Affreschi della Galleria Farnese

opera di Annibale Carracci

Gli affreschi della Galleria Farnese, un ambiente di Palazzo Farnese a Roma, sono un'opera di Annibale Carracci portata a compimento, in più riprese, tra il 1597 e il 1606-1607. Alla realizzazione degli affreschi contribuirono anche Agostino Carracci, fratello di Annibale, e, successivamente alcuni allievi di Annibale, tra i quali il Domenichino.

Affreschi della Galleria Farnese
File:Galleria Farnese - Annibale Carracci - Palazzo Farnese, Rome.jpg
AutoreAnnibale Carracci con l'intervento di Agostino Carracci ed aiuti
Data1597 - 1606/1607
Tecnicaaffresco
Dimensioni(Galleria) 2014×659×980 cm
UbicazionePalazzo Farnese, Roma

Storia

 
Annibale Carracci, Deposizione con la Vergine e santi, 1585, Parma, Galleria nazionale

Annibale Carracci fu chiamato a Roma nel 1594 dal cardinale Odoardo Farnese per decorarne il celebre palazzo prospiciente il Tevere.

Forse questa prestigiosa commissione fu propiziata da Gabriele Bombasi, letterato reggiano e famigliare dei Farnese già alla corte di Parma, da Annibale conosciuto a Reggio Emilia dove il più giovane dei Carracci aveva realizzato diverse opere (nessuna più in loco). Non è escluso però che i contatti di Annibale con i Farnese siano precedenti all'incontro con il Bombasi. Negli anni Ottanta del Cinquecento, infatti, Annibale aveva realizzato, prima delle opere reggiane, vari dipinti a Parma, sede della corte di Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza e fratello di Odoardo. In particolare, la prima opera parmense del Carracci fu una grande pala d'altare raffigurante la Deposizione con la Vergine e santi (1585), eseguita per la chiesa dei Cappuccini (ora nella Galleria della città). La congregazione si era insediata a Parma proprio per volere dei Farnese e potrebbe essere stata questa l'occasione dell'instaurarsi del rapporto tra il pittore bolognese e la grande casata romana che avrebbe poi condotto, anni dopo, alla chiamata di Annibale da parte di Odoardo.

Dopo un primo breve soggiorno preliminare a Roma, nel 1594, Annibale prese definitivamente servizio presso il cardinal Farnese nel 1595. Nelle intenzioni iniziali del suo nuovo mecenate la decorazione del Palazzo avrebbe dovuto riguardare la Sala Grande, cioè un grande salone di rappresentanza della dimora, da affrescare con le gesta militari di Alessandro Farnese - padre di Odoardo e Ranuccio - capitano delle armate imperiali di Filippo II alla guida delle quali, tra il 1577 e 1579, aveva ottenuto importanti vittorie nelle Fiandre a spese delle fazioni orangiste.

Questo progetto, prima fu sospeso e poi, per ragioni ignote, definitivamente abbandonato.

Il primo ambiente di Palazzo Farnese che Annibale Carracci effettivamente decorò è l'appartamento privato di Odoardo Farnese (noto come Camerino del cardinale), in cui realizzò ad affresco un ciclo con le Storie di Ercole (ma alcune scene sono dedicate ad altri temi) e per il quale dipinse anche la tela con Ercole al Bivio.

Portato a termine questo primo impegno, ebbe finalmente avvio la decorazione della Galleria.

L'ambiente

 
Annibale Carracci, Marsia e Olimpo, Pannello dipinto di uno strumento musicale, Londra, National Gallery

La Galleria Farnese è una loggia coperta situata sul lato del Palazzo che dà verso Via Giulia e il Tevere e fu realizzata da Giacomo Della Porta su progetto del Vignola. Si tratta di un ambiente piuttosto stretto (all'incirca sei metri) e lungo (poco più di venti metri). La sala prende luce solo da uno dei lati lunghi (quello che si affaccia su Via Giulia) in cui sono aperte quattro finestre e culmina in una volta a botte sorretta da una serie di lesene.

Su entrambi i lati lunghi sono aperte delle nicchie in cui erano situate alcune delle celebri statue antiche di proprietà dei Farnese (in gran parte ora nel Museo archeologico nazionale di Napoli).

Non è chiaro quale fosse la funzione di questa stanza, ma è probabile che essa fosse una sala da musica. Alcuni inventari farnesiani attestano, infatti, che vi erano collocati degli strumenti musicali. Lo stesso Annibale Carracci, inoltre, attese alla decorazione di alcuni gravicembali - i cui pannelli dipinti si trovano oggi a Londra (National Gallery) - che in effetti mostrano assonanza tematica con gli affreschi della Galleria e che forse furono realizzati proprio per essere messi qui.

La Volta

File:Pellegrino Tibaldi, Storie di Ulisse, Palazzo Poggi, Bologna.jpg
Pellegrino Tibaldi, Storie di Ulisse, 1550 ca., Bologna, Palazzo Poggi

Nel 1597 Annibale iniziò, con l'assistenza di suo fratello Agostino Carracci, la decorazione della Volta, che è la prima sezione della Galleria Farnese ad essere stata affrescata.

Il primo problema che il pittore dovette risolvere fu quello della compartimentazione della superficie da affrescare. Infatti, benché Annibale fosse già un provetto frescante, essendosi cimentato (insieme allo stesso Agostino e al cugino Ludovico) nella decorazione di varie dimore bolognesi, la sua esperienza era costituita essenzialmente dalla realizzazione di fregi (modalità decorativa tipicamente felsinea), cioè cicli di affreschi che rivestono la superficie piana delle pareti all'interno di una stanza quadrangolare.

La forma a botte della Volta della Galleria e la necessità di decorarne anche la parte centrale rendevano inadatto, o comunque insufficiente, lo schema del fregio alla bolognese. Fu però sempre a Bologna che Annibale reperì un esempio utile per la Volta della Galleria Farnese. Si tratta della decorazione di Palazzo Poggi (Storie di Ulisse) realizzata da Pellegrino Tibaldi alla metà del XVI secolo: in un ambiente per certi versi simile a quello della Galleria, il Tibaldi mise in opera una suddivisione ed organizzazione dello spazio di cui Annibale tenne conto per la sua Volta.

 
Raffaello e aiuti, Concilio degli Dèi, 1518-1519, Roma, Villa Farnesina

Al modello del Tibaldi Annibale associò riferimenti romani a partire dalla michelangiolesca Volta della Cappella Sistina. Telamoni, ignudi e medaglioni in finto bronzo che compaiono sulla Volta Farnese sono infatti citazioni di questo celeberrimo precedente. Anche la scelta di ambientare le scene mitologiche in quadri riportati – cioè creando l’illusione che la scene dipinte siano state stese su una tela poi applicata al muro, e non direttamente affrescate sulla parete, come in realtà è –, dando vita ad un'immaginaria quadreria, guarda ancora alla volta di Michelangelo che usò lo stesso accorgimento per le Storie della Genesi [1].

Altro riferimento seguito da Annibale è dato dagli affreschi di Raffaello (e della sua équipe) con le storie di Amore e Psiche (Loggia di Psiche), collocati nella Villa Farnesina. Ciclo cui, data la vicinanza tematica con l'impresa cui si accingeva, Annibale guardò anche per trarvi soluzioni iconografiche e compositive[2].

Molte sono poi le riprese dal Correggio, dal Parmigianino e dalla pittura veneta. Tra gli ulteriori esempi di Annibale potrebbe annoverarsi anche l'impresa di Giulio Romano a Palazzo Te, benché si ignori se il più celebre dei Carracci abbia mai visitato Mantova[3].

Abbondano, infine, nella Galleria, le citazioni di statue antiche (in specie, ma non solo, quelle un tempo appartenute ai Farnese).

Il tema della Volta

File:Volta della Galleria Farnese.jpg
La Volta della Galleria Farnese

Il tema della decorazione della Volta della Galleria Farnese è gli Amori degli dèi e le singole scene raffigurate si basano in buona parte sulle Metamorfosi di Ovidio.

Il significato del ciclo è molto disputato e ne sono state fornite interpretazioni differenti.

Per molto tempo ad imporsi è stata la visione del Bellori che, ne Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni (1672), ha fornito una lettura moralizzante degli affreschi della Volta della Galleria Farnese[4]. Per il Bellori, infatti, nelle favole dipinte da Annibale Carracci sarebbe raffigurata la lotta tra il vulgare e il celeste amore, cioè tra l’amore carnale e quello spirituale, con ovvia (per le convenzioni del tempo in cui Bellori scrive) vittoria del secondo.

Nella lettura belloriana delle scene della Volta la chiave che disvela il contenuto allegorico e morale del ciclo va individuata nelle quattro raffigurazioni (agli angoli) della lotta tra Eros e Anteros: l'ineluttabile vittoria di quest’ultimo è rappresentata nella scena in cui, secondo il Bellori, Anteros è cinto della corona della vittoria.

Secondo interpretazioni più moderne tuttavia, tale visione si fonda su una deformazione della figura di Anterote (in effetti già antecedente al Bellori) rispetto a quella classica. Il Bellori, infatti, individua in Anterote un contrappunto morale di Eros, dove il primo incarna gli aspetti nobili dell’amore, che in ultima analisi rimandano all'amor di Dio, mentre il secondo personifica gli istinti passionali e sessuali del sentimento, necessariamente fonte di dispiaceri.

 
Eros e Anteros sotto la corona d'alloro, dettaglio della Volta

Nel mito classico però (correttamente tramandato anche in alcuni testi rinascimentali), Anterote non è affatto il contraltare morale di Eros ma, rappresentando l’amore corrisposto, ne è piuttosto un completamento. La condizione indispensabile per un amore pienamente felice è la reciprocità tra gli amanti, ma hanno legittima cittadinanza in questo sentimento anche le gioie dell’eros nella loro dimensione sensuale.

Superata in tal modo la lettura moralizzante del Bellori è stata proposta un’interpretazione assai più "semplice" delle scene della Volta: esse, per l’appunto, non celerebbero nessun particolare significato morale, ma sarebbero essenzialmente una celebrazione dell’amore. Amore del quale, pur non occultandone le angustie, le insidie e i furori, è evidenziato soprattutto l’aspetto edonistico ed erotico.

La questione interpretativa è resa ancor più complessa da un ulteriore elemento di dubbio. Alcuni critici moderni, infatti, hanno ipotizzato che la Volta della Galleria Farnese sia stata dipinta per celebrare, con funzione epitalamica, le nozze tra Ranuccio Farnese, fratello del cardinale Odoardo, e Margherita Aldobrandini, nipote del papa Clemente VIII, celebrate il 7 maggio del 1600.

La tesi (di cui non vi è traccia né nel Bellori né nelle altre fonti antiche sul ciclo farnesiano[5]) è fortemente discussa, essendo, per alcuni autori, insostenibile sul piano cronologico (le nozze Farnese-Aldobrandini sarebbero state decise infatti quando la decorazione della Volta era già stata avviata, quindi, secondo chi ne nega la natura epitalamica, quando ne era già stato formulato il programma iconografico). Altri ancora hanno evidenziato che in tutto il complesso della Galleria non compare mai – quanto meno esplicitamente – lo stemma Aldobrandini. Circostanza anche questa ritenuta incompatibile con la supposta funzione di celebrazione nuziale.

Da ultimo è stata proposta una lettura del ciclo della Volta che recupera in parte l’impianto belloriano (depurandolo comunque degli aspetti moralistici che lo caratterizzano) e lo coniuga con la (ribadita) funzione epitalamica per le nozze tra Ranuccio e Margherita.

Per quest’ultima interpretazione, il ciclo farnesiano raffigura l’antagonismo ed infine la concordia tra l'amore dello spirito e l'amore dei sensi - quindi non la moralistica superiorità del primo al secondo, ma la loro complementarietà - quale augurio di una felice unione matrimoniale. Concordia che trova la sua massima espressione nel riquadro principale della Volta, dove è raffigurato il Trionfo di Bacco e Arianna (personificazioni di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini).

Resta sconosciuto l’ideatore del ciclo della Volta. Varie ipotesi sono state formulate in merito - proponendo i nomi di Fulvio Orsini o, almeno per una parte del programma iconografico, di Giovanni Battista Agucchi -, ivi compresa l'attribuzione dell’ideazione iconologica delle scene ad Agostino Carracci[6], ma nessuna di esse è ad oggi suffragata da prove documentali.

Tra le ipotesi più recenti vi è la quella che l’invenzione della Volta possa provenire da ambienti bolognesi legati all'Accademia dei Gelati[7] ovvero che il ciclo farnesiano debba essere messo in relazione alla produzione filosofica e letteraria di Pomponio Torelli, uomo di cultura parmense, per un certo tempo legato a Ranuccio Farnese[8].

Le storie della Volta

Gli Amori degli dèi inscenati sulla Volta si articolano in tredici scene narrative - cui si aggiungono le storie contenute nei medaglioni in finto bronzo - distribuite secondo la ripartizione che segue[9].

 
La Volta, insieme
  • Fascia Centrale: Il Trionfo di Bacco e Arianna; Pan e Diana (a sinistra del Trionfo); Mercurio e Paride (a destra del Trionfo)
  • Lato Ovest (nell'immagine in alto) - da destra a sinistra: Ercole e Iole; Aurora e Cefalo; Venere e Anchise
  • Lato Sud (nell'immagine a destra): Polifemo e Galatea; Apollo e Giacinto
  • Lato Est (nell'immagine in basso) - da sinistra a destra: Giove e Giunone; Trionfo marino; Diana e Endimione;
  • Lato Nord (nell'immagine a sinistra): Polifemo e Aci; Ratto di Ganimede
  • Medaglioni Lato Ovest, da destra a sinistra: Ero e Leandro; Pan e Siringa; Ermafrodito e Salmaci; Omnia vincit Amor
  • Medaglioni Lato Est, da sinistra a destra: Apollo e Marsia; Borea e Orizia; Orfeo e Euridice; Ratto di Europa

Il Trionfo di Bacco e Arianna

 
Il Trionfo di Bacco e Arianna

Pan e Diana

 
Pan e Diana

Il tema di questo quadro riportato[10] è tratto dalle Georgiche di Virgilio (Libro III), dove si narra di come la casta dea Diana sia stata sedotta da Pan con l'offerta di bianchissime lane.

Nel Palazzo Farnese di Caprarola questa stessa scena era già stata raffigurata da Taddeo Zuccari ed è probabile che la scelta di ripeterla anche nella residenza romana dei Farnese non sia casuale.

La vicenda narrata è variamente interpretabile. Vi si può scorgere un riferimento alla volubilità delle cose dell'amore (un dono modesto che può sedurre anche la più casta delle dee[11]) oppure cogliervi un'allusione ai doni d'amore anche in chiave nuziale, nell'ipotesi che gli affreschi della Volta siano interpretabili come la celebrazione del matrimonio di Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini.

Le sembianze del Pan di Annibale sono chiaramente derivate dalla statua di Pan e Dafni già dei Farnese ed ora nel Museo archeologico di Napoli.

La posizione del dio pastore, invece, in piedi con il braccio destro proteso verso l'alto per consegnare la lana a Diana che plana dal cielo, è stata associata a quella del giovane uomo con un'ancora, che indica verso il sole, visibile in un'incisione allegorica di Marcantonio Raimondi[12][13].

Mercurio e Paride

 
Mercurio e Paride

Mentre Paride è seduto sotto un albero in compagnia del suo cane, piomba dall'alto Mercurio che gli consegna il pomo d'oro che l'eroe troiano utilizzerà nel celebre giudizio che da lui prende il nome e dal quale scaturirà la guerra di Troia[14].

Lo scorcio col quale è raffigurato Mercurio richiama alla mente alcuni esempi del Tintoretto, come il Miracolo di san Marco.

Questa figura allo stesso tempo cita il raffaellesco Mercurio della Loggia di Psiche: non sembra casuale, infatti, che Annibale, come nel precedente della Farnesina, abbia messo in mano al messaggero degli dèi una tromba e non il consueto caduceo.

Secondo Bellori la tromba sottolinea che all'evento in corso - la consegna a Paride del pomo d'oro - seguirà la guerra.

Per i sostenitori della natura epitalamica degli affreschi della Volta di Palazzo Farnese, la tromba di Mercurio va letta come strumento per l'annuncio delle nozze Farnese-Aldobrandini così come, nella villa di Agostino Chigi, essa annuncia l'unione tra Amore e Psiche.

Ulteriori possibili allusioni al tema nuziale sono il riferimento al dono prezioso e all'unione con Elena che Paride otterrà dopo aver consegnato il pomo a Venere.

Come già rilevava a suo tempo il Bellori, nel raffigurare il cane di Paride, Annibale dà un cospicuo saggio di bravura, memore forse degli esempi del Parmigianino, artista provetto nel raffigurare animali.

Ercole e Iole

 
Ercole e Iole

La scena mostra Ercole in attitudini femminili mentre Iole indossa la pelle del leone di Nemea e impugna la clava (tipici attributi di Ercole)[15].

Più che dalla mitologia classica, Annibale ha derivato questa raffigurazione dalla Gerusalemme liberata del Tasso ed in particolare dal passo in cui (Canto XVI) sono descritti i mirabili rilievi che istoriano il palazzo di Armida (talmente belli che loro: «Manca il parlar: di vivo altro non chiedi; Né manca questo ancor, s'agli occhi credi»), tra i quali la scena di Ercole e Iole che invertono i rispettivi ruoli.

Annibale, infatti, seguendo il poema epico mette a fianco di Ercole Iole e non, come sarebbe stato più corretto secondo il mito, Onfale. A differenza del Tasso però il Carracci mette nelle mani del semideo un tamburello e non una conocchia.

L'intuibile significato della scena è che la malìa d'amore può devirilizzare anche i più forti e ferini petti (per dirla con le parole del Bellori) e farli schiavi. Eros, infatti, che vediamo affacciarsi da un loggiato, se la ride soddisfatto: nemmeno l'invincibile Alcide può nulla contro il suo potere (anche questa è una ripresa dal Tasso che nella descrizione del rilievo con Ercole ed Iole ci dice che «Amor se l'guarda e ride»).

Nella possente figura di Ercole si colgono rimandi sia all'Ercole Farnese che al Torso del Belvedere.

Un ulteriore riferimento antico per l'affresco è dato dal gruppo scultoreo di Ercole ed Onfale (I secolo d.C.), già appartenente ai Farnese ed ora nel Museo archeologico di Napoli.

Aurora e Cefalo

 
Aurora e Cefalo

È uno dei due quadri riportati spettanti ad Agostino Carracci. La scena raffigura Aurora che rapisce il mortale Cefalo, del quale si era invaghita, e lo porta via sul suo carro[16]. Questi però ama Procri e cerca di sottrarsi all'abbraccio della dea. Il molosso di Cefalo volge lo sguardo al suo padrone che si dimena.

Sdraiato a terra, in basso a destra, vi è l'ormai decrepito Titone, primo amante umano di Aurora. Per amore di lui, Aurora aveva chiesto agli dèi che Titone non morisse mai. L'invocazione era stata esaudita ma, non avendo Aurora specificato questo aspetto, Titone, pur divenuto immortale, non cessava di invecchiare. Aurora, quindi, non più appagata da un compagno così vecchio, volge le sue attenzioni al giovane Cefalo.

La scena allude a come col trascorrere del tempo i sentimenti d'amore possano mutare. Concetto suggellato anche dalle rose, fiore caduco per antonomasia, portate dall'amorino che si libra sopra il carro.

L'affresco - da taluni messo in relazione ad un dramma di Gabriello Chiabrera[17] - ebbe grande fortuna a Roma, costituendo il modello di più opere di tema analogo realizzate da alcuni dei migliori artisti della scuola bolognese che operararno in città: è il caso dell'Aurora di Guido Reni nel Casino Rospigliosi-Borghese, di quella del Guercino nel Casino Ludovisi e, infine, del Carro di Apollo del Domenichino in Palazzo Costaguti[18].

Venere e Anchise

 
Venere e Anchise

La fonte di questo quadro è stata individuata nell'inno omerico ad Afrodite. Qui si narra di come Venere invaghitasi di Anchise, cui gli dèi avevano fatto il dono della bellezza, lo raggiungesse a Troia per unirsi a lui[19].

Il momento raffigurato è quello in cui, nella stanza di Anchise - dove a terra vi è una pelle di leone, trofeo di caccia dell'eroe troiano - questi denuda una languida Venere (le sta togliendo infatti un calzare) prima di far l'amore con lei. Partecipa all'evento anche Cupido, semisdraiato su una coscia di sua madre.

Venere poggia il piede destro su uno sgabello ove si scorge la scritta «GENUS UNDE LATINUM», tratta dall'Eneide e traducibile «Da qui la stirpe Latina». La scritta allude alla nascita di Enea, concepito da Venere e Anchise, mitico capostipite delle genti latine e quindi dei romani. Secondo alcuni autori il motto avrebbe un significato satirico, nel senso che i romani troverebbero la loro origine non tanto (e comunque prima che) nelle gesta eroiche di Enea, ma in un capriccio erotico di Venere. Chiude la scena una veduta del Monte Ida, altro riferimento alla nascita di Enea, visibile alle spalle dei due protagonisti[20].

Per il Bellori nel quadro riportato sarebbe celebrata la potenza di Eros (che infatti è presente), capace di signoreggiare anche Venere, dea dell'amore e sua madre.

La composizione dell'affresco è stata messa in relazione ad un disegno di Raffaello raffigurante le nozze di Alessandro Magno e Rossane, dove un putto, con gesto prossimo a quello di Anchise, regge un piede della principessa persiana, a sua volta seduta in una posa molto simile a quella di Venere.

Bellori viceversa afferma che Annibale, per questo affresco, «seguitò l'idea di un marmo antico», statua o rilievo che gli studi moderni non hanno individuato.

Polifemo e Galatea

 
Polifemo e Galatea

La storia narrata è tratta dalle Metamorfosi (Libro XIII): il brutale ciclope Polifemo si è innamorato della nereide Galatea e le dedica un canto appassionato in cui le offre tutto il suo amore e tutta la sua ricchezza se ella accetterà di unirsi a lui e al tempo stesso le manifesta la sua sofferenza per i rifiuti opposti dalla ninfa («Galatea, più cattiva di un giovenco non domato») e la sua ira per il rivale Aci (che Galatea ama)[21].

Sul piano iconografico questo quadro riportato segue pressoché alla lettera l'ekphrasis di un dipinto dello stesso soggetto che si trova nelle Immagini di Filostrato il vecchio, opera risalente al III secolo a.C. che contiene una serie di descrizioni di quadri (si ignora se reali o immaginari), tra i quali, per l'appunto, quello con Polifemo e Galatea (Libro II, n. XVIII).

Molti sono i rimandi alla pittura rinascimentale a partire dalla ripresa del Giona di Michelangelo, che Annibale tiene presente non solo per costruire la figura di Polifemo, ma dal quale mutua anche l'espediente visivo di raffigurare il gigante in dimensioni particolarmente accentuate. Infatti, la scena con il canto del ciclope si trova su uno dei lati corti della Volta (Sud): dal centro della lunga Galleria, punto ideale per una visione d'insieme dell'intero ciclo, il quadro (al pari del suo gemello con Polifemo e Aci sul lato opposto) potrebbe risultare poco visibile, se non, appunto, accrescendo la dimensione delle figure: ciò che fece Michelangelo con il suo Giona (e le altre figure sui lati corti della Cappella Sistina), risolvendo così lo stesso problema ottico.

Nel corteo marino di Galatea e le sue compagne Annibale prende, invece, a modello il Trionfo di Galatea di Raffaello (Villa Farnesina). Ulteriore riferimento rinascimentale proposto è il precedente di Giulio Romano (Sala di Psiche, Palazzo Te), ove sono raffigurati Polifemo, Galeta ed Aci.

Nella figura di Polifemo, infine, si colgono più riprese dalla statuaria antica, come la citazione della figura di Dirce del gruppo scultoreo noto come Toro Farnese (ora a Napoli) o, per la posizione della gambe del ciclope, dal celeberrimo Laocoonte dei Musei Vaticani[22].

Sotto il quadro con Polifemo e Galatea compare la data in numeri romani MDC (1600), generalmente ritenuta quella di ultimazione degli affreschi della Volta e, da alcuni studiosi, messa in relazione al già più volte menzionato matrimonio Farnese-Aldobrandini[23].

Apollo e Giacinto

 
Apollo e Giacinto

La storia, tratta dalle Metamorfosi, narra dell'amore di Apollo per il giovane Giacinto e della disperazione del primo per aver involontariamente ucciso il suo amante in una gara di lancio del disco. Apollo, non essendo riuscito a resuscitare Giacinto, lo trasformò nel fiore che a lui deve il nome.

Nell'affresco il giovane già morto ne stringe un mazzetto mentre Apollo lo innalza al cielo.

Giove e Giunone

 
Giove e Giunone

Il riquadro con Giove e Giunone è tratto dall'Iliade (Libro XIV) e raffigura il momento in cui Giunone cerca di distrarre Giove, seducendolo, dalle sorti della guerra di Troia: mentre Giunone, infatti, parteggia per i greci, il re degli dèi non vuole che nessuna divinità intervenga per favorire l'una o l'altra fazione[24].

Giunone per riuscire nell'impresa si è impossessata, con un inganno, del cinto magico di Venere (nell'affresco lo cinge appena sotto il seno), indumento capace di fornire a colei che lo indossa una forza seduttiva cui nessuno poteva resistere.

Come Annibale magistralmente mostra, il piano della dea ha pieno successo e si vede con quanta passione e con quanta voluttà Giove abbraccia Giunone, bellissima e sensuale, per far l'amore con lei.

La scena celebra la capacità seduttiva della bellezza muliebre, ma anche il lecito piacere dell'eros in una coppia, quale Giove e Giunone, unita in legittime nozze.

La figura di Giunone è in una posizione simile a quella di Psiche nel Concilio degli Dèi di Raffaello (Loggia di Psiche) ma sembra rinviare, per le fattezze del viso, anche alla Maddalena del Noli me tangere di Correggio.

Giove, oltre a riprese dalla statuaria antica, mostra significativa assonanza con un'incisione di Agostino Veneziano, tratta da un disegno di Giulio Romano, raffigurante san Giovanni Evangelista, simile per la posa delle gambe e la collocazione dell'aquila[25].

Il quadro con Giove e Giunone è da sempre considerato uno dei più belli della Galleria e già il Bellori lo ritenne degno addirittura delle sculture di Fidia. Prova dell'apprezzamento riscosso da questa prova di Annibale è dato anche dalla sopravvivenza di alcune copie dell'affresco, una delle quali, con piccole varianti, è stata attribuita a suo nipote Antonio Carracci.

Trionfo marino

 
Trionfo marino

È il secondo (ed ultimo) quadro riportato eseguito da Agostino Carracci[26]. Il tema trattato è molto incerto.

L'interpretazione tradizionale, proposta anche dal Bellori, individua nell'affresco una raffigurazione del trionfo di Galatea. La visione del Bellori con ogni probabilità deriva da quanto tramandato nell'orazione funebre in onore di Agostino recitata da Lucio Faberio durante la solenne commemorazione dedicata al fratello maggiore di Annibale[27]. Già in questa fonte, infatti, si afferma che in questo affresco è raffigurata Galatea. D'altro canto, che Agostino Carracci abbia utilizzato come modello per il suo corteo marino il Trionfo di Galatea di Raffaello (Villa Farnesina) è una conclusione largamente condivisa dagli studi.

Nonostante il tema del modello raffaellesco, la critica moderna esclude che in questa scena della Galleria compaia il trionfo di Galatea. Sono varie le ipotesi alternative che attualmente si contendono il campo. Per una prima tesi, Agostino avrebbe inscenato il mito di Glauco e Scilla. Altra proposta è che nel quadro riportato sia narrato un episodio delle storie di Teti e Peleo, ipotesi che poggia sulla circostanza che questo tema, in un affresco che presenta similitudini compositive con quello della Volta Farnese, è stato affrontato da Agostino a Palazzo del Giardino, a Parma, poco dopo il suo congedo da Roma (1600 ca.).

Da ultimo è stato proposto che nel trionfo marino della Galleria debba individuarsi una raffigurazione di Venere condotta sul mare ad una cerimonia nuziale. La fonte ispiratrice del tema sarebbe fornita da un epitalamio di Claudio Claudiano scritto per il matrimonio dell'imperatore Onorio. La tesi fa leva sulla ritenuta funzione celebrativa delle nozze Farnese-Aldobrandini, che parte della critica individua negli affreschi della Volta della Galleria, e rileva che Claudiano è un autore "familiare" ad Annibale Carracci, da questi citato sia nella Venere dormiente con amorini, di poco successiva alla decorazione della Volta farnesiana, sia nell'antecedente Venere abbigliata dalle Grazie di Washington (1590-95).

Pur spettando senza dubbio ad Agostino Carracci, in questa scena marina alcuni autori hanno individuato degli interventi di Annibale: si tratterebbe in particolare del putto in basso (spostato un po' a destra) che nuota a fianco di un pesce e del tritone a destra che suona in una conchiglia usata a mo' di buccina. Figura quest'ultima forse fonte ispiratrice di Bernini (la cui ammirazione per Annibale Carracci è documentata) per la sua Fontana del Tritone.

Nel volto del personaggio maschile che abbraccia (o aggredisce?) la divinità femminile protagonista del corteo si coglie una citazione del busto dell'imperatore Caracalla, già a Palazzo Farnese ed ora nell'Archeologico di Napoli.

Diana e Endimione

 
Diana e Endimione

Nelle versioni più antiche del mito di Endimione questi è amato da Selene. È Selene che addormenta eternamente il giovane e bellissimo pastore per amarlo mentre egli dorme. La figura di Selene venne progressivamente confusa con quella di Diana, divinità anch'essa legata alla luna, che la sostituì anche nella storia di Endimione[28].

La presenza nell'affresco di Diana assume il senso - come forse già nel quadro con Diana e Pan - di sottolineare la forza del sentimento d'amore: anche l'austera dea cacciatrice - «non più gelida e schiva ma tutta calda d'amoroso foco», come dice il Bellori - può cedere ai suoi richiami.

Ancora il Bellori descrive con efficacia l'azione di Diana e l'abilità di Annibale nel rendere il momento raffigurato. Nell'abbracciare delicatamente il dormiente Endimione Diana, ad un tempo, esprime il trasporto per il giovane ma anche l'accortezza di non svegliarlo.

In altro a sinistra nel quadro vi è uno dei particolari più famosi della Galleria: due amoretti seminascosti tra le fronde spiano quanto sta accadendo. Uno, col dito sulla bocca, intima al suo compagno di fare silenzio per non disturbare il sonno di Endimione, l'altro «con lo strale in mano gode e ride, vedersi la più casta dea soggetta» (Bellori).

È stato rilevato che il mito di Endimione è stato raffigurato molte volte su sarcofagi di epoca romana. A questa possibile fonte si affianca il piccolo affresco con Venere e Adone, di Raffaello e bottega, parte della decorazione della Stufetta del cardinal Bibbiena.

Polifemo e Aci

 
Polifemo e Aci

La scena, sul lato Nord, è il pendant di quella sul lato opposto con Polifemo e Galatea e ne costituisce il completamento[29].

Nel racconto di Ovidio (Metamorfosi, Libro XIII), infatti, Polifemo concluso il suo canto per l'amata si imbatte in Galatea ed Aci che amoreggiano.

Il gigante è colto dall'ira e procuratosi un masso lo scaglia verso i due che intanto si sono dati alla fuga. Mentre la nereide riesce a trarsi in salvo tuffandosi in mare, Aci è colpito dalla roccia e muore. La pietà degli dèi trasforma l'amante di Galatea in una divinità fluviale.

Sullo sfondo (a sinistra) si scorge una veduta dell'Etna in eruzione: è una citazione letterale da Ovidio il quale racconta (tramite Galatea) che al clamore suscitato dalla furia del ciclope il vulcano rabbrividì.

I due quadri con Polifemo possono essere letti, nel loro complesso, quali rappresentazioni della possibile fallacia dell'amore e della sofferenza suscitata dai sentimenti non corrisposti da cui nessuno è al riparo, nemmeno lo spietato ciclope.

Nell'efficace resa del moto del gigante che scaglia il masso, definito dalla sua torsione, Bellori coglie il riecheggiare delle riflessioni di Leonardo da Vinci sulla raffigurazione pittorica del corpo in movimento.

Il ratto di Ganimede

File:The Rape of Ganymede by Jupiter's Eagle with satyrs - Annibale Carracci - 1597 - Farnese Gallery, Rome.jpg
Il ratto di Ganimede

È raffigurato il mito di Ganimede, giovane di leggendaria bellezza del quale Giove si invaghì. Il re degli dèi, assunte le sembianze di un'aquila, rapì Ganimede portandolo con sé nell'Olimpo[30].

In uno studio preparatorio per la decorazione della Volta (conservato al Louvre), già compare (sia pure in una posizione diversa da quella finale) il gruppo con Ganimede e l'aquila. In questo primo abbozzo Annibale si è rifatto al celebre disegno di Michelangelo di identico soggetto. Il Carracci ebbe modo di studiare la composizione michelangiolesca attraverso una copia del disegno eseguita da Daniele da Volterra (artista che fu amico del Buonarroti e che lavorò per i Farnese), posseduta da Fulvio Orsini, dotto umanista al servizio del cardinale Odoardo.

Per la versione finale dell'affresco, tuttavia, il modello effettivamente seguito non fu più il disegno di Michelangelo, ma un antico gruppo scultoreo di proprietà dei Farnese - parimenti raffigurante Ganimede e l'aquila - anch'esso oggi nel Museo archeologico di Napoli.

I medaglioni

 
Correggio, Giunone punita, 1518-1519, Parma, Camera di San Paolo

Completano il programma iconografico della Volta dodici medaglioni in finto bronzo ossidato che si infrappongono ai quadri riportati.

Concettualmente esemplati su quelli della Cappella Sistina, i tondi della Galleria Farnese sono stilisticamente molto vicini alle lunette monocrome della Camera di San Paolo, dipinte da Correggio a Parma, che, in taluni casi, sono citate letteralmente nei medaglioni di Annibale.

Anche alcune antiche monete romane, verosimilmente, sono state utilizzate come riferimento iconografico.

Quattro bronzi sono collocati, nella parte parietale della Volta (sui lati corti), sotto i due quadri con le storie di Polifemo, nella illusionistica sovrapposizione di piani particolarmente accentuata in quelle sezioni della decorazione della Galleria.

Questi quattro medaglioni sono quindi in gran parte coperti e meno visibili. Sul loro tema, pertanto, non vi è certezza ed anzi in un caso, il medaglione a sinistra di Polifemo e Galatea, il tema è assolutamente oscuro (si ipotizza si tratti di una scena di ratto non meglio specificabile). Gli altri tre medaglioni semicoperti dovrebbero rappresentare: Giasone e il vello d'oro (a destra di Polifemo e Galatea); il Giudizio di Paride e Pan e Apollo (rispettivamente a sinistra e destra del quadro riportato con Polifemo ed Aci).

Chiara invece è l'iconografia dei restanti otto tondi in bronzo ben visibili sui lati lunghi della Volta Farnese. Quasi tutte le storie dei medaglioni derivano dalle Metamorfosi di Ovidio[31].

Medaglione Soggetto Descrizione
 
Ero e Leandro È raffigurata la storia della sacerdotessa Ero e del suo giovane amante Leandro, narrata nelle Eroidi di Ovidio. Leandro ogni sera attraversava l'Ellesponto per congiungersi all'amata che, con una torcia, gli indicava il punto da raggiungere. Una notte il vento spense il lume e il giovane, smarritosi, annegò. L'iconografia del medaglione sembra tratta da antiche monete romane che raffigurano questo mito[32], mentre nel putto che emerge dall'acqua e si arrampica sulla torre di Ero è stata colta un citazione della Battaglia di Cascina di Michelangelo
 
Pan e Siringa La storia è tratta dalle Metamorfosi (Libro I) dove è narrata la vicenda di Pan e Siringa, una casta ninfa seguace di Diana, che, per sottrarsi alle avances del dio, si trasforma in un fascio di canne palustri. Il suono prodotto dal sospiro di dolore di Pan tra le canne indusse questi a creare il suo flauto, tipico attributo del dio pastore (detto appunto flauto di Pan o anche Siringa). Annibale raffigura il momento culminante della favola quando, in un canneto in riva ad un fiume, Pan ha quasi raggiunto la ninfa e questa inizia a trasformarsi. Il Pan di questo bronzo è molto vicino a quello raffigurato da Correggio in una delle lunette della Camera di San Paolo, a Parma
 
Salmaci e Ermafrodito Salmaci (o Salmacide) è una ninfa che viene rapita da una violenta passione per il giovanissimo Ermafrodito (figlio di Mercurio e Venere). Il ragazzo rifiuta con decisione le attenzioni amorose di Salmaci, finché questa, sorprendendo Ermafrodito che fa il bagno in uno stagno, tenta un nuovo vigoroso approccio. Difronte all'ulteriore rifiuto di Ermafrodito, Salmaci prega gli dèi affinché i due divengano inseparabili. L'invocazione è accolta e i loro corpi vengono fusi in un unico essere dai caratteri contemporaneamente maschili e femminili. Nel tondo di Annibale è raffigurato il momento del forzato abbraccio della ninfa che produrrà l'irreversibile unione tra i due. Il medaglione con Salmaci e Ermafrodito è una delle parti peggio conservate della Volta, rovinato da un antico restauro. Anche questa storia è tratta dalle Metamorfosi (Libro IV)
 
Omnia vincit Amor Omnia vincit amor (et nos cedamus Amori) è un verso delle Bucoliche (Egloga X, 69). La traduzione plastica o grafica di questo verso virgiliano, di cui già si legge nei commentari di Servio, fu resa mediante una sorta di gioco di parole, cioè raffigurando Cupido (ossia Amore) che sottomette Pan, in greco Πάν, parola simile a πᾶν, che nella stessa lingua significa tutto. Quindi Amore vince su Pan per significare che l'amore vince su tutto. Nel complesso della Galleria il medaglione può essere letto come una sorta di sintesi del complessivo significato del ciclo, ovvero, nella chiave di lettura moralizzante di origine belloriana, potrebbe rappresentare la vittoria dell'amor sacro sugli istinti sensuali di cui il ferino Pan è simbolo. Nello stesso periodo in cui si procedeva alla decorazione della Volta Farnese, Agostino Carracci realizzava sullo stesso tema una delle sue incisioni più note
 
Apollo e Marsia Marsia, un satiro, sfidò Apollo in una gara musicale. Il dio, dopo aver vinto la gara, punì orrendamente Marsia per la sfrontatezza della sfida, scorticandolo vivo. Gli dèi mossi a pietà tramutarono le lacrime di Marsia cadute a terra in un fiume. A questo epilogo alluderebbe la figura sdraiata, in sembianze di divinità fluviale, sotto l'albero del supplizio (altra interpretazione è che si tratti di Olimpo, amante di Marsia). Nella figura del satiro appeso all'albero è stato colto un rimando alla statuaria antica. Nella sua lettura edificante degli affreschi Bellori assegna questo significato al medaglione: «Apolline che scortica Marsia [va] inteso come la luce della sapienza che toglie all'anima la ferina spoglia». Anche in questo caso il tema è ripreso dalle Metamorfosi (Libro VI)
 
Borea e Orizia Borea, vento del Nord, è innamorato di Orizia, figlia del re Eretteo. Dapprima Borea cerca di ottenere Orizia chiedendone la mano al padre, ma al recalcitrare del re, Borea si fa ragione con la forza rapendo Orizia e portandola via con sé sotto le sue ali (Metamorfosi, Libro VI). Un sintetico brano di paesaggio in lontananza, visto dall'alto, rende l'effetto del volo di Borea e Orizia
 
Orfeo e Euridice Ulteriore derivazione dalle Metamorfosi (Libro X), nel medaglione si narra la storia di Orfeo che, affranto per la prematura morte di sua moglie Euridice, scende agli inferi e riesce a convincere Proserpina, con un canto appassionato al suono della cetra, a consentire che Euridice torni, viva, sulla terra. Vi è però una condizione: fino a quando non siano usciti dalla valle dell'Averno, Orfeo non deve mai volgere lo sguardo verso Euridice che lo segue. Orfeo, però, non riesce a resistere al desiderio di rivedere sua moglie e fatalmente si gira verso di lei. In questo stesso istante - come si vede nel bronzo - Euridice, per la vana disperazione di suo marito, è definitivamente risospinta nell'Ade. È probabilmente uno dei medaglioni più belli della serie, ove meglio si coglie l'abilità di Annibale, secondo l'esempio delle lunette parmensi di Correggio, nel dare, attraverso le ombreggiature, il senso della forma illusionisticamente concava della borchia, dalla quale emergono, altrettanto illusionisticamente, le figure in rilievo
 
Ratto di Europa Ancora una volta la fonte del medaglione è il poema di Ovidio (Libro II). Giove, invaghitosi della prinicpessa fenicia Europa, assume le sembianze di un toro per confondersi con gli armenti del padre di Europa e poterla così avvicinare. Comportandosi come una bestia mansueta - si fa addirittura inghirlandare le corna, come mostrato nel medaglione - carpisce la fiducia della giovane, tanto che Europa si spinge a montargli in groppa. Giove allora fugge verso il mare (nel tondo si vedono i flutti), rapendo la principessa, che poi farà sua (e concependo così Minosse). Si è ipotizzato che la fonte iconografica di questo bronzo possa essere individuata in un antico rilievo con la Nike tauroctona, facente parte delle raccolte vaticane

Le pareti della Galleria

Le pareti della Galleria furono decorate qualche anno dopo la conclusione dell'impresa della Volta, a partire orientativamente dal 1603. Probabilimente la causa di questa interruzione dei lavori fu la necessità di attendere l'ultimazione del ricco apparato in stucco delle pareti cui, secondo alcuni, sovrintese lo stesso Annibale.

La critica moderna, pressoché concorde, coglie nelle pareti un forte salto stilistico rispetto agli affreschi del soffitto. Mentre questi ultimi sono caratterizzati da uno spirito gioioso e gaudente, le storie delle pareti hanno un tono severo e presentano una certa rigidità del tratto[33].

La differenza è, almeno in parte, dovuta alla circostanza che Annibale si avvalse, per questa seconda campagna decorativa nella Galleria Farnese, anche degli allievi bolognesi che nel frattempo lo avevano raggiunto a Roma: dapprima il Domenichino, attivo già sui lati corti, poi anche altri che operarono (insieme allo Zampieri) sulle pareti lunghe.

A giudizio di alcuni studiosi l'intervento degli aiuti, tuttavia, non sarebbe l'unica spiegazione di questa differenza. Parte della critica moderna, infatti, ritiene che le pareti della Galleria non fossero incluse nel programma iconografico originario, ma che siano un'aggiunta posteriore, ideata - si ipotizza da Giovanni Battista Agucchi - come correttivo moralizzante delle scene della Volta, rivelatesi troppo licenziose. L'austerità dello stile degli affreschi delle pareti, quindi, rifletterebbe, secondo questa prospettiva, anche la diversa intenzione con la quale sono stati concepiti[33].

Non tutti condividono questa idea e, in linea con quanto si legge nel Bellori, ritengono le pareti parte di un medesimo progetto iconografico, unitarimente pianificato, sin dall'inizio, per l'intera Galleria. Per quest'altra posizione critica la diversità stilistica rispetto alla Volta va spiegata unicamente con la presenza dei giovani aiutanti di Annibale e con la conseguente necessità da parte sua di adottare uno stile più "semplice", replicabile in modo uniforme dai suoi discepoli. Soluzione che Annibale avrebbe mutuato dall'esempio del Raffaello maturo, quando anche il genio urbinate si trovò a capo di un nutrito gruppo di giovani talenti[34].

Anche l'intervento dell'Agucchi in veste para-censoria non convince tutti, ed anzi si rileva che lo stesso prelato ed esperto d'arte bolognese, proprio in quegli anni, aveva espresso vivo apprezzamento per un'opera di Annibale dall'esplicito significato erotico (e forse connessa all'impresa della Galleria) quale la Venere dormiente con amorini.

Pareti corte

Le prime ad essere affrescate furono le pareti corte della Galleria dove, in due grandi riquadri che occupano quasi l'intera larghezza del muro, sono raffigurate le storie di Perseo. Anche in questo caso la fonte da cui sono tratte le scene sono le Metamorfosi ovidiane.

Perseo e Andromeda

 
Perseo e Andromeda

Andromeda è una principessa etiope. Sua madre, vantandosi, aveva detto che Andromeda fosse più bella delle nereidi, al che, Ammone (divinità del luogo), ritenendo l'affermazione oltraggiosa, ordinò che Andromeda fosse data in pasto ad un mostro marino[35].

Quando la giovane è già incatenata ad uno scoglio, sopraggiunge Perseo che se ne innamora all'istante. L'eroe si rivolge ai disperati genitori della principessa e promette loro di salvare Andromeda se essi gliela daranno in sposa. Questi naturalmente accettano e Perseo prontamente uccide il mostro, liberando la giovane.

Annibale ha introdotto delle varianti al racconto di Ovidio (Libro IV): mentre nelle Metamorfosi Perseo si libra in volo grazie ai calzari alati ricevuti da Ermes, nel dipinto (in alto a sinistra) egli è in groppa a Pegaso; inoltre, se in Ovidio l'arma con la quale Perseo uccide il mostro è una spada, nell'affresco egli utilizza la testa di Medusa che precedentemente aveva decapitato.

La patetica espressione di Andromeda - il cui estremo pallore è una citazione da Ovidio, che descrive la principessa terrorizzata «simile ad una statua marmorea» - è stata messa in relazione all'Estasi di santa Cecilia, opera bolognese di Raffaello.

Padre e madre di Andromeda (a destra) sono largamente ritenuti un apporto del Domenichino: alcune esitazioni e una certa goffaggine delle figure tradirebbero l'età ancora molto giovane dell'allievo di Annibale. Anche il gruppo di astanti a sinistra dei genitori è considerato un contributo di bottega, ma di più alta qualità e quindi attribuibile ad un aiuto in quel momento più esperto dello Zampieri.

Per il Bellori Andromeda legata allo scoglio e in balìa del mostro esprime come «l'anima allacciata dal senso divenga pasto del vizio, qualora Perseo, cioè la ragione e l'amor onesto, non la soccorre».

Perseo e Fineo

 
Perseo e Fineo

È‎ il seguito dell'episodio precedente (Metamorfosi, Libro V). Fineo, zio e già promesso sposo di Andromeda, irrompe, col suo seguito di armati, nel palazzo reale dove stanno per celebrarsi le nozze tra Perseo e la principessa che l'eroe ha poco prima tratto in salvo[36].

Fineo ritiene di essere stato tradito ed oltraggiato dalla rottura della precedente promessa di matrimonio con Andromeda e a nulla valgono le spiegazioni del padre di lei che tenta di fargli capire che accettare la richiesta di Perseo è stato l'unico modo per salvare la vita della giovane. Ne scaturisce una furiosa battaglia, al culmine della quale, Perseo, vedendosi ormai soverchiato dai numerosi nemici, estrae la testa di Medusa e li pietrifica.

Fineo, atterrito dal prodigio, invoca la clemenza di Perseo, ma per lui non ci sarà pietà: a sinistra nell'affresco (con qualche licenza rispetto al racconto di Ovidio) un compagno dell'eroe gira con forza la testa di Fineo, implorante in ginocchio, verso Perseo che regge la testa della gorgone. Immediatamente inizia la trasformazione di Fineo in una statua. Annibale raffigura questo evento nel corso del suo stesso accadere: la testa e il torso di Fineo sono già di marmo, mentre le sue gambe sono ancora di carne.

La scena abbonda di citazioni di antiche sculture (non solo nelle figure pietrificate). Fineo rimanda al cosidetto Gladiatore Borghese e al Torso del Belvedere, mentre la figura di Perseo riecheggia l'Apollo del Belvedere. Nel combattente che giace morto a destra (sotto i due compagni di Fineo divenuti di marmo) è ripresa la statua di un Gigante caduto, copia romana (già in possesso dei Farnese ed ora a Napoli) di una delle statue del Piccolo Donario Pergameno, fatto erigere ad Atene. Dietro il tavolo rovesciato (al centro), infine, è sommariamente raffigurato un rilievo riconducibile a quello con Marco Aurelio che officia un sacrificio, uno degli episodi che istoriavano l'arco trionfale dello stesso imperatore (Musei Capitolini).

Notevole, infine, è la raffigurazione del ricco vasellame, altro possibile punto di contatto con gli affreschi mantovani di Giulio Romano (ed in particolare con la scena del Banchetto di Amore e Psiche.

Nell'affresco con Perseo e Fineo, parte della critica ha visto il maggior punto d'approdo dell'evoluzione di Annibale verso quello che è stato definto stile ideale, caratterizzato dalla ricerca della perfezione del disegno e del rigore della forma, stile cui sono improntanti gli ultimi anni della sua vicenda artistica.

Pur tra i testi di apertura del filone classicista della pittura del Seicento, il Perseo e Fineo di Annibale, per la sua capacità eternare l’attimo che si evince nelle figure trasformate in pietra, ha avuto un rilevante influsso sulla scultura barocca romana. Una notevole ripresa di questo riquadro della Galleria si trova in un dipinto di identico soggetto, eseguito da Luca Giordano circa settant’anni dopo.

Per il Bellori l'allegoria morale della favola sta nell'identificazione di Medusa con la voluttà che muta in sasso Fineo e i suoi compagni.

Pareti lunghe

 
Vergine con l'unicorno

Ultimo atto della decorazione della Galleria, le pareti lunghe vennero portate a compimento intorno al 1606-1607[37]. Scarso fu il contributo esecutivo di Annibale - ormai già malato - che forse si limitò solo alla preparazione del cartone della Vergine con l'unicorno, dipinta dal Domenichino, e all'ideazione delle altre scene, affrescate dagli allievi, tra i quali, oltre allo stesso Domenichino, pare sicura la presenza di Sisto Badalocchio e di Giovanni Lanfranco, mentre è discussa quella di Francesco Albani e di Antonio Carracci.

Il programma delle pareti lunghe è piuttosto articolato. La scena più significativa è la già menzionata Vergine con l'unicorno, - animale fantastico emblema dei Farnese - che è collocata sull'unica porta di ingresso alla Galleria che si apre sui lati lunghi (precisamente su quello orientale). In questo notevole affresco, il Domenichino - anche se probabilmente si è avvalso della guida del suo maestro, ritenuto l'autore del cartone - dà di sé ben altra prova rispetto ai primi incerti interventi sui lati brevi.

La decorazione delle pareti lunghe prosegue con la rappresentazione di quattro figure di virtù, due per parete, collocate in un ovale all'estremità di ogni lato. Si tratta della Forza, della Carità, della Giustizia e della Temperanza.

 
La Forza, dettaglio parete Est

Il Bellori assegna una particolare valenza iconografica alle quattro virtù. Per lo storico, infatti, ogni virtù andrebbe associata a ciascuna delle singole scene con Eros e Anteros agli angoli della Volta. La coppia formata dalla singola virtù e dallo specifico episodio con Eros e Anteros suddividerebbe tutte le storie della Galleria in quattro classi di amori: amori sotto il dominio della Forza, amori sotto il dominio della Carità e così via per le restanti virtù. La tesi del Bellori non gode di particolare fortuna tra gli storici moderni - tanto più per quelli che ritengono il progetto iconografico delle pareti ideato in un momento successivo - anche se di recente essa è stata oggetto di un'importante rivalutazione[38].

Nel registro alto delle pareti lunghe, nello spazio inquadrato dai pilastri, vi sono, alternate a nicchie che ospitavano antichi busti in marmo (oggi ve ne sono delle copie), quattro piccole scene mitologiche per parete, per un totale di otto storiette, accomunate dal fatto di riferirsi a miti connessi alla nascita di costellazioni. Si tratta delle seguenti storie: Minerva e Prometeo, Arione e il delfino, Ercole e il drago, Ercole libera Prometeo, Mercurio e Apollo, Calisto trasformata in orsa, Diana e Calisto, Dedalo e Icaro.

Sotto ognuna di queste storiette compaiono, ripetutamente su tutte e due le pareti, le imprese di quattro membri della stirpe dei Farnese: il cardinale Alessandro, il duca Alessandro, il cardinale Odoardo e il duca Ranuccio.

Tecnica di realizzazione

 
Parte del cartone del Trionfo di Bacco con il gruppo del Sileno, Urbino, Galleria nazionale delle Marche

Le storie della Galleria Farnese furono realizzate ad affresco con non poche rifiniture a secco.

Il ciclo fu progettato con cura da Annibale (e, in parte, da suo fratello Agostino), come dimostra l’amplissimo numero di disegni preparatori conservatisi (le due maggiori raccolte di tali disegni si trovano al Louvre e nelle collezioni di Windsor Castle).

La meticolosità con la quale Annibale progettò gli affreschi della Galleria Farnese è un'ulteriore testimonianza del recupero della grande tradizione rinascimentale italiana costituito dall'impresa della Galleria, segnato dal rifiuto di quella prestezza esecutiva che il tardomanierismo raccomandava.

Ulteriore ripresa rinascimentale è data dall’utilizzo di una tecnica di stesura del colore, su ampia parte della superficie dipinta, puntinata, che esalta gli effetti di luce ed ombra. Accorgimento cui Annibale aggiunse, per una ancor più netta definizione dei chiaroscuri di alcune parti, il ricorso a fitti tratteggi che marcano le zone più in ombra, tecnica che verosimilmente mutuò dalla pratica incisoria, di cui sia lui che suo fratello furono tra i principali maestri del loro tempo[39].

L'efficace resa degli effetti luministici, d'altronde, è uno dei pregi riconosciuti dell'impresa di Palazzo Farnese: la meticolosità con cui Annibale avrebbe studiato questo aspetto è testimoniata anche dal Bellori, a dire del quale il pittore avrebbe realizzato dei modelletti in creta delle scene da affrescare per rendere con la maggior verosimiglianza possibile gli effetti della luce che batte su una superifice (che si finge) tridimensionale.

La stesura del colore sui muri fu preceduta dall’applicazione di un disegno guida con la tecnica dello spolvero, mediante l'utilizzo di cartoni.

Gli unici cartoni della Galleria giunti sino a noi sono una parte di quello per il Trionfo di Bacco e Arianna (conservato presso nella Galleria nazionale delle Marche di Urbino) - relativa al gruppo del Sileno ebbro che incede a dorso di mulo - e quelli degli affreschi eseguiti da Agostino Carracci (autore anche dei cartoni), entrambi presso la National Gallery londinese.

La fortuna critica degli affreschi della Galleria Farnese

 
Pietro Aquila su disegno di Carlo Maratta, 1674, Allegoria di Annibale Carracci che risolleva le sorti della pttura, frontespizio della raccolta di incisioni "Galeria Farnesianae Icones"

Fonti

Bibliografia essenziale

  • Tomaso Montanari, Il Barocco, Einaudi, Torino, 2012.
  • Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, Electa Mondadori, Milano, 2008.
  • Stefano Colonna, La Galleria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma. Eros, Anteros, Età dell'Oro, Cangemi Editore, Roma, 2007.
  • Silvia Ginzburg Carignani, Annibale Carracci a Roma, Donzelli, Roma, 2000.
  • Charles Dempsey, The Farnese Gallery, Rome, George Braziller, New York, 1995.
  • Roberto Zapperi, Annibale Carracci, Einaudi, Torino, 1988.
  • Giuliano Briganti, André Chastel, Roberto Zapperi (a cura di), Gli amori degli dei: nuove indagini sulla Galleria Farnese, Edizioni dell'Elefante, Roma, 1987.
  • Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Phaidon Press, Londra, 1971.
  • John Rupert Martin, The Farnese Gallery, Princeton University Press, Princeton, 1965.
  • Denis Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, The Warburg Institute University of London, Londra, 1947.

Altre immagini: sculture antiche riprese negli affreschi della Galleria

Note

  1. ^ Tomaso Montanari, Il Barocco, Torino, 2012, p....
  2. ^ Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, Firenze, 1979, Vol. II, p. 146.
  3. ^ Tra le possibili fonti di influenza sugli affreschi di Annibale è spesso citata anche la Loggia Orsini a Roma, affrescata dal Cavalier d'Arpino tra il 1583 e il 1589, la cui ideazione iconografica è attribuita a Torquato Tasso. Anche in questo precedente figurativo si celebra un matrimonio, cioè quello tra Virginio Orsini e Flavia Peretti (pronipote di Sisto V).
  4. ^ Tutti i riferimenti al Bellori contenuti nella voce sono relativi a quanto egli racconta a proposito della Galleria Farnese nelle Vite. Cfr. Evelina Borea (a cura di), Giovan Pietro Bellori - Le Vite de' Pittori, Scultori e Architetti Moderni, 2009, Vol. I, pp. 57-77.
  5. ^ È stato però osservato che alcuni componimenti poetici dedicati alla nozze tra il duca Farnese e la nipote del papa, pur non citando direttamente gli affreschi di Annibale, associano Margherita Aldobrandini ad Arianna.
  6. ^ Diane De Grazia, L'altro Carracci della Galleria Farnese: Agostino come inventore. In Les Carrache et les décors profanes: Actes du Colloque organisé par l'ecole française de Rome 2-4 Octobre 1986, Roma, 1988, pp. 110-111.
  7. ^ L’ipotesi si fonda sul rilievo che un testo – anch'esso connesso al matrimonio di Ranuccio Farnese con Margherita Aldobrandini – di uno dei più insigni esponenti di questa Accademia, La Montagna Circea (1600) di Melchiorre Zoppio, mostra consonanze tematiche con gli affreschi farnesiani (e in particolare con il Trionfo di Bacco e Arianna). I Gelati inoltre intrattennero rapporti sia con i Carracci (ed in particolare con Agostino) sia con gli Aldobrandini (sempre che questa casata fosse effettivamente interessata all'impresa decorativa di Palazzo Farnese, circostanza ovviamente non valida per chi nega che la Volta della Galleria sia legata alle nozze Farnese-Aldobrandini). Sul punto cfr. Silvia Ginzburg Carignani, Annibale Carracci a Roma, Roma, 2000, pp. 135-150.
  8. ^ Stefano Colonna, Pomponio Torelli, Annibale e Agostino Carracci e la teoria degli affetti nella Galleria Farnese. Il rapporto tra le Corti farnesiane di Parma e Roma, in Il debito delle lettere - Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine Cinquecento, Milano, 2012, pp. 131-147.
  9. ^ La descrizione delle scene contenuta nelle sezioni successive e le singole notizie relative a ciascun quadro riportato sono tratte, ove non riferite ad altri autori, dal volume di Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, Milano, 2008.
  10. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 60-62.
  11. ^ Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Londra, 1971, Vol. I, p. 93.
  12. ^ Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Londra, 1971, Vol. I, p. 108.
  13. ^ L'incisione di Marcantonio Raimondi sul sito del Princeton University Art Museum
  14. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 64-67.
  15. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., p. 83.
  16. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 96-98.
  17. ^ Si tratta de "Il rapimento di Cefalo rappresentato nelle nozze della cristianissima Maria Medici Regina di Francia e di Navarra", scritto nel 1600 in occasione del matrimonio tra Maria de' Medici ed Enrico IV di Francia.
  18. ^ Per l'accostamento all'opera di Gabriello Chiabrera e per le derivazioni dal dipinto di Agostino Carracci, cfr. Irving Lavin, Cephalus and Procris: Transformations of an Ovidian Myth, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, Vol. 17, n. 3/4, 1954, pp. 280-284.
  19. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., p. 113.
  20. ^ Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Londra, 1971, Vol. I, p. 102.
  21. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 222-226.
  22. ^ Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Londra, 1971, Vol. I, p. 107.
  23. ^ Che la data in questione sia davvero quella di conclusione degli affreschi del soffitto è circostanza che è stata messa in dubbio dopo il ritrovamento di un avviso del giugno 1601 nel quale si dà la notizia del disvelamento della Volta Farnese alla presenza di Pietro Aldobrandini. Questa scoperta, oltre a mettere in forse la data di ultimazione dei lavori, ha messo ulteriormente in discussione anche la funzione epitalamica degli affreschi, apparendo incongruo che il ciclo sia stato portato a termine ben un anno dopo l’evento che avrebbe dovuto celebrare (il matrimonio tra il duca di Parma e la nipote di Clemente VIII è infatti del maggio 1600; per la scoperta dell'avviso e le sue possibili implicazioni Cfr. Roberto Zapperi in Mélanges de l'École Française de Rome. Moyen-Age,Temps Modernes, Roma, vol. 2, tomo 93, 1981, pp. 821-822). Spiegazione alternativa del dispaccio, formulata dalla studiosa Silvia Ginzburg (Annibale Carracci a Roma, op. cit., pp. 131-133), che fa salve le consolidate ipotesi sui tempi di completamento dell’opera e sulla sua natura di celebrazione nuziale, è che esso dia conto di una cerimonia ufficiale di presentazione della decorazione della Volta, ferma restando la sua già avvenuta ultimazione entro il maggio del 1600 - segnata appunto dalla data MDC -, in tempo per il matrimonio che avrebbe occasionato l'impresa.
  24. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 160-162.
  25. ^ Una copia di questa incisione sul sito del Metropolitan Museum of Art di New York
  26. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 175-181.
  27. ^ L'orazione del Faberio (o Faberi), notaio della compagnia dei pittori a Bologna, è riprodotta da Carlo Cesare Malvasia nel capitolo dedicato al funerale di Agostino Carracci della sua Felsina Pittrice - 1678.
  28. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 192-194.
  29. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., p. 135.
  30. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., p. 124.
  31. ^ Per i medaglioni cfr. Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 76; 93; 102; 121; 155; 171; 182; 202.
  32. ^ Un esempio di queste monete
  33. ^ a b Donald Posner, Annibale Carracci: A Study in the reform of Italian Painting around 1590, Londra, 1971, Vol. I, pp. 123-125.
  34. ^ Silvia Ginzburg Carignani, Annibale Carracci a Roma, Roma, 2000, pp. 162-165.
  35. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 241-249.
  36. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., p. 250-260.
  37. ^ Silvia Ginzburg, La Galleria Farnese, cit., pp. 262-290.
  38. ^ Fautrice di questa rivalutazione è la studiosa Silvia Ginzburg, che argomenta diffusamente sul tema nel volume: Annibale Carracci a Roma, Roma, 2000.
  39. ^ Silvia Ginzburg Carignani, Annibale Carracci a Roma, Roma, 2000, p. 35.
  40. ^ Parzialmente pubblicato nel volume Diverse Figure al numero di ottanta, Disegnate di penna Nell'hore di ricreatione da Annibale Carracci intagliate in rame, e cavate dagli Originali da Simone Guilino Parigino, dedicate a tutti i Virtuosi et Intendenti della Professione della Pittura, e del Disegno, edito nel 1646 a cura di Giovanni Atanasio Mosini (pseudonimo di Giovanni Antonio Massani, segratario dell'Agucchi).