Scivaismo kashmiro
Template:Avvisounicode Lo Shivaismo kashmiro, è un sistema filosofico e teologico sorto nella regione del Kashmir fra l'ottavo[1] e il nono secolo[2] poi sviluppatosi fino alla fine del dodicesimo secolo d.C.[3]. Al contrario delle pratiche religiose e spirituali diffuse all'epoca, lo Shivaismo kashmiro non prevedeva una disciplina predefinita e non condannava nessuna pratica a priori, l'unica base fondamentale richiesta era la coscienza con cui l'iniziato operava. Questo sistema proponeva un punto di vista in cui Cit – "coscienza" - è l'unica realtà. La materia non veniva considerata separata dalla coscienza, ma identica ad essa. Non era concepita alcuna separazione tra Dio e il mondo. Il mondo non veniva giudicato un'illusione (come nell'Advaita Vedanta), ma era la percezione della dualità ad essere reputata illusoria.

Origine mitica dello Shivaismo kashmiro
Essendo la filosofia dello Shivaismo kashmiro profondamente radicata nei Tantra, il suo lignaggio inizia con Śiva stesso. Secondo la tradizione, Śiva stabilì 64 sistemi o filosofie. La maggior parte di questi sistemi andò perduta durante il periodo del Kali Yuga (era di Kali). Śiva allora andò sul Monte Kailash, prese la forma di Shrikanthanath, e iniziò il saggio Rsi Durvasa a tutte le forme di conoscenza Tantrika, tra cui abheda (senza differenziazione), bhedābheda (con e senza differenziazione), e bheda (con differenziazione), come descritto rispettivamente nel Bhairava Tantra, nel Rudra Tantra, e nello Śiva Tantra. Chiese poi al saggio di riportare nel mondo questa conoscenza. Con la forza mentale, Rsi Durvasa procreò tre figli a cui insegnò tre diverse filosofie:, al primo figlio, Amardaka, affidò la conoscenza dualista, al secondo, Srikanta, l'ideologia monista-dualista, alla terza, Tryambaka, la filosofia monista (Abheda) del Bhairava Tantra. Proprio da quest'ultima si narra che ebbe origine lo Shivaismo del Kashmir[4].
Concetti dello Shivaismo del Kashmir
Anuttara, il Supremo
Anuttara è il principio ultimo dello Shivaismo kashmiro e, come tale, è la realtà fondamentale, supporto dell'intero Universo. Tra le molteplici interpretazioni (o traduzioni) di Anuttara troviamo: "supremo", "sopra tutto" e "realtà insuperabile"[5]. In sanscrito Anuttara è associato alla prima lettera, "A" (in devanagari "अ"). Poiché è il principio ultimo, Anuttara è identificato con Śiva, Shakti, la coscienza suprema (Cit), la luce non creata (prakāsha), il soggetto supremo (Aham) e la vibrazione primordiale (spanda). Il praticante che ha realizzato Anuttara è considerato al di sopra della necessità di una pratica graduale. Egli conosce una realizzazione istantanea e una perfetta libertà (svātantrya). Anuttara è diverso dal concetto di trascendenza in quanto, anche se è al di là di tutto, non implica uno stato di separazione dall'Universo[6].
Aham, il cuore di Śiva
Aham è il concetto di realtà suprema come cuore. È considerato come lo spazio non duale interno a Śiva, e anche come il supporto dell'intera manifestazione[7], il supremo mantra[8] e la Shakti[9] di Śiva.
Kula, la famiglia spirituale
Kula è un concetto complesso, tradotto generalmente come "famiglia" o "gruppo". Come la trama di un tessuto si compone di tanti fili, così la via tantrica si presenta su vari piani come una totalità formata da molte parti, interconnesse e complementari (la parola "Tantra" può essere tradotta come "trama di un tessuto"). Questa totalità è chiamata famiglia in quanto i diversi elementi che la compongono hanno un legame comune unificante, che in definitiva è il Signore Supremo, Śiva[10]. Nelle pratiche relative al Kaula (o Kula), l'attenzione è lontana dalle elucubrazioni filosofiche complesse ed è più diretta verso la sperimentazione immediata. Per esempio, il Kaula propone una forma di alchimia del corpo in cui gli aspetti più grossolani del proprio essere (impulsi, istinti, ecc.) si dissolvono in quelli più sottili, in quanto tutti sono considerati come formanti un'unica famiglia (un kula), che si basa su Śiva come ultimo principio[11].
Svātantrya, la libera volontà autogenerata
Il concetto di libero arbitrio gioca un ruolo centrale nello Shivasimo kashmiro. Conosciuto sotto il nome di svātantrya, esso è la causa della creazione dell'Universo – la forza primordiale che genera il mondo. Svātantrya è reputata una qualità di Dio; i soggetti coscienti possono partecipare in vari gradi a questa sovranità divina. Gli esseri umani hanno un grado di libero arbitrio limitato in base al loro livello di coscienza. In definitiva, lo Shivaismo kashmiro vede tutti soggetti come identici - "tutti sono uno" - e questo è Śiva, la coscienza suprema. Così, tutti i soggetti sono dotati di libero arbitrio, ma possono ignorare questo potere. Anche l'ignoranza è una forza proiettata da Svātantrya sulla creazione e può essere rimossa solo da questa stessa volontà divina. Una funzione di Svātantrya è quella di concedere la grazia divina - Shaktipāt. In questo sistema filosofico la liberazione spirituale non è garantita solo attraverso lo sforzo, ma dipende, in ultima analisi, dalla volontà di Dio. Così, il discepolo non può che offrire se stesso e lasciare che la grazia divina scenda e dissolva le limitazioni che imprigionano la sua coscienza. Essendo Svātantrya la libera volontà di Śiva, Egli crea l'Universo per puro gioco e non conosce nessuna limitazione. Nella pratica, infine, un iniziato è portato a sviluppare questa qualità in modo da diventare autonomo sulla via spirituale.
Classificazione della tradizione scritta
I primi testi dello Shivaismo kashmiro risalgono all'inizio del IX secolo d.C.[12]. Lo Shivaismo kashmiro trae insegnamento dagli shruti (letteralmente "quello che viene sentito", cioè di ispirazione diretta), tra cui il Bhairava Tantra, gli Śivasūtra di Vasugupta, e anche la versione della Bhagavad Gita commentata da Abhinavagupta, nota col nome di Gitartha Samgraha. Inoltre, è significativo per questa corrente il Tantraloka dello stesso Abhinavagupta. In generale, tutta la tradizione scritta dello Shivaismo può essere divisa in tre categorie fondamentali: Àgama Shāstra, Spanda Shāstra e Pratyabhijñā Shāstra[13]. Il termine Shāstra significa regola, insegnamento e indica genericamente tutte le scritture sacre. Àgama Shāstra sono gli scritti considerati rivelazione diretta di Śiva. Questi testi furono per lungo tempo trasmessi oralmente, da maestro a discepolo. Essi comprendono opere essenziali come gli Śivaūtra, il Mālinīvijaya Tantra, lo Svacchanda Tantra, il Vijñānabhairava Tantra, il Netra Tantra, il Mṛgendra Tantra, il Rudrayāmala Tantra, gli Śivasūtra e altri. Ci sono anche numerosi commenti a queste opere, la maggior parte dei quali relativi agli Śivasūtra[14]. Gli Spanda Shāstra sono composizioni che approfondiscono i principi degli Śivaūtra. Contengono testi scritti dagli uomini con l'intento di fornire un'interpretazione filosofica alla rivelazione diretta del divino. Spanda significa "vibrazione", "palpitante". L'opera principale è la Spandakārikā di Vasugupta, con i suoi numerosi commenti, fra cui lo Spandasaṃdoha (commento dei primi versi), e lo Spandanirṇaya (commento del testo completo), entrambi del filosofo Kṣemarāja. I Pratyabhijñā Shāstra sono gli scritti che hanno un contenuto principalmente metafisico. Pratyabhijñā significa "riconoscimento" e si riferisce al riconoscimento spontaneo della natura divina nascosta in ogni essere umano (atman). A causa del suo alto livello intellettuale, questa parte della tradizione scritta Shivaita è la meno accessibile per i non iniziati. Tuttavia, essa fa riferimento alla modalità più semplice e diretta di realizzazione spirituale ovvero il riconoscimento della propria natura. Le opere più importanti di questo genere sono: Īśvarapratyabhijñākārikā, l'opera fondamentale di Utpaladeva e Pratyabhijñā VimarShinī, il suo commento. Īśvarapratyabhijñākārikā significa di fatto "Strofe del Riconoscimento del Signore", il Signore (Īśvara) come cuore dell'uomo. Prima di Utpaladeva, il suo maestro Somānanda scrisse lo Śivadṛṣṭi (la visione di Śiva), poema di devozione elaborato su più livelli di comprensione[15].
Gli Śivasūtra
Il primo grande iniziato conosciuto nella storia di questa corrente fu Vasugupta[16] (circa 875-925). Vasugupta fu il primo a formulare per iscritto i principi e le dottrine principali di questo sistema. Un'opera fondamentale dello Shivaismo, tradizionalmente attribuita a Vasugupta, sono gli Śivasūtra[17]. La tradizione riporta che questi sūtra furono rivelati a Vasugupta da Śiva stesso[18]. Secondo il mito, Vasugupta fece un sogno in cui Śiva gli disse di andare sulla montagna di Mahadeva in Kashmir (il monte Kailash). Su questo monte si racconta che egli trovò poi dei versi incisi su una roccia. Questi, secondo la tradizione, sarebbero gli insegnamenti del monismo Shivaita, gli Śivasūtra. Questi scritti sono una delle fonti principali dello Shivaismo Kashmiro[19]. L'opera è una raccolta di aforismi (lett. sūtra) che espongono principi metafisici strettamente non-duali[20] (filosofia advaita). Essi furono considerati rivelazione del divino Śiva e pertanto rientrano nella categoria degli Àgama; la parola Àgama significa "quello che è venuto". Gli Śivasūtra sono anche conosciuti come le Upanishad Shiva Samgraha o Shivarahasyagama Samgraha[18].
I 36 tattva
Le scuole śaiva moniste del Kashmir intendono l'universo come il processo di espansione dell'Assoluto (lett.: anuttara, "che non ha niente sopra"), indicato con molti termini, a seconda della scuola e dei testi: spesso con Paramaśiva ("Śiva supremo"), ma anche più semplicemente con Śiva; o anche Maheśvara ("Grande Signore")[21]; Parameśvara ("Signore supremo").[22][23] Nelle tradizioni del Kaula è adoperato anche il termine Kula ("Famiglia", nel senso di "Totalità").[24] Nella tradizione del Trika l'Assoluto è altresì personificato come divinità, riferendosi così a Bhairava, ipostasi terrifica di Śiva.[25]
L'Assoluto, essendo pertanto sia ente al di là di ogni altra cosa esperibile, sia il principio da cui tutto scaturisce e di cui ogni cosa è parte, è da intendersi come avente contemporaneamente le qualità di trascendenza e immanenza. L'espansione dell'Assoluto, la cosmogonia, è descritta attraverso un insieme di principi costitutivi, categorie (tattva) intese come emanazioni dell'Assoluto stesso. Il numero e le caratteristiche di tali categorie variano a seconda della scuola.[22][26] Il filosofo Abhinavagupta (X-XI sec.), nel capitolo IX del suo Tantrāloka, sistematizzando la dottrina del Trika, espone un processo costituito da 36 tattva. Ma queste 36 categorie sono anche della scuola della Pratyabhijñā.[22][27] Questo stesso insieme è poi interpretato, quando visto in senso inverso, come percorso spirituale, quella via salvifica che riconduce il singolo all'Uno, riunisce l'uomo a Dio.[27][23]
Le 36 categorie descritte da Abhinavagupta delineano due cammini: il puro e l'impuro. Al primo cammino, detto puro perché al di là di ogni dualità, appartengono cinque categorie effetti di altrettanti aspetti dell'Assoluto, aspetti che in letteratura vengono dette potenze (śakti). L'analogia adoperata per illustrare la connessione fra l'Assoluto e queste potenze è quella del fuoco: il fuoco possiede i poteri di illuminare, riscaldare, cuocere, bruciare, eccetera, ma il fuoco è e resta fonte unica di queste proprietà, che dal fuoco stesso non possono essere scisse come entità autonome.
Le potenze sono:[27]
- cit: "intelligenza"[28]
- ānanda: " beatitudine"
- icchā: "volontà"
- jñāna: "conoscenza"
- kriyā: "attività"
Il cammino puro è dunque costituito dalle seguenti cinque categorie:[27][23][29]
- śiva ("propizio", "benevolo"), effetto della intelligenza: śiva tattva è la coscienza pura, inattiva e non manifesta; è Śiva come coscienza assoluta, soggetto irrelato; è «Io».
È questa la prima categoria che Abhinavagupta espone, lo śiva tattva, che egli distingue pertanto dall'Assoluto, Paramaśiva o Śiva tout court, ponendo quest'ultimo al di fuori delle 36 categorie. Non così il filosofo Utpaladeva (X sec.), esponente della scuola Pratyabhijñā, che intende Paramaśiva come la prima delle categorie.[22] Così commenta l'orientalista Raffaele Torella:«Lo Śiva irrelato è la prima delle manifestazioni dello Śiva supremo. Mentre lo Śiva supremo è la realtà assoluta nel suo perenne pulsare di oggettività e soggettività (all'interno della omnicomprensività della Coscienza), il mondo della manifestazione è caratterizzato dalla scissione tra soggetto e oggetto e dal loro contrapporsi come due realtà separate.»
- śakti ("potenza", "energia"), effetto della beatitudine: śakti tattva è l'altro polo dell'Io, è la potenza che permette all'oggetto di manifestarsi e al soggetto di poter affermare "Io sono"; è «Questo».
Mentre la prima categoria è il soggetto, la seconda, śakti tattva, è l'oggetto: è l'insieme di tutte le potenze dell'Assoluto che in questo stadio del cammino cominciano a delinearsi. Tali potenze, o più semplicemente la potenza dell'Assoluto è indicata, nelle varie scuole, con molti nomi e spesso personificata come dea, compagna di Śiva o di sue manifestazioni; anche oggetto di culto in molte tradizioni, specie le śakta, come le dee Kālī, Tripurasundarī, Kuṇḍalinī, Pārvatī, eccetera. Nella scuola dello Spanda, la Potenza è indicata anche col nome di spanda ("vibrazione"), realtà dinamica onnipresente nella manifestazione.[30][31] Nella scuola del Trika è descritta come avente un triplice aspetto, nelle tre dee Parā ("Suprema"), Parāparā ("Suprema-non suprema"), Aparā ("Non suprema").[32] Sulla personificazione della śakti, così si esprime l'indologo francese André Padoux:«Si tratta quindi di tradizioni che si possono definire śakta, dal momento che le dee sono personificazioni della śakti, incarnazioni dell'Energia divina. Questa è una, onnipresente, sovrana; le diverse dee adorate nei culti privati o pubblici, pur con le loro differenze a volte molto marcate, non sono altro che sue forme particolari.»
- sadāśiva (Śiva "eterno"), effetto della volontà: sadāśiva tattva è l'affermazione del soggetto sull'oggetto; è «Io sono questo».
- īśvara ("signore"), effetto della conoscenza: īśvara tattva è l'affermazione dell'oggetto sul soggetto; è «Questo sono io».
- śuddhavidyā ("conoscenza pura"), effetto della attività: śuddhavidyā tattva è lo stadio in cui soggetto e oggetto si equilibrano e si conoscono distinti ma uniti; è «Io questo».
Queste prime cinque categorie rappresentano dunque il passaggio dall'unità indistinta «soggetto-oggetto» dell'Assoluto, alla coppia «soggetto e oggetto» identificabili e ancora uniti. L'universo non esiste ancora, ma l'Assoluto ha ora riconosciuto in sé la possibilità di farsi altro.
La sesta categoria, quella che pone termine al cammino puro aprendo l'impuro, è māyā, altro aspetto della potenza divina stessa. Māyā tattva non è quindi "illusione" nel senso che il Vedanta dà a questo termine, ma potenza dell'Assoluto, potenza creatrice dell'universo esperibile. Questo potere è causa di una serie di cinque limitazioni, dette kañcuka ("corazza"). Sono dunque queste cinque limitazioni, insieme alla māyā stessa, a costituire la prima parte del cammino impuro, caratterizzato dalla comparsa di dualismi e incompletezze:[27][23][33]
- māyā ("arte", "illusione"): abbandono dell'Unità; percezione del tutto come molteplice; pluralismo.
Māyā tattva separa l'unità indistinta «soggetto-oggetto» delineatasi nell'Assoluto in due entità separate: il soggetto e l'oggetto. Questa scissione provoca, nell'oggetto, la perdita dei poteri dell'Assoluto: sono le cinque limitazioni, le kañcuka. Così l'orientalista Giuseppe Tucci:«Cotesta maya, che è un aspetto della stessa potenza divina, limita come soggetto ed oggetto, nel tempo e nello spazio, la unicità indiscriminata della coscienza: l'anima allora si rifrange illusoriamente come molti, dimentica ormai della propria essenza: e quei molti si riconoscono come individui (puruṣa).»
Le cinque limitazioni sono:
- kalā ("frazione", ignoranza"): limitazione dell'onnipotenza; percezione del potere di azione come limitato.
- vidyā ("conoscenza", "scienza"): limitazione dell'onniscienza; conoscenza parziale; dualismo conoscente-oggetto della conoscenza.
- rāga ("passione", "desiderio"): limitazione della perfezione, senso di incompletezza; dualismo soggetto-oggetto del desiderio.
- niyati ("necessità", "destino"): limitazione dell'onnipresenza; senso di finitezza; località.
- kāla ("tempo", "stagione"): limitazione dell'eternità; percezione del tempo come lineare; causalità.
La seconda parte del cammino impuro ricalca invece, con alcune differenze interpretative, l'insieme delle 25 categorie del Sāṃkhya, con un processo di individuazione che dà luogo allo spirito (puruṣa, concetto plurale indicante il complesso di tutte le "anime", soggetti limitati), alla materia (prakṛti, intesa non soltanto come substrato materiale, bensì anche mentale), all'intelletto, al senso dell'io, al senso interno, ai cinque sensi di percezione, ai cinque sensi di azione, ai cinque elementi sottili e infine ai cinque elementi grossi.[34]
Nella molteplicità dei soggetti che sono così derivati dall'Assoluto, trovano quindi luogo gli individui, frazioni nelle quali la coscienza originaria si ritrova offuscata: l'Assoluto si riconosce cioè come insieme di singoli dalla consapevolezza limitata, individui in realtà dimentichi della propria condizione divina, schermati dalle cinque corazze, le kañcuka di cui sopra, che se da un lato hanno consentito all'universo e ai molteplici di manifestarsi, nel contempo limitano l'individuo impedendone il riconoscimento come emanazione di Dio.[35]
L'Assoluto, il mondo e l'individuo
Dunque, secondo le scuole dello shivaismo kashmiro, tutto ciò che è, è stato e sarà, ogni soggetto conoscente, ogni oggetto della conoscenza, ogni mezzo di conoscenza: tutto nell'universo è manifestazione dell'Assoluto, una forma di Śiva (quando inteso come dio personale), un Suo riflesso (ābhāsa), l'incessante evolversi (pariṇāma) della Sua emanazione, della Sua coscienza.[23] Su questo, così si esprime uno dei testi fondamentali delle tradizioni kashmire, il Vijñānabhairava Tantra:
E nelle Spandakārikā (VIII-IX sec.) leggiamo:
La coscienza non è qui da confondersi con le forme di conoscenza, come mette in guardia il filosofo Kṣemarāja (X-XI sec.) commentando il primo sūtra degli Śivasūtra:
Quando Śiva è immanifesto, l'universo, tutti i possibili universi esistono in nuce in Śiva stesso, così un universo viene emanato non appena in Lui si ha uno schiudersi (unmeṣa) della coscienza. Con una significativa metafora così le Spandakārikā esprimono questo concetto:
«Rendiamo lode al Benigno[38], da cui scaturisce la gloria delle potenze; al suo aprirsi e chiudersi di ciglia sorge l'universo e si dissolve.»
Similmente, l'universo viene riassorbito al chiudersi (nimeṣa) degli occhi di Śiva: quando la coscienza si richiude in sé stessa, l'universo scompare, e tutto può cominciare da capo. Questa cosmogonia ciclica è ben messa in evidenza dalla metafora della danza: Śiva è infatti il "Re della danza" (naṭarāja):
Śiva Naṭarāja all'interno dell'arco di fuoco che simboleggia la distruzione, stringe il ḍamaru, il tamburo che emette il suono primordiale che genera il creato, il tamburo a forma di clessidra che coi due triangoli vertice contro vertice, richiama all'unione del liṅga e dello yoni, del fallo e della vagina, simboli delle prime due categorie, śiva tattva e śakti tattva: il soggetto e l'oggetto (aham e idam), il dio e la sua potenza, la coppia (yāmala) cosmica. Così il filosofo Abhinavagupta (X-XI sec.), sistematore delle tradizioni śaiva, descrive la coppia cosmica:
La metafora dell'unione sessuale, spesso rappresentata nell'iconografia classica con la coppia Śiva e Pārvatī abbracciati in uno stato di beatitudine eterno, o con l'immagine della dea Kālī che cammina sul corpo immobile di Śiva col pene eretto, si presta qui a indicare proprio quelle prime due categorie che aprono il cammino puro. È la Dea, Śakti, che, nella metafora, suscitando il desiderio di Śiva, apre il cammino, un nuovo ciclo di emanazione.[23]
Al termine del cammino puro, quando l'Assoluto si è ormai reso soggetto e oggetto insieme, è māyā tattva che opera la scissione di tale unità, dando quindi la possibilità all'Assoluto di farsi universo. Così Kṣemarāja:
È dunque, anche nel cammino impuro, sempre e solo Paramaśiva che continua a operare in assoluta libertà (svātantrya): è Paramaśiva l'unico a possedere libera volontà. L'individuo è solo apparentemente libero, o meglio lo è fintanto che la sua coscienza non si riconosca come quella dell'Assoluto. In altre parole, il libero arbitrio dell'individuo è limitato finché egli non si ricongiunge con Paramaśiva:
O, come molto più sinteticamente si era già espresso Vasugupta nei suoi fondamentali Śivasūtra:
All'individuo, pur nella sua mancanza di libero arbitrio, non è allora preclusa la strada verso la beatitudine e la libertà: egli, in quanto emanazione dell'Assoluto, possiede natura divina ma ne è dimentico, inconsapevole:
La liberazione (mokṣa) dell'individuo, conseguibile secondo queste scuole con percorsi e mezzi differenti a seconda della tradizione, è perciò intesa come un processo inverso a quello di emanazione, un processo di regressione che può ricondurlo a Paramaśiva, riassorbirlo nell'unità originaria:
«Trasmigrare è permanere nella convinzione di essere separato.»
Centrale, pur con molte differenze interpretative e operative, è spesso il ruolo di quella stessa entità che ha aperto il cammino puro cominciando a delineare la distinzione fra soggetto e oggetto, la śakti, la multiforme potenza di Dio, la Dea[23]:
Principali esponenti dello Shivaismo kashmiro
Vasugupta
Stante alla tradizione, Vasugupta (VIII – IX secolo) ricevette in sogno da Śiva le indicazioni per recarsi sul monte Mahādeva e rinvenire là, su una lastra di roccia, gli aforismi che costituiscono gli Śivasūtra, così come il Dio stesso li aveva incisi. Estremamente concisi e spesso enigmatici, gli Śivasūtra ("I sutra di Śiva") costituiscono il punto di avvio per le tradizioni śaiva esegetiche del Kashmir: l'opera viene considerata fondamentale da tutte queste scuole e ad essa fanno riferimento gran parte degli esponenti di queste medesime tradizioni.[42]
Bhaṭṭa Kallaṭa
Autore, molto probabilmente, della Spandakārikā ("Le strofe dello Spanda"), opera fondamentale della scuola esegetica dello Spanda, Bhaṭṭa Kallaṭa (IX secolo) fu allievo diretto di Vasugupta.[42]
Jñānanetra
Jñānanetra (IX secolo) (anche noto col nome di Śivānanda) è ritenuto il fondatore della scuola Krama, essendo stato, secondo la tradizione, direttamente iniziato dalla dea Maṅgalā, aspetto benevolente della dea Kālī. Di lui si conserva un'unica opera, il Kālikā-stotra, inno dedicato alla Dea.[43]
Somānanda
Somānanda (IX secolo) con la sua Śivadṛṣṭi ("La Visione di Śiva") è da ritenersi il fondatore della scuola Pratyabhijñā.[42]
Utpaladeva
Utpaladeva (X secolo), discepolo di Somānanda, portò a compimento l'opera del maestro con la Īśvarapratyabhijñākārikā ("Le Strofe di riconoscimento del Signore").[42] Egli fu anche maestro del Krama e del Trika.[44]
Bhāskara
Bhāskara (X secolo) fu uno degli esponenti della scuola dello Spanda: egli si riallaccia a Bhaṭṭa Kallaṭa, e quindi a Vasugupta, attraverso la successione di maestri: Śrīkaṇṭa Bhaṭṭa, Mahādeva Bhaṭṭa, Prajñārjuna, Pradyumna Bhaṭṭa. Bhāskara scrisse un commento agli Śivasūtra di Vasugupta, lo Śivasūtravārttika.[42]
Abhinavagupta
Le tradizioni śaiva del Kashmir furono sistematizzate dal filosofo Abhinavagupta (X – XI secolo) nella sua opera più importante, il Tantrāloka ("La Luce dei Tantra"), un'opera in versi che si presenta come una sintesi originale delle tradizioni monistiche esistenti al suo tempo. Abhinavagupta riuscì ad appianare tutte le apparenti differenze e le disparità tra queste diverse scuole, offrendo così un'unitaria, coerente e completa visione di queste tradizioni. A causa della lunghezza eccezionale (5.859 versi[45]) del Tantrāloka, Abhinavagupta stesso fornì una versione più breve in prosa, nota come Tantrasāra ("L'Essenza dei Tantra").
Nel lignaggio della Pratyabhijñā Abhinavagupta fu allievo di Lakṣmaṇagupta, e costui di Utpaladeva, commentando con due testi l'opera di quest'ultimo: la Īśvarapratyabhijñāvirmaśinī e la Īśvarapratyabhijñāvivṛitivirmaśinī.[42] Ma Abhinavagupta si riallaccia anche alla scuola dello Spanda, essendo stato anche allievo di Bhāskara[42]; e alla scuola del Krama, essendo stato allievo indiretto di Utpaladeva.[46]
Kṣemarāja
Discepolo illustre di Abhinavagupta, Kṣemarāja (X – XI secolo) si mosse, come il maestro, fra più scuole e fu principalmente un prolifico autore di commenti. Nella tradizione dello Spanda commentò due volte le Spandakārikā con la Spandanirṇaya e lo Spandasaṃdoha. Nella scuola della Pratyabhijñā scrisse il Pratyabhijñāhṛdya ("Il Cuore del Riconoscimento") cui accluse un commento. Kṣemarāja scrisse poi uno dei due commenti più importanti agli Śivasūtra di Vasugupta, lo Śivasūtravimarśinī, nel quale fornisce un'interpretazione che si discosta dalla tradizione esegetica dello Spanda.[42]
Jayaratha
Jayaratha (1150-1200 d.C.[47]), aggiunse il suo commento al Tantrāloka nella sua opera fondamentale, il Tantrālokavārttika, compito di grande difficoltà che egli perseguì per tutta la sua vita[48]. Il filosofo fornì così spiegazioni contestuali, numerose citazioni e chiarimenti, senza i quali certi passaggi del Tantrāloka sarebbero stati difficilmente accessibili al giorno d'oggi.
Le quattro scuole dello Shivaismo del Kashmir
Il Kula e il Trika
Con il termine Kula, o Kaula, gli studiosi così tendono oggi a etichettare un insieme variegato di tradizioni religiose originatosi da sette shivatite molto antiche, quali a esempio i Kāpālika, i Pāśupata (II secolo) e i Lākula, tradizioni lontane dall'ortoprassi dei Purāṇa, sette che adottavano culti trasgressivi, visionari, prediligendo divinità terrifiche anziché benefiche.[49] Non è propriamente corretto perciò definire il Kula una scuola, quanto piuttosto un alveo nel quale sono confluite visioni con alcuni fondamentali tratti in comune: lessico, teologia, pratiche rituali. Occorre però ricordare che tradizionalmente il Kula è ritenuta una tradizione fondata da Macchanda, ritenuto discendente del mitico Tryambaka, enunciatore dei 64 testi tantrici non dualisti.[42]
Kula in sanscrito significa "famiglia", nel senso di "totalità": con questo termine nella letteratura religiosa tradizionale ci si riferisce invece all'insieme delle potenze divine che dànno origine alla realtà sensibile, una totalità che è espressione della potenza dell'Assoluto, quindi realtà suprema e indifferenziata.[42]
Nell'insieme del Kula si sono successivamente distinte quattro correnti principali, che tradizionalmente sono associate ai quattro punti cardinali. Dalla tradizione orientale, la Pūrva-āmnāya, si ritiene sia originato il Trika, che in quanto scuola esegetica è stata successivamente sistematizzata dal filosofo Abhinavagupta.[50] Trika vuol dire "triade": il sistema interpretativo della scuola è infatti caratterizzato da un insieme di triadi, espressioni del triplice aspetto della realtà: Śiva, Potenza, Uomo.[42]
Fra i testi principali, oltre i Tantra non dualisti (fra i quali principalmente il Mālinīvijaya, il Devyāyāmala, il Tantrasadbhāva e il Vijñānabhairava Tantra): il commento Śivasūtravimarśinī di Kṣemarāja agli Śivasūtra di Vasugupta; il Tantrāloka di Abhinavagupta, e il relativo commento di Jayaratha, il Tantrālokavārttika.
Krama
Il termine krama significa "progressione", "gradazione" o "successione", termini intesi come "progressione spirituale", "perfezionamento graduale dei processi mentali" (vikalpa): "successione degli stati che la coscienza attraversa nel suo manifestarsi"[51]. Questa scuola, riginaria dell'Uḍḍiyana, nell'attuale Pakistan, si è sviluppata a partire dal VII secolo d.C. come esegesi della tradizione tantrica del Kula denominata Uttara-āmnāya ("tradizione settentrionale"), tradizione centrata sul culto della dea Kālī.[52]
La scuola pone l'attenzione sui movimenti energetici, raffigurati come ruote che girano e tradizionalmente associati alle potenze Divine (śakti). Lo sviluppo della coscienza consiste nel ritrovare in ogni movimento la ruota principale, il cui centro è la Coscienza Suprema, attorno a cui girano le ruote secondarie. Il divino femminile risveglia e dirige il movimento, la Dea proietta l'universo – azione centrifuga – e Śiva, Coscienza Suprema, lo riassorbe – azione centripeta. Concentrandosi sull'azione delle Potenze, il Krama pone particolare enfasi sulla trasmissione attraverso le donne.
I testi di questa corrente finora pervenuti sono assai pochi, tra questi senz'altro il Kālikā-stotra di Jñānanetra. Opera perduta di Abhinavagupta è invece il Kramakeli. Occorre poi menzionare il Mahānayaprakāsha, di autore ignoto, contemporaneo o di poco posteriore ad Abhinavagupta, che descrive i processi delle energie e le pratiche volte a prenderne coscienza.[53]
Spanda
Il sistema spanda, che vuol dire "vibrazione", "energia vibrante", è stato introdotto da Vasugupta e ripreso dal suo discepolo Bhaṭṭa Kallaṭa nella Spandakārikā[54]. In questa scuola, il Principio ultimo è concepito come un movimento permanente, fonte di ogni creazione e dissoluzione. L'essenza di questa vibrazione è l'estatica coscienza, potenza di Śiva, in perpetuo rinnovo.[55]
Sebbene il metodo proposto sia graduale, il nucleo di questa filosofia è definito come un "salto" o un'improvvisa adesione al Reale che trascende completamente la divisione tra conoscente e conosciuto, e che consente allo yogi di vedere tutto l'universo come il proprio "corpo" o come l'espansione della propria energia. Chi raggiunge tale stato è chiamato Yogeśvara, "Signore degli yogi".
I testi più importanti di questa scuola sono il Vijñānabhairava Tantra, di autore ignoto; gli Śivasūtra di Vasugupta, col commento Śivasūtravārttika di Bhāskara; la Spandakārikā, coi commenti Spandanirṇaya e Spandasaṃdoha di Kṣemarāja, e lo Spandaviṛtti di Bhaṭṭa Kallaṭa.
Pratyabhijñā
Il termine pratyabhijñā vuol dire "riconoscimento", con riferimento al fine spirituale della scuola: riconoscimento della propria natura come divina, il riconoscersi cioè in Śiva, Realtà Ultima, descritto come Suprema Coscienza e Signore Supremo.[42]
La scuola Pratyabhijñā è stata fondata alla fine del IX secolo da Somānanda e sistematizzata dal suo discepolo Utpaladeva. Le opere fondamentali sono gli Śivadṛṣṭi e la Śāktavijñāna di Somānanda; la Īśvarapratyabhijñākārikā di Utpaladeva; i due commenti di Abhinavagupta a quest'opera: la Īśvarapratyabhijñāvirmaśinī e la Īśvarapratyabhijñāvivṛitivirmaśinī; il Pratyabhijñāhṛdya di Kṣemarāja.
Questa scuola può essere definita come anupāya, cioè "priva di mezzi", dal momento che l'identificazione dell'"io" individuale con l'"io" universale non richiede nessuna disciplina psico-fisica o pratica religiosa particolare, ma soltanto la comprensione metafisica della natura divina quale essenza unica nel mondo.
Note
- ^ Kashmir Shaivism: The Secret Supreme, Swami Lakshman Jee.
- ^ The Doctrine of Vibration: An Analysis of Doctrines and Practices of Kashmir Shaivism, By Mark S. G. Dyczkowski, pp. 4. Per quanto riguarda la fioritura dello Shivaismo kashmiro nel nono secolo vedi anche: Basham, p. 110.
- ^ The Trika Śaivism of Kashmir, Moti Lal Pandit, pp. 1.
- ^ Swami Lakshmanjoo, pp. 87-93.
- ^ Para-trisika Vivarana, Jaideva Singh, pp. 20-27.
- ^ The Triadic Heart of Shiva, Paul Muller-Ortega, p. 88.
- ^ Parā-trīśikā Vivaraṇa, Jaideva Singh, p. 194.
- ^ Ibidem, p. 180.
- ^ Ibidem, p. 127.
- ^ The Triadic Heart of Shiva, Paul Muller-Ortega, p. 102.
- ^ Ibidem, p. 60. Cfr. anche Abhinavagupta: The Kula Ritual, as Elaborated in Chapter 29 of the Tantrāloka, John R. Dupuche, p. 87.
- ^ Dyczkowski, p. 4.
- ^ The Trika Saivism of Kashmir, Moti Lal Pandit, pag. IX.
- ^ Ibidem, p. X.
- ^ Ibidem, p. XI.
- ^ Per la collocazione cronologica di Vasugupta fra l'875 d.C. e il 925 d.C. vedi: Flood, p. 167.
- ^ Cfr. Tattwananda, p. 54.
- ^ a b Ibidem.
- ^ Relativamente all'importanza degli Śivasūtra come testo chiave cfr. Flood (1996), p. 167.
- ^ Tattwananda, p. 54.
- ^ Flood, Op. cit., p. 227.
- ^ a b c d Torella, in Vasugupta 1999, p. 28.
- ^ a b c d e f g Vassallo, cit.
- ^ Torella, in Vasugupta 1999, p. 88.
- ^ Gnoli in Vijñānabhairava. La conoscenza del tremendo, Op. cit., p. 16.
- ^ Padoux, Op. cit., nota 3, p. 66.
- ^ a b c d e Tucci, Op. cit., pp. 116-120.
- ^ Così traduce Giuseppe Tucci, e d'altronde: vedi spokensanskrit.de, e anche Mc Donnel A pratical sanskrit dictionary: "intelletto", "mente". Tuttavia in letteratura si incontra anche cit tradotto con "coscienza": così per esempio Padoux (Op. cit., p. 84), Flood (Op. cit., p. 227).
- ^ Torella, in Vasugupta 1999, p. 29.
- ^ Torella, in Vasugupta 1999, p. 24.
- ^ Padoux, Op. cit., p. 85.
- ^ Flood, Op. cit., p. 228.
- ^ Torella mette in evidenza che a volte le 36 categorie sono distinte in tre cammini, anziché due: il puro (i primi cinque tattva); il puro-impuro (questi secondi sei tattva); l'impuro (gli ultimi venticinque tattva), p. 29.
- ^ Torella, in Vasugupta 1999, p. 29.
- ^ Torella, in Vasugupta 1999, pp. 29-30.
- ^ Così scrive Kṣemarāja nel suo Śivasūtravimarśinī, commentando il sūtra III.9. Raffale Torella commenta in nota: «Il brano citato doveva appartenere al più lungo dei due commenti che Utpaladeva dedicò alla sua Īśvarapratyabhijñākārikā, ora perduto.»
- ^ Tutto è coscienza.
- ^ Śankara nel testo originale, appellativo di Śiva. La ruota delle potenze (śakticakra) sono le potenze dell'Assoluto, quelle che dànno origine al cammino puro.
- ^ Maheśvara, il "Grande Signore", appellativo di Śiva.
- ^ Uno dei diciotto Āgama dualistici-non dualistici: vedi Tantra (testi induisti).
- ^ Citato in Alain Daniélou, Miti e dèi dell'India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 293.
- ^ a b c d e f g h i j k l Raffaele Torella, in Vasugupta 1999.
- ^ Christopher Tompkins and Christopher Wallis, An Introduction to the Tantric 'Krama' lineage of Kashmir, shaivayoga.com.
- ^ Padoux, Op. cit., p. 83
- ^ Alexis Sanderson, Tantric Studies in Memory of Hélène Burnner, p. 371.
- ^ Padoux, Op. cit., p. 83
- ^ Navijan Rastogi, Introduction to the Tantrāloka, p. 92.
- ^ Navijan Rastogi, Introduction to the Tantrāloka, p. 102.
- ^ Padoux, Op. cit., p. 76.
- ^ Padoux, Op. cit., p. 78.
- ^ Navijan Rastogi, The Krama Tantricism of Kashmir, pp. 6-12.
- ^ André Padoux, Op. cit., p. 79.
- ^ Introduzione all'Essenza dei Tantra (Abhinavagupta), Raniero Gnoli.
- ^ L'attribuzione non è certa.
- ^ Jaideva Singh, Spanda-Kārikās, The Divine Creative Pulsation, p. XVIII.
Bibliografia
- Vijñānabhairava. La conoscenza del tremendo, traduzione e commento di Attilia Sironi, introduzione di Raniero Gnoli, Adelphi, 2002.
- Gavin Flood, L'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006.
- André Padoux, Tantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011.
- Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o L'energia del profondo, traduzione di Francesco Sferra, Adelphi, 1997.
- Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Editori Laterza, 2005.
- Maria Vassallo, Alcuni aspetti cosmogonici dello śivaismo tantrico kaśmīro, mediaevalsophia.net.
- Vasugupta, Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999.
Bibliografia in lingua non italiana
- (FR) Danielou, A., Le Polythéisme indou.
- (EN) Dyczkowski, M.S.G., The Doctrine of Vibration: An Analysis of Doctrines and Practices of Kashmir Shaivism.
- (EN) Dupuche, J.R., Abhinavagupta: The Kula Ritual, as Elaborated in Chapter 29 of the Tantrāloka.
- (EN) Gnoli, R., Introduzione all'Essenza dei Tantra.
- (EN) Lal Pandit, M., The Trika Śaivism of Kashmir.
- (EN) Lakshman Jee, Swami, Kashmir Shaivism: The Secret Supreme.
- (EN) Muller-Ortega, P., The Triadic Heart of Shiva.
- (EN) Rastogi, N., The Krama Tantricism of Kashmir.
- (EN) Singh, J., Para-trisika Vivarana.
- (EN) Spanda-Kārikās - The Divine Creative Pulsation.