Seconda guerra di Morea

conflitto del 1716-1718
Seconda guerra di Morea (1714-1718)
parte Guerre turco-veneziane
La Morea
Data9 dicembre 1714 - 21 luglio 1718
LuogoMorea, Dalmazia, Mar Egeo
Casus belliCattura di una nave ottomana e asilo politico dato al vladica di Montenegro da parte di Venezia
EsitoParziale vittoria turca; Vittoria austriaca
Modifiche territorialiVenezia: perdita della Morea e annessioni territoriali in Dalmazia; Impero ottomano: annessione della Morea e cospicue perdite territoriali nei Balcani; Asburgo d'Austria: cospicue annessioni territoriali nei Balcani
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
60.000 (25.000 regolari, 24.000 mercenari, 12.000 ausiliari montenegrini e morlacchi)oltre 100.000 uomini impegnati contro Venezia in Morea e Dalmazia fino al 1716
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Contesto storico

Alla fine del gennaio 1699 si concludevano a Carlowitz i negoziati di pace tra l’Impero Ottomano e i vittoriosi componenti della Lega costituitasi tra il 1683 e il 1686 in avversione al Turco. Fra di essi vi faceva parte pure Venezia, la quale dopo 15 anni di ininterrotte campagne belliche grazie alle imprese del “peloponnesiaco” Francesco Morosini acquistava nuovi territori nell’ Oltremare. La Dalmazia, i cui confini raggiunsero la cosiddetta linea Grimani, dal nome del commissario veneto che li delimitò, era ampliata con i territori delle città di Knin, Sign e Ciclut, così come le coste del Montenegro (Albania veneta) dove venivano annesse Castelnuovo e Risano; nel mar Jonio entrava a far parte della Repubblica l’isola di Santa Maura, nell’arcipelago del mar Egeo l’isola di Egina, e infine il Regno di Morea, l’odierno Peloponneso, sino all’istmo di Corinto. Veniva altresì eliminato il tributo annuale di 1.500 ducati che sino ad allora da oltre cent’anni la Serenissima aveva dovuto corrispondere alla Porta per il mantenimento del possesso di Zante (500 ducati dal 1503, stabiliti a 1.500 nel 1573). Tali conquiste portavano lo Stato da mar a un notevole ingrandimento territoriale, anche se il sultano ottomano per mezzo dei propri rappresentanti a Carlowitz fu risoluto a non cedere a Venezia le altre terre poste a nord della Morea cadute pure esse in mano della Repubblica nel corso del conflitto: Atene, l’Attica e la piazzaforte di Lepanto, le quali avrebbero permesso di arginare e difendere con maggior efficacia una potenziale futura offensiva turca via terra diretta nel Regno.

La conquista turca della Morea

Non passò molto tempo che l’Impero Ottomano meditò di riprendersi quanto era stato costretto a cedere alla Serenissima pochi anni prima e recuperare quindi il controllo dell’Egeo. I turchi avevano ripreso fiducia in merito alle proprie capacità belliche a seguito dell’esito fortunato della guerra contro la Russia nel 1711, ed oltretutto Venezia con la proclamazione della neutralità al conflitto dinastico per il trono spagnolo, era rimasta isolata diplomaticamente. Il momento per aprire una ennesima recrudescenza armata con la Repubblica fu perciò considerato propizio, e il 9 dicembre del 1714 cogliendo a pretesto la cattura di una nave ottomana e l’asilo politico dato al vladica di Montenegro che sconfitto dalle armate turche si era rifugiato a Cattaro dove i veneziani avevano poi rifiutato di consegnarlo, il Gran Visir Alì Pascià arrestò il Bailo veneziano di Costantinopoli dichiarando guerra alla città lagunare. Già dall’aprile il Provveditore generale in Regno Antonio Loredan aveva posto in guardia la Dominante sugli ingenti preparativi militari effettuati dalla Porta, ma il suo sostituto, Alessandro Bon, poteva opporre al turco solamente poco più di 7.000 uomini regolari e scarse milizie locali. In un dispaccio alla Repubblica lamentò infatti egli, di come Napoli di Romania, capitale del Regno, possedesse solamente 1.269 soldati, e quantunque si aspettasse un rinforzo di oltre 500 teste, la difesa del sito ne richiedeva almeno 3.000. L’apporto dei greci abitanti di Morea nei confronti dei veneziani si rivelò tra l’altro piuttosto scarno, soprattutto perché essi sotto i turchi avevano goduto di larghe autonomie, a discapito invece delle misure accentratrici di Venezia, presenti sia dal punto di vista commerciale che da quello religioso (vigeva il divieto di comunicare con il patriarcato di Costantinopoli). Perfino i Mainotti (residenti nella Maina), da sempre conosciuti come i più zelanti sostenitori della presenza veneziana in Morea, titubavano ad appoggiare la Serenissima per non esporre il proprio paese a saccheggi e devastazioni da parte dei turchi. La Repubblica si appellò al Pontefice e all’Impero per ricevere sostegni in prossimità della nuova guerra, ma se il primo assicurò un simbolico sostegno con 6 galeotte e 4 galere, l’Austria, reduce dal lungo conflitto di successione spagnolo, esitava a distogliere truppe dal sud Italia dove si temeva una spedizione militare degli iberici volta al recupero delle terre perse, e si mostrò indifferente, attuando solamente il riarmo e intavolando negoziato con la Porta . Date le esigue forze disponibili rispetto alla vastità del territorio da difendere, costituito da ben 1600 chilometri di coste frastagliate, fu altresì deliberato dai veneziani di abbandonare le zone di Mistrà, Calamata, Calavvita, Gastuni, Arcadia, Patrasso, concentrando armati e abitanti nella difesa delle piazze di Napoli di Romania (Nauplia), Corinto, Malvasia, Modone, Castel di Morea, e delle due fortezze di Chielafà e Zarnata, poste nel sud del Peloponneso nella penisola della Maina. Le piazzeforti della Morea erano appena state rimodernate dalla Serenissima negli ultimissimi anni di permanenza nel Regno, tuttavia l’avanzata ottomana fu tanto rapida quanto fortunosa. L’attacco fu pianificato per l’estate del 1715. La flotta turca, complessivamente forte di oltre 150 legni da guerra, il 5 giugno sbarcò armati presso Tino, isola veneziana dell’Egeo, la quale, su decisione del governatore Bartolomeo Bobbi e del comandante Bernardo Balbi che constatarono il mancato appoggio dei greci, capitolò senza combattere. Il presidio della piazzaforte fu trasportato a Nauplia, dove il Balbi fu giudicato per la propria condotta e condannato alla prigione perpetua, stessa sorte riservata anche a Francesco Bembo, arresosi il 7 luglio nell’ultima isola dell’Arcipelago in mano a Venezia, Egina. Contemporaneamente l’armata di terra ottomana costituita da 100.000 uomini al comando del Gran Visir, penetrava in Morea dall’istmo di Corinto il 20 giugno, cingendo d’assedio l’omonima piazza 9 giorni più tardi. Nonostante i propositi di resistenza del Provveditore straordinario Giacomo Minotto, il 4 luglio dopo un intenso bombardamento che fece crollare il portone principale i veneziani si arresero. Analoga fu la sorte a cui andò incontro Napoli di Romania, difesa da 2.000 regolari e 1.000 volontari circa. Seppure la bontà delle fortificazioni fece sperare una lunga resistenza, l’inesperienza degli artiglieri, la scarsità delle forze e la mancanza di minatori contribuirono fortemente alla caduta del sito il 17 luglio dopo 9 giorni di assedio, complice soprattutto l’audace azione di un commando turco, il quale impadronitosi del molo arrivandovi a nuoto e scalando la muraglia, dove non erano presenti difensori occupati a respingere l’attacco via terra, penetrò indisturbato in città. Alla perdita di Nauplia tenne dietro quella di Castel di Morea l’8 agosto, stretta in blocco dai turchi da solo 4 giorni, di Modone per l’ammutinamento del presidio al Provveditore Vincenzo Pasta che invece era intenzionato a continuare a resistere, e infine di Malvasia, la più munita fortezza veneziana del Regno eretta su uno scoglio in posizione quasi imprendibile a detta degli stessi ottomani, capitolata per volontà del Provveditore Federico Badoer senza che fosse stato sparato un colpo di fucile, il quale fu posto anch’egli in prigione per ciò. Alla fine di agosto l’intera Morea con l’isola di Cerigo giaceva nuovamente in potere degli ottomani, che in pochi mesi avevano dissolto l’impero creato da Francesco Morosini in anni di guerre. Il Capitano generale da Mar Daniele Dolfin e il comandante dell’Armata Grossa (composta da unità navali a vela) Fabio Buonvinci, nel corso dell’offensiva ottomana in Morea rimasero inattivi non prestando neanche rifornimenti e soccorsi adeguati alle piazze assediate dal Pascià di Candia La Suda e Spinalonga, le uniche che Venezia aveva conservato nell’isola, per il forte numero di unità navali nemiche intente a bloccare i siti, caduti infine nel novembre 1715 dopo una resistenza di più di 4 mesi. Il prossimo obiettivo ambito dai turchi allo scopo di togliere alla Serenissima oltre che il controllo dell’Egeo anche quello del Mar Jonio, era l’isola di Santa Maura, luogo in cui Dolfin si era ritirato con la flotta a seguito della perdita del Peloponneso. Appreso che la Porta presto vi avrebbe sbarcato una forza ingente per porre l’assalto alla fortezza, la consulta di guerra riunitasi, appurata l’impossibilità ad effettuare ogni seria resistenza, stabilì l’evacuazione di Santa Maura da parte di difensori e abitanti, e la distruzione di ogni fortificazione. La campagna bellica del 1715 finì dunque in modo disastroso per la Repubblica, la quale aveva visto il Proprio Stato da Mar dimezzarsi territorialmente nello scacchiere dell’estremo oriente, e l’accrescimento di un serio pericolo anche per le isole dell’Arcipelago dello Jonio. Solamente in Dalmazia si riuscì a respingere l’attacco ottomano a Sinj volto comunque principalmente a distogliere dal Levante forze veneziane, e non ad operare una conquista vera e propria.

La lega tra Venezia e gli Asburgo d'Austria

Già a partire dalla fine del 1714, su consiglio del principe Eugenio di Savoia comandante delle truppe austriache, Venezia aveva contattato uno dei più valenti generali europei esistenti all’epoca da mettere a capo delle proprie forze armate terrestri, il sassone Johann Matthias Von der Schulenburg. Quest’ultimo, in dicembre, recatosi a Vienna, iniziò le trattative di ingaggio con l’ambasciatore veneziano Pietro Grimani, ma date le sue richieste esorbitanti alla metà dell’anno successivo si era quasi giunti ad una rottura delle relazioni. Fu lo stesso Eugenio a consigliare allo Schulenburg di accettare l’incarico richiesto dalla Serenissima, il quale intendeva liberarsi in tal modo di un potenziale pericoloso avversario che poteva mettere in discussione la propria posizione in seno all’esercito austriaco. Egli convinse definitivamente il condottiero sassone ad abbracciare il partito della Repubblica, evento coronato con la nomina triennale a Federmaresciallo alla fine del 1715 (per la prima volta Venezia subordinava la carica di Capitano generale da Mar a quella di comandante delle forze di terra, simboleggiando in tal modo l’importanza assunta dai soldati rispetto alla flotta), prospettando una prossima entrata in guerra dell’Austria contro la Porta. Effettivamente la posizione di non belligeranza mantenuta dagli Asburgo sul principio del conflitto turco-veneziano, stava incrinandosi progressivamente in favore dell’intervento armato. La tracotanza ottomana, acuitasi con le facili vittorie ottenute in Morea, fece intendere all’Austria la possibilità non remota di un prossimo attacco turco in Ungheria nel caso il Sultano si fosse impossessato anche della Dalmazia Veneta, venendo a rafforzare oltretutto le proprie posizioni in Adriatico a discapito pure dell’Impero. La Lega con Venezia fu infine stipulata il 16 aprile 1716. Essa prevedeva, oltre all’alleanza volta a combattere gli infedeli, una mutua difesa dei rispettivi domini in Italia. Da parte propria la Serenissima si impegnava nel caso di attacco spagnolo nelle terre della Penisola in mano all’Austria, a fornire 8 navi e 6.000 fanti, mentre nel caso di attacco turco avrebbe contribuito con 800 uomini e 12 navi.

L'assedio di Corfù

Con la perdita dei possedimenti nell’Egeo e l’evacuazione di Santa Maura, era diventato indubbiamente certo che il prossimo attacco della Porta sarebbe stato diretto contro il più importante sito del Levante rimasto a San Marco: Corfù. La posizione di tale isola, considerata la porta dell’Adriatico, era estremamente importante visto che la sua caduta avrebbe permesso all’Impero Ottomano di minacciare direttamente Venezia all’interno del Golfo effettuando una manovra a tenaglia sulla Dalmazia con un assalto congiunto dalla parte di terra e mare. In mancanza di basi di appoggio presenti nelle coste dalmate la Repubblica sarebbe stata soffocata nelle proprie lagune, con grave pericolo per la propria esistenza. Per questi motivi nella classe del patriziato vigeva uno stato di apprensione riguardo i futuri fatti d’arme in cui sarebbe stata coinvolta la Serenissima. Von der Schulenburg raggiunse Corfù il 15 febbraio 1716, ponendosi immediatamente a riattare le fortificazioni, costruire nuovi trinceranti tra il Monte d’Abramo e il Monte S. Salvatore. Provveditore di Corfù era Vettore da Mosto, la fanteria era capitanata dai Sergenti maggiori di battaglia Jeager e Sala, l’artiglieria dal brigadiere Lora. Gli uomini del presidio constavano a circa 2.000, costituiti da 1.429 tedeschi, 311 veneti (i sudditi di San Marco provenienti dalla Penisola in tutto non saranno più di 700 a concorrere alla difesa), 249 parmensi, ai quali pervenne a luglio un rinforzo di 1.112 oltremarini e greci. Tuttavia i difensori, dei quali 1/3 era malato e le truppe tedesche male armate e indisciplinate, dovevano opporsi a una forza nemica di quasi 30.000 teste sbarcate a Corfù l’8 luglio. Il 24 dello stesso mese fu intrapreso il primo attacco contro la Fortezza Nuova, respinto dall’artiglieria, ma il giorno successivo i turchi riuscirono a penetrare nel borgo del Mandracchio nella parte nord-occidentale della città, da dove poterono effettuare il bombardamento terrestre della piazza. Dopo manovre volte a saggiare la resistenza delle fortificazioni, il 1 agosto iniziò l’assalto decisivo protrattosi per 3 giorni sulle alture poste nei pressi di Corfù dalle quali poter tenere sotto tiro con pezzi d’artiglieria la città. I tedeschi sgombrarono il Monte S. Salvatore dopo una flebile resistenza, mentre gli Schiavoni mantennero con eroismo fino al 3 agosto le posizioni sul Monte d’Abramo, tuttavia decimati dovettero infine cedere il passo agli ottomani. Le proposte di resa pervenute al Loredan furono sdegnosamente respinte, e il morale degli assedianti fu risollevato l’8 agosto dalla notizia della vittoria austriaca di Petervaradino avvenuta pochi giorni prima, e dalla comunicazione dell’imminente arrivo di nuovi rinforzi, pervenuti il 15 agosto in numero di 1.500 uomini circa. Sino ad allora le perdite subite dagli assediati ammontavano a poco più di 500 teste, ed estromessi gli inabili ai combattimenti ora lo Schulenburg poté contare su una forza complessiva di 4.000 soldati. La notte del 19 il condottiero sassone decise quindi di ordinare una sortita per riconquistare il Monte d’ Abramo. Deputati all’impresa furono 600 oltremarini e 300 tedeschi, ma sebbene inizialmente gli schiavoni ottennero qualche successo contro il nemico, alcuni oltramontani presi dal panico presero a sparare all’impazzata uccidendo 60 dalmati, sbandando e provocando poi una fuga generale. Il contrattacco turco non si fece attendere. Già all’alba a seguito dell’occupazione di un rivellino, 3.000 giannizzeri scalarono lo Scarpone, ai piedi della Fortezza Nuova, che fu preso con il ritiro immediato dei 400 tedeschi incaricati della sua difesa, cui seguì l’assalto generale al forte stesso. Per 6 ore divampò lo scontro ai piedi delle mura, e Schulenburg, conscio del sopraggiunto momento decisivo per le sorti dell’intero assedio, si pose alla guida di 800 italiani e oltremarini in un eroico contrattacco che portò alla riconquista dello Scarpone e alla rotta degli ottomani, i quali lasciarono sul campo 1.200 uomini a fronte dei 300 caduti fra i difensori. Come se non bastasse il 20 agosto si scatenò un violento nubifragio che provocò ingenti danni all’accampamento turco, al materiale d’assedio e alle navi, demoralizzando ulteriormente gli attaccanti, i quali il 21 agosto tolsero il blocco al sito reimbarcandosi. Poco dopo gli armati della Porta lasciarono anche Santa Maura, che tornò in possesso di Venezia. Con tale vittoria dei veneziani era stato salvato quanto rimasto dello Stato da Mar della Repubblica, e inferto un duro colpo all’Impero Ottomano in un assedio costato alla Porta 15.000 uomini, la metà della forza preposta alla conquista di Corfù, contro le 3.000 perdite subite dai soldati di stanza nella città. A Schulenburg, l’artefice della resistenza marciana nell’isola, fu mostrata riconoscenza da parte della Serenissima mediante, oltre alla concessione di una pensione vitalizia di 5.000 ducati annui e il dono di una spada gioiellata, l’erezione di una statua sul luogo dell’assedio nel 1716 ad opera di Imbianci (onore spettato solamente a Francesco Morosini in precedenza), e sempre nel XVIII secolo un’altra scultura raffigurante il generale prese posto a Verona, luogo in cui egli risiedette sino alla morte.

Gli ultimi anni di guerra e la pace

A seguito del felice esito della resistenza di Corfù, e complici anche le molteplici vittorie campali nei Balcani ottenute dal generale austriaco Eugenio di Savoia, Venezia per il resto della durata della guerra volse all’attacco le proprie truppe sia nel quadrante levantino che nella Dalmazia. Già pochi giorni dopo la ritirata turca da Corfù, Schulenburg espugnò la piazza di Butrinto nell’Epiro, cui tennero dietro nel 1717 quelle di Prevesa e Vonizza, con le quali veniva assunto il controllo dell’insenatura di Arta. Nello stesso anno, in Dalmazia, il provveditore generale Alvise Mocenigo respinse un nuovo attacco contro Sinj, e con l’arrivo dei mercenari tedeschi e svizzeri conquistò Imoski. Tuttavia a differenza del precedente conflitto di Morea la Repubblica evitò di spingere le forze terrestri in un’avanzata continentale nelle terre d’Oltremare, limitandosi alla presa di pochi siti costieri ritenuti di una certa importanza strategica. Ai fini delle annessioni territoriali poca rilevanza ebbero le vittorie veneziane ottenute in vari scontri navali tra il 1717-’18. Una piazzaforte d’Epiro di particolare rilevanza di cui ci si voleva impadronire in quanto covo di pirati, Dulcigno, portò il Capitano generale da Mar Andrea Pisani (Dolfin era stato sollevato dall’incarico alla fine del 1715), a sbarcarvi il 23 luglio 1718 una forza costituita da 10.000 armati che iniziarono ad intraprenderne l’assedio. Il 1 agosto gli assediati erano sul punto di trattare la resa (era già stata esposta bandiera bianca), quando giunse notizia della firma della Pace a Passarowitz. Con essa Venezia poneva fine dopo oltre 300 anni di lotte interminabili, iniziate nel 1416 con il vittorioso scontro navale al largo di Gallipoli, all’ultima guerra turco-veneziana, e all’ultimo conflitto a cui prese parte nella propria storia. Fu l’Austria, preoccupata per una recrudescenza delle tensioni latenti nel sud Italia con la Spagna, ad essere la promotrice del trattato, giunto infausto alla Serenissima in quanto se i combattimenti fossero proseguiti ancora per qualche mese, probabilmente Dulcigno e altre piazze sarebbero state annesse ai domini di San Marco. Il 21 luglio si giunse alla sottoscrizione dei patti, e nonostante l’inviato veneziano Carlo Ruzzino (che fu presente pure a Carlowitz nel 1699), nell’ultima requisitoria per ben 6 ore perorò la causa veneziana chiedendo la restituzione di Tino, Egina, La Suda, Spinalonga, Cerigo, e della Morea, o al posto di quest’ultima l’allargamento dei possedimenti della Repubblica in Albania sino a Scutari, la Serenissima si dovette accontentare del riacquisto di Cerigo con l’annesso scoglio di Cerigotto, dell’annessione di Butrinto, Prevesa, Vonizza, e in Dalmazia dei castelli conquistati di Imoski, Tischowatz, Sternizza, Cinista, Rolok, Creano insieme a 4 miglia di circondario per ognuno di essi. Venezia altresì lasciava Zarine, Ottovo e Zubzi assicurando la comunicazione tra l’Impero Ottomano e il proprio protettorato di Ragusa.

Conseguenze

Passarowitz sancì il definitivo declino della Repubblica, la quale perse per sempre una posizione di rilevanza nel Mediterraneo orientale dove conservò solamente pochi lembi del suo antico Impero coloniale marittimo. Svanite le prospettive di rivincita nel Levante, nate dall’epopea del conquistatore Morosini, la Serenissima fino alla sua caduta, come per la Terraferma manterrà in Oltremare una posizione ligia alla neutralità e alla conservazione di quanto rimastole. Inutili saranno i ripetuti inviti austriaci avutisi tra il 1736-‘39 nel corso del conflitto austro-russo in opposizione al turco, a una discesa in guerra in cambio delle promesse di nuove annessioni nell’Oltremare, e un simile atteggiamento non fu disertato neanche nei due successivi confronti armati del 1768-’74 e 1787-’92. Nel 1770, a coloro i quali sollecitavano un’alleanza con l’Austria, il procuratore Francesco Morosini (omonimo dell’eroe di Candia e della Morea) fece presente “l’assioma politico che allorché una potenza piccola diventa l’alleato di una grande, la piccola potenza diventa suddita e dipendente dall’altra ”[1].. Altresì l’Impero Ottomano iniziava anch’esso una lenta decadenza con il ritiro progressivo dalle proprie posizioni nei Balcani a scapito dell’Austria, vera trionfatrice a Passarowitz mediante l’annessione di parte della Valacchia e Serbia settentrionale. Era poi diventato chiaro ormai, che Venezia era passata da potenza presentante peculiari caratteri propri di una Repubblica marinara, a Stato continentale, seppure il patriziato seguitò a permanere nella linea politica di preminenza e maggior considerazione riservata nei confronti dell’Oltremare rispetto ai domini della Terraferma, posizione che sconterà drammaticamente quasi 80 anni dopo

Note

Bibliografia

  • S. Romanin, Storia documentata di Venezia, Venezia, 1972-1975, 10 voll.;
  • V. Ilari - G. Boeri - C. Paoletti, Tra i Borboni e gli Asburgo : le armate terrestri e navali italiane nelle guerre del primo Settecento, 1701-1732, Ancona, 1996;
  • V. Ilari - P. Crociani - C. Paoletti, Bella Italia militar: eserciti e marine nell’Italia pre-napoleonica, 1748-1792, Roma, 2000


Voci correlate


Collegamenti esterni