporto di scambio continuo con i sistemi filosofici di Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Se proprio il Campanella mostrerà di avversare il marinismo (pur non prendendo direttamente di mira il Marino), dev'essere tenuta da conto questa comune matrice speculativa, dalle forti implicazioni panteistiche e quindi eterodosse o neopagane, alle quali il Marino, prestando loro sfoggiate vesti cortigiane, si serberà fedele tutta la vita, da una parte ottenendo grande successo presso i dotti più conformisti, dall'altra incontrando continue difficoltà per i contenuti "sapienziali" delle sue opere, le quali, ritenute infine direttamente in contrasto con l'ortodossia controriformista, saranno nel giro di qualche decennio messe tutte all'Indice dei libri proibiti.
Ricevette i rudimenti grammaticali sotto la guida dell'umanista Alfonso Galeota, che lo istruì nel latino ma, dato l'indirizzo legale immediatamente imposto da Gio. Vincenzo (dal 1583 il Marino avrebbe seguìto svogliatamente per qualche anno gli studii di legge), non gl'impartì nessuna nozione di greco, lingua che il Marino avrebbe ignorato per tutta la vita. Per quanto riguarda poi il latino, è abbastanza sicuro, sulla base anche di un aneddoto risalente ad un viaggio verso Mantova durante il quale il Marino fu interrogato a bruciapelo su questioni grammaticali elementari da un fine latinista come Gaspare Murtola, il poeta ebbe un'ottima comprensione, ma non era in grado di scriverlo. Le sue caratteristiche di imperfetto umanista sono eloquenti non solo di sue personali manchevolezze, ma anche dei tempi profondamente mutati: può essere significativo un paragone con la formazione e la cultura effettive di William Shakespeare, a questo proposito.
Nonostante le pressioni del padre perché intraprendesse la carriera legale, anche in considerazione delle condizioni economiche non particolarmente floride della famiglia, il Marino seguiva prepotentemente la propria disposizione alle lettere, fino a vendere i testi legali per comprarsi libri di letteratura e poesia. Visti vani tutti i tentatìvi di spingerlo ad una carriera nel proprio stesso campo, Giovan Francesco Marino buttò il giovane poeta letteralmente in mezzo alla strada. Non sembra affatto inverosimile che, come sostenuto da Tommaso Stigliani, il Marino rimanesse per tre anni senza tetto, ora dormendo all'aperto, ora appoggiandosi a qualche ospedale dei poveri, prima che qualcuno lo sovvenisse. I primi ad accorgersi di lui, e a sostenerlo anche economicamente, furono Ascanio Pignatelli, Innigo de Guevara duca di Bovino e Giovan Battista Manso, ma l'incontro più decisivo fu quello col ricchissimo mecenate e cultore d'arte Matteo di Capua, principe di Conca e Grande ammiraglio del Regno, già protettore del Tasso. Il Pignatelli, personaggio brillante, fu anche un modello letterario, grazie alle preziose Rime manieriste, in cui la maniera miniaturizzante barocca è largamente e felicemente anticipata. L'ingresso, per così dire, in società del Marino data a non prima del 1592, quando è attestata la sua frequentazione non occasionale delle due illustri case del Manso e del di Capua. Presso il di Capua, del quale nel 1596 divenne segretario, il Marino ebbe modo, perdendosi nella favolosa quadreria del gran signore, di sviluppare il proprio gusto per le arti figurative (il Marino sarà, significativamente, anche lo scopritore di Nicolas Poussin).
Fondamentale nella sua formazione fu la frequentazione, a partire dal 1588, dell'Accademia degli Svegliati (dove era "L'Accorto"). Tommaso Stigliani, suo futuro peggior nemico, lo conobbe qui. Postillando una Vita dell'autore composta da G.B. Bajacca, il poeta materano sostiene che non si trattasse mai di una vera e propria accademia, ma di un gruppo di letterati che si riunivano in modo informale, riunendo personalità del calibro di Giovan Battista Manso, Tommaso Costo, Giulio Cortese (principe dell'accademia), Ascanio Pignatelli e diversi altri. Sta di fatto che, come riporta Michele Maylender, nei primi anni Novanta del secolo l'accademia, in cui si trattava di letteratura ma anche di scienza ed, evidentemente, di politica, fu chiusa con un rescritto del re per attività antispagnole; l'impostazione era sicuramente eterodossa, lucreziana e razionalista. Qui il Marino avrebbe fatto le sue prime esperienze anche come redattore, ciò che spiega la sua estrema attenzione alla stampa delle sue proprie opere, curando una raccolta di componimenti di accademici, poi rimasta inedita; e soprattutto ricevendo dal Manso l'incarico di approntare la stampa de Il Manso, o dell'amicizia, dialogo fino allora inedito del Tasso (che il Marino dovette conoscere di persona, sia pure abbastanza fuggevolmente, presso la casa del Manso, e col quale si scambiò un sonetto).
Tra le altre personalità, particolarmente significativa per il Marino fu la benevola amicizia di Camillo Pellegrino, primicerio di Capua, già amico del Tasso e autore, in onore dell'illustre poeta di Sorrento, del dialogo Il Carrafa overo della epica poesia, in cui questi era posto al disopra dell'Ariosto. Il Marino stesso è protagonista di un altro dialogo del prelato, Del concetto poetico (1599), in cui è sostenuta la maggiore importanza, nella poesia, del concetto espresso rispetto alla presunta purezza dello stile.
Durante gli anni napoletani, il Marino fu arrestato per ben due volte. Ma sulla vita del Marino, soprattutto per quanto riguarda le diverse carcerazioni che subì, si stende persistentemente l'ombra di qualche mistero, specialmente per quanto riguarda le vicende di questo periodo, per le quali le uniche pezze d'appoggio sono fornite soprattutto da racconti biografici, e di rado da fonti documentarie dirette. Sembra certo che il primo degli arresti 1598 fosse dovuto al procurato aborto ad un'Antonella Testa, figlia di uno dei sindaci della città di Napoli, resa gravida non si sa se dal Marino o se da un suo amico; mentre una seconda condanna, del 1600 (per cui rischiò la pena capitale), fu con più certezza dovuta alla falsificazione da parte del poeta di alcune bolle vescovili per salvare (vana speranza) un amico, Pietro D'Alessandro, coinvolto in un duello.
Ma alcuni testimoni, tanto fra i detrattori (primo fra tutti lo Stigliani, che nelle postille succitate rivela che l'entourage di Melchiorre Crescenzi, compreso lo stesso nominato, a Roma sarebbe stato fisso nei dintorni di Piazza Navona, classico punto di ritrovo dei sodomiti; ma lo Stigliani sostiene anche, nella stessa sede, che il Marino fosse stato buttato fuori di casa per aver avuto una relazione incestuosa con la sorella!) quanto fra gli apologeti (come l'editore-biografo Antonio Bulifon, in una vita del Marino del 1699) hanno attribuito con grande certezza al Marino, molta della cui lirica è al riguardo pesantemente ambigua, amori omosessuali. Altrimenti, la reticenza delle fonti su questa materia è ovviamente dovuta alle persecuzioni di cui le "pratiche sodomitiche" (o "vizio nefando") erano fatte oggetto in special modo durante la Controriforma.
Roma (1600-1605).
Marino, fuggito dal capoluogo campano, si trasferì a Roma. Una fuga di cui sfuggono molti particolari: infatti Napoli non essendo sede (caso unico in Italia) di ufficio dell'Inquisizione "alla maniera di Spagna", l'interesse del poeta teoricamente sarebbe stato quello di rimanere a Napoli, e non certo quello di gettarsi direttamente incontro a qualche rogo. Naturalmente nulla consente di dubitare la falsificazione delle bolle, ma di mezzo dovettero esserci altre questioni, verosimilmente inimicizie private. E' noto che il Marino giungesse a Roma completamente debilitato, e che qui cadesse gravemente malato. Ma, nonostante una parentesi di stenti secondo lo Stigliani paragonabile agli anni immediatamente seguenti la cacciata di casa, il Marino, in capo a qualche mese, risulta già ben raccomandato. Secondo il biografo Ferrari, Antonio Martorani, auditore del card. Innigo d'Avalos, noto come il cardinal d'Aragona, saputo del suo arrivo, ne avvertì Arrigo Falconio e Gasparo Salviani, due nomi poi ricorrenti nell'epistolario mariniano. Grazie ai loro buoni uffici poté entrare al servizio di monsignor Melchiorre Crescenzi, cavaliere romano, chierico di camera e coadiutore del camerlengo, raffinato e stravagante signore, la cui cerchia intellettuale frequentò intensamente. La contraddizione tra il delitto blasfemo di cui il Marino s'era macchiato e il rapporto clientelare con un uomo di chiesa è solo apparente, dato lo spirito dei tempi; e il Crescenzi, oggetto d'una ricca aneddotica, era noto per le larghe vedute.
Qui entrò in contatto con le accademie, principalmente quella prestigiosissima degli Umoristi, appena nata sotto gli auspici e nella casa di Paolo Mancini, gentiluomo romano appena reduce da Perugia, dove aveva compiuto gli studi. Frequentatori dell'Accademia risultano a vario titolo Alessandro Tassoni, con cui il Marino ebbe sempre cordiali rapporti e che reincontrerà a Torino, Pietro Sforza Pallavicino, Agostino Mascardi, importante storico e poi suo apologeta, il grande Gabriello Chiabrera, Battista Guarini (che secondo il Ferrari il Marino avrebbe conosciuto, però, nel corso del primo viaggio veneziano), Girolamo Aleandro, Francesco Bracciolini, il card. Francesco Barberini, Gasparo Simeoni, Antonio Caetani, Filippo Colonna, Giovanni Savelli, Porfirio Feliciani, Antonio Querengo; reincontra Tommaso Stigliani, con cui i rapporti non sono ancòra degenerati, e l'altro suo nemico, Gaspare Murtola, con cui si scambia un sonetto poi a stampa. Rapidamente degenera, invece, il rapporto con la fiammeggiante Margherita Sarrocchi, intellettuale di spicco, con cui si vociferò avesse una relazione, e destinata a diventare uno dei suoi acerrimi oppositori. Entra in contatto anche con Guido Casoni, il primo dei suoi antesignani settentrionali importanti col bolognese Cesare Rinaldi, e con Angelo Grillo.
Nel 1601-1602 viaggia per l'Italia: fine del viaggio è Venezia, dove esordisce nella stampa con le Rime (2 voll., Ciotti), che sono anche specchio di un'intensissima vita relazionale. L'opera raccoglie presumibilmente il meglio della sua produzione dall'esperienza ancòra adolescenziale, ma comprende, con grande tempestività, rime encomiastiche dedicate a personalità incontrate pochi mesi prima. La raccolta, notevolmente ampliata e divisa in 3 parti (la terza parte è già annunciata nelle Rime 1602, c. a 10 v), sarà ristampata poi nel 1614 col titolo di La Lira, e testimonia pienamente dell'indole essenzialmente lirica e delicata dell'ispirazione mariniana.
Lungo il percorso visita le accademie e le personalità letterarie di Siena, Firenze, Bologna, stringendo relazioni importanti - specialmente a Bologna, una delle città "mariniste" per eccellenza con Napoli, Roma e Venezia.
Di questi anni è la concezione e la prima elaborazione dell' Adone, che per più d'un ventennio sarà al centro dei pensieri del Marino insieme con altri due "poemi grandi", progettati e continuamente annunciati ma mai realizzati, una Gerusalemme distrutta sulla conquista di Tito Vespasiano, in diretto rapporto d'emulazione col Tasso, e Le trasformationi, di cui sopravvive solo lo scheletro, peraltro riportato da una fonte indiretta, apparentemente d'impianto organicistico-naturalistico, il cui argomento sarebbe poi stato verosimilmente assorbito dall' Adone.
Nel 1603 entra al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote del papa Clemente VIII.
Ravenna e Venezia (1605-1608).
L'Aldobrandini gli garantì durante il pontificato dello zio una potente protezione; ma alla morte di Clemente VIII, nel marzo 1605, tralasciando il brevissimo e non influente pontificato di Leone XI, morto nell'aprile, successe per lunghi anni Camillo Borghese, il papa dell'Interdetto Paolo V. Nel quadro di una politica rigorista, il pontefice stabilì subito che i principi della Chiesa dovessero risiedere nelle sedi cui erano stati assegnati. L'Aldobrandini, oltre a perdere una serie di privilegi dovuti alla compiacenza nepotista dell'illustre parente, avendo avuto assegnata da costui la sede di Ravenna, dovette obbligatoriamente trasferirvisi. Il Marino, come parte della famiglia, fu tenuto a seguirlo. Come descriverà in una lettera, a parte il viaggio disagevole, il poeta dovette così confinarsi in una città arretrata, povera e insalubre; è del tutto comprensibile che il poeta pensasse sùbito ad una differente sistemazione, possibilmente sotto diverso padrone. Ciononostante Giovanni Francesco Loredano sosterrà che in questo parziale isolamento il Marino componesse e pianificasse tutte le opere più importanti. Sicuramente, però, la residenza ravennate gli consentì di raggiungere sovente sia Bologna, dove forti furono i legami con molti intellettuali, tra cui gl'indefessi seguaci Claudio Achillini e Ridolfo Campeggi, sia, soprattutto, Venezia, città di lì a poco consacrata al culto mariniano.
Torino (1608-1615).
Nel 1608 accompagnò l'Aldobrandini (nella sua qualità di protettore del Piemonte) presso la corte di Carlo Emanuele I a Torino, in occasione delle nozze dell'infanta. Nello stesso anno il Marino, assai interessato a passare al servizio del Savoia, pubblicò a Torino un elegante poemetto panegiristico dedicato al duca, Il ritratto, nel raro metro della sestina narrativa, della cui frettolosità di composizione testimonia il fitto tessuto di citazioni da Claudiano, fonte principale se non l'unica di questa sua fatica.
Si trattò tuttavia di un periodo turbolento, funestato dalla rivalità con il poeta genovese Gaspare Murtola, segretario del duca, col quale il Marino si scambiò i sonetti ingiuriosi poi stampati col doppio titolo Marineide, risate / Murtoleide, fischiate. Sembrava fatale che il Marino, deciso a rimanere alle dipendenze del duca ma ancòra privo di un incarico ufficiale, dovesse scalzare il Murtola, sia per il maggior prestigio di "caposcuola", sia per il ruolo fondamentale nell'intensa politica culturale voluta dal duca (tra l'altro legandosi ad Alessandro Tesauro, ad Emanuele Tesauro, suoi seguaci e difensori, a Lorenzo Scoto, giovane sacerdote e poeta che fornirà gli argomenti all' Adone, ad Onorato Claretti e Ludovico San Martino d'Agliè). Che i timori del Murtola fossero fondati è dimostrato dal fatto che un mazzo di componimenti satirici colpisse il Marino (Il lasagnuolo di Monna Betta) già al suo arrivo a Torino.
L'11 gennaio 1609, cioè circa un anno dopo il suo arrivo a Torino, il Marino fu insignito dal granduca del cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro, massima onorificenza sabauda (donde il titolo da allora quasi incorporato al nome, "il cavalier Marino"). Il Murtola, pazzo di gelosia, esasperato dallo scherno del rivale, nella notte tra l'1 e il 2 febbraio 1609 attentò alla sua vita nella via Dora Grossa, oggi via Garibaldi, scaricandogli addosso cinque colpi di pistola. Il Marino, rimasto illeso (mentre il suo giovane amico Aurelio Braida sarebbe stato colpito ben più gravemente), avrebbe avuto parte preponderante nella successiva scarcerazione dello sventurato rivale.
Dopo un breve soggiorno ravennate (1610) il Marino entra definitivamente al servizio del duca, rimpiazzando il Murtola. A questo punto ci sarebbe stato da pensare che la sua permanenza torinese procedesse senza intoppi, ma nel 1611 a sua volta, per motivi mai del tutto chiariti ma a cui il Murtola e probabilmente anche lo Stigliani non erano estranei, finì incarcerato. La causa, nominalmente, era la diffusione da parte del Marino di una serie di componimenti ingiuriosi nei confronti del duca, prodotti opportunisticamente dai suoi nemici per screditarlo; ma sono noti anche componimenti, evidentemente non mariniani, di contenuto blasfemo che già nel 1609, su segnalazione dell'altro suo nemico giurato, Tommaso Stigliani, l'Inquisizione inseriva in un nuovo fascicolo dedicato al poeta. Da questo momento i documenti compromettenti, veri ed autentici, continueranno ad accumularsi, fornendo abbondanti motivi per la condanna all'Indice dei libri proibiti. In particolare il duca, che recava i segni d'un'infanzia cagionevole nella postura un po' curva della schiena, sarebbe rimasto offeso da una Gobbeide non necessariamente di mano del Marino. Altri componimenti satirici, invece, sicuramente di mano del poeta, risalivano ancòra agli anni napoletani, e il Marino dovette rivolgersi all'amico e antico protettore Manso per dimostrare che i componimenti non potevano avere come oggetto il duca e la corte torinese. Dev'essere tuttavia detto che incidenti del genere non erano affatto infrequenti, e che quasi mai il Marino, pur così diplomatico, era innocente; le carte inquisitoriali contengono il riferimento preciso ad un sonetto romano dedicato al card. Giovan Battista Deti, giovanissimo e di costumi reprensibili, una creatura degli Aldobrandini: mentre includeva tra le Rime del 1602 un gentile sonetto di complimento per l'elevazione alla dignità del giovane vizioso, il Marino avrebbe fatto circolare un altro sonetto, rapidamente diffusosi (attualmente da dare per disperso), una sorta di palinodia in cui erano messe alla gogna le reali qualità del prelato. Un atto abbastanza sconsiderato, dal momento che il sonetto mordace non metteva solo in ridicolo un principe della Chiesa, ma rischiava di mettere in pericolo lo stesso rapporto, del tutto vitale, coll'Aldobrandini. La stessa dinamica si ripresenta nelle modalità impiegate per scarcerarlo: dove l'intervento di potenti e amici era risultato nullo, Henry Wotton, ambasciatore inglese, riuscì a fargli rendere (1612) la libertà. Attratto dalla prospettiva di passare in Inghilterra, rifugio di molti spiriti irrequieti come Giacomo Castelvetro e Giulio Cesare Vanini, il Marino si vide a suo tempo rifiutare l'assenso di Giacomo I per via d'un componimento ingiurioso dedicato ad Elisabetta I.
Per quanto riguarda gli eventi torinesi, comunque, rende accettabile l'idea della carcerazione per via di scritti ingiuriosi (e l'accusa era eccezionalmente grave, di per sé, avendo Carlo Emanuele proibito con pena della vita la diffusione dei cosiddetti "libelli famosi", a chiunque diretti, in tutto il ducato, dopo aver subìto un attacco a mezzo stampa da parte dei Gesuiti) il fatto che al Marino, con la carcerazione nel "Senato", fossero stati sottratti tutti gli scritti in corso d'opera. Una lettera inviperita al duca, che così interrompeva il lavoro del poeta, può essere presa, secondo i punti di vista, per una straordinaria attestazione di libertà da parte del Marino, di tolleranza sostanziale da parte del duca oppure, come sostiene Alberto Asor Rosa, per la tipica reazione dello schiavo rivoltato. Recuperate, faticosamente, le sue carte, il Marino, completata la stampa della Lira con la III parte (per i tipi del solito Ciotti), darà nel 1614 alle stampe le Dicerie sacre, tre finte prediche "d'arte" con cui si riprometteva - con ragione - di convertire al bellettrismo estetizzante un clero già piuttosto predisposto alle divagazioni erudite.
Dello stesso 1614 è un'altra polemica, scatenata da Ferrante Carli a partire da un sonetto in lode di un poemetto di Raffaello Rabbia su Santa Maria Egiziaca, "Obelischi pomposi all'ossa alzaro", nel quale il Marino confuse il leone nemeo con l'idra lernea. Nella disputa fu il Tesauro senior a prendere le difese del Marino, sostenendo la liceità dello scambio a partire da un passo di Nonno di Panopoli.
Parigi (1615-1623).
Nei primi mesi del 1615 il Marino scrive a Fortuniano Sanvitale, informandolo che l' Adone è ormai arrivato a 12 canti "assai lunghi".
Nella primavera del 1615 lascia Torino, non inverosimilmente in compagnia di Henry Wotton (come anche prospettato da una lettera precedente il viaggio), e, passato il Moncenisio, si trasferisce in Francia, dove sin dal 1609 Maria de' Medici l'aveva invitato. Tuttavia, come è stato col tempo stabilito, il Marino in terra di Francia si muove praticamente senza alcuna raccomandazione. Questa scopertura spiega la tempestività (che al contempo dimostra la straordinaria abilità del Marino nel tessere relazioni fruttuose in tempi rapidissimi) della stampa a Lione de "Il tempio", panegirico alla maestà della regina, con dedica a Leonora Dori Galigai, marescialla d'Ancre, moglie di Concino Concini. Come significativo è il fatto che, nello stesso giorno (15 maggio 1615) in cui firma la prefazione all'operetta egli scriva a Ferdinando II Gonzaga chiedendogli raccomandazioni per la corte di Francia ("Ora l'armi scacciano le Muse", esordisce, riferendosi agli scontri del Monferrato come causa unica della sua partenza). Il racconto del faticoso viaggio, di fatto una pregiata tarsia di citazioni (da Camillo Scroffa, Francesco Berni e altri burleschi), e del primo stabilimento nella grande città è presente in una splendida lettera ad Arrigo Falconio inviata dalla Francia.
Del 16 giugno 1615, quasi esattamente un mese dopo, è una lettera dell'ambasciatore fiorentino a Parigi, Luca degli Asini, nel quale annuncia l'entrata del Marino a corte, della sua introduzione per cura della Galigai, e del colloquio di un'oretta avutosi tra il Marino e la regina nel di lei gabinetto. Il Marino a questo punto risulta sostenuto da alcuni italianisants, tra cui Louis-Charles de la Valette, conte di Candale, e dalla principessa di Conti. Ma a quest'altezza, informa il degli Asini, il Marino non ha smesso di accarezzare l'idea di passare in Inghilterra, e quindi in Fiandra. Il mese dopo, il 31 luglio 1615, nuovamente degli Asini informa che al Marino è stato assegnato un onorevole trattamento, o provvigione, di 100 scudi al mese, erogati però come pensione, in modo che il poeta è immediatamente pagato per i sei mesi precedenti, come se gli fosse stata assegnata al principio dell'anno; più 1000 franchi di donativo "per mettersi all'ordine". Scrivendo allo Scoto, il Marino dice di essere "stato costretto" a fermarsi a Parigi ancòra per qualche mese. Ma nemmeno il generoso trattamento riuscì a far dimenticare l'Inghilterra al Marino, che continuerà a cercare entrature tramite Giacomo Castelvetro ancòra nel marzo 1616; il Marino, nella sua lettera a costui, si mostra perfettamente consapevole sia del trattamento scarsamente generoso che otterrebbe presso la corte di Giacomo I, sia dei rischii inerenti al passaggio nel paese anticattolico, dopo il quale tornare in Italia sarebbe molto difficile. A fine 1616 Guido Bentivoglio, parzialissimo amico del Marino, assume la carica di nunzio pontificio presso la corte francese, subentrando ad un altro nunzio amico, Roberto Ubaldini; è anche un potente protettore, e un appoggio sicuro. Non è inverosimile che, nella catastrofe sfiorata dal Marino un anno dopo, il Bentivoglio abbia avuto una funzione salvifica. Nel novembre il Marino sembra aver definitivamente rinunciato all'idea di passare in Inghilterra.
Nel 1616 l' Adone, che lo terrà occupato ancòra per qualche anno, è comunque a buon punto. Ma non è pienamente soddisfatto, e infatti in una lettera lo definisce "una fabrica risarcita, o (per meglio dire) gonnella rappezzata".
I marescialli d'Ancre, molto vicini alla regina, ma odiati e disprezzati da Luigi XIII e dalla nobiltà francese, cadono atrocemente in disgrazia: nel 1617 il Concini è fatto uccidere dal re, e la Galigai, sottoposta a processo per stregoneria, è giustiziata. Il Marino, fosse o non fosse merito della sua consumata abilità o dei suoi potenti amici, non rimase tuttavia coinvolto nella catastrofe, e la regia pensione continuò ad essergli regolarmente versata. A Parigi menò una vita perlopiù molto ritirata (ma da vero esteta, se si vuol dar fede a quel che Gédéon Tallemant des Réaux racconta nelle sue Historiettes), si dedicò ad un appassionato collezionismo, soprattutto di incisioni e opere grafiche, dei maggiori artisti del tempo, raccolse una biblioteca di 12000 volumi, s'immerse totalmente negli studii e approntò gli idilli de La sampogna e il poema maggiore, impresso sontuosamente da Oliviero di Varano (che completò la stampa dopo la morte di Abramo Pacardo), oltre ad un libello polemico antiugonotto, La sferza, densamente anfibologico, che si rivelò inutile a garantire il lealismo del Marino e, abbandonato dall'autore, fu pubblicato postumo. Durante la sua permanenza, nonostante conducesse una vita tutt'altro che mondana, godette di un enorme prestigio culturale, dovuto alla moda preziosista e libertina. La sua fortuna sarebbe tramontata rapidamente coll'affermazione del classicismo, per quanto la sua impronta rimanesse sensibile in talune opere francesi dell'età di Luigi XIV, per esempio nell' Adonis di Jean de La Fontaine, senza trascurare l'attenzione (dimostrata dal catalogo della biblioteca personale) del più "barocco" tra i classicisti francesi, Pierre Corneille, che potrebbe aver meditato più che superficialmente certi esiti del Marino declamatorio di certe prosopopee della Galeria o della Lira come anche di taluni monologhi (per es. quello d'Argene, c. XIV.) dell' Adone.
Le lettere del periodo francese non sono molte, o almeno non quante servirebbero a dare più chiaro conto della permanenza del poeta, e soprattutto del suo lavoro. Tanto più preziosa, del gennaio 1620, è una lettera al Ciotti in cui parla ancòra di tre "poemi grandi", di uno dei quali ha finora scritto ben poco, e dell'altro nulla: "De' due miei poemi maggiori, la Gerusalemme distrutta e le Trasformazioni, non mi occorre parlare per ora. Pregate Iddio che mi conceda qualche anno di vita, ch'io spero di far conoscere se abbiamo ingegno ancor noi atto a saper tessere una epopeia". E' importante anche un'altra indicazione estraibile da una lettera di Francesco Bracciolini (in qualche modo il poeta epico "designato" da un Maffeo Barberini già molto attivo in campo istituzionale-culturale) all'Achillini e al Preti nello stesso anno: "Ma qual concorrenza può esser tra noi? Io non composi, o non approvai almeno" [ossia: non diedi alle stampe] "già mai altri componimenti miei che tragici ed epici, ed egli a questi non so che abbia posto mano, o almeno nol veggio".
Il 5 gennaio 1621 scrive a Giulio Strozzi: "Il poema", cioè l' Adone, "pian piano s'è ridotto a tale ch'è per sei volte quanto la Gerusalemme del Tasso. Io non nego che le buone poesie non si misurano a canne; ma quando con la qualità si accoppia insieme la quantità, fanno scoppio maggiore".
Sono notevoli alcune lettere di Jean de Chapelain ancòra degli anni Trenta, in cui l'erudito francese, libero dalle preoccupazioni laudatorie che aveva nel prefare l' Adone ad uso del pubblico francese, si esprime francamente in modo positivo sulle doti di grande descrittore del Marino ma - come Gabriel Naudé a proposito del Campanella - non manca di far notare la superficialità e la disorganicità della sua cultura ("peccato", giunge a scrivere, "che fosse tanto ignorante").
Il rientro in Italia (1623-1625).
A fine 1623 rientrò in Italia, senza curarsi nemmeno di riscuotere l'ultima rata della regia pensione, facendosi precedere dai suoi libri e dalla sua pinacoteca, e fu accolto festosamente dalle più importanti accademie del paese. Scendendo la penisola, puntò decisamente a Roma, dove fu ospite dell'antico mecenate Melchiorre Crescenzi. Stanco e probabilmente già malato, il Marino contava di rimanere nella città eterna, ma la situazione politica, in sèguito alla morte di Gregorio XV Ludovisi, si sarebbe per lui drammaticamente rovesciata con l'elezione al soglio pontificio di Urbano VIII. Ragioni complesse, soprattutto di natura culturale ed estetica non meno che etica, ponevano il nuovo pontefice su una linea opposta rispetto a quella del 'poeta lascivo'; ma l'inimicizia, particolarmente veemente da parte del Barberini, col Marino, datava già dalla feroce polemica del 1614 a proposito del sonetto "Obelischi pomposi a l'ossa alzâro" del Marino, circostanza nella quale il futuro papa avrebbe dato del Marino l'icastica definizione di "grandissimo ignorante e malcreato". Poeta a sua volta, il Barberini era attestato, come la gran parte dei letterati toscani dell'epoca, su posizioni classiciste e petrarchiste, e vedeva per molte ragioni con forte antipatia la diffusione della maniera marinesca. L'intervento del Barberini contro il Marino fu uno dei primi atti del suo pontificato, e fu finalizzato innanzitutto a far piazza pulita di tutte le ambigue relazioni intrattenute fino allora dalla Chiesa cattolica con parti dell'intellettualità col fine di affermare una ben diversa, e ben altrimenti impegnata politica culturale (che caratterizzò intensamente gli anni Trenta del secolo, e si può riassumere nel significato dell'opera di Gian Lorenzo Bernini). Una serie di provvedimenti furono presi contro l' Adone in primis, e poi via via contro le altre opere.
Dapprima il papa, firmatario di tutti e tre i decreti contro il poema maggiore (dell'11 giugno 1624 fu il primo), concesse la possibilità di apportare correttivi per rendere possibile la stampa romana, cui il Marino teneva moltissimo. Mentre il Marino, prudentemente, riparava a Napoli, lasciava infatti ad Antonio Bruni e a Girolamo Preti l'incarico di correggere il capolavoro secondo le disposizioni di un tal p. Martinelli, presumibilmente inadeguato all'uopo. Seguì un processo per eresia che lo vide condannato ad una pena sicuramente leggera (secondo lo Stigliani dovette solamente formulare un'abiura e "indossare l'abitello", ossia il sambenito, per qualche tempo); a questo seguì l'immediata messa all'Indice della stampa parigina e derivati dell' Adone (definitavamente inserito tra i testi proibiti nel 1627 e lì rimasto, insieme con un numero crescente di sue opere, fino all'ultima stampa dell'Indice dei libri proibiti, 1948). Fors'anche per via dei tempi strettissimi concessi per la correzione - l'intervento doveva limitarsi inizialmente alla cassazione dei luoghi più pruriginosi - in capo ad un anno non era stato fatto nulla. Evidentemente sia gli amici del Marino, sia i lettori del Sant'Uffizio avevano avuto modo di approfondire la conoscenza con il complicato poema, per rendersi conto, infine, che le "lascivie", oltre ad avere un peso minimale nell'economia generale dell'opera, erano tra i luoghi incriminabili sicuramente i meno gravi, anche per i criteri di allora.
Una seconda condanna fu fulminata il 17 luglio 1625, quando il maestro era già morto, causando la mobilitazione (che sarebbe durata decenni, nel complesso) di numerosi amici e letterati influenti, specie gravitanti intorno all'Accademia degli Umoristi, che si proposero a vario titolo di trovare soluzioni di compromesso. Nulla di concreto ci rimane, però, di quello che eventualmente fosse fatto sul corpo dell'Adone; si sa che i sodali si mossero con una serie d'agiografie, concentrando poi, via via, le proprie energie nella querelle scatenata dall' Occhiale dello Stigliani, giunto alle stampe nel 1627.
La terza condanna, del 5 novembre 1626, fu quella definitiva. E' vero che l' Adone continuò ad essere ristampato per tutto il secolo, non solamente all'estero (in particolare dagli Elsevier) ma anche a Venezia, ma la condanna della chiesa, e di Urbano VIII in particolare, rivestì un significato ulteriore e più ampio, trascendente anche le esigenze di quella temperie e di quel pur lungo papato. Nuovamente ad Urbano VIII fu dovuto un secondo gruppo di condanne, in blocco (12 aprile 1628: Gli amori notturni, I baci, Il camerone prigione horridissima in Napoli, ove fu carcerato, Il padre Naso, La prigionia in Torino, Ragguaglio de' costumi della Francia, I trastulli estivi - testi in cui le solite "lascivie" sono punite insieme con le sortite blasfeme, come per esempio il ricco apparato di citazioni evangeliche con cui il Marino, presentandosi come una specie di figura cristologica, o quantomeno un martire, descrive la propria carcerazione al Serrato di Torino), ma ancora più rilevante è la terza, ed ultima condanna, tardissima, 27 settembre 1678, che travolse il Duello amoroso, alcune ottave non più che sbarazzine inserite in Lira III anche se non presenti in tutte le stampe, la Venere pronuba per ovvii motivi, e poi, grave colpo, La Lira, rime, ciò che voleva dire liquidare in massa l'altro corno maggiore della produzione mariniana, contribuendo, se non ad una scomparsa dalle stampe, sicuramente ad una severissima limitazione nella loro diffusione.
La scoperta dell'iter processuale mariniano (dovuto al fondamentale contributo di Clizia Carminati) getta nuova luce sulla natura effettiva della fortuna goduta da Marino presso i contemporanei. E' interessante notare che, non indipendemente forse dalla corposa complessità dell'opera, né il Preti né il Bruni intervennero fattivamente sul testo, mentre tentatìvi di correzione, doppiamente concilianti sia verso l'estetica barberiniana, sia verso l'etica ortodossa cattolica, furono dovuti anche parecchi decenni dopo la morte del Marino, ad Anton Giulio Brignole Sale e a Vincenzo Armanni.
Prima che toccasse Napoli, il Manso gli venne incontro in carrozza all'altezza di Capua; il suo ingresso in Napoli fu trionfale. Rifiutò di farsi accogliere dalle sorelle o da altri parenti, ed accettò l'ospitalità dei Teatini presso la chiesa dei Santi Apostoli. Qui ricevette continue visite di notabili e letterati, e fu veementemente conteso dalle due più importanti accademie locali, tra le quali scelse quella degli Oziosi; qui pronunciò gli ultimi discorsi accademici (ne sopravvive a stampa uno, molto interessante, sui diritti degli animali, in appendice ad una stampa della Strage degl'innocenti, Venezia 1633), che attiravano un concorso di folla eccezionale. Risedeva dai Teatini solo in occasione delle attività accademiche, abitando per il resto del tempo in una casa sulla spiaggia di Posillipo, dove approfittò dell'omaggio del viceré per sistemare Francesco Chiaro come canonico della sede arcivescovile di Napoli.
Morì, di lì a poco martedì 26 marzo1625, alle 9.00, per una stranguria curata male, o probabilmente per cancro all'apparato genitale (che è quanto sostiene lo Stigliani, che tiene a precisare che poco prima della morte il poeta era stato sottoposto a castrazione totale nel disperato tentativo di salvarlo). Morto piamente, fece dare alle fiamme poco prima una serie di scritti, non solo lascivi ma anche, contro il parere conciliante degli amici e del confessore, semplicemente amorosi. Lo Stigliani non mancò di notare che si trattava di materiale già dato alle stampe; di fatto molti manoscritti, anche di opere appena abbozzate, non furono arsi, e furono saccheggiati con finalità diverse dagli amici e dai frati di cui il Marino era ospite. Come riflettono le reazioni dei contemporanei, da una canzone a selva al possessore delle carte del Marino, del Bonifacio, recitate durante le esequie solenni degli Umoristi, a quanto sostengono i biografi circa le opere rimaste "guaste e imperfette" a causa del ladrocinio intorno alle spoglie del Marino, per tutto il Seicento la dolorosa scomparsa di opere mariniane, coincidenti con quanto promesso nel corso degli anni oppure no, fu una realtà degna di fede per un grande numero di letterati. Nel 1666 il dotto Lorenzo Crasso, in stampa (negli Elogii di huomini letterati) e privatamente ad Angelico Aprosio, sosterrà a chiare lettere di possedere, grazie ad interi in folio di opere mariniane, anche la famigerata Gerusalemme distrutta, e di averla letta integralmente. L'unica testimonianza vivente il Marino che opere come le Epistole amorose (a parte la Lettera di Rodomonte a Doralice) e le Trasformazioni fossero poco più che meri titoli sarebbe data da una lettera inviata ad Ottavio Tronsarelli da Napoli presumibilmente nel 1624, ma i dubbii che si tratti di un falso del Tronsarelli stesso sono in proposito pesantissimi. Pochissimo tempo dopo l'uscita del Crasso un marinista di valore, ma molto nemico delle "spagnolate" del Marino, Scipione Errico, poco prima di morire (1670) sosteneva in una lettera di attendere alla composizione di certe sue Trasformationi - fosse ciò vero o non fosse, piuttosto, diventato un gioco malizioso di ammicchi tra letterati.
Sicuramente una parte non trascurabile di quei manoscritti sopravviveva fino ad un'eruzione del Vesuvio del 1794; ma secondo alcuni studiosi moderni, tra cui Alessandro Martini, le possibilità di sopravvivenza, e dunque di recupero, di materiali mariniani completamente inediti non è del tutto disperata. Deve comunque essere detto che, per esempio, della sontuosa biblioteca del Marino a tutt'oggi si è rinvenuto solo un volume.
Il "caso" Marino divenne immediatamente, dalle celebrazioni accademiche romane per la sua morte in poi, un fatto ideologico, che aveva come scopo, si può generalmente dire, la difesa della libertà artistica ed una visione progressiva del fare poesia e letteratura. In questa prospettiva devono essere considerate le biografie dedicategli, specie di agiografie laiche, negli anni immediatamente a seguire, dal nipote canonico Chiaro, da Giovan Battista Baiacca, Giacomo Filippo Camola, Francesco Ferrari, Giovanni Francesco Loredano, etc. Nel 1627 lo Stigliani dava poi alle stampe il suo Occhiale, quasi sicuramente scritto (almeno per la gran parte) e fatto circolare ancor vivente il Marino, in cui si esponevano minuziosamente tutti gli errori e i difetti dell' Adone; la pubblicazione avrebbe scatenato una delle polemiche letterarie più durevoli e appassionate di ogni tempo in Italia, a cui avrebbero preso parte Andrea Barbazza, Girolamo Aleandro il Giovane, Scipione Errico, Niccola Villani, Angelico Aprosio e numerosi altri. Tuttavia l' Occhiale ha il pregio, riconosciuto dagli esegeti moderni, di dar conto tempestivo e molto accurato di una gran parte dell'erudizione che il Marino rovesciò generosamente nell' Adone, precisando un'infinità di luoghi classici e meno classici a cui il poeta napoletano si rifece, ingaggiando col lettore una tacita gara di riconoscimenti dotti. Curiosamente, l'unica opera mariniana che abbia goduto d'ininterrotta fortuna editoriale, fino ai primi del '900, è il poemetto sacro La strage degli innocenti.
Opere
Marino scrisse moltissime opere, sia in prosa che in versi. Le opere in versi rimangono le più prestigiose e imitate. Tra cui l' "Adone ", la " Lira" , e la "Sampogna" (una raccolta di idillii greci a tema pastorale ed erotico)
Opere in prosa
In prosa sono notevolissime le Dicerie sacre (1614) sorta di prontuario di prediche, apprezzatissimo e compulsatissimo da tutti i predicatori a venire; nelle singole, smisurate prediche, che in sostanza hanno ben poco da fare con la religione, è applicata fino alle estreme conseguenze la tecnica trascendentale della metafora continuata, una specialità mariniana ampiamente imitata durante il Barocco. Si dividono in tre parti: 1. La pittura; 2. La musica; 3. Il cielo. Piacevoli per il lettore moderno sono le Lettere, documento eloquente della sua esperienza artistica e umana. In esse smentisce l'accusa di sensualità fatta alla sua poesia spiegando che essa non era altro che la risposta alle aspettative della classe dirigente, come si può leggere in una delle lettere al duca Carlo Emanuele I. Di grande virtuosismo le lettere a Ludovico San Martino d'Agliè sulla prigionia torinese e quelle a Lorenzo Scoto sull'arrivo in Francia.
Opere in versi
Marino inaugura uno stile nuovo "morbido, vezzoso e attrattivo" per un nuovo pubblico, distaccandosi così dal Tasso e dal petrarchismo rinascimentale e inoltre da ogni precetto di tipo aristotelico.
Questo suo nuovo atteggiamento lo si trova già nelle Rime del 1602, aumentate in seguito, nel 1614, con il titolo di La Lira, per un totale di più di 900 componimenti, in prevalenza sonetti.
Si tratta di componimenti di argomento amoroso, encomiastico, sacro, che egli raccoglie sia per temi (rime marittime, rime boscherecce, rime amorose, rime lugubri, rime eroiche, rime sacre) che per metri (madrigali, canzoni).
Esse si richiamano spesso alla tradizione classica latina e greca con una particolare predilezione per l'Ovidio amoroso e alla tradizione stilnovista e moderna, esprimendo una forte tensione sperimentale che si orienta in senso antipetrarchista.
Nel 1620 Marino pubblica La Sampogna, una raccolta di rime divisa in due parti: una composta da idilli pastorali e una in rime boscherecce distaccandosi così dalla tematica amorosa, eroica e sacra, a favore di quella mitologica e pastorale.
L'Adone
L'opera descrive con molte digressioni la tenue favola delle vicende amorose di Adone e Venere; è considerato il più lungo dei poemi importanti in lingua italiana, pur risultando non molto più lungo dell' Orlando furioso dell'Ariosto. Il testo è composto da 5.183 ottave, per un totale di 40.984 versi (contro i 39.736 del Furioso). Dedicato a Luigi XIII di Francia e alla madre del re, Maria de' Medici, è composto da venti canti in ottave ed è preceduto da un proemio, scritto sotto forma di lettera; inoltre il testo è anticipato dalla prefazione del critico francese Jean Chapelain, che per primo propose l'interpretazione del 'poema heroico' come "poème de paix", contrapposto all'epica tradizionale, che invece canta della guerra.
Fortuna e critica
La sua concezione di poesia, che, esasperando gli artifici del manierismo era incentrata su un uso intensivo delle metafore, delle antitesi e di tutti i giochi di rispondenze foniche, a partire da quelli paretimologici, sulle descrizioni sfoggiate e sulla molle musicalità del verso, ebbe ai suoi tempi una fortuna immensa, paragonabile solo a quella del Petrarca prima di lui. Nessuno dei procedimenti da lui impiegati era, ovviamente, nuovo, ma mai era stato utilizzato con altrettanta assolutezza. Fu largamente imitato, oltreché in Italia, anche in Francia (dove fu il beniamino dei preziosisti, come Honoré d'Urfé, Georges de Scudéry, Vincent Voiture, Jean-Louis Guez de Balzac, e dei cosiddetti libertini, come Jean Chapelain, Tristan l'Hermite, Philippe Desportes, ecc.), in Spagna (dove influì su Luis de Góngora e soprattutto Lope de Vega), in altri paesi cattolici come il Portogallo e la Polonia, ma anche in Germania, dove i suoi più diretti seguaci furono Christian Hofmann von Hofmannswaldau e Daniel Casper von Lohenstein, e nei paesi slavi. In Inghilterra La strage degli innocenti fu ammirato e imitato da John Milton, e tradotto integralmente da John Crashaw.
Per quanto riguarda la ricezione del Marino in Italia, significative sono le censure di Pietro Sforza Pallavicino, teorico della letteratura secondo i dettami di Urbano VIII, in Del bene (1644) e Trattato dello stile e del dialogo (II ed. definitiva 1662); e per converso il riconoscimento del Marino come sostanziale "caposcuola" da parte di Emanuele Tesauro nelle varie redazioni del suo Cannocchiale aristotelico. Il Pallavicino condanna in blocco, senza premurarsi di fare distinguo (e dunque negando la possibilità stessa di una poesia non atteggiata, "classica"), i procedimenti paretimologici mariniani, considerandoli comunque viziosi, in Del bene; mentre esalta lo Stigliani "tra que' pochi che della poetica e della lingua italiana possono parlare come scienziati" (Trattato dello stile), nelle Vindicationes societatis Iesu (1649) del Marino dirà che "in numero lascivire potius videtur quam incedere", che in genere "canoris nugis auditum fallere, non succo sententiarum atque argutiarum animos pascere", e che il Marino in particolare "carebat philosophico ingenio, quod in poeta vehementer exigit Aristoteles" - e nel Trattato, riferendosi ad un luogo della Galeria, definisce il ricorso a certi bisticci come segno "di poca maestria d'imitazione", aggiungendo che sono "poco fertili di maraviglia e anche poco ingegnosi". E' interessante notare come sia nel 1639 il massimo teorico delle Acutezze, Matteo Peregrini, sia sotto Urbano VIII il Pallavicino, sia il Tesauro nelle varie redazioni del Cannocchiale (1654-1670) non abbiano dato, o anche solo tentato, una definizione univoca dell'antitesi; laddove il Pallavicino, in particolare, ne fornisce una, nel Trattato, più prossima alla paronomasia.
Rimasto il punto di riferimento della poetica barocca per tutto il tempo in cui fu in voga, con il XVIII e il XIX secolo, pur essendo sempre ricordato per ragioni storiche, fu indicato come la fonte o il simbolo del "malgusto" barocco. Le critiche dello Sforza Pallavicino per certi aspetti anticipano quelle del secolo dei lumi; Ludovico Antonio Muratori gli darà sostanzialmente ragione (per quanto respinga quella qualità "filosofica" che la poesia dovrebbe avere, e per cui il Pallavicino si rifaceva viziosamente ad un passo d'Aristotele - che s'era limitato a dire che il poeta è più filosofo dello storico, non che è filosofo in sé). Più oltre si spinge Giovanni Vincenzo Gravina, che non si limita a notare la mancanza di misura e di gusto della maniera barocca, ma ne dà una spiegazione storica: la poesia barocca è la poesia dell'età della scienza, e il suo errore è stato quello di dotarsi di una sua techne e di suoi strumenti proprii, e questo, pur aprendole possibilità nuove, l'ha fortemente limitata sotto altri aspetti. Gian Battista Vico, che conobbe e stimò l'"ultimo dei marinisti", Giacomo Lubrano, nella sua produzione in versi si tenne fedele ai principii di un castigato classicismo, ma diede grande importanza ai procedimenti analogici su un piano strettamente speculativo, contro l'aridità del sensismo, come strumento di indagine e palestra intellettuale. In effetti il Marino carente di "philosophico ingenio" è stato anche il primo ad applicare intensivamente procedimenti dialettici alla poesia, con eventuali ricadute sulla speculazione del suo tempo, e anche dei tempi a venire.
La critica non ha dedicato al Marino studii organici fino alla fine Ottocento. La critica romantica (salvo Luigi Settembrini) ha dato della sua opera un'interpretazione superficiale, da vulgata, identificando l'unica preoccupazione del poeta con la "maraviglia", conseguita tramite la ricercatezza dei particolari e le sfoggiate descrizioni. Francesco de Sanctis criticò pesantemente Marino, definendolo un letterato che dava tutta la sua attenzione alla forma ma non al sentimento[1], per quanto si riveli in grado di dare uno sguardo meno superficiale allo "studiolo" del Marino quando descrive la sua tecnica "col rampino", e identifica l'origine della sua ispirazione nel catalogismo erudito e voluttuoso. Ma per quanto riguarda la critica romantica, più notevole è la severa, ma estesa ed intelligente lettura che nelle Lezioni di letteratura italiana (1872-'75) diede Luigi Settembrini. Immune da campanilismi (il Settembrini tace, per esempio, di Giovan Battista Basile), ripercorre il poema grande, antologizzando alcuni luoghi, e, negando recisamente un'assenza di struttura, riconosce numerosi luoghi mirabili e la sostanziale novità del Marino. Secondo la sua prospettiva storiografica - che è quella di chi deve dar conto di una storia della civiltà letteraria italiana - il Marino è il sintomo di una fase di forte decadenza, caratterizzata dall'occupazione straniera e dallo strapotere della chiesa, e l' Adone, definito opera "voluttuosa", sarebbe una sorta di reazione alla crudeltà dei tempi (tesi non troppo distante da quella sostenuta a suo tempo anche da Pieri in Per Marino), e contemporaneamente loro ambigua espressione. Con questo, trascendendo la figura in sé dell'autore (comunque nobilitato da certi accostamenti: "Vedrete delirare Bruno e Marino", annuncia aprendo la trattazione del secolo "fangoso": ma questa di "delirio" non è in tutto una definizione negativa), secondo il Settembrini il marinismo è, tout court, il gesuitesimo applicato alla letteratura. Peraltro il Settembrini rifiuta seccamente la valutazione dell'Arcadia come un movimento di restaurazione del buon gusto; e paragona il Barocco ad un pazzo furioso, il cui organismo cerca ancòra di difendersi dall'avanzata del male, mentre l'Arcadia sarebbe uno stato tranquillo, sì, ma come l'ebetudine che precede di poco la morte. Di quanto ci fu intorno al Marino rifiuta di parlare, facendo i nomi di Achillini e Preti e liquidandoli con tutti gli altri come "gesuitanti dello stile".
Il primo studio approfondito sulla poetica mariniana e i suoi procedimenti è Sopra la poesia del cavalier Marino (1899) opera di Guglielmo Felice Damiani, che seguiva La vita e le opere di Giambattista Marino" di Mario Menghini (1888). Ma il fondamentale esordio di una critica approfondita dell'opera mariniana è un testo a tutt'oggi di riferimento, Storia della vita e delle opere del cavalier Marino, di Angelo Borzelli, dato alle stampe in una prima versione nel 1898, e poi ristampato, con la cassazione di alcuni errori, nel 1927. Il lavoro, d'impostazione storica più che filologica, dava per la prima volta conto di tutta una serie di notizie sulla vita e sull'opera del Marino, curando anche il contesto e la biblioteca su cui si era formato, riportando anche una quantità d'inediti e primizie d'archivio. Nonostante alcuni errori, rimane a tutt'oggi un punto di riferimento sicuro. La seguente Storia dell'età barocca in Italia di Benedetto Croce, del 1929, è più significativa della ricezione della temperie da parte dell'intellettualità durante il fascismo che come studio in sé (anche perché del Marino si tratta pochissimo, e con sensibile nausea).
Ma L'Adone, così come gran parte della letteratura barocca, è stato ormai approfonditamente studiato e ampiamente rivalutato a partire da Giovanni Getto negli anni '60 e in seguito, nel 1975, dal Marzio Pieri e nel 1976 da Giovanni Pozzi (rist. Adelphi 1988), già editore delle Dicerie sacre (1960) e pioniere di un nuovo corso di studii sul Marino. A partire dai due studiosi, legati rispettivamente alle università di Parma e di Friburgo, si sono creati due filoni d'indagine, di ispirazione esegetica molto diversa e talora anche in contrasto tra loro. Pieri ha impostato la propria analisi dell' Adone, seguendo i criterii di edizione dei classici Laterza, dapprima in senso prettamente filologico, per poi accentuare, in un grande numero di testi a seguire, la centralità della figura del Marino come autore "moderno", capofila di una "letteratura minore" o addirittura "minima", non interessata ad affrontare tematiche centrali ma sensibile alle più recondite suggestioni, agli effetti più sottili e sfuggenti, al mondo delle relazioni. Raggiungendo esiti anche di grande astrazione non ha esitato a trovare tra anche singoli versi del Marino e svariati contemporanei le 'rime interne' più impreviste e inaspettate, come accumulando motivi per lèggere il Marino.
Il Pozzi, invece, secondo un'impostazione esegetica più classica, ha praticamente completato lo spoglio delle fonti dell' Adone, in specie nella seconda, fondamentale impressione, e questo rimane il suo apporto fondamentale. Per quanto riguarda gli aspetti formali del poema, di cui s'è occupato intensamente, gli esiti sono stati più opinabili. Negando la presenza di una struttura vera e propria all' Adone, gli ha riconosciuto una forma molto raffinata che definisce "bifocale ed ellittica" - che è macrostrutturalmente l'assetto dialettico del "contraposito" - e che rifletterebbe (secondo Pozzi) l'"irresoluzione dell'uomo secentesco di fronte ai due modelli cosmici contraddittori, tolemaico e copernicano". Ricordiamo che l Adone ospita una stupenda apostrofe a Galileo Galilei, ma nonostante il viaggio interplanetario di Adone guidato da Mercurio, la struttura dell'universo mariniano non è esplicitata al punto da consentire di affiliare il Marino (verosimilmente assai poco interessato) o all'una o all'altra scuola di pensiero. Abortito, a causa dell'uscita per le stampe del primo Adone curato dal Pozzi, il progetto di Amedeo Quondam di ripercorrere l'intero testo come "poema di emblemi" (un'impostazione esegetica favorita da un'affermazione dello stesso Marino, ma risultata poi impraticabile per eccessiva ingenuità), un grande numero di studiosi si è concentrato poi su questo o quell'aspetto dell'opera, senza fornire altre impostazioni critiche complessive.
Più recentemente nel 2002 è da ricordare la pubblicazione in Francia del saggio di Marie-France Tristan La Scène de l'écriture, che cerca (sarà il lettore a giudicare quanto convincentemente) di mettere in evidenza il carattere filosofico della poesia del Marino, comunque fondendo la cosmogonia ironicamente cattolica delle Dicerie con quella pagana dell' Adone.
Altre opere
Marino scrisse altre opere in versi come i Panegirici, la Galleria, un'enciclopedia del visibile, le cui figure sono suddivise in Pitture e Sculture, il poema sacro in 4 canti la Strage degli innocenti. Ispirati al Tasso i frammenti epici della Gerusalemme distrutta e l'Anversa liberata (tuttavia d'incerta attribuzione). Interessanti e ingegnosi i componimenti burleschi come la Murtoleide (81 sonetti satirici contro Gaspare Murtola), il capitolo ternario dello Stivale, Il Pupulo alla Pupula (lettere burlesche), ecc. Molte le opere annunciate e mai scritte, tra cui il grande poema delle Trasformazioni, d'impianto ovidiano, abortito dopo che la sua scelta era caduta sull'Adone.
Marino fu famoso alla sua epoca e salutato dai contemporanei come continuatore e ammodernatore di Tasso. La sua influenza su letterati italiani e stranieri del Seicento fu immensa. Egli era infatti il rappresentante di un movimento che si stava affermando in tutta Europa, come il preziosismo in Francia, l'eufuismo in Inghilterra (dal romanzo di John Lyly Euphues), il culteranismo in Spagna.
Note
- ^ "Giovan Battista Marino è una delle 'vittime' illustri della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis". Enciclopedia Encarta 2009
Bibliografia
Imbarazzante l'assenza di una pubblicazione moderna consistente dell'opera di Marino in Italia, caso praticamente unico nel panorama degli scrittori della nostra letteratura. L'ultima edizione integrale de L'Adone, ad esempio, risale all'88, pubblicata da Adelphi, ad un prezzo esorbitante, e oggi ormai introvabile. Solo ultimamente La Finestra editrice si sta impegnando nella pubblicazione delle opere complete: l'intero corpus del Marino, noto come "Marino Edition", diretta da Marzio Pieri e Marco Albertazzi, e a cura di Luana Salvarani, Alessandra Ruffino e Diego Varini. Editi finora:
- I. Adone [edizione], a c. di M. Pieri, I-III
- II. La Galeria [edizione], a c. di M. Pieri e A. Ruffino. Con CD-Rom I Pittori del Marino
- IV. La Sampogna con le egloghe boscarecce [edizione]con una scelta di idillii Capponi-Argoli-Preti-Busenello, a c. di M. Pieri, A. Ruffino e L. Salvarani. Con CD-Rom Nascita del Paesaggio
Studi
- Marziano Guglielminetti, Tecnica e invenzione nell’opera di Giambattista Marino, Messina 1964.
- Carmela Colombo, Cultura e tradizione nell Adone die Giovan Battista Marino, Padova 1967.
- Ottavio Besomi, Ricerche intorno alla Lira di G. B. Marino, Padua 1969.
- Bruno Porcelli: Le misure della fabbrica. Studi sull Adone del Marino e sulla Fiera del Buonarotti, Milano 1980.
- Michele Dell’Ambrogio: Tradurre, imitare, rubare: appunti sugli ‚Epitalami’ del Marino, in: Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a cura di Ottavio Besomi. Padova 1988, p. 269-293
- Francesco Guardiani, La meraviglioso retorica dell’Adone di G. B. Marino, Florenz 1989.
- Marzio Pieri, Marino e i Marinisti, a Napoli di nuovo, Neapel 1990.
- Maurice Slawinski, The Poet’s Senses: G-B. Marino’s Epic Poem "L’Adone" and the New Science, in: Comparative Criticiscm: A Yearbook 13 (1991), p. 51-81
- The Sense of Marino: Literature, fine Arts, and Music of the Italian Baroque. A cura di Francesco Guardiani New York 1994.
- Francesco Guardiani: Giovan Battista Marino’s L’Adone: A Key to Baroque Civilisation, in: The Image of the Baroque. A cura di Aldo Scaglione, Gianni Eugenio Viola New York 1995, p.73-91
- Rainer Stillers, Mythologische Poetik in der Dichtung Giovan Battista Marinos, in: Mythos und Text. Kolloquium zu Ehren von Ludwig Schrader am 11. März 1992 an der Heinrich-Heine-Universität Düsseldorf. A cura di Siegfried Jüttner. Düsseldorf 1997, p. 1-17.
- Ulrich Schulz-Buschhaus, Intertextualität und Modernismus bei Giovan Battista Marino. Interpretationen zu den Idilli pastorali "La bruna pastorella" und "La ninfa avara", in: Diskurse des Barock. Dezentrierte oder rezentrierte Welt, a cura di Joachim Küpper, Friedrich Wolfzettel, München 2000 (Romanistisches Kolloquium IX), p. 331-357.
- Winfried Wehle, Diaphora – Barock: eine Reflexionsfigur von Renaissance. Wandlungen Arkadiens bei Sannazaro, Tasso und Marino, in: Diskurse des Barock. Dezentrierte oder rezentrierte Welt, a cura di Joachim Küpper, Friedrich Wolfzettel. München 2000, p. 95-145
- Marie-France Tristan, La scène de l’écriture. Essai sur la poésie philosophique du Cavalier Marin (1569-1625). Paris 2002.
- Paolo Cherchi, Marino and the ‚Meraviglia’, in: Culture and Authority in the Baroque, a cura di Massimo Ciavolella, Patrick Coleman Toronto 2005, p. 63-72.
- Pasquale Sabbatino, "Una montagna aspra e erta" e "un bellissimo piano e dilettevole". Il modello narrativo del Decameron e La Galeria del Marino nelle Vite di Bellori, in "Cahiers d'études italiennes. Filigrana", n. 8, 2008 (Boccace à la Renaissance. Lectures, traductions, influences en Italie et en France. Actes du Colloque Héritage et fortune de Boccace, 12-14 octobre 2006 à l'université Stendhal-Grenoble 3), pp. 149-175, ISBN 978-2-84310-122-9.
- Marie-France Tristan, Sileno barocco. Il ‚Cavalier Marino’ fra sacro e profano, Lavis 2008
- Marino e il Barocco, da Napoli a Parigi, a cura di Emilio Russo Alessandria 2009.
- Jörn Steigerwald, Amors Gedenken an Psyche: Die novelletta in Giambattista Marinos "Adone", in: Geschichte – Erinnerung – Ästhetik. Tagung zum 65. Geburtstag von Dietmar Rieger, a cura di Kirsten Dickhaut, Stefanie Wodianka, Tübingen 2010, p. 175-194.
Voci correlate
Altri progetti
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