Cheetah Chrome

musicista statunitense

Eugene "Gene" O'Connor, soprannominato Cheetah Chrome (Cleveland, 18 febbraio 1955), è un musicista statunitense, conosciuto soprattutto per avere suonato la chitarra nel gruppo punk rock The Dead Boys negli anni settanta[1].

Cheetah Chrome
NazionalitàStati Uniti (bandiera) Stati Uniti
GenerePunk rock
Rock
Garage rock
Periodo di attività musicale1975 – in attività
Strumentochitarra
EtichettaSire Records
GruppiRocket from the Tombs
Dead Boys
Cheetah Chrome and the Casualties
Sito ufficiale

Carriera

The Dead Boys

I Dead Boys nacquero dallo scioglimento dei Rocket from the Tombs, David Thomas e Peter Laughner formeranno i Pere Ubu, mentre Gene "Cheetah Chrome" O'Connor (chitarra) e Johnny "Blitz" Madansky (batteria) si associeranno al chitarrista William "Jimmy Zero" Wilden, al bassista Jeff "Magnum" Halmagy e all'istrionico cantante Stiv Bators, per formare un gruppo chiamato "Frankenstein". Quando poi i membri del gruppo si trasferirono a New York nel luglio 1976, adottarono il nome di "Dead Boys" ("ragazzi morti") preso da una canzone dei Rocket from the Tombs chiamata Down In Flames.

Arrivati a New York su incoraggiamento di Joey Ramone, il cantante dei Ramones, i Dead Boys guadagnarono velocemente notorietà in virtù delle loro scatenate ed oltraggiose esibizioni dal vivo. Fecero epoca le prestazioni grezze e provocatorie e gli atteggiamenti fuori dal normale e fortemente autolesionisti del cantante Stiv Bators (grande fan di Iggy Pop e del suo "stile selvaggio") e gli assoli al fulmicotone del chitarrista Cheetah Chrome. Ormai padroni di una reputazione di deviati del rock, i quattro Dead Boys portarono all'estremo le direttive della prima ondata del punk statunitense: il rock rozzo, veloce, e frastornante dei Ramones, l'aria da pervertiti dei New York Dolls, la depressione esistenziale dei Television e il look "stracciato" alla Richard Hell. Il gruppo divenne così sinonimo di violenza allo stato puro, secondo quelli che stavano emergendo come i tratti salienti del punk di matrice britannica cha arrivava da oltreoceano. Suonarono spesso nel leggendario Rock Club di New York, il CBGB, e nel 1977 uscì il loro primo album, Young, Loud and Snotty, prodotto da Genya Ravan. La canzone che apre il disco, Sonic Reducer, viene spesso indicata ancora oggi come uno dei classici del genere punk rock, considerata "uno dei più grandi inni punk mai scritti".[2]

Scioglimento

Dopo la produzione di un secondo album di scarso successo, We Have Come for Your Children (1978), la Sire Records, etichetta produttrice dei Dead Boys, obbligò il gruppo a cambiare il proprio look ed il sound per addolcire un po' la loro proposta musicale e renderla più appetibile commercialmente per il pubblico americano che ancora non seguiva il punk come in Inghilterra già avveniva, e fu anche per questo motivo che la band si sciolse nel 1979.[3] Svariate loro esibizioni del 1979 sono visibili nel film del 1980 intitolato D.O.A.: A Rite of Passage. Qualche mese dopo lo scioglimento del gruppo, la band fu costretta a riunirsi occasionalmente per incidere un album dal vivo e tener fede ai propri obblighi contrattuali. Per vendicarsi sulla Sire Records, Stiv Bators scrisse una canzone sull'accaduto, ma la registrazione non poté essere utilizzata. Quando il materiale finalmente emerse su etichetta Bomp! Records, Bators ri-registrò il pezzo in studio cambiando il testo.

Reunion

I Dead Boys tornarono insieme per effettuare diversi concerti durante gli anni ottanta. Nel 1989 la band ri-pubblicò il loro epocale album di debutto Young, Loud and Snotty del 1977 in versione "più dura" e con un mixaggio più grezzo reintitolandolo Younger, Louder and Snottier. Il nuovo mix fu ricavato da un nastro a cassetta di un primo mixaggio preliminare delle sessioni originarie, attribuito al giovane Bob Clearmountain, all'epoca assistente di studio.

Note

  1. ^ Mark Deming, Cheetah Chrome: Biography, su allmusic.com, Allmusic. URL consultato il 3 July 2012.
  2. ^ Dead Boys: Biography, Allmusic. URL consultato il 12 ottobre 2007.
  3. ^ McNeil, Legs. McCain, Gillian. Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk, Penguin Books, New York, Londra, 1997, pag. 335–336.