Strage del Duomo di San Miniato
La strage del Duomo di San Miniato fu un fatto di guerra avvenuto il 22 luglio 1944 a San Miniato (Pisa), in cui cinquantacinque persone, radunate nel Duomo, perirono a causa di granata sparata dal 337º Battaglione d'artiglieria campale statunitense, che colpì accidentalmente[1][2][3] la chiesa dove erano assiepati un gran numero di civili.
Fino al 2004 la responsabilità dell'eccidio fu erroneamente attribuita alle truppe tedesche della 3ª Divisione granatieri corazzati, allora in ritirata dalla cittadina.
Contesto storico-ambientale
L'inverno di guerra del 1944 aveva aggiunto in Italia nuove privazioni a quelle a cui la popolazione era stata costretta nel passato. Scarsità di generi alimentari di prima necessità, mancanza di vestiario e spesso di corrente elettrica e poco carbone disponibile favorivano il contrabbando, il mercato nero e la borsa nera, commercio, questo, che premiava gli avidi ed i facoltosi. Il vantaggio di un inverno mite e con poche piogge s'era risolto in un fatto negativo per le continue incursioni aeree, ad ondate, sulle città. Con la primavera San Miniato, in provincia di Pisa, divenne luogo di alloggiamenti militari: nella Villa Antonini (oggi sede dei Carabinieri) si trovava il Comando tattico del Generalleutnant Ernst-Gunther Baade; nelle ville di campagna erano dislocati i reparti della 26ª divisione corazzata e la 90ª divisione granatieri agli ordini del generale Frido von Senger und Etterlin del XIV Corpo d'armata corazzato. Gli eccidi nazisti, a Civitella in Valdichiana, a Falsano, a Castello di San Pancrazio, e la formazione di piazzole per mitragliatrici a Calenzano e in Paesante (toponimo a sud-ovest di San Miniato da cui si domina la valle dell'Enzi e dell'Egola) accumulavano timori nella popolazione.
Nella seconda metà del luglio 1944, la V Armata americana avanzò inesorabilmente: il 17 luglio furono liberati i comuni di Montaione e Ponsacco, rispettivamente ad est ed a ovest di San Miniato che, per la sua configurazione geografica, risultava un punto strategicamente importante per le truppe tedesche impegnate a tenere la posizione fino al mattino del 24, prima di ritirasi al di là della "linea Heinrich" lungo il fiume Arno. La città, che aveva visto crescere notevolmente il numero degli abitanti per gli sfollati che vi avevano cercato ricovero, viveva momenti particolarmente tesi. Il 17 luglio l’ordine di evacuazione della cittadina, impartito dal Comando tedesco per garantire alle truppe una ritirata sicura e agevole, venne ignorato dalla popolazione. Il 18 luglio l'ingiunzione venne reiterata e ancora una volta non fu eseguita, anche perché il podestà era scomparso e non c'era un'autorità di riferimento nel paese.
Tre formazioni partigiane operavano nelle campagne circostanti San Miniato: la brigata "Corrado Pannocchia" comandata da Loris Sliepizza; la "Mori Fioravante" comandata dallo stesso Mori e la "Salvadori Torquato" comandata dal medesimo[4]. Queste formazioni si erano rese protagoniste di alcuni scontri e dell’uccisione di tre militari tedeschi, fra cui un ufficiale. La città si ritrovava quindi minacciata dalla strategia tedesca della ritirata, lenta e aggressiva. Il 18 luglio i tedeschi in relazione all'uccisione dei tre militari arrestarono tredici persone che in un secondo tempo furono tutte rilasciate. Successivamente, da mercoledì 19 luglio i tedeschi minarono molti edifici in gran parte lungo la strada principale che nella tarda serata e nella notte dal 20 al 21 fecero saltare compresi la sede della Cassa di Risparmio e metà del palazzo Grifoni. Circa il 60% delle case furono rase al suolo.[5] Le truppe tedesche di stanza nella città facevano parte della 3ª Divisione granatieri corazzati, subordinata al XIV Corpo d’armata corazzato di von Senger, cui era stata assegnata la sorveglianza del fronte da Terrafino a Montelupo Fiorentino.
La strage
Nelle prime ore del 22 luglio 1944, verso le 06:00, un ufficiale tedesco, accompagnato dall'interprete, si presentò all'Episcopio chiedendo di parlare con il vescovo Ugo Giubbi. L'ufficiale, dopo essersi lamentato del fatto che la popolazione si trovasse ancora in città nonostante l'ordine di sfollamento fosse stato diramato da tempo, presentò al vescovo la richiesta di avvertire tutti i civili affinché si radunassero per le ore 08:00 in Piazza dell'Impero (nel dopoguerra ridenominata "Piazza del Popolo"). Il vescovo fece osservare che per quell'ora sarebbe stato impossibile organizzare il raduno, date le difficoltà di accesso al luogo, dovute tra l'altro alle strade ingombre di macerie e propose il Prato del Duomo come luogo di raduno[7]. L'ufficiale dispose, allora, che l'adunata avvenisse anche sul prato del Duomo. Il vescovo comunicò subito l'ordine per mezzo dei suo chierici e la popolazione iniziò ad arrivare nelle due piazze[8].
Per il pericolo che la popolazione fosse colpita dagli scambi di artiglieria, fu permesso alla gente radunata sul prato del Duomo di riparare all'interno della chiesa, dietro l'insistente intervento del vescovo nei confronti dell'ufficiale tedesco che aveva ordinato il raduno. Inizialmente furono fatti entrare in chiesa solo anziani, donne e bambini, in seguito anche uomini giovani. I civili all'interno del Duomo erano sorvegliati dai tedeschi che stazionavano ai lati della porta centrale. La gente iniziò a fare diverse ipotesi sul motivo di tale concentramento, ma nessuna allora appariva completamente plausibile, nonostante i soldati di guardia avessero informato che quel «raduno era l'unico modo per tenere la gente lontana dalle strade che sarebbero state interessate dalle manovre militari delle truppe tedesche»[9]. Sul prato del Duomo, infatti, grosse frecce direzionali fissate ai tigli, indicavano il nord[10]. Alla folla che ormai aveva riempito la chiesa il vescovo si rivolse invitandola a pregare: «preghiamo tutti, perché il momento è triste, è veramente triste», aggiungendo che era consentito mangiare, parlare, fumare, non dimenticando, però, di portare rispetto alla casa di Dio[11].
Alle dieci circa un fitto fuoco dell’artiglieria statunitense colpì inizialmente le pendici a sud della città e la zona a sinistra del Duomo, compreso anche il viale della Rimembranza e le sagrestie. A distanza di un quarto d'ora il fuoco dell'artiglieria si spostò, interessando il lato destro della cattedrale, il poggio della Rocca e anche il Santuario del SS. Crocifisso. Durante questa fase un proiettile, probabilmente da 105 mm ad alto potenziale esplosivo, entrò nella chiesa provocando l'esplosione che causò cinquantacinque vittime, la maggior parte delle quali nella navata destra[12][13].
Vittime
I morti furono cinquantacinque e i loro nomi sono elencati nella lapide commemorativa che il Capitolo della cattedrale, l'Arciconfraternita di Misericordia ed i familiari collocarono nel Duomo nel 50º anniversario. Qui sono elencati:
- Antonini Eletta, Livorno, 78 anni
- Antonini Teresa, Livorno, 83 anni
- Arzilli Giuseppe, San Miniato, 65 anni
- Barusso Luigi, Torino, 21 anni
- Bellini Benedetta, Grosseto, 49 anni
- Bertucci Giuseppe, Livorno, 25 anni
- Boldrini Zemira, San Miniato, 52 anni
- Bonistalli Livia, Fucecchio, 35 anni
- Brotini Emila, San Miniato, 80 anni
- Brotini Silvana, San Miniato, 14 anni
- Capperucci Dino, Grosseto, 14 anni
- Capperucci Sonia, Grosseto, 24 anni
- Casella Lidia, Frosinone, 19 anni
- Castulli Andreina, Pisa, 41 anni
- Ceccatelli Giulia, San Miniato, 59 anni
- Chelli Carlo, San Miniato, 20 anni
- Chiefari Nicola, Guardavalle, 23 anni
- Ciulli Angelo, San Miniato, 70 anni
- Del Bravo Renato, San Miniato, 45 anni
- Faraoni Vittorio, San Miniato, 46 anni
- Fontana Bruna, San Miniato, 19 anni
- Franchi Agar, San Miniato, 52 anni
- Gasparri Francesco, San Miniato, 17 anni
- Giglioli Annunziata, San Miniato, 80 anni
- Gori Cesare, San Miniato, 83 anni
- Guerra Ugo, Pisa, 35 anni
- Guerrera Francesco, Patti, 27 anni
- Lombardi Marisa, Livorno, 13 anni
- Mangiolfi Emilio, San Miniato, 53 anni
- Mangiolfi Ferdinando, San Miniato, 49 anni
- Mangiolfi Maria, San Miniato, 51 anni
- Mazzi Armando, Livorno, 69 anni
- Mazzi Francesca, Livorno, 39 anni
- Mazzi Gina, Livorno, 29 anni
- Micheletti Quintilia, San Miniato, 52 anni
- Mori Massimo, San Miniato, 78 anni
- Nanniperi Antonietta, Livorno, 73 anni
- Razzauti Emilio, Livorno, 53 anni
- Rossi Quintilia, San Miniato, 76 anni
- Ruggini Carlo, Empoli, 59 anni
- Scardigli Adriana, San Miniato, 9 anni
- Scardigli Corrado, San Miniato, 13 anni
- Scardigli Lidia, San Miniato, 21 anni
- Scarselli Ida, San Miniato, 43 anni
- Sottani Pietro, San Miniato, 14 anni
- Sottani Reno, San Miniato, 20 anni
- Spagli Amelia, San Miniato, 57 anni
- Taddei Ersilia, San Miniato, 72 anni
- Tafi Santina, Empoli, 55 anni
- Tomei Vincenzo, Livorno, 12 anni
- Valleggi Giuseppa, San Miniato, 65 anni
- Volpini Rino, San Miniato, 56 anni
- Volpini Vittoria, San Miniato, 22 anni
Sull'accertamento del numero esatto delle vittime però esistono delle opinioni divergenti, in quanto vista la confusione di quei giorni è possibile che altre persone non elencate nella lista dei cinquantacinque siano state trasportate in altri ospedali della zona e che siano morti a seguito delle ferite riportate.
Accertamento delle responsabilità
I tedeschi lasciarono definitivamente San Miniato la notte del 23 luglio, dopo aver distrutto la Torre di Federico II di Svevia, eretta sulla Rocca circa 700 anni prima[14]. Alle prime luci del giorno dopo arrivarono gli americani nel paese. La strage venne subito attribuita «ad una precisa volontà dei Tedeschi»[15].
L'opera prestata dal vescovo per favorire il raduno della popolazione in duomo, fece nascere il sospetto che egli fosse informato. Giubbi fu sempre scagionato da quel sospetto, ad ogni livello istituzionale. Lo stesso Giudice Carlo Giannattasio[16] riconobbe alle «autorità religiose, che si sostituirono alle autorità civili mancanti, che esse dettero alla popolazione ogni assistenza spirituale e materiale. L'opera che il clero di San Miniato svolse in quei tristissimi giorni è superiore ad ogni elogio»[17][13]. Il sospetto, tuttavia, continuò a circolare forse per le posizioni critiche che lo stesso Giubbi aveva assunte nei confronti del movimento partigiano e per quanto aveva scritto nella lettera pastorale del 1944, la Renovamini spiritu, in cui invitava il clero a dare sostegno all'autorità della Repubblica Sociale Italiana, in contrasto con il sentimento della popolazione. Ciò non mancò di attirare su di sé e sui preti che divulgarono il contenuto della lettera il risentimento delle famiglie i cui figli erano stati chiamati alla leva saloina.
Giubbi morì nel settembre del 1946 senza aver mai assunto di persona le sue difese, perché "nulla aveva da difendere" come ebbe a dire. Durante i suoi funerali in Duomo, qualcuno tentò di festeggiare la sua morte accendendo dei fuochi sul prato della rocca[18][19].
Prime inchieste
Le inchieste che si occuparono, fin dal mese di luglio, di accertare le cause, le modalità e le responsabilità dell'eccidio furono tre: due promosse dagli americani ed una dal comune di San Miniato.
La prima inchiesta americana
La prima indagine la svolse il capitano del 362nd Infantry Regiment americano E.J. Ruffo che in data 28 luglio relazionava sulla "investigazione preliminare sull'atrocità di San Miniato" al Comandante dello stesso reggimento, allegando le testimonianze raccolte di alcuni supestiti.
«Tutte le prove visibili e circostanziali sulla scena dell'esplosione», scrisse l'ufficiale americano al quarto e quinto punto della sua relazione, «mi portano a concludere che i morti e feriti sono il risultato di una mina o di una bomba a orologeria, sistemata dai tedeschi... È mia ferma convinzione che il massacro dei civili nella cattedrale, in diretta violazione del trattato di Ginevra, come pure la perfetta demolizione dei principali edifici della città, furono misure di rappresaglia effettuate dai tedeschi in risposta all'atteggiamento ostile della popolazione locale nei confronti delle dottrine fascista e nazista...»[20]. Il comandante del 362º reggimento, colonnello John W. Cotton, appena ricevuta l'informativa, si fece premura di trasmetterla al generale Mark Wayne Clark, sottoponendogli per competenza il caso del "Massacro tedesco avvenuto il 22 luglio 1944". In poco meno di dieci giorni tutta la documentazione dell'indagine preliminare passò dal 362º Reggimento di fanteria americano al Quartier Generale della 5a Armata.
La seconda indagine del tribunale militare americano
La seconda inchiesta prende ufficialmente avvio il 1º agosto 1944.
La commissione, incaricata delle indagini, è nominata dal Capo di Stato Maggiore Alfred M. Gruenther per conto del generale Clark. Di essa fanno parte il Maggiore Edwin S. Booth, delegato dal Presidente del Tribunale Supremo Militare, il Maggiore Milton R. Wexler e Car H. Cundiff in rappresentanza rispettivamente dell'accusa e della difesa. Il graduato Donald R. Harrison e il sergente Hugo J. Gelardia svolgono le funzioni di dattilografo e di interprete. In mezza giornata la Commissione ascolta 8 testimoni tra cui il Vescovo Giubbi ed il Sindaco Baglioni. Le udienze si svolgono nel Palazzo vescovile tra le 13:00 e le 17:00 del 14 agosto 1944[21] e si concludono senza aver trovato un colpevole «per la ragione che prima dell'insediamento di questa commissione non era stato individuato né un supposto responsabile né era stata accertata un'atrocità o un crimine di guerra»[22]. Il 20 agosto il maggiore Booth consegna a Cecina la documentazione sua e quella di Ruffo "nelle mani dei burocrati militari"[23][24][25]. Dopo una serie di passaggi tra Quartieri Generali alla fine di novembre il fascicolo arriva al Tribunale Supremo Militare Americano di Washington, derubricato come "Massacro di civili italiani da parte di soldati tedeschi, demolizione di un edificio non avente alcun valore militare"[22]. Il fascicolo rimaneva aperto "in attesa di una definizione della politica riguardante i processi dei casi italiani". I fatti erano sintetizzati in questi termini: «i soldati tedeschi che occupavano la cittadina di San Miniato, di fronte all'avanzata delle forze americane, e alle conseguenti difficoltà incontrate con elementi partigiani, il 22 luglio 1944 costrinsero circa 1500 abitanti... a entrare nella cattedrale, che apparentemente risultava minata prima dell'entrata della popolazione... Le porte furono chiuse, le guardie tedesche se ne andarono e la mina fu fatta esplodere...»[22]. Il 6 maggio 1946 il Generale John R. Hoggen del Tribunale Supremo Militare trasmetteva la documentazione contrassegnata con i nn. 253 e 305 alle autorità italiane per le investigazioni appropriate. Il "caso" per l'amministrazione militare americana era definitivamente chiuso, tutto ora era di competenza del governo italiano. Nel 1960 la Procura Generale Italiana archiviò, e tutto finì nel "famoso" armadio della vergogna[20][26].
La terza inchiesta italiana
La Commissione della terza inchiesta, tutta italiana, si insediò il 21 settembre 1944. Era composta dal sindaco Emilio Baglioni, l'avvocato Ermanno Taviani, l'ingegner Aurelio Giglioli, Dante Giampieri, Pio Volpini e Gino Mori Taddei che svolgeva funzioni di segretario. Emilio Baglioni, assunto il 1º giugno 1944 nella formazione partigiana "Mori Fioravante" come addetto al servizio di collegamento con le truppe alleate, in questa veste tratteneva i rapporti con gli ufficiali americani dell'Intelligence Service a cui segnalava le postazioni tedesche e concordava le azioni di sabotaggio[27][24]. Alla carica di "primo cittadino" Baglioni era stato scelto dal Comando americano di occupazione. La commissione si mise subito al lavoro e fu attivissima, riunendosi undici volte tra settembre e ottobre 1944. In questa fase furono raccolte la maggior parte delle testimonianze dei supestiti, dei feriti, dei periti militari. Vennero acquisiti reperti bellici trovati nella cattedrale: si trattava di schegge (a volte tolte dai corpi dei feriti) e di "un involucro d'alluminio di forma cilindrica alto circa 10 cm": era la spoletta Fuze P.D. M48, rubricata come Fuze P.D. M43[28][29] (la spiegazione della diversa numerazione l'avrebbe data 60 anni più tardi il colonnello Massimo Cionci)[30]. L'esame del materiale raccolto presentava elementi di ambiguità, vaste zone d'ombra e incongruenze tali che spesso confliggevano tra loro. La relazione tecnica del tenente Jacobs e quella del tenente colonnello Cino Cini, che attribuivano ad un proiettile di mortaio tedesco l'eccidio[31][32] si scontravano con quanto dichiarato dal comandante partigiano Fioravante Mori che smantellò davanti alla commissione d'inchiesta la tesi dell'eventuale rappresaglia tedesca[33]. Poi, improvvisamente, la commissione sospese i lavori e iniziarono le prime defezioni. Il primo fu l'avvocato Ermanno Taviani che aveva fortemente voluto la commissione d'inchiesta. Successivamente si dimise l'ingegner Aurelio Giglioli, a cui, fin dal 21 settembre, era stato affidato l'incarico di presentare "una descrizione dello stato attuale del fabbricato della chiesa del duomo con relativa pianta (...) riservandosi [la commissione] di procedere in proseguo di tempo a perizie e altri schizzi"[34].
Il 27 febbraio 1945 il sindaco Emilio Baglioni partì volontario per entrare nei Gruppi di Combattimento, trasferendosi nel nord Italia. Le funzioni ad interim di sindaco furono assunte dal professor Concilio Salvadori. La commissione tornò a riunirsi il 3 marzo 1945 sotto la presidenza di Concilio Salvadori e continuò a raccogliere memorandum e testimonianze. Al ritorno di Baglioni, dopo il 25 aprile 1945, la Commissione, ridotta dai 6 membri iniziali al solo Pio Volpini[13], decise, il 27 giugno 1945, di affidare l'esame del materiale raccolto "ad una persona assolutamente estranea all'ambiente cittadino per garantire l'obiettività di giudizio"[13]. Venne scelto il giudice del Tribunale di Firenze, Carlo Giannattasio a cui furono affidate le risposte ai seguenti quesiti: a) se furono cannonate, bombe o ordigni esplosivi che colpirono la Cattedrale; b) se tali cannonate, bombe o ordigni erano di provenienza tedesca o anglo-americana; c) se e quali cause determinarono l'eccidio; d) se e quali eventuali responsabilità morali, dirette o indirette, vi furono da parte delle Autorità locali politiche, amministrative, religiose[35]. Il 13 luglio 1945 il giudice Carlo Giannattasio consegnò la sua relazione finale, accogliendo la tesi dei due esperti militari, Jacobs e Cini per i quali si attribuisce la spoletta (Fuze "M43") a un fumogeno americano e la causa della strage all'esplosione di una granata tedesca, dirompente. Il comportamento del clero, concludeva la relazione, fu al di sopra di ogni elogio[13].
Prime ipotesi sulla responsabilità degli Alleati
"I fatti del duomo" come solitamente si usava (e spesso si usa ancora) definire l'eccidio del 22 luglio 1944, per circa 10 anni non suscitarono particolari dibattiti. La situazione cambiò nel 1954 quando alcuni familiari delle vittime chiesero al Sindaco Concilio Salvadori di ricordare i caduti con una lapide (1). Il testo ed il tono usati dal Prof. Luigi Russo nella compilazione della lapide, ove perentoriamente si attribuisce ai Tedeschi "il gelido eccidio", scatenò, sul giornale "il Mattino", la rabbia del Can. Enrico Giannoni che da sempre incolpava gli americani, avendo assistito dal poggetto del Tufo al cannoneggiamento del 22 luglio 1944[36]. Dopo qualche anno, in maniera più organica, si interessò del "caso" l'Avv. Giuliano Lastraioli, lavorando sui documenti dell'US Army. Con l'uscita del volume "Arno-Stellung"[37], l'eccidio venne analizzato sotto il "profilo di una metodologia storiografica in generale e con un precipuo riguardo ai dati militari in particolare"[38]. L'ipotesi che l'eccidio fosse stato causato dalle artiglierie alleate cominciò a prendere sostanziale credibilità nell'opinione pubblica e nei media. Al lavoro di Lastraioli si abbinò quello dello storico Franco Cardini che in "Le schegge non fanno curve" analizzò e ricostruì il quadro generale degli avvenimenti, confutando pregiudizi ed errori stratificatisi in tanti anni di polemiche[39]. La svolta definitiva avvenne, però, nell'anno 2000 all'uscita del volume di Paolo Paoletti "1944 San Miniato - Tutta la Verità sulla Strage" (Ed. Mursia). Paoletti, analizzate le perizie, le testimonianze, i documenti coevi conservati negli archivi di Washington e di Friburgo, ma anche nuove perizie compiute in loco dai generali dell'Esercito Italiano Ignazio Spampinato, Sabino Malerba e dal colonnello Massimo Cionci[40], smontò la tesi della responsabilità dell'artiglieria tedesca avallata dalla Commissione comunale, attribuendo invece l'eccidio alla responsabilità colposa dell'esercito americano.
La smentita del falso storico
Con l'uscita del libro di Paolo Paoletti 1944 San Miniato Tutta la verità sulla strage (Ed. Mursia), per la prima volta veniva documentato come la strage fosse stata causata dal cannoneggiamento del 337º battaglione dell'artiglieria campale americana. A convalidare l'assunto di Paoletti, nel 2001, venne pubblicato un opuscolo di Giuliano Lastraioli e Claudio Biscarini dal titolo La Prova[41], nel quale si riproducevano, tra l'altro, copia degli originali del 337th FA Bn-Journal day-by-day dalle ore 18:00 del 21 luglio 1944 alle ore 18:00 del giorno successivo, contenente l'esito positivo ("GOOD") del cannoneggiamento. I documenti coevi, citati o riprodotti nel volume La Prova, riportano come si svolse il cannoneggiamento americano tra le 10:00 e le 10:30 di quel 22 luglio.
Il "Journal" del 337º battaglione di artiglieria campale americano, trovato da Claudio Biscarini al National Archives & Record Service di Washington riporta che le batterie dell'unità mobile del 337º battaglione chiamate A "Abel", B "Baker" e C "Charlie", ciascuna delle quali disponeva di sei cannoni d'artiglieria campale M101 da 105 millimetri, si trovavano lungo la linea stabilita nella valle del torrente Chiecina a quota Q-408/552 e a due chilometri circa a nord-ovest di Bucciano. Il giorno 21 luglio verso le ore 11:15 la batteria A ("Abel") si spostò verso sud-ovest a quota Q-41197/54526 per avere un campo d'azione più ampio per i tiri lunghi su San Miniato.
La mattina del 22 luglio perviene alla batteria A da parte del suo osservatorio "White", posizionato a sud di San Miniato, la segnalazione che una mitragliatrice tedesca si trovava sulle coordinate 46.37/59.22, a circa trecento metri sotto il Seminario Vescovile[42][43]. Su quelle coordinate Abel sparò 47 obici. Dopo un intervallo di circa 15 minuti e precisamente alle 10:30 il tiro riprese contro un analogo bersagio, enemy machine gun, però molto spostato più a nord-est esattamente sulle coordinate 46.48 / 59.50. Questa volta i proiettili M48 sparati furono 51 e interessarono un'area compresa tra il lato ovest del Prato del Duomo e via Mangiadori. Una rosa di colpi investì la Cattedrale. Uno di questi obici, a tempo e ad alto potenziale esplosivo, penetrò in Duomo dal semirosone del braccio destro meridionale del transetto[44] e dopo aver rimbalzato sul bassorilievo comacino (in seguito esposto presso il Museo Diocesano) andò ad esplodere presso la semicolonna superiore del pilastro della navata destra, causando la strage[45].
Non furono assolutamente tiri casuali o di routine, ma tiri mirati su specifici bersagli: mitragliatrici tedesche posizionate sul poggio della rocca, rivolte verso sud, in un'area che comprendeva anche il Duomo e il Santuario del SS Crocifisso. Questa area era segnalata come "protetta" secondo la convenzione di Ginevra. Infatti bandiere bianche e/o pontificie, già notate dagli alleati, sventolavano fin dal giorno precedente il 22 luglio sulla chiesa di San Domenico, sul Palazzo vescovile, sul Convento di San Francesco[ i militari tedeschi ai lati della cattedrale, quelli di guardia, la mitragliatrice a fianco del seminario vescovile, e la difesa tedesca si trovavano entro al confine oppure fuori l'area protetta e di quanto? ]. Nello stesso "Journal" veniva marginalizzato un referto dei partigiani (trascritto integralmente in lingua inglese ne La Prova) inviato agli americani (precisamente all'osservatorio avanzato Lookout 2) che informava il sottufficiale Johnson che in una chiesa erano stati uccisi 30 civili ed un centinaio erano i feriti. Il testo integrale in lingua originale recitava:
«Messaggio dal posto di osservazione 2: I partigiani comunicano che ieri qualcuno, sparando nella vicinanza di San Miniato ha colpito una chiesa e ucciso 30 italiani ferendone circa 100. I feriti sono nell'opedale a 4699/5998, su cui non va fatto fuoco. Il paese di S. Miniato è altamente minato e pieno di trappole antiuomo.»
Infatti sul versante sud della valle di Gargozzi, nella casetta Finetti, località Scacciapuce, era installato il quartiere generale dei partigiani, i quali da lì videro tutte le fasi del cannoneggiamento americano. Grazie a questa postazione il comando dei partigiani fu in grado di avvertire gli alleati tramite l'osservatorio Lookout 2. L'attestazione è riportata nel diario di guerra dell'88ª divisione della 5a Armata:
L'eccidio del duomo, che per oltre 50 anni era passato sotto silenzio – fatta eccezione per roventi polemiche locali mai sopite ed alimentatesi a causa di lunghe contese partitocratiche – guadagnò spazio nelle cronache locali e nazionali[46][47]. Lo storico Luigi Cardini sul "Tempo" del luglio 2003 scriveva che «sarebbe un giusto modo di rendere onore al vero spirito della Resistenza quello di modificare una scritta su marmo che non risponde a verità (...) ciò prima di essere vergognoso è grottesco», mentre Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" del 7 aprile 2004 faceva notare se «l'attribuzione di colpa ai tedeschi restasse incisa sulla targa commemorativa, da oggi in poi la lapide si distinguerebbe per questo e non per ciò a cui è dedicata, l'eccidio» e concludeva affermando che «sulle lapidi è meglio che resti scritta la verità. Soltanto la verità». Non mancarono interpellanze[48] di politici e parlamentari al Governo nazionale perché sulla lapide fosse scritta soltanto la verità. Dopo molti silenzi finalmente il Ministero dell'Interno per bocca del sottosegretario Alessandro Pajano, rispose "sì" alla collocazione di una nuova lapide.
La commissione storica d'inchiesta
L'Amministrazione comunale guidata dal professor Angelo Frosini operò sottoposta a continue sollecitazioni dell'opinione pubblica. Agli atti del Comune, del resto, si trovava ancora ufficialmente acquisita la relazione conclusiva dell'inchiesta precedentemente promossa dal Comune tra il 1944 e il 1945, che attribuiva l'eccidio ai tedeschi. Già nel 1954 quando fu collocata la prima lapide commemorativa, l'allora sindaco Concilio Salvadori fece riferimento a quella relazione al fine di opporre le contestazione del Canonico Enrico Giannoni riguardanti il testo della lapide[49]. La Giunta comunale decise di nominare una commissione di studio, affidando a storici professionisti l'approfondimento delle vicende del drammatico episodio dell'eccidio del duomo in considerazione dei nuovi studi e delle nuove ricerche sul passaggio del fronte di guerra a San Miniato nel luglio 1944[50]. L'esito della commissione[51] fu pubblicato nell'aprile del 2004 nel volume L'Eccido del Duomo di San Miniato. La Memoria e la Ricerca Storica (1944 - 2004)[52]. In sintesi la commissione accertò che "una contrapposizione intransigente, senza spazio e disponibilità per un sereno confronto, caratterizzò anche il dibattito sulle diverse tesi relative alla responsabilità della strage del 22 luglio 1944. Nessun approfondimento e nessun confronto parve allora possibile... Giornali, libri, film hanno acriticamente continuato a riproporre, per anni, la tesi della responsabilità tedesca; una tesi che appare insostenibile, tenuto conto del complesso della documentazione di cui si dispone"[53].
Risvolti giudiziari
Tutta la documentazione relativa alla terza inchiesta sulla ricostruzione storica degli avvenimenti legati all'eccidio venne archiviata nel 1960 e tradotta negli archivi del cosiddetto armadio della vergogna. Quando, diversi anni dopo furono rinvenuti e riaperti gli archivi, il fascicolo venne assegnato al Tribunale della Procura Militare di La Spezia, e derubricato come "supposto crimine di guerra tedesco".
Il 23 ottobre 2000 Giuseppe Chelli, un congiunto di una vittima dell'eccidio, sottopose formale richiesta alla procura spezzina di "esprimere un parere definitivo" in merito a tale supposto crimine di guerra tedesco. La richiesta venne accolta e l'8 novembre 2000 Chelli fu convocato presso la Procura per essere ascoltato quale persona informata sui fatti[54]. I Procuratori Marco Cocco e Gioacchino Tornatore, incaricati delle indagini, ascoltarono vari testimoni, acquisirono i volumi di Paoletti e di Lastraioli[55], indagarono per quasi due anni nella massima riservatezza[56]. Il Giudice per le indagini preliminari, Marco De Paolis, con decreto del 20 aprile 2002[57], disponeva l'archiviazione del fascicolo ritenendo "verosimile l'ipotesi sostenuta da esperti e storici circa l'insussistenza di una azione criminale condotta dai tedeschi in danno della popolazione civile italiana di San Miniato, reputando invece preferibile accogliere la tesi di un errato svolgimento di un tiro di artiglieria da parte delle truppe alleate"[57][58]. In una comunicazione del 2006 agli atti della procura De Paolis precisava che questo provvedimento era «allo stato l'unico accertamento giudiziario esistente sulla vicenda»[58].
Alcuni storici, come Claudio Biscarini e Kertsin Von Lingen, hanno espresso critiche sulla gestione delle istruttorie iniziali da parte delle autorità americane prima ed italiane poi, e hanno sollevato interrogativi di carattere polemico sulla ricerca e sulla gestione della verità storica e della sua memoria, ipotizzando l'esistenza di una volontà americana di insabbiare le effettive responsabilità dell'accaduto attraverso le risultanze dell'inchiesta italiana[59].
Le lapidi della memoria
Il 22 luglio 2008 l'amministrazione comunale di San Miniato decise di porre vicino alla precedente lapide del 1954, posta sulla facciata del Municipio, che imputa la responsabilità della strage ai nazisti, una nuova lapide, recante un testo scritto dall'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che la attribuisce ai bombardamenti statunitensi. Il testo della seconda lapide è stato oggetto di critiche[60] da parte del senatore di Alleanza Nazionale Piero Pellicini, ex membro della "commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti", che si è detto contento del riconoscimento della verità storica, ma ha criticato la citazione di Scalfaro sui "repubblichini" poiché «tiene aperti i fossati»[60].
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Trasposizione cinematografica
Prendendo spunto dai fatti del Duomo ed abbracciando l'ipotesi della sola responsabilità tedesca della Strage, nel 1982 i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, tra l'altro originari proprio di San Miniato, dirigono uno dei loro film più famosi, La notte di San Lorenzo, aggiudicandosi il Gran Premio Speciale della Giuria del Festival di Cannes. La ___location della scena nel film fu però la Collegiata di Empoli.
Note
- ^ http://www.dellastoriadempoli.it/?p=5581
- ^ http://www.storiaxxisecolo.it/dossier/Dossier1d1.htm
- ^ http://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/2007/07/25/LN4LN_LN433.html
- ^ Delio Fiordispina G. Gori e Compagni, Ed. Palagini 1994, pp. 112-144.
- ^ San Miniato luglio 1944, Edito a cura del Comune, 1984, p. 15; Note di diario del Can. Francesco Galli; Paolo Paoletti, 1944 San Miniato Tutta la verità sulla strage, Ed. Mursia, 2000, p. 23.
- ^ Il pezzo di artiglieria M101 utilizzava munizioni da 105 mm ad alto potenziale esplosivo (HE - high explosive) e aveva una gittata di circa 11 200 metri.
- ^ I bugiardi di S.Lorenzo Massimiliano Mazzanti - La Nazione - Quotidiano del 24 Luglio 1997
- ^ Archivio Curia vescovile; Paolo Paoletti, 1944 San Miniato, Mursia, 2000, pp. 49-50
- ^ Paoletti, 2000, p. 28.
- ^ Atti del Tribunale Militare della Spezia, memoria di Mario Caponi, acquisita il 20 febbraio 2001.
- ^ AA.VV. 2004, p.43 Testimonianza di Mario Caponi resa a G. Contini e ivi riportata.
- ^ AA.VV. 2004, pp. 53-54 Testimonianza di Anna Parrini resa a G. Contini e ivi riportata.
- ^ a b c d e Paoletti, 2000, p. 67
- ^ Morelli, 2002, p. 77
- ^ Morelli, 2002, pp. 77-78
- ^ Giudice del Tribunale di Firenze a cui fu affidata la relazione conclusiva dell'inchiesta promossa dal Comune
- ^ Archivio Storico del Comune di San Miniato, Atti della commissione d'inchiesta comunale. F 22.S 062. UF 184
- ^ Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997
- ^ Morelli, 2002, p. 78
- ^ a b Paoletti, 2000, pp. 45-47
- ^ Paoletti, 2000, pp. 51, 60, 61
- ^ a b c Paoletti, 2000, pp. 41, 60-61
- ^ Diario di guerra dell'88º Reggimento, 20 luglio 44, ore 21:05
- ^ a b Fiordispina, p.138
- ^ Paoletti, 2000, pag. 340
- ^ Paoletti, 2000, pp. 51, 60, 61
- ^ Diario di guerra dell'88º Reggimento, 20 luglio 44; cit: «Emilio Baglioni vedrà domani il cap. Ronningen, darà molte informazioni sul nemico»
- ^ Paoletti, 2000, pp. 64 e 244
- ^ Paoletti, 2000, p. 260 La spoletta modello PDM43 non esiste. L'incisione PDM48 è stata letta PDM43 per la deformazione del numero 8 quando il proiettile sbatté contro il bassorilievo.
- ^ Paoletti, 2000, pp. 64 e 244 Cit.: Deposizione di Gina Scardigli: «farò pervenire alla commissione 2 schegge tolte dalla coscia di mio figlio e dalla mia gamba».
- ^ Paoletti, 2000, pp. 189-194
- ^ Paoletti, 2000, pp. 67 e 145
- ^ Paoletti, 2000, pag. 14
- ^ Paoletti, 2000, pp. 63, 64
- ^ Paoletti, 2000, pag. 257 Ultima udienza della commissione.
- ^ Can. Enrico Giannoni giornale il Mattino di Firenze edizioni del 21 luglio e del 8 agosto 1954
- ^ Edito da ATPE anno 1991 per i tipi della Barbieri& Noccioli
- ^ Giuliano Lastraioli §3 A Sinistra dell'Elsa
- ^ Franco Cardini §5 San Miniato ( 22 luglio 1944) "Le schegge non fanno curve"
- ^ Le perizie sono pubblicate nel "1944.." di Paoletti da pag.259 a 302.
- ^ Giuliano Lastraioli, Claudio Biscarini, La Prova. Un documento risolutivo sulla strage nel duomo di San Miniato, FM Edizioni, Empoli, 2001.
- ^ Canonico Enrico Giannoni, articolo su "Il Giornale de Il Mattino" del 21 luglio 1954; cit.: «nell'orto del seminario, tra i tronchi di vecchi ulivi, fitte mitragliatrici».
- ^ Lastraioli e Biscarini, 2000, p. 8, in cui Don Luciano Marrucci «ricorda di aver visto (...) al mattino del 22 luglio che i tedeschi avevano disposto sotto il seminario diverse piazzole di mitragliatrici».
- ^ Paoletti, 2000, p. 67 "fratelli Malvezzi, riparazione di finestra di ferro"
- ^ Paoletti, 2000, pp. 284-302 Perizia del colonnello Massimo Cionci, "Come si spiega la dinamica dell'incidente"
- ^ Dario Fertilio, Strage di San Miniato, la verità «americana». Fu una granata degli Alleati a uccidere le 55 persone che si erano rifugiate nel Duomo, articolo sul "Corriere della Sera" del 24 aprile 2004, p. 35
- ^ Hartmut Koehler (docente presso l'Università di Friburgo), Morte nella Cattedrale, 1987.
- ^ "La Nazione" on. Riccardo Migliori interpella il Ministero degli Interni - Sen. Turini interrogazione al Ministro degli Interni
- ^ Canonico Enrico Giannoni, La commemorazione a San Miniato, articolo sul "Giornale del Mattino" dell' 8 agosto 1954 cit.: «"Avremo stasera il trionfo di una grossa menzogna" incalzava il canonico Giannoni. "No!", rispose il sindaco, "Devi dire che è una di quelle questioni che non si decide, che non si può decidere... noi abbiamo un documento di inchiesta comunale; non si poteva prescindere da quello"».
- ^ "Una commissione sulla strage", articolo su "La Nazione" del 29 ottobre 2000
- ^ La strage in duomo, la bomba era americana, articolo su "Il Tirreno" del 27 aprile 2004.
- ^ Leonardo Paggi, Pier Luigi Ballini, Contini, Gentile, Moroni: L'Eccidio del Duomo di San Miniato. La Memoria e la Ricerca Storica (1944-2004), Comune di San Miniato (Tip. Bongi), 2004.
- ^ L. Ballini, Eccidio del Duomo di San Miniato. La Memoria e la ricerca storica 1944-2004, "Le schegge non fanno curve", pp. 139-140.
- ^ Archivio privato Chelli, corrispondenza tra la procura e G. Chelli.
- ^ Tribunale della Procura Militare di La Spezia, Dispositivo della sentenza di archiviazione n.262/96/R. ignoti, pp. 1-9
- ^ Il 4 luglio del 2006, G. Chelli si rivolse al Procuratore del Tribunale di La Spezia per avere notizie circa la richiesta di archiviazione del fascicolo.
- ^ a b Tribunale della Procura Militare di La Spezia, Dispositivo della sentenza di archiviazione n.262/96/R. ignoti.
- ^ a b Archivio privato Chelli, comunicazione agli atti con protocollo n.1897 del 7 luglio 2006 dell'allora procuratore Marco De Paolis.
- ^ Claudio Biscarini, Kertsin Von Lingen, articolo su "La Nazione" del 3 agosto 2003.
- ^ a b Strage di San Miniato, due le lapidi. Uno studio rivela che non fu nazista, articolo su tgcom24, 23 luglio 2008.
Bibliografia
- Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1994, Venezia, Marsilio Editori, 1997, ISBN 88-317-6773-9.
- Giuseppe Busdraghi, "Estate di Guerra a Bucciano": Diario del Parroco - giugno/settembre 1944, a cura di Giuliano Lastraioli, Claudio Biscarini, Luciano Niccolai, Fabrizio Mandorlini, San Miniato, Edizioni F.M., 1996.
- Delio Fiordispina, Giuseppe Gori e compagni, 1ª ed. Comitato Giuseppe Gori di Cigoli), San Miniato, Ed. Palagini, 2005 [1994].
- Giuliano Lastraioli, Claudio Biscarini, "46.48 / 59.50" La Prova, San Miniato basso, FM Edizioni - Centro di Documentazione Internazionale Storia Militare, 2001.
- Giuliano Lastraioli, Claudio Biscarini, De Bilia. Ultima Ripassata Sulla Strage del Duomo di San Miniato 22 luglio 1944, Empoli, Nuova IGE - "Le Memoriette", 2007.
- Paolo Morelli, Relazione della Commissione di studio sulla fugura del Vescovo Ugo Giubbi: 1928-1946, San Miniato, presentazione di Mons. Edoardo Ricci, Ed. Palagini, 2002.
- Leonardo Paggi, Stragi tedesche e bombardamenti alleati, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3595-9.
- Leonardo Paggi, Pier Luigi Ballini, Contini, Gentile, Moroni, L'eccidio del duomo di San Miniato. La memoria e la ricerca storica (1944-2004), Comune di San Miniato (Tip. Bongi), 2004.
- Paolo Paoletti, 1944 San miniato - Tutta la verità sulla strage, Milano, Ugo Mursia Editore, 2000, ISBN 88-425-2630-4.
- Tribunale Militare della Spezia, "Decreto di Archiviazione n.262/96/R. ignoti" del 20 aprile 2002.
Voci correlate
Collegamenti esterni
- Claudio Biscarini: San Miniato, la strage a cura di Paolo Pianiggiani, Della Storia d'Empoli.
- Fascicolo sulla Strage ritrovato nell'Armadio della vergogna
- Articolo sulla strage su Toscana Oggi