Spedizione ateniese in Sicilia
La spedizione ateniese in Sicilia, o seconda spedizione ateniese in Sicilia o anche grande spedizione ateniese in Sicilia per distinguerla da quella del 427 a.C.,[3] ebbe luogo tra la primavera e l'estate del 415 e l'estate del 413 a.C.[4] Dopo le prime vittorie ateniesi, l'esercito siracusano riuscì a capovolgere le sorti della guerra, sostenuto dai rinforzi spartani al comando di Gilippo. Con la sconfitta degli invasori, della grande armata partita da Atene solo pochi furono i sopravvissuti e tra questi la maggior parte venne imprigionata nelle latomie siracusane, costretta a vivere tra stenti e sofferenze. Questa sconfitta segnò l'avvio del definitivo declino militare e politico di Atene, all'apice del colpo di Stato aristocratico del 411 a.C. e della successiva sconfitta nella guerra del Peloponneso (404 a.C.).
Spedizione in Sicilia parte della guerra del Peloponneso | |||
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Data | primavera-estate 415 - estate 413 a.C. | ||
Luogo | Siracusa | ||
Causa | Richiesta di Segesta di un'aiuto da parte di Atene contro Siracusa | ||
Esito | Grave disfatta ateniese | ||
Modifiche territoriali | Nessuno | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
Perdite | |||
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Alcibiade, dapprima al comando della spedizione ateniese, passò nei ranghi delle forze spartane in difesa di Siracusa. | |||
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Tucidide, storico ateniese, incentra due libri della sua opera Guerra del Peloponneso proprio sulla spedizione ateniese, incominciando così «un nuovo lavoro, un lavoro sulla Sicilia», regione che divenne ulteriore sfondo della guerra del Peloponneso (431 - 404 a.C.). Altre fonti importanti sulla spedizione si hanno dalle Vite parallele di Plutarco (in particolare dalla Vita di Nicia) e dalla Bibliotheca historica di Diodoro Siculo.[5][Nota 1]
Antefatti
Nel 421 a.C. si era conclusa la prima fase della guerra del Peloponneso grazie alla Pace di Nicia che aveva decretato, per 50 anni, la cessazione delle ostilità tra Sparta e Atene ripristinando lo status quo ante bellum. Atene avrebbe, quindi, dovuto cedere le città di Pylos e Citera in cambio della città di Amphipolis, mentre la città di Schione che aveva rotto l'alleanza con Atene per allearsi con Sparta durante la guerra del Peloponneso, sarebbe dovuta tornare sotto controllo ateniese.
Nonostante gli accordi, ben presto sorsero forti attriti tra spartani e ateniesi. La pace di Nicia prevedeva, infatti, che una delle due fazioni, scelta a sorte, in segno di buona volontà facesse il primo passo restituendo una delle città che spettavano all'avversario. Quando però tocco a Sparta iniziare per prima, a causa della scarsa fiducia che riponeva in Atene, si rifiutò di restituire Amphipolis e di conseguenza Atene non liberò Pylos[6].
In realtà la pace era da considerarsi come una tregua che avrebbe reso possibile il riarmo delle parti belligeranti e la successiva ripresa della guerra[7]. Di fatto, sia Sparta che Atene, nonostante avessero formalmente stipulato un accordo di pace, si trovavano in una situazione di conflitto, che, se da un punto di vista non permetteva loro di sfidarsi in campo aperto tramite una nuova guerra, d'altro canto non gli proibiva di contrastare gli interessi dell'avversario tramite l'aiuto delle poleis alleate[8].
Di conseguenza, molti cittadini di spicco ateniesi furono contrari alla pace, in quanto ritenevano servisse solamente a dare maggiori possibilità di riarmo ai nemici. Primo tra tutti a sostenere questo punto di vista era Alcibiade, uno dei maggiori sostenitori della spedizione ateniese in Sicilia. Il conflitto di interessi tra le città di Segesta e Selinunte poteva, quindi, fornire un ottimo pretesto per agire contro gli interessi degli spartani in Sicilia[9]. Selinunte, infatti, aveva allargato la propria zona di influenza grazie all'aiuto di Siracusa a discapito della rivale Segesta, che era, quindi, decisa a rivendicare il proprio potere con l'aiuto della potente Atene.
Casus belli
Il pretesto della guerra tra Selinunte e Segesta
In questo contesto storico e politico nel 416 a.C., scoppiò una guerra causata da dispute territoriali tra le poleis siceliote di Selinunte e Segesta, la prima alleata di Siracusa e da questa prontamente appoggiata, la seconda alleata di Atene.
Lo scoppio di questo conflitto si rivelò agli Ateniesi come la prófasis (occasione) per poter intervenire con maggiori forze in Sicilia, rispetto alla precedente spedizione, grazie anche al momento di tregua presente in Grecia dopo la pace di Nicia (421 - 414 a.C.). Segesta, dopo aver chiesto invano un aiuto da parte dei Cartaginesi, si rivolse ad Atene inviando degli ambasciatori che riuscirono a stringere un accordo di difesa con la città, in virtù della precedente alleanza risalente a metà del V secolo a.C.[Nota 2][10]
Dopo la richiesta di aiuto, Atene inviò a Segesta degli emissari ricevuti con un'ottima accoglienza: furono mostrate loro tutte le ricchezze della città e fu offerto persino un compenso per la loro venuta. Appena tornati ad Atene, riferirono delle grandi ricchezze di Segesta, valido motivo per preparare un intervento militare da cui avrebbero tratto dei benefici economici:[11]
Quello che però gli emissari di Atene non sapevano era che Segesta si era fatta prestare da altre città molte delle ricchezze mostrate loro e che, quindi, la ricompensa che avrebbero potuto riscuotere era solamente una frazione di ciò che avevano visto. Ad Atene fu riunita più volte l'assemblea per discutere sull'eventuale intervento in favore di Segesta e sui nomi dei capi preposti al comando, che saranno: Alcibiade, Nicia e Lamaco.[12][13][14]
Le poleis di Sicilia
Come gli Ateniesi scopriranno al termine della spedizione, combattere con le città di Sicilia significava affrontare nemici validi e di certo non facili da sottomettere o conquistare. Risulta quindi indispensabile soffermarsi sulla situazione delle poleis che avrebbero potuto costituire un pericolo per Atene: Naxos, Katane (Catania), Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Selinunte, Imera e Messana (Messina).[15]
Naxos e Katane si erano già alleate ad Atene durante la prima spedizione, mentre Selinunte e Siracusa rappresentavano i principali ostacoli. Queste due poleis avevano grande disponibilità di denaro e di mezzi, in primis Selinunte che custodiva immensi tesori nei templi e poi i Siracusa, arricchita dai tributi dei barbari sottomessi.[16][17]
Le motivazioni economiche e di prestigio
Già durante la prima spedizione del 427 a.C., gli Ateniesi avevano armato e inviato in Sicilia un ristretto contingente di soldati a sostegno dell'esercito di Leontini. Una possibile motivazione per giustificare questo soccorso è stata proposta da Tucidide, che scrive: «[gli Ateniesi] volevano impedire che dalla Sicilia fosse importato grano nel Peloponneso». Simili probabilmente furono anche le motivazioni che spinsero Atene ad intraprendere una nuova spedizione a meno di 15 anni dalla prima. Sarebbe scaturito un duplice guadagno dalla conquista della regione: in primo luogo era presente un vantaggio di tipo economico, infatti, seppure gli Ateniesi avevano in parte perso quello slancio imperialista e talassocratico che caratterizzò la politica di Pericle, morto nel 429 a.C., non disdegnavano certo di rivolgere i pensieri su una nuova possibilità di commercio, in speranze di guadagno, di onore e potere.[3] In secondo luogo, minare le fonti di sostentamento di una città come Sparta, avrebbe sicuramente giovato ad Atene nella prospettiva di una ripresa del conflitto, vista anche la labile pace che Nicia era riuscito a stipulare nel 421 a.C.[18]
Gli Ateniesi d'altra parte furono stati spinti ad entrare in contatto con le genti di Sicilia già nel 427 a.C. per garantire la sicurezza alla navigazione sullo stretto, importante passaggio di commerci nel Mediterraneo.[19] La principali motivazioni addotte da Tucidide, e dagli storici moderni, non riscontrano tutte delle prove certe, forse a causa delle complesse cause che la provocarono. Scrive a proposito lo storico inglese Moses Finley «su quali fossero le reali motivazioni [che spinsero gli Ateniesi ad intraprendere una spedizione] non si è fatta chiarezza sufficiente».[20]
Qualunque fossero le cause che spinsero gli Ateniesi ad intraprendere questa spedizione, è chiaro come non si possa omettere il fatto che ignoravano le reali condizioni delle poleis di Sicilia, il loro numero di soldati e la resistenza che avrebbero opposto. I vantaggi che sarebbero derivati dalla conquista sicuramente sovrastarono per importanza tutto il resto. Simili considerazioni si ritrovano già in Tucidide[21] che nella sua opera cerca di inquadrare al meglio la situazione e i conflitti interni spesso presenti nella polis di Atene. Scrive a tal proposito la storica inglese Mary Frances Williams:
«Gli Ateniesi presero un'importante decisione non solo riguardo a una spedizione ma anche riguardo a una guerra con pochissima lungimiranza e reale conoscenza della situazione in una parola pianificazione.»
I preparativi
La consultazione degli oracoli
La consultazione di un oracolo era fondamentale per poter organizzare una spedizione e sentire il parere degli dèi al riguardo. I primi sacerdoti che furono consultati, però, diedero responsi negativi. Al che Alcibiade prese a consultare i suoi indovini che, in base alle risposte di certi antichi oracoli, gli dèi si sarebbe mostrati favorevoli all'attacco degli Ateniesi promettendo grande gloria ai vincitori. Dello stesso parere sarebbe stato l'oracolo di Ammone, che aveva sede nell'oasi libica di Siwa,[22] secondo cui gli Ateniesi trionfanti avrebbero fatti numerosi prigionieri tra i Siracusani. Riguardo all'oracolo di Zeus a Dodoma, gli Ateniesi credettero che la profezia assicurasse la futura occupazione della Sikelía, che, al contrario di quello che a prima vista sembrò ai delegati, per Sikelía l'oracolo intese un colle presso la città di Atene e non la Sicilia (in greco antico Σικελία). Tuttavia, come scrive Plutarco, «si tennero nascoste le profezie avverse per timore del malaugurio» e quindi di non riuscire a raggiungere il consenso che soprattutto Alcibiade auspicava per poter organizzare la spedizione.[23][24] Questa «lotta tra gli indovini», come nota lo studioso Luciano Canfora, era senza dubbio guidata dalla necessità di guadagnarsi il favore di tutte le classi, anche quella più povera dei teti, maggiormente influenzata dai responsi divini: tutto questo faceva parte del "circuito" fondamentale nella presa di una decisione ad Atene.[25]
L'assemblea di Atene
«L'assemblea si raccoglie oggi a dibattere l'entità e le forme degli armamenti da assegnarci in dotazione, per la nostra campagna laggiù in Sicilia. Ebbene a mio parere è indispensabile riepilogare i termini della questione e riesaminarne il nocciolo: impegnare la nostra flotta in quei mari è in realtà la scelta più proficua? O non ci conviene piuttosto respingere gli appelli di stati lontani per stirpe da noi, ed esimerci dal suscitare così alla leggera, con un decreto troppo precipitoso rispetto all'immensità dell'impresa, una guerra tanto remota dai nostri interessi? Faccio presente che sono io il primo a ricavarne un alto onore, e l'ultimo fra tutti a dover temere per la propria vita. Eppure sono convinto che il cittadino ideale sia proprio colui che si cautela con una previdente difesa di sé e della sua proprietà: dovrebbe esser lui quindi a battersi più risoluto per proteggere il benessere dello stato. Sono salito a gradi d'eccellenza nella società; eppure mai in passato ho scelto di pronunciarmi contro coscienza. Così anche ora esprimerò precisamente il partito che ritengo più vantaggioso. Se prendessi a suggerirvi di far tesoro dei vostri beni attuali e di non sfidare, a prezzo di una prosperità tangibile e concreta, i sentieri imprevedibili e misteriosi del futuro, sento che i miei argomenti non farebbero breccia nella rocca delle vostre consuetudini mentali. Però è tempo di mostrarvi quanto sia fuor di proposito la vostra furia, e quanto aspra la conquista che sveglia in voi così calda fiamma [...][26]» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI, 9).
La decisione di unirsi ad un'altra guerra in Sicilia, dato che quella del Peloponneso si era temporaneamente fermata, costrinse più volte l'assemblea democratica ateniese a discutere e a votare a distanza di pochi giorni le decisioni da intraprendere tra quelle proposte dalle due fazioni in cui si era divisa l'assemblea: l'una contraria alla spedizione, fazione che ebbe come personaggio più eminente Nicia, e l'altra favorevole all'intervento armato proposto da Alcibiade.[27]
L'opposizione di Nicia, Metone e Socrate
Dopo che l'assemblea ateniese sentì le parole degli ambasciatori di Segesta, votò per la prima volta di inviare in Sicilia 60 triremi al comando di Nicia, Lamaco e Alcibiade. Nicia, però, che non aveva mai desiderato avere il comando, colse in questo modo un'occasione propizia rivolgendosi all'assemblea, che fu riconvocata cinque giorni dopo la prima votazione.[27] Il primo discorso che fu declamato, tramandato da Tucidide[28], toccò alcune questioni irrisolte riguardanti la situazione in Grecia: come per esempio la mancata riconquista delle città nel nord che si erano rivoltate, chiaro segno dell'insofferenza degli alleati verso Atene, «città tiranno» della Lega delio-attica.[29] Nicia, inoltre, mosse profonde critiche a chi era attratto dal desiderio di conquistare la Sicilia solo per arricchirsi e anche all'alleanza con Segesta, dato che era una città troppo lontana per gli interessi ateniesi;[30] infatti un solo messaggero avrebbe impiegato quattro mesi per giungere ad Atene da Segesta.[31] Un'eventuale spedizione avrebbe reso momentaneamente quasi disarmata Atene stessa, che sarebbe stata soggetta ad attacchi provenienti dai suoi nemici, tra i quali Siracusa.[32]
Ma tutti questi ragionamenti non valsero a contrastare il carisma di Alcibiade che fece «ardere [l'assemblea] dal desiderio di compiere la spedizione».[33] Fallito il tentativo di dissuasione, Nicia, con un secondo discorso rivolto all'assemblea, cercò di evidenziare i reali pericoli di una spedizione, proponendo l'invio di un numeroso corpo di spedizione tra fanti, navi e cavalli in grado di fronteggiare la temibile cavalleria siciliana.[31] Nicia, per il suo atteggiamento di eccessiva prudenza è stato oggetto di parodie, una delle quali sta nella commedia Uccelli di Aristofane (passo 362) recitata quando a Siracusa i soldati ateniesi stavano assediando a pieno regime la città.[32]
Tuttavia, tra gli storici moderni, si crede che Tucidide ometta e cerchi di nascondere il fatto che Nicia era in parte favorevole a una grande spedizione di conquista. Scrive a proposito lo storico inglese Donald Kagan:
«Si ritiene che non ci furono opposizioni ai provvedimenti presi durante la prima assemblea e che Nicia li favorì perché l'intervento in Sicilia era "una continuazione della tradizionale politica di Atene" (Laffi, RSI LXXXII, 1970, 281) [...] Tale visione della situazione è stata oscurata dalla decisione di Tucidide di presentare la grande spedizione siciliana come un imprevista e inaspettata azione dell'imperialismo ateniese, isolata da eventi precedenti, piuttosto che indicare la loro vera continuità.»
«Conviene a me, Ateniesi, il comando, meglio che a chiunque altro (il tema del mio esordio è obbligato, poiché è quello su cui s'impunta Nicia) e ho chiara coscienza d'esserne degno. Gli atti che fan volare il mio nome sulle labbra del mondo aggiungono prestigio ai miei antenati e alla mia persona, e anche alla patria recano buon frutto. Abbagliai del mio splendore, nella sacra cornice d'Olimpia, i Greci. E quel giorno, di fronte alla schiera dei miei sette cocchi (a nessuno in passato sarebbero bastate le forze d'allinearne un tal numero) quando oltre al trionfo del primo conquistai anche il secondo e il quarto premio, coronando ogni altro momento della cerimonia con un fulgore degno della vittoria, si diffuse magnifica nel pubblico l'immagine di un'Atene superba, mentre cadde dai cuori quella ormai consueta di una città in ginocchio per i sacrifici del suo lungo duello. Impresa che ci cinge d'onore, secondo l'uso attuale; inoltre, con un tale risultato si suggerisce l'entità di una potenza. Lo sfarzo poi con cui mi rendo illustre in Atene - coregie o altre prestazioni - mi attira com'è naturale le gelosie dei miei propri cittadini: ma tra genti forestiere anche da esso spira un senso di grandezza. Dunque non è sterile questa follia, quand'uno splende del proprio per creare un profitto non solo a sé, ma allo stato. Neppure è in torto chi concependo di sé un alto sentimento rifiuta di porsi alla pari con gli altri, giacché chi è vittima della sventura incontra forse chi lo allievi d'una parte del suo fardello? È pur vero che quando la fortuna ci volge le spalle nessuno si degna più di indirizzarci una parola: buon motivo perché si stia contenti se chi è sull'onda di un fausto successo ci riserva un contegno orgoglioso; ovvero si tratti il prossimo con una sola identica misura, se si pretende pari accoglienza [...][26].» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI, 16).
Tale opinione è stata espressa anche dallo storico Gaetano de Sanctis, che pone molta attenzione a prendere per veri i commenti di Tucidide, secondo il quale lo storico ateniese oscura gran parte della responsabilità di Nicia sulla spedizione.[34] Recentemente molti storici propendono a credere che la narrazione di Tucidide ponga in esame al lettore il dualismo tra le politiche imperialistiche di Atene e la condotta dei propri generali, per enfatizzare oltre misura le tensioni generate dal contrasto tra la democrazia e la tirannia.[35]
Se Nicia avesse avuto una parte delle responsabilità nell'approvazione della spedizione in Sicilia, si potrebbe spiegare perché egli accettò l'incarico di generale contro la sua volontà.[28] È molto probabile che nella prima assemblea Nicia non si fosse proposto come generale (la scena era tra l'altro già accaduta quando l'assemblea ateniese doveva scegliere i generali da mandare a Pilo e a Sfacteria).[36] Alcuni frammenti di una stele ritrovati sull'acropoli di Atene confermano che, a seguito della prima assemblea, si era designato un solo generale al comando della flotta di 60 navi e Nicia non avrebbe avuto la possibilità, anche se avesse voluto, di proporsi a capo.[37] Su ciò che effettivamente successe durante la seconda assemblea, si deve fare affidamento a Tucidide, visto che non si possiedono abbastanza indizi e prove per discostarsi dalla sua narrazione.[36]
Tra chi si oppose c'erano Metone, l'astronomo che inventò il ciclo di 19 anni per far corrispondere l'anno solare a quello lunare, e il famoso filosofo Socrate. Metone in segno di protesta contro la decisione di organizzare una spedizione, incendiò la sua casa fingendo di essere impazzito ma in realtà temendo per i cattivi auspici degli dèi e, probabilmente, per la sorte di suo figlio che era capitano di una trireme.[23] Metone è inoltre uno tra i soli due personaggi della commedia di Aristofane che appare con il nome reale, probabilmente questo sta a significare quale fosse la fiducia che Aristofane aveva nei suoi confronti.[38]
Il demone presente nel filosofo Socrate, secondo Plutarco, gli avrebbe predetto la futura rovina della spedizione di Sicilia e Socrate avrebbe confidato questa futura sorte ai suoi amici più intimi.[38]
Alcibiade
Alcibiade, fiero sostenitore della spedizione, saprà infiammare gli animi delle nuove generazioni che erano:
«piene, come il loro leader, di vita, di speranza, di iniziativa, piene di sogni di conquista, gloria e salute per la loro città e per loro stessi.»
Il discorso di Alcibiade all'assemblea, particolarmente impreziosito da Tucidide che si ispira alle tragedie di Euripide,[39] si incentra soprattutto sulla messa in evidenza dell'inferiorità di tutte le città di Sicilia, divise e in conflitto tra loro, quasi come se fossero barbari. La conquista della regione si prospettava priva di difficoltà degne di nota e avrebbe dato ad Atene non solo il potere in Sicilia, ma anche mezzi con cui poter vincere gli Spartani in Grecia. D'altronde lo spirito di arroganza che caratterizzò il personaggio di Alcibiade potrebbe aver ritenuto semplice eguagliare le imprese di Pericle, anche lui esponente degli Alcmeonidi, con una spedizione in Sicilia in cui gli avversari erano sicuramente meno temibili di quelli che Pericle fronteggiò nella spedizione d'Egitto (anni 450 a.C.).[25][40]
La questione del generale Cherestrato
«Io ho per fermo, giudici, che il più di voi conosca le ragioni, onde Fanostrato e Cherestrato sono a me legati della più stretta domestichezza: ma a quelli che le ignorassero, ne indicherò un bastevole documento. Imperocchè quando Cherestrato, come capo di una trireme, navigava per la Sicilia, io, sebbene per avere innanzi assaggiata essa navigazione mi stessero davanti agli occhi tutte le sue fortune, mosso nondimeno dalle preghiere loro, mi posi in mare ad incontrarle insieme; e divenimmo prigionieri dei nemici.»
Dal passo 1 dell'orazione Per l'eredità di Filottemone, datata 364 a.C.,[41] di Iseo, oratore e logografo del V-IV secolo a.C., se interpretato letteralmente, sembra che Cherestrato fosse trierarco durante la grande spedizione in Sicilia, come ha notato per primo William Wyse.[42] Lo stesso Wyse nota come, secondo il passo 60, Cherestrato, al tempo della declamazione di Iseo, era un uomo troppo giovane per poter servire nella flotta ateniese 52 anni prima, ovvero gli anni passati tra 415 e 364 a.C.[42] A riguardo le soluzioni proposte per ovviare a questa incongruenza sono:
- Il complemento εἰς Σικελίαν ("per la Sicilia") può essere omesso perché è una nota proveniente dal passo 14, oppure cambiato con un'altra destinazione.[41]
- Procedendo in simmetria, anziché modificare il complemento di luogo, si è agito sul soggetto tramutandolo da Chere-strato a Fano-strato, padre del precedente.[41]
- È possibile anche che la trireme a cui fa allusione Iseo fosse diretta in Sicilia non in missione di guerra, visto che non sono presenti fonti che lo attestino, ma diretta a Siracusa, alla corte del tiranno Dionisio I; i rapporti diplomatici tra Atene e Siracusa sono provati dal ritrovamento sull'acropoli di Atene di un frammento di un decreto ateniese, dove gli Ateniesi lodano il tiranno Dionisio, che viene definito "arconte di Sicilia".[43][41][42]
Siracusa
Nella città siciliana alle prime avvisaglie di un attacco ateniese fu convocato un pubblico consiglio, probabilmente nell'Acradina, dove si dibatterono le azioni da intraprendere.[44]
Ermocrate
Il generale Ermocrate non temé le voci di un grande attacco da parte degli Ateniesi e seppure fiducioso in una grande vittoria, spronò tutti gli uomini ad agire con attenzione:
Instillato coraggio nei propri uomini, Ermocrate suggerì di prepararsi ad un eventuale attacco cercando alleanze tra tutti i possibili alleati: Cartaginesi, Siculi, Spartani, Corinzi e in Italia. Sarebbe inoltre stato necessario un invio di unità navali per contrastare già da Taranto le prime flotte ateniesi in arrivo.[45][46] Anche dopo il discorso di Ermocrate, nell'assemblea non ci fu un unanime consenso alle opinioni espresse: la tattica del generale era prettamente difensiva, non cercò mai infatti di affrontare i nemici ma ritenne più opportuno aspettarli.[47]
Atenagora
Atenagora, membro del partito popolare e scettico riguardo le proposte di Ermocrate, considerava improbabile da parte ateniese l'errore militare di aprire un altro fronte nella guerra del Peloponneso. Gli Ateniesi, «maestri» della guerra come li definisce, non si sarebbero spinti in una rischiosa spedizione verso una terra lontana per dare sfogo alle loro ambizioni e ai loro interessi.[48] Il discorso di Atenagora si rivolge a chi parla di «fantasie astratte», di chi mette paura e confusione con l'intento di ottenere potere e diventare tiranno.[48] Ed è questo il tema centrale del discorso del popolare Atenagora, dove le accuse vengono, anche se non esplicitamente, rivolte a Ermocrate, probabilmente perché sospettava che il popolo gli avrebbe concesso poteri eccezionali.[48][49]
In ogni caso, al termine della riunione, il consiglio decise di valutare le forze in campo e di allertare le truppe. In altre fonti, di dubbia attendibilità, per la presenza di imprecisioni[Nota 3] e per l'identità non chiara dell'autore[Nota 4] si racconta che all'epoca fossero in corso trattative diplomatiche dirette fra Atene e Siracusa in merito alla questione segestana.[50]
Forze in campo
Atene
La flotta inviata durante la prima spedizione in Sicilia ritornò ad Atene con 12 000 uomini e 60 triremi su cui erano caricati 200 uomini. Probabilmente non tutte le navi che giunsero nel 424 a.C. rimasero intatte fino al 415 a.C.[51] Nicia, che comprese la difficoltà di una conquista della Sicilia, suggerì di schierare 100 triremi e una fanteria pesante composta da non meno di 5000 opliti tra ateniesi e alleati: inoltre, richiese reparti di frombolieri e arcieri ateniesi e cretesi.[52]
Riguardo all'effettivo numero di soldati e navi schierati, si accetta la testimonianza di Tucidide che conta, per quanto riguarda le navi: 134 triremi e 2 navi di Rodi, di cui 100 attiche, 60 erano unità veloci, le rimanenti 74 da trasporto. Gli opliti erano in totale 5100, di cui 750 tra Argivi e Mantinei, che sono tra le migliori unità di fanteria dell'esercito,[53] a cui bisogna aggiungere 700 unità di truppe leggere; gli arcieri erano 480, tra cui 80 cretesi; 700 frombolieri e per ultima una nave che trasportava 30 cavalieri. Inoltre 25000 tra rematori e marinai parteciparono alla spedizione.[53][54]
Costi
Importante per capire l'entità dell'esercito ateniese è analizzare i costi totali che si aggirano intorno ai 4500 - 5000 talenti.[55] Inoltre si conoscono le paghe dei reparti dell'esercito, grazie soprattutto alle testimonianze di Demostene[56] e Aristofane[57].
- Dai resoconti riguardo la battaglia di Potidea (433 a.C.) si conosce che un oplita prendeva 2 oboli al giorno. Successivamente però, la paga di ogni singolo soldati salì a 4 oboli quotidiani cioè 20 dracme d'argento al mese; durante la spedizione ateniese il salario toccò le 30 dracme mensili.[58] Con un esercito di 5100 opliti si sarebbe spesi teoricamente per i due anni di spedizione circa 600 talenti (30 dracme × 24 mesi × 5100 opliti). Considerando le perdite e gli opliti di rinforzo la cifra si avvicina ai 1000 talenti.
- Il costo medio dei marinai era di 3 oboli al giorno durante il periodo di Pericle,[59] quello di una trireme era di 200 dracme al giorno, ovvero 12 talenti l'anno.[60] La flotta di 134 triremi sarebbe quindi costata teoricamente oltre 3200 talenti per i due anni della spedizione (1 talento mensile × 24 mesi × 134 triremi). Le prime perdite significative si fecero sentire solo dopo il primo anno di spedizione: in totale quindi, comprendendo perdite e rinforzi, Atene dovette pagare almeno 3000 talenti.
- I cavalieri costavano circa 12 oboli al giorno. La loro paga sarebbe in totale costata ad Atene circa 5 talenti.[55]
- Le 700 unità leggere costarono dai 35 ai 58 talenti.[60] I 480 arcieri richiesero circa 38 talenti, visto che la loro paga era di 4 oboli al giorno, ovvero 20 dracme al mese (20 dracme × 24 mesi × 480 arcieri = 230 400 dracme ≈ 38 talenti).[55] Simile era la paga dei frombolieri che costarono circa 45 talenti.[61]
Siracusa e i Sicelioti
«Le città siceliote erano ricche di cavalli e di cavalieri, ed esse, al contrario di Atene, potevano nutrire i loro cavalli col grano cresciuto nella loro terra e non comprato da lontano.»
Nonostante i Sicelioti avessero una potente cavalleria rispetto a quella tessalica o tebana di Atene, la fanteria non poteva sicuramente considerarsi al pari di quella attica. I soldati ateniesi si presentavano quindi, oltre che più forti tecnicamente, anche con più esperienza alla luce della recente guerra del Peloponneso. Purtroppo non si ha nessuna menzione da parte degli storici antichi, e neanche da Tucidide, del numero di unità presenti nell'esercito dei Sicelioti.[62] Per dare una plausibile giustificazione a questo silenzio, in particolare quello di Tucidide, si è supposto che egli abbia volutamente evitato di parlare dell'esercito comandato da Ermocrate, cercando in questo modo di attenuare le responsabilità del generale siracusano che è stato varie volte esaltato dallo storico ateniese.[63]
Scandalo delle erme
Mentre fervevano i preparativi per la partenza della spedizione nella notte tra il 20 e il 21 maggio del 415 a.C. furono mutilate alcune erme ad Atene. Questo atto sacrilego suscitò molto clamore tra il popolo, e fu considerato come un segno premonitore di sventura, considerandolo come un atto di sobillazione da parte di Alcibiade contro il governo democratico. I più erano concordi nella decisione, vedendo Alcibiade «troppo arrogante e troppo ostentatamente dedito a uno stile di vita che dall'ateniese medio era aborrito».[64] Sullo scandalo delle erme si ricevono informazioni anche dalle opere Sui misteri e Sul suo ritorno di Andocide, in cui sono presenti varie ammissioni dai diversi colpevoli, giovani ubriachi, incolpati anche della profanazione dei misteri eleusini, cioè di averli rivelati.[Nota 5] Poche restano, considerate anche le rivelazioni di Andocide, le possibilità che questo complotto non sia stato preminentemente organizzato dagli aristocratici.[65][66][67] Ciò d'altra parte non toglie anche la partecipazione dell'ala dei democratici radicali, ne è un esempio la partecipazione di Androcle; ci fu probabilmente anche l'appoggio di alcuni georgoi (dal greco antico γεοργέω, «lavoro»)[68] gli insofferenti della democrazia diretta che non intendevano partecipare alle assemblee. C'è anche una buona probabilità, sostiene lo storico Domenico Musti, che lo stesso Nicia abbia avuto a che fare con lo scandalo delle Erme, caricato dalla speranza di poter assumere una posizione di rilevanza nella strategia della spedizione, cosa che non era possibile quando in campo era presente ancora Alcibiade.[69] Resta fondamentale notare che se da una parte la democrazia, o meglio la sua espressione politica nell'ecclesía, avevano sostenuto l'iniziativa di Alcibiade, dall'altra la stessa democrazia si era opposta, o per lo meno si era in parte ricreduta, alla spedizione in Sicilia, sarebbe tuttavia sbagliato pensare che tutto il popolo fosse contrario ad Alcibiade, anzi egli godeva ancora del sostegno popolare.[70] I conflitti politici interni, alla partenza della spedizione, erano già latenti e avranno l'occasione per venire alla luce dopo la definitiva sconfitta degli Ateniesi, con il colpo di Stato oligarchico del 411 a.C. e la conseguente perdita, in meno di un secolo, del prestigio che il modello democratico era riuscito a raggiungere.[69][71]
Alcibiade, a fronte del grave atto di accusa, chiese di farsi giudicare subito da un tribunale, in modo da eliminare ogni ostacolo alla partenza della spedizione, poi però fu deciso di rinviare il dibattimento e così Alcibiade partì.[72]
La spedizione
Schieramenti
Con l'avvio della spedizione lo scenario strategico era divenuto questo:
- Alleate di Atene: Lega delio-attica, Segesta, Katane, Naxos e gli Etruschi.
- Alleate di Siracusa: Sparta, Corinto, Taranto, Himera, Camarina, Selinunte e Gela.
- Neutrali: Messina, Agrigento e Reggio.[73]
Il viaggio della spedizione
La spedizione ateniese partì nel giugno del 415 a.C. dal Pireo con una forza di 30000 uomini,[Nota 6] di cui 6400 truppe da sbarco e ben 134 triremi.
Il giorno in cui partì era quello delle Adonie, festa in onore del dio della rinascita Adone che ad Atene si svolgeva in primavera. I lamenti di uso presso le donne per commemorare la morte di Adone, quel giorno si mischiarono con il peana inneggiato dai soldati pronti a partire per una spedizione memorabile non tanto «solo per il numero di navi e uomini, ma per lo splendore dell'equipaggiamento».[74][75]
Dopo la prima tratta, si radunarono tutte le forze in campo a Corfù e la flotta venne divisa in tre parti tra i generali. Tre navi furono inviate tra le poleis d'Italia e di Sicilia per trovare una base amica e conoscere le condizioni in cui versava ogni città.[76][77] La spedizione, attraversato il mar Ionio, non incontrò grande accoglienza tra le città della Magna Grecia, infatti esse non erano disposte ad offrire truppe né, nei casi di Taranto e Locri, accoglienza e supporto logistico. Solo Reggio consentì agli Ateniesi di sostare presso le coste e di allestire un campo.[78][79] Ciononostante Reggio, seppure fosse fin dalla spedizione ateniese di Feace (422 a.C.) un'alleata di Atene, scelse di rimanere neutrale. Questa scelta evidenzia bene, come scrive Freeman, qual "era lo spirito di paura e diffidenza" che gli alleati avevano dinanzi a una spedizione in così vasta scala. Questa tendenza ad allontanarsi da Atene costituì una buona premessa per lo sviluppo di un'alleanza anti-ateniese, come Ermocrate auspicava e andava dicendo a Siracusa.[80]
L'avversità delle città siceliote (e città come Taranto, alleata di Sparta), caratterizzò la traversata degli Ateniesi dal loro abbandono di Corfù. Resta forse un mistero perché città come Taranto o Siracusa non si coalizzarono contro le navi nemiche, logorate dal lungo viaggio e sicuramente svantaggiate nel trovarsi in luoghi e mari sconosciuti fino a quel momento. Già il comandante siracusano Ermocrate aveva ragioni per credere che gli strateghi di maggior esperienza nell'esercito ateniese erano contrari all'intrapresa della spedizione, ma lo scompiglio generale e il ritardo nella presa di un'iniziativa, al di là delle scelte dello stesso Ermocrate, giocarono probabilmente un ruolo determinante sulla decisione dell'assemblea di non inviare delle navi d'assalto, ma di proseguire nei lavori di fortificazione.[81]
Le consultazioni prima della guerra
Quando i tre capi della spedizione si consultarono a Reggio per decidere quali azioni intraprendere, emersero subito delle divergenze.
- Nicia pensava di mantenere strettamente gli ordini imposti, difendendo Segesta e intervenendo contro Selinunte: auspicava quindi un impegno breve e limitato.[82][83]
- Alcibiade, invece, intendeva cercare l'appoggio economico e militare delle città siceliote, incitando le città sottomesse a Siracusa alla rivolta.[84][85]
- Lamaco, infine, pensava di attaccare direttamente Siracusa, considerando l'effetto sorpresa e la concreta speranza di farla capitolare liberando finalmente le città della Sicilia assoggettate.[86]
Lamaco accettò il punto di vista di Alcibiade che, quindi, risultò vincente.[87] Va però ricordato come la flotta non avesse ricevuto alcun ordine di attaccare Siracusa, bensì di difendere Segesta e attaccare Selinunte. Alcibiade quindi iniziò la sua campagna diplomatica alla ricerca di una valida alleata in Sicilia. Le città di Messina e Catania rifiutarono di allearsi con Atene, temendo le future ritorsioni di Siracusa; gli Ateniesi passarono la notte presso la foce del Teria, posizionato probabilmente presso l'attuale comune di Vicari.[88][89][90][91] Nel frattempo giunse la notizia che non c'era alcun tesoro a Segesta, e che i Segestani avevano ingannato la delegazione di diplomatici in visita; questo fu senz'altro motivo in più per rivolgersi all'opulenta Siracusa.[92]
La guerra (415 a.C.)
La morfologia di Siracusa
Il territorio su cui sorge Siracusa è variegato. Il riferimento è senza dubbio l'isola di Ortigia che chiude il Porto grande, a nord (nell'attuale territorio di Priolo Gargallo) c'è la penisola di Thapsos.
La conformazione della costa consente anche la presenza di due porti naturali: il Porto Grande di Siracusa chiuso da un'ampia insenatura a sud di Ortigia e il Porto Piccolo o Lakkios, in una ristretta insenatura a nord dell'isola. Inoltre sono presenti dei luoghi di approdo naturale come il Trogilo e il Leon. Sul primo approdo gli studiosi non sono ancora del tutto concordi sull'ubicazione precisa anche se sulla mappa a lato viene rappresentato a nord di Siracusa. Il secondo è sicuramente l'approdo più a nord della città. Infine all'interno del Porto Grande gli ateniesi sfruttarono un tratto di costa sabbiosa come riparo per le navi chiamato Dascon.
L'entroterra è composto da un altipiano, detto dell'Epipoli, piuttosto brullo e scosceso ai lati, che diviene sempre più pronunciato man mano che si protrae verso nord sino al punto più alto identificato oggi con Belvedere di Siracusa e un tempo con il castello Eurialo. Proprio sull'altipiano si sviluppavano i principali quartieri della polis tra i quali: l'Acradina a est, l'Epipoli a nord-ovest, Tyche a nord posto tra l'Epipoli e l'Acradina e infine Neapolis, posto a sud tra l'Epipoli e l'Acradina. A sud del Porto Grande è presente il promontorio del Plemmirio, che si estende verso il porto. A sud della città vi sono i fiumi Anapo e Ciane che a sua volta rendevano la zona paludosa chiamata oggi Pantanelli.[93]
L'esplorazione del Porto Grande e l'alleanza con Catania
In accordo con i piani che Lamaco aveva espresso nell'assemblea, si decise di inviare sessanta navi a perlustrare il porto di Siracusa. Passata indenne per Megara, per la parte est della penisola di Thapsos e dell'isola di Ortigia, la flotta fu solo fermata all'ingresso del Porto Grande e dieci navi furono mandate in avanti per lanciare il proclama: «gli Ateniesi erano in arrivo per restituire ai Leontinesi la loro sede, mossi da affinità di stirpe e da legami d'alleanza».[94][95] Esplorato anche il Porto Piccolo, la flotta rientrò a Reggio; Alcibiade intanto sfruttò la debolezza del partito filo-siracusano a Catania, per intervenire in assemblea con un discorso con cui riuscì a guadagnare il favore dei Catanesi e a siglare un'alleanza con la cittadina, che diverrà la base delle operazioni contro Siracusa.[96]
La partenza di Alcibiade
Mentre le truppe ateniesi iniziavano le manovre di guerra, giunse da Atene la Salaminia, che recava l'invito per Alcibiade a far ritorno in patria per essere processato: Alcibiade decise di ottemperare agli ordini ma poi, temendo una possibile congiura da parte dei suoi nemici in patria, scelse di allontanarsi dall'imbarcazione Ateniese all'altezza di Locri; giunto poi a Sparta, preferì chiedere asilo politico tradendo di fatto la sua patria. Visto ciò, il tribunale ateniese emanò una sentenza immediata, infliggendogli la condanna a morte.[97][98][99][100]
La partenza di Alcibiade determinò, quindi, un doppio comando delle truppe, da una parte quelle di Nicia e dall'altra quelle di Lamaco. In un primo momento le forze ateniesi, sempre mantenendo la base militare a Catania, si mossero verso Segesta, veleggiando lungo la costa tirrenica della Sicilia. Cercarono dapprima rifugio ad Himera senza essere ricevuti, quindi conquistarono Hykkara, nemica di Segesta, schiavizzando gli uomini e le donne, tra cui c'era l'etera Laide.[101][102] Da parte di nessuno storico, però, si ricevono informazioni riguardanti le città puniche della Sicilia. Di Cartagine e di un possibile accordo, aveva già parlato Ermocrate nel suo discorso nell'agorà, ma dallo storico della guerra del Peloponneso, Tucidide, non giunge una parola sulle mosse dei Cartaginesi alla notizia di una spedizione ateniese.[103]
In ogni caso, rasa al suolo Hykkara, una parte delle truppe di terra tornò verso Catania e un'altra si mosse verso Segesta al comando di Nicia.[104][103]
La battaglia di Siracusa
Dopo le prime conquiste sul versante tirrenico, le forze si concentrarono su Siracusa cominciando la battaglia con uno stratagemma ateniese: dopo aver atteso la cavalleria siracusana dalle parti di Catania, mossero via mare e sbarcarono senza resistenze a sud della città nel Porto Grande di Siracusa, nei pressi del tempio di Zeus dove allestirono subito un accampamento[105][106][107].
Al primo scontro tra i due eserciti, i Siracusani ebbero la peggio, perdendo circa 260 uomini contro i 50 nel fronte ateniese. Dopo la prima sconfitta la cavalleria fece rapido ritorno tra le mura della città per rafforzare nuovamente l'esercito; i Siracusani, infatti, pur con un esercito meno esperto di quello ateniese, possedevano il vantaggio della rapidità di spostamenti.[108][109]
La pausa invernale
Giunta la pausa dell'inverno del 415-414 a.C.,[110] i combattimenti dovettero cessare col ritiro di parte delle truppe ateniesi verso Naxos che poi abbandonarono per Catania approfittando della tregua per inviare una parte degli ambasciatori ad Atene, per ottenere altro denaro, e l'altra a Cartagine, presso gli Etruschi e tra le tribù sicule in modo da raccogliere, se possibile, nuovi alleati e rinforzi di cavalleria[111]. Nonostante gli Ateniesi avevano fretta di porre l'assedio e non dare tempo ai nemici di organizzarsi, fu comunque sensata la scelta di non iniziare le ostilità con i Siracusani in inverno, il periodo meno adatto per compiere delle fatiche. La zona est della Sicilia infatti d'inverno è piovosa e fredda e in diverse zone paludosa, l'insieme di tutti questi fattori avrebbe dato grandi vantaggi ai difensori.[110] Uno spunto di riflessione è dato anche dall'invio di ambasciatori ateniesi presso Camarina, colonia di Siracusa che da sempre rivendicava l'autonomia,[112] quando nella città erano presenti Ermocrate ed alcuni suoi delegati. Questa decisione evidenzia chiaramente quale fosse la «dottrina di espansione e d'impero», come la definisce lo storico inglese Freeman, pronta a creare ribellioni tra gli alleati dei nemici, a favorirne l'indipendenza e, come in questo caso, a tentare di stipulare un'alleanza pur di distaccarli dal vero nemico, Siracusa.[113][114]
Allo stesso modo degli Ateniesi, i Siracusani poterono approfittare della pausa per riprendersi dalle perdite subite, erigendo bastioni di difesa presso il Temenite, quartiere di Siracusa, e cercando altri alleati in soccorso e pertanto furono mandati ambasciatori a Corinto e Sparta (ottobre-novembre 415 a.C.).[115][116]
Mentre i Corinzi decisero di correre in soccorso dei Siracusani, gli Spartani preferirono inviare soltanto ambasciatori in città per impedire qualsiasi accordo con gli Ateniesi; tale atteggiamento, si spiega con la condotta avuta da Siracusa nel 431 a.C. quando questa, di fronte ad una richiesta di aiuto militare da parte di Sparta, aveva deliberato di non concedere né uomini né finanziamenti.[117] Se da una parte la scelta di Corinto era una «questione di onore»,[118] dato che Siracusa era stata fondata da Archia, un Eraclide di Corinto,[119] per Sparta il rifiuto avrebbe potuto provocare la rottura di quelle relazioni che aveva sempre avuto con le colonie e il cambio di quella che fino a quel momento era stata la sua tradizionale politica di aiuto e sostegno verso gli alleati.[118] Altri ambasciatori siracusani furono poi inviati a Camarina, dove Ermocrate parlò ai Camarinesi confidando in un aiuto che arrivò a Siracusa.[118] Il contingente inviato dalla città, consistente in pochi cavalieri e pochi arcieri, fu mandato non tanto per difendere con tutti i mezzi Siracusa, ma piuttosto per la paura di ricevere in futuro una vendetta da parte dell'alleata nel caso in cui riuscisse a resistere all'assalto degli invasori.[120]
Nel frattempo gli Ateniesi avevano tentato un assalto contro Messina, senza tuttavia riuscire nell'intento e ripiegando poi su Naxos. La guerra ormai assumeva un'importanza crescente anche per il nuovo ruolo assunto da Alcibiade che, passato tra le file degli Spartani, suggeriva l'invio di truppe per difendere strenuamente la Sicilia dagli invasori: caduta Siracusa infatti, il dominio ateniese si sarebbe inevitabilmente allargato anche alla regione del Peloponneso[121]. Grazie a queste esortazioni, nel 413 a.C., sarà inviato a sostegno della città l'esperto generale spartano Gilippo: una mossa che avrebbe segnato un ribaltamento nelle sorti del conflitto.[122]
L'assedio degli Ateniesi (414 a.C.)
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Con l'arrivo della primavera giunsero agli Ateniesi 30 talenti d'argento e nuovi rinforzi ateniesi, 250 cavalieri appiedati, 30 arcieri a cavallo che, trovata sistemazione nel vicino porto di Thapsos, permisero la ripresa degli attacchi non verso Siracusa, ma contro le città limitrofe per stringerla in una morsa.[123][124] Essi ebbero inizio a Megara Iblea con l'incendio dei campi e l'aggressione dei borghi vicini, poi a Centuripe fino ad arrivare al fiume Teria, posto tra il territorio siracusano e catanese.[123][124] E così Siracusa, temendo ormai un imminente assedio, designò Diomilo alla testa di un gruppo di 600 opliti per condurre interventi rapidi sul fronte dell'Epipoli, lato nord della città che diverrà il luogo principale dell'assedio ateniese.[125]
La flotta di Atene era ormeggiata presso la penisola di Thapsos, a nord di Siracusa, e l'esercito era pronto ad attaccare verso nord Siracusa, presso i quartieri dell'Epipoli e di Eurialo come il piano di Lamaco prevedeva, nella primavera del 414 a.C.[126] Solo a questo punto, come suggerisce Freeman discostandosi da Tucidide, probabilmente risale l'elezione dei generali Eracleide, figlio di Lisimaco, e Sicano, figlio di Essecesto, insieme a Ermocrate, già designato dall'assemblea convocata a Siracusa nel 415 a.C.[127] Nonostante ogni preparativo al primo scontro con le truppe terrestri ateniesi, i Siracusani, sorpresi nel pieno della notte, persero metà del gruppo di opliti assieme allo stesso Diomilo. Gli Ateniesi, a quel punto, poterono stanziarsi nella fortezza del Labdalo, nell'altopiano dell'Epipoli, dove potevano controllare i movimenti dell'intera città.[Nota 7] Avanzando dal Labdalo verso Tiche, gli Ateniesi eressero un muro difensivo sino al mare che avrebbe dovuto isolare la città, impedendole qualsiasi comunicazione con l'esterno.[128][129]
La costruzione del muro ateniese
Con la conquista dell'Epipoli e del Labdalo poté avere inizio il vero assedio della città: fu così tagliata l'acqua degli acquedotti, ogni possibilità di rifornimento e si intraprese la costruzione di un muro in modo da impedire l'entrata e l'uscita di nemici.[130] Per contrastare il piano degli Ateniesi, i Siracusani attaccarono subito, senza tuttavia riuscire a sconfiggere la cavalleria ateniese che aveva ricevuto copiosi rinforzi, 300 cavalieri da Segesta, 100 dai Siculi, dai Nassi e da altri.[131]
Gli Ateniesi, contrastata ogni vana resistenza, si poterono accingere alla costruzione del muro che doveva totalmente circondare Siracusa, dal Porto Grande alla costa nord.[Nota 8] Nel punto centrale centrale di tale costruzione, che venne chiamato Syka, fu costruito con gran velocità un torrione rotondo detto kyklos (dal greco antico κύκλος).[Nota 9] Le mura furono costruite alla base delle colline, su un territorio non troppo scosceso, in modo da velocizzare i tempi di ultimazione, tuttavia non si conosce l'esatta ubicazione del tracciato, che doveva essere lungo circa 5 km,[132] che secondo la ricostruzione di Holm si sarebbe unito alla fortificazione del Temenite.[133] Si è comunque certi che il muro ateniese era costituito da due livelli e che Nicia riuscì a completarlo solo dopo l'arrivo del generale spartano Gilippo.[134][135]
Il contro-muro siracusano e la morte di Lamaco
Un nuovo attacco fu lanciato da parte di Ermocrate, ma l'esercito difensore non riuscì a sconfiggere la cavalleria ateniese che tenacemente resisteva, in modo da permettere agli Ateniesi di completare anche la sezione nord del muro. Allora, rinunciando a nuovi attacchi frontali, i Siracusani intrapresero la costruzione un muro di sbarramento per ostacolare il completamento della cinta ateniese e quindi impedire l'assedio. L'ultimazione di questo progetto avrebbe potuto significare la salvezza della città, perciò tutto si svolse nel più breve tempo possibile, con l'utilizzo di palizzate in legno veloci da montare, nel tentativo di evitare ritardi e indecisioni che potevano essere fatali. D'altra parte, l'unica vera preoccupazione ateniese era quella di mantenere il possesso della Syka che fungeva da vero e proprio anello tra le mura, tanto da renderle inefficaci nel caso in cui fosse conquistato.[136] Con un rapido attacco al contro-muro, gli Ateniesi vinsero, distrussero le fortificazioni siracusane e guadagnarono tempo per fortificare la zona di Portella del Fusco, poco a sud-est del castello Eurìalo, al fine di racchiudere dentro la cinta anche il Porto Grande. Un secondo contro-muro fu costruito sfruttando in parte le fortificazioni che aveva fatto costruire Gelone presso l'Acradina.[137] Entrati nel pieno dell'assedio, gli Ateniesi chiesero aiuto alla propria flotta, ancora appostata presso la penisola di Thapsos, che cercò di irrompere nel Porto Grande, ma proprio in un momento così delicato Nicia dovette momentaneamente lasciare il comando, essendo malato a causa della congenita nefrite di cui soffriva. A quel punto un ulteriore attacco siracusano consentì la riconquista della posizione con l'accerchiamento delle 300 truppe ateniesi, che precedentemente avevano conquistato il primo contro-muro: Lamaco, giunto in soccorso del distaccamento accerchiato, si trovò isolato dal grosso dell'esercito al di là di un fossato e qui ucciso insieme a cinque o sei compagni.[138][139][140]
Fu fatale, secondo Freeman, la morte di Lamaco giacché ogni vittoria ottenuta era frutto della sua energia e determinazione, senza il apporto, Nicia, che era già malato, avrebbe dovuto guidare da solo tutti i soldati per continuare l'assedio di Siracusa, cosa di cui era stato contrario fin dalla partenza della spedizione da Atene.[141]
Nicia, il quale sapeva che il Syka non doveva cadere nelle mani dei Siracusani, ordinò ai suoi uomini di dare fuoco alle macchine e alla legna ammucchiate nei pressi del muro e, grazie ad opportuni rinforzi da parte della flotta, che nel frattempo era riuscita a penetrare le difese del Porto Grande, contenne l'assalto terrestre siracusano ed impose alla città anche un saldo blocco navale (estate 414 a.C.). In seguito fece erigere un trofeo e stipulata una tregua, riottenne i corpi di Lamaco e dei suoi compagni. Nei giorni seguenti Nicia, dimostrando la sua tattica difensiva, provvide a continuare la costruzione del muro a sud, trascurando la parte nord che restò incompiuta,[132] mentre arrivarono rinforzi dagli Etruschi e da alcune poleis siceliote che si schierate con Atene subito dopo i primi successi della spedizione.[142][143]
A Siracusa intanto regnava la confusione: il popolo costrinse alla dimissione Ermocrate e i suoi colleghi, responsabili di non essersi difesi al meglio contro i nemici, ed elesse altri generali (Eraclide, Eucle e Tellia). Sfruttando la situazione di incertezza, il partito filo-ateniese presente nella città richiese un colloquio con Nicia, confidando nella stipulazione di un accordo che, a loro modo di vedere, sarebbe stato l'unico modo per salvarsi da una sicura conquista.[144][145][146]
L'intervento spartano
Nello stesso periodo Gilippo, comandante spartano, fu incaricato dagli Spartani e dai Corinzi, esortati sia da Alcibiade sia dagli ambasciatori siracusani, di mettersi al comando di un contingente di navi e di soldati diretto a Siracusa. Come nota lo storico Freeman, la decisione di inviare rinforzi probabilmente fu presa dopo la consultazione dell'assemblea spartana e il responso fu dato agli ambasciatori, riguardo al ritorno dei quali, però, Tucidide non fa menzione.[147]
Gilippo raccolse presso Leucade, al tempo della morte di Lamaco, due navi spartane e due di Corinto. L'obiettivo era di arrivare a Siracusa nel minor tempo possibile con la speranza di poter intervenire tempestivamente, anche se, al momento di salpare da Leuca, girava la voce che gli Ateniesi avevano costruito un muro e che la città stesse per cadere: ciò che veramente rendeva necessario l'invio dei rinforzi era il tentativo di bloccare le ambizioni di Atene, che non si sarebbero fermate alla sola conquista di Siracusa e della Sicilia.[147] Gilippo e il suo esercito giunsero a Taranto, dopo essere partiti da Leucade, evitando la navigazione seguendo le coste e risparmiando così tempo prezioso. Prima di avviarsi verso la Sicilia, Gilippo cercò invano sostegno presso Turi, colonia ateniese spesso soggetta a cambiamenti di regime.[144][148][149]
Gilippo si mosse verso Himera, città alleata, dove arruolò nuove truppe tra i Siculi e, raccolti i suoi 700 soldati, 1000 da Himera, 1000 siculi, alcuni geloi e 100 cavalieri, e si mise in marcia per Siracusa.[150][151] Nel frattempo giunsero a Siracusa una trireme proveniente da Corinto al comando di Gongilo il quale non solo riuscì ad impedire che i Siracusani decretassero la resa ma, annunciando l'arrivo di Gilippo, risollevò il morale degli assediati.[152][153][Nota 10] Pochi giorni dopo l'arrivo di Gongilo, sopraggiunse anche Gilippo che, dopo alcuni attacchi fallimentari dei Siracusani, si impadronì del forte ateniese del Labdalo, approfittando anche del fatto che tale località non era visibile dalla postazione degli Ateniesi.[154][155][Nota 11]
Per quale motivo Nicia non abbia contrastato l'arrivo di Gilippo, nonostante avesse in suo controllo buona parte della città, è una questione a cui Tucidide però non dà spiegazione. Nicia sicuramente sottovalutò i pericoli di questi rinforzi, non finì di completare il muro, ancora in costruzione a nord e a sud, a cui i Siracusani avevano comunque fatto fronte con un muro in parallelo, e di occupare il porto per impedire il passaggio dell'esercito di Gilippo che, secondo Freeman, doveva apparire a Nicia come «una poco temibile flottiglia preposta ad atti di pirateria».[156] Prima dell'arrivo di Gilippo, gli Spartani inviarono un'ambasceria ai generali ateniesi col proposito di stipulare una tregua con la quale l'esercito aggressore sarebbe dovuto lasciare la Sicilia entro cinque giorni. Nicia, ricevuta la delegazione, la rispedì indietro senza una risposta, talmente sicuro dei propri mezzi per sottomettere la città da chiedere ridendo all'araldo se «era per la presenza di un mantello e di un bastone spartano che le prospettive siracusane erano diventate così favorevoli all'improvviso da indurli a disprezzare gli Ateniesi».[153] Come emergere chiaramente da questo passo, Nicia, comandante di grande esperienza,[Nota 12] che era ormai sicuro di conquistare la città, ignorava o, più verosimilmente, non era a conoscenza dell'arrivo dei rinforzi spartani al comando di Gilippo.[157]
Le prime vittorie di Gilippo e l'arrivo dei rinforzi ateniesi
Mentre Nicia decise di fortificare il Plemmirio, i Siracusani sotto il comando di Gilippo ripresero la costruzione del contro-muro sull'Epipoli dando il via ad ulteriori scontri:[158] nel primo di essi, in cui morì Gongilo, gli Ateniesi ebbero la meglio poiché la lotta avvenne tra gli spazi ristretti delle due mura difensive dove la potente cavalleria di Gilippo non poteva intervenire. Nel secondo invece fu grazie alla cavalleria che i Siracusani ottennero un clamoroso successo, dimostrando una grande supremazia tra gli spazi ampi. Nel frattempo Gilippo fortificò anche l'unica zona rimasta scoperta, ad ovest di Siracusa (probabilmente presso il castello Eurialo, punto strategico insieme al già conquistato Ladbalo):[Nota 13] fu anche una scelta difensiva e temporeggiatrice dato che a Siracusa si stavano avvicinando le navi corinzie. Ogni piccola vittoria si dimostrava fondamentale perché permetteva di guadagnare tempo, a danno dello sconfitto, nella costruzione del proprio muro (i due muri che passavano a nord) e nella prosecuzione della tattica da entrambe le parti.[159][160][161]
Caricati dalle ultime vittorie, i Siracusani chiesero comunque ulteriori soccorsi alle città vicine che inviarono soldati e alcune navi. Nicia, sempre più scettico del buon esito dell'impresa, timoroso delle forze avversarie, della difficoltà dei rifornimenti e del cattivo stato delle navi, scrisse una lettera agli Ateniesi per informarli della situazione, allo scopo di richiedere o il richiamo degli uomini o l'invio di un nuovo contingente e di un nuovo comandante dal momento che non poteva più reggere lo sforzo bellico a causa del suo pessimo stato di salute.[162] Gli Ateniesi non permisero a Nicia di rientrare in patria, ma inviarono un secondo corpo di spedizione, composto da 73 navi e 5000 opliti,[1] al comando di Demostene e Eurimedonte, oltre ad affiancare a Nicia i generali Menandro ed Eutidemo.[163][164][165]
La disfatta ateniese (413 a.C.)
La battaglia nel Porto Grande e la riconquista del Plemmirio
Grazie all'opera di Gilippo e di Ermocrate,[166] i Siracusani iniziarono il riarmo della flotta in modo da contrastare gli Ateniesi nel Porto Grande, con l'ausilio delle navi corinzie, per poi tentare la conquista del Plemmirio, posizione da cui gli Ateniesi controllavano l'accesso al Porto Grande e si garantivano i rifornimenti.[167][168] Una notte, mentre Gilippo si apprestava ad attaccare da terra il Plemmirio, i Siracusani mossero 35 triremi dal Porto Grande e altre 45 dall'arsenale nel Porto Piccolo per assalire la marina ateniese, che sottovalutò la forza avversaria confidando nella propria superiore esperienza sul mare.[169][170]
Gli Ateniesi, quando si accorsero della mossa, armarono 60 navi, eppure nonostante la superiorità numerica, i Siracusani stavano per ottenere una vittoria, riuscendo a mettere disordine tra i nemici. Sfruttando la situazione quando ancora si stava combattendo nel Porto Grande, Gilippo poté occupare le fortificazioni sul Plemmirio ed impadronirsi delle attrezzature dei nemici oltre che di grano, denaro e uomini, i quali, appena la flotta ateniese cominciò a prevalere sull'altra, trovarono un facile rifugio.[171][172] Con la caduta del Plemmirio, Nicia, oltre al controllo sul Porto Grande, perse anche la possibilità di ottenere facilmente rifornimenti dal mare anche perché la squadra ateniese, in cattivo stato e bloccata in porto da alcune palizzate poste in acqua dai Siracusani, fu vinta da quella avversaria mentre la cavalleria siracusana intercettava i viveri provenienti da Catania.[173] Le truppe ateniesi furono costrette a ripiegare presso i muri, in posizione sfavorevole per continuare gli attacchi.[174][175]
Il soccorso ateniese
Come durante la prima pausa del 415 a.C., si raccolsero i rinforzi degli alleati e si inviarono ambascerie: da queste trasse un vantaggio Siracusa, che, dopo la riconquista del Plemmirio, era riuscita a stipulare alleanze con Camarina (che non si era schierata nel 415 a.C.) e Gela.[176]
Si era ormai a giugno del 413 a.C., giunsero i rinforzi da Atene, guidati da Eurimedonte e Demostene, al quale precedentemente era stato impartito l'ordine di unirsi a Caricle e di prendere parte alle operazioni militari sulle coste della Laconia: 73 triremi, 5000 opliti, e numerosi arcieri, frombolieri e tiratori.[177] Per conto della flotta siracusana il corinzio Aristone prese il comando, allarmato dai rinforzi ateniesi, il suo piano era di «privare gli Ateniesi di tutti i vantaggi che le circostanze avevano dato loro in non piccola misura».[178][Nota 14] Tra gli Ateniesi invece Demostene, essendo Nicia infermo, assunse il comando. Per non dare il tempo di organizzarsi agli Ateniesi, i Siracusani compirono un duplice attacco: uno al muro principale ateniese e uno navale; l'attacco però non diede alcun vantaggio ai Siracusani, ma anzi permise agli Ateniesi di lanciare un contrattacco via terra che si sarebbe dovuto svolgere di notte, per cogliere di sorpresa gli assediati.[179][180]
Nel contrattacco, gli Ateniesi conquistarono la fortezza dell'Eurialo raggiunsero il contro-muro siracusano e, messi in fuga i rinforzi nemici, lo distrussero. Nello slancio, però, le forze ateniesi si dispersero su un fronte troppo ampio dando luogo ad una serie di scontri confusi dove i commilitoni, incapaci di riconoscersi nel buio, si scompaginarono fino a cagliarsi gli uni sugli altri per poi ritirarsi nell'accampamento.[181][182] Dopo la sconfitta e non senza recriminazioni reciproche i generali ateniesi tennero un consulto: Demostene per via delle epidemie, della scarsità di risorse e della sconfitta, consigliava la resa. Nicia, al contrario, confidando nei suoi contatti con gli esponenti filo-ateniesi presenti a Siracusa, insisteva nella necessità di logorare il nemico. Demostene ed Eurimedonte, pur poco convinti, accettarono il parere di Nicia, che godeva ancora di ammirazione tra le truppe, e rimasero.[183][184][185]
L'eclissi di luna e la morte di Eurimedonte
Poi, però, Nicia decise, a causa delle sempre più forti difficoltà di rifornimento, di disporre la ritirata proprio quando, il 27 agosto del 413 a.C. alle 10 di sera circa,[186] si verificò un'eclissi di luna che suscitò il panico tra le truppe. Nicia, che aveva ritenuto l'eclissi come segno premonitore di eventi infausti, ascoltando il consiglio dei suoi indovini, in particolare forse di Stilbides,[187] decise di proseguire la ritirata verso Catania dopo la pausa decretata dagli indovini,[Nota 15] pur sapendo che le poleis alleate avevano cessato di inviare viveri.[188][186]
Sarebbe un errore considerare il fenomeno dell'eclissi come sconosciuto per i Greci, anzi essi erano a conoscenza della sua periodicità di trenta o ventinove giorni e pure della sua origine: l'eclissi era infatti determinata dal moto della luna. Ciò che destava stupore e meraviglia per gli antichi non è la manifestazione del fenomeno, come già detto, quanto il mistero che sta alla base della repentina perdita di luminosità della luna piena.[189] È da ricordare che gli antichi avevano una conoscenza limitata dell'astronomia e dei meccanismi che regolano il moto dei pianeti, oltretutto le rappresentazione geocentrica della Terra non favoriva di certo la spiegazione dei fenomeni ma anzi lasciava adito a dubbi e interrogativi, spesso risolti nella confidenza con la divinità. L'eclissi di luna, coi mezzi a disposizione degli antichi, risultava «cosa non facile a capirsi e anzi era giudicata un fenomeno strano, un segno inviato dalla divinità a preannunciare eventi importanti».[189] L'assunzione del sistema geocentrico rendeva appunto l'eclissi una «cosa non facile a capirsi», dato che proprio con questa rappresentazione era più semplice pensare che «la luna potesse frapporsi fra sole e terra che ammettere che la terra poteva frapporsi fra luna e sole», cosa che genera l'eclissi.[190]
Nei giorni seguenti si svolsero numerose schermaglie tra gli eserciti di terra poi, però, i Siracusani mossero le loro 76 navi contro le 86 ateniesi: Eurimedonte, comandante dell'ala destra, nel tentativo di accerchiare la flotta avversaria, fu sospinto verso terra e quindi isolato dal centro dello schieramento che, messo in inferiorità, fu disperso.[191] Successivamente gli Ateniesi, convinti che l'unica possibilità di salvezza risiedesse nel forzare il blocco per mare, decisero di caricare tutti i soldati nelle imbarcazioni, lanciandosi al contrattacco con le 110 navi rimaste.[192][193] Il 10 settembre del 413 a.C., approfittando di un giorno festivo per Siracusa (dedicato ad Eracle) si decise di cominciare l'azione. Per cercare di forzare il blocco navale nacque all'interno del Porto Grande una caotica battaglia marittima condotta entro ristrettissimi spazi di manovra: la flotta ateniese impedita nei movimenti fu annientata dagli assalti dei soldati siracusani condotti da nave a nave,[194] e oltre all'affondamento e all'incagliamento di molte imbarcazioni, si ebbe anche la morte del comandante Eurimedonte.[195][196]
La fuga mortale via terra
Essendo impossibile qualsiasi fuga via mare a causa della distruzione dell'intera flotta e del blocco navale siracusano, gli ateniesi cercarono di fuggire verso l'entroterra abbandonando negli accampamenti i compagni feriti[197]. Dopo tre giorni di attesa infatti, onde evitare il rischio di imboscate, le stanche truppe ateniesi fuggirono verso Catania a piedi, marciando di notte per non essere intercettati: erano ormai rimasti in 40.000[198].
Ma l'attenta cavalleria di Gilippo, dopo averli intercettati a ridosso dei monti Climiti, li costrinse a cambiare per fuggire verso sud in direzione di Gela. I due generali tentarono ogni sforzo per ridare slancio ai soldati ma la situazione diveniva ogni giorno sempre più critica dato che il nemico, grazie al vantaggio della sua cavalleria, poteva decimare la colonna ateniese in fuga mediante continue imboscate e lancio di dardi o giavellotti; per guadagnare tempo accesero dei fuochi facendo credere d'essere accampati, mentre fuggivano di notte tra le campagne siracusane[199][200].
Inoltre la lunga fila di uomini in fuga determinò la separazione in due gruppi: quello più avanzato, comandato da Nicia, era costituito da truppe scelte e molto disciplinate; mentre la parte più arretrata, guidata da Demostene, era composta da truppe scarsamente addestrate ed indisciplinate: questa imprudenza diverrà fatale.
Dopo aver attaccato e vinto un presidio siracusano sul guado del fiume Cacipari, le forze di Nicia oltrepassarono anche il fiume Erineo ma la retroguardia di Demostene, circondata dalla cavalleria siracusana, bersagliata a distanza e ormai decimata dagli attacchi fu costretta alla resa[201]. Nicia, senza sapere della resa di Demostene, distante oltre 30 stadi, proseguì la marcia con i suoi 18.000 opliti pesantemente armati per raggiungere le alte e franose sponde del fiume Asinaro.
Qui, i Siracusani e gli Spartani all'inseguimento degli Ateniesi, consigliarono a Nicia di gettare le armi proprio come aveva fatto Demostene: scegliendo di non arrendersi, le truppe furono esposte al continuo fuoco dei dardi e dei giavellotti, che ebbero l'effetto di aumentare il caos tra le file dei superstiti. Accalcati sulle rive del fiume, senza aver organizzato alcuna protezione di coda, gli ateniesi ruppero dapprima le file per dissetarsi, causando la morte per annegamento di alcuni o per calpestamento di altri; mentre altri soldati verranno successivamente uccisi dalla dissenteria di cui le putride acque del fiume erano un facile veicolo[202]. Infine, di fronte alla decimazione avvenuta sulle rive del fiume, Nicia, per risparmiare vite umane comunicò a Gilippo la resa delle truppe, purché a queste fosse risparmiata la vita[202].
I prigionieri
I superstiti divennero tutti prigionieri finendo i loro giorni all'interno delle latomie, le cave di pietra siracusane, costretti ai lavori forzati sino alla morte o al meglio venduti come schiavi. Quei luoghi, infatti, privi di riparo dal caldo del giorno e dal freddo della notte, non lasciarono alcuno scampo per i prigionieri che sottoposti a dure condizioni di lavoro, morirono quotidianamente in gran numero tra le malattie e le sofferenze[203].
Il popolo ateniese, pur non intervenendo direttamente, venne a conoscenza della messa in prigione dei sopravvissuti e ne sono una prova tre diversi e disgiunti frammenti di varie stele, uno ritrovato vicino al teatro di Dioniso, uno sull'Acropoli di Atene e uno a nord dell'agorà,[204] dai quali è possibile ricostruire il testo di un decreto in onore di Epicerde di Cirene (un trierarco?)[205], datato 405/4 a.C.[206][205] Oltre alla stele, in Demostene (Contro Leptine 42) è presente la dedica che il popolo ateniese ha offerto a Epicerde:
«Per aver dato 100 mine ai cittadini presi prigionieri in Sicilia a quel tempo [dopo la spedizione] [...] salvandoli dalla morte per fame»
Su quest'affermazione gli storici e i filologi si dividono in chi pensa che la testimonianza di Demostene vada interpretata così com'è[207] e chi considera la donazione delle 100 mine come un riscatto per liberare alcuni prigionieri.[205]
I generali Demostene e Nicia vennero giustiziati dopo un breve processo, nonostante la contrarietà di Gilippo, mentre i restanti sottufficiali vennero venduti come schiavi. Solo pochi sbandati riuscirono a raggiungere Gela e Lentini confondendosi con la folla. Dei 50000 uomini inviati da Atene, ne sopravvissero solo 7000, ma in pochissimi tornarono in patria per raccontare l'ecatombe dell'armata ateniese. A riguardo, Plutarco racconta un aneddoto secondo cui i prigionieri ateniesi in grado di recitare Euripide venissero rilasciati dai soldati siracusani, segno che il tragediografo greco era molto amato a Siracusa[208].
L'imponente vittoria fu poi ricordata dai Siracusani, che decretarono il giorno 26 del mese Carneo (il 10 settembre del nostro calendario) una celebrazione annua in onore della ricorrenza chiamata Asinarie[209]; fu edificato, inoltre, un monumento nei pressi del fiume Asinaro, molto probabilmente da identificarsi con la cosiddetta Colonna Pizzuta, posta nei pressi dell'antica città di Eloro; ma secondo alcuni storici il monumento in ricordo della vittoria fu eretto al Plemmirio un mausoleo circolare in una località chiamata "Mondio".[210]
Le ragioni della sconfitta
La tesi di Tucidide mette in luce le scelte errate degli Ateniesi, che non conoscevano le reali dimensioni dell'isola né i popoli che vi abitavano, e poi dei generali in Sicilia, che agirono per i loro interessi col solo obiettivo di assicurarsi una posizione di prestigio sul popolo: tutte queste decisioni lesero alla coordinazione e all'efficacia dell'esercito e portarono il caos ad Atene.[211]
Altri scrittori cercano di rintracciare le cause della sconfitta ateniese:
- Andocide (Sui misteri 3, 30) incolpa l'ottusa politica estera degli Ateniesi, che avevano la cattiva abitudine di indulgere ad alleanze deboli pretendendo poi di condurre guerre per conto di altri e rammenta che gli ambasciatori di Siracusa, prima dell'avvio delle ostilità, avevano proposto ad Atene rapporti di amicizia, facendo rilevare che l'opzione della pace avrebbe portato maggiori vantaggi rispetto all'opzione di allearsi con Segesta e Katane.[212]
- Per Isocrate (A Nicocle, 84-85) l'impresa fu un puro atto di follia, perché gli Ateniesi non si vergognarono d'inviare un'armata contro chi mai aveva recato loro offesa, sperando così di dominare facilmente la Sicilia.
- Plutarco[213] pone l'accento sui contrasti interni: affermava, ad esempio, che gli Ateniesi erano già da tempo pronti ad inviare un'altra spedizione in Sicilia, ma che a frapporre molti indugi fossero state le invidie politiche per i primi successi di Nicia. Così, solo nell'inverno del 414 a.C., si decisero a fornire il necessario aiuto.[212]
- Cornelio Nepote[214], al pari di Plutarco, sosteneva che la vera causa del fallimento stava nell'estromissione di Alcibiade. Di concorde parere è anche lo storico greco Polibio,[215] che aggiunge come causa la superstizione di Nicia, resa evidente durante l'episodio dell'eclissi di luna e, come Polibio, così commentò Giacomo Leopardi:
Se da una parte Plutarco e le fonti da cui attinge forniscono una "visione d'insieme" della spedizione, considerandola uno dei tanti eventi della guerra; dall'altra Tucidide, come anche Isocrate, accusa duramente il velleitario progetto di Alcibiade, le cui decisioni risultavano offuscate dal desiderio di conquista della Sicilia e di Cartagine.[216][217]
La grande varietà di motivazioni presentate da ogni scrittore è stata diversamente colmata da alcuni storici moderni dando minore importanza ad alcune[Nota 16] o addirittura depennandone altre.[Nota 17] Alcune critiche sono state mosse all'affermazione che Tucidide fa riguardo le conoscenze che gli Ateniesi avevano della Sicilia (VI, 1):
La dimensione di quest'affermazione è sicuramente esagerata, volta a mettere in risalto l'incoscienza che gli Ateniesi dimostrarono nell'approvare la spedizione. D'altra parte, e lo stesso Tucidide a ne fa menzione, gli Ateniesi erano già giunti in Sicilia durante la spedizione del 427 a.C., e prima ancora avevano siglato dei trattati con le poleis di Segesta, Alicie e Leontini.[218] Oltretutto, come nota lo studioso Luigi Piccirilli, nel V secolo a.C. erano già presenti le carte geografiche locali.[212][219] Se in merito alle ragioni della sconfitta non emergono delle opinioni simili, risulta chiaro pensare che nemmeno gli scrittori antichi compresero appieno ciò che successe durante la spedizione e questa parziale cecità è probabilmente dovuta alla complessità delle cause che la scatenarono, numerose e non del tutto chiare.[212]
Le conseguenze politiche
La disfatta di Atene ebbe un'enorme eco in patria. Grande fu il trauma per la sconfitta, che costrinse Atene a ricostituire nuovamente quell'esercito e quella flotta interamente scomparse a Siracusa. Inoltre, furono avanzate critiche nei confronti dei generali militari, dei politici e persino degli indovini, responsabili di una sconfitta dalle proporzioni inaccettabili. La prestigiosa città attica aveva profuso un grande impegno nella ricerca della vittoria, dando fondo a tutte le sue risorse, sia in termini di armamento, che di denaro: ma da questa disfatta non si riavrà più.
Enormi furono le conseguenza politiche di questa disfatta. Tra esse la rinuncia di Atene a ulteriori mire espansionistiche nel Mediterraneo lasciando, ad esempio, spazio ai Cartaginesi che cercarono di approfittare di questa situazione per riprendere le loro conquiste in Sicilia; dall'altra parte permise alla polis di Agrigento, che restò neutrale durante la spedizione, di avere una grande crescita economica e culturale dato che Siracusa, la maggior rivale, era impegnata nell'assedio degli Ateniesi.[73]
Ad Atene venne a mancare, inoltre, la credibilità, nonché la sua fama di protettrice delle città della Ionia che già assoggettate dalla Persia, Atene aveva affrancato al termine della seconda guerra persiana. Di queste città i re persiani desideravano ardentemente la riannessione ai propri possedimenti. Per tal motivo Sparta venne finanziata dalla Persia, proprio per rimuovere l'ostacolo rappresentato da Atene determinando, in cambio del dominio sulla Ionia, il successivo ingresso dell'impero Persiano tra gli alleati di Sparta e Siracusa, con l'affiancamento agli Spartani di una flotta da guerra persiana. Inoltre, durante gli scontri, le città inizialmente neutrali, optarono per un'alleanza con Sparta, considerando imminente la vittoria di quest'ultima su Atene.
La disfatta ateniese, quindi, rappresentò un colpo mortale inferto alle casse della lega delio-attica, all'arsenale e, soprattutto, alla sua credibilità politica, determinando tra i membri ulteriori ribellioni contro la stessa alleanza delle città. Si può certamente dire che la disfatta ateniese, oltre ad aver trasformato il regime democratico in un'oligarchia per la progressiva perdita di credibilità, abbia anticipato quella che sarà la successiva occupazione spartana di Atene nel 404 a.C., con l'instaurazione del regime dei Trenta tiranni.[220]
Note
- Annotazioni
- ^ Oggi Tucidide è l'unica fonte, insieme a Diodoro Siculo, che narra interamente le vicende della spedizione ateniese in Sicilia. Due importanti opere sulla storia della Sicilia, quali i Sikelikà di Timeo di Tauromenio e di Filisto, sono andate perdute nel corso del tempo; tuttavia si è certi che entrambe trattassero in qualche libro della spedizione e ne sono prova i frammenti ritrovati: per l'opera di Timeo bastino i fr. 105 e 107 della sua opera, collocabili nel XIII libro (G. De Sanctis, Scritti minori, 1970, p. 115), dove si tratta dell'etera Laide di Hykkara. Per quanto riguarda l'opera omonima di Filisto, il fr. 25 è chiaramente attribuile alla spedizione in Sicilia e può essere collocato nel VI libro (G. De Sanctis, ib.).
- ^ Questo si deduce da ciò che scrivono le fonti primarie, in particolare Diodoro, ma la reale data del primo trattato tra Atene e Segesta è tutt'oggi oggetto di dispute. Ciò che potrebbe dare una conferma è un'iscrizione su una pietra in pessime condizioni sulla quale sono leggibili in finale di parola le lettere greche -ον che indicano il nome dell'arconte (IG219 = GHI, 37). Tra i nomi possibili ci sono: Abrone (458/7 a.C.), Aristone (454/3 a.C.), Epaminonda (429/8 a.C.), Aristione (421/0 a.C.) e Antifone (418/7 a.C.). Per approfondire si vedano: D. Kagan, The peace of Nicias and the Sicilian expedition, p. 159; D. W. Bradeen e M. F. McGreegor, Studies in fifth-century attica epigraphy, p. 71-81.
- ^ L'orazione La pace con i Lacedemoni di Andocide
- ^ Erissia a opera dello pseudo-Platone
- ^ Si vedano ad esempio le dichiarazioni in Sui misteri, 1, 11.
- ^ 36 000 uomini secondo Adolf Holm, The History of Greece, II, 1909, p. 470.
- ^ È oggetto di dibattito tra gli storici la posizione del Labdalo. G. Grote (History of Greece, 1862, vol. VII, p. 558) pone il Labdalo appena a nord-est del colle di Belvedere, discostandosi dalla mappa di Arnold (The History of the Peloponnesian War by Thucydides) in cui il Labdalo appare decisamente lontano dal colle. Seguendo le considerazioni di Grote e Arnold, lo storico tedesco Holm (Geschichte Siciliens im Alterthum, II, p. 387) fa importanti considerazioni sulle altezze dei vari colli, dimostrando come dalla presunta posizione di Arnold, che è a ridosso della costa, ad est, gli Ateniesi non avrebbero potuto vedere l'Epipoli. Un interessante ipotesi, senza però alcuna prova, viene da Schubring (S. 629) che crede di aver trovato la collocazione del Ladbalo appena ad ovest della parte nord delle mura dionisiane. Resta comunque certo che il Labdalo si trovi nei pressi dell'Epipoli. Per approfondire s. v. Freeman, op. cit., p. 661-62.
- ^ Più precisamente il muro ateniese iniziava presso l'odierna Scala greca, passando per il quartiere di Tiche e terminando a Portella del Fusco (Freeman, p. 215).
- ^ Il passo di Tucidide (VI, 98) in cui si menziona questo kyklos può lasciare dei dubbi riguardo al significato della parola, che è di ambito specialistico. Infatti, come sostengono storici quali Holm (op. cit., p. 388) e Grote (op. cit., VII, p. 559), kyklos non può essere definito il muro attorno alla città (che non sarà completato), ma il muro costruito attorno alla Syka (e questo significato ha anche in Polieno, Stratagemata, I, 39, 3); a maggior ragione il sostantivo kyklos, nella frase tucididea, è retto da un verbo che dà l'idea dell'azione terminata: queste considerazioni smentiscono ciò che scrive il biografo Plutarco a proposito delle mura. Ciò che genera un'incongruenza è il passo II, 13 dove Tucidide utilizza il termine kyklos per indicare le fortificazioni attorno alla polis di Atene. Per approfondire s. v. Freeman, op. cit., pp. 665-68; per un significato generale: Church Alfred, op. cit., p. 69.
- ^ Sembra comunque piuttosto improbabile il racconto di Plutarco (Nicia, 19) e di Tucidide (VII, 2). Come per primo ha notato Freeman, senza però dare una soluzione, che in ogni caso non avrebbe avuto prove a sostegno: «è davvero così plausibile che i Siracusani si siano risollevati e abbiano preso il coraggio per "disprezzare" gli Ateniesi (Plutarco) alla vista di una sola trireme e sentendo le parole del comandante che prometteva aiuti?». S. v. Freeman, p. 243.
- ^ Anche questa motivazione sarà alla base della conquista del Plemmirio, zona da cui si può facilmente vedere l'isola di Ortigia (Freeman, op. cit., p. 250-51).
- ^ Già stratego ai tempi di Pericle (Plutarco, Nicia, 2).
- ^ È da ricordare che il punto forse più importante da controllare per gli Ateniesi era il forte di Syka. I Siracusani avevano lentamente iniziato a circondarlo con una serie di muri: il primo, senza forse un preciso obiettivo, ebbe per lo più un'azione di "contenimento", impedendo l'avanzata del muro avversario; il secondo che passava a nord, pur contenendo ancora una volta il muro avversario, metteva in pericolo la sicurezza il Syka; un pericolo maggiore fu sicuramente dato dalla costruzione dell'ultimo muro ad ovest, in una zona del tutto favorevole (Freeman, op. cit., p. 258-59).
- ^ Il Porto Grande non dava alcun vantaggio agli Ateniesi che, oltre a trovarsi in un luogo nemico con coste ostili, non dava spazio a manovre elaborate, vero punto di forza della tattica ateniese (cfr. Battaglia di Salamina, 480 a.C.). Oltre a questo un altro punto a vantaggio dei Corinzi era la loro conoscenza della costruzione di una trireme ateniese e dei limiti di questa imbarcazione (Tucidide II, 84 e 91). S. v. Freeman, op. cit., p. 293-94.
- ^ Resta un dubbio su cosa effettivamente decretarono gli indovini. Le fonti principali (Tucidide e Plutarco) divergono: il primo (VII, 50) scrive che gli indovini prescrissero di aspettare «tre volte nove giorni», mentre Plutarco (Nicia, 23) scrive che gli indovini ne prescrissero tre, ma Nicia si impuntò affinché ne si aspettassero ventisette. Altri come Diodoro (XIII, 12) menzionano sempre, forse sulla scia di Filisto, i tre giorni e la seguente decisione procrastinatrice di Nicia. Una semplice soluzione può essere quella proposta da Grote (op. cit., VII, p. 433) che considera vera la versione di Tucidide, dato che Nicia non aveva alcuna ragione di modificare il responso degli indovini. Un'altra soluzione può essere quella di Thirlwall (op. cit., III, p. 441-42) secondo il quale alcuni indovini avrebbero proposto di fermarsi ventisette giorni e altri invece tre giorni. S. v. Freeman, op. cit., p. 690-93.
- ^ Come per il passo di Tucidide riguardante la spedizione in Sicilia (II, 65), posto però in una bizzarra posizione dato che la trattazione completa dell'evento è presente nei libri VI e VII. Ciò ha fatto supporre che il passo sia stato scritto posteriormente alla stesura del libro. Si veda Luigi Piccirilli, Il disastro ateniese in Sicilia, nota 13.
- ^ Come le testimonianze di Andocide, Plutarco e Platone. Si veda Luigi Piccirilli, Il disastro ateniese in Sicilia, nota 14
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- Documentari televisivi
- L'assedio di Siracusa, 413 a.C. da History Channel
Voci correlate
Altri progetti
- Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla spedizione ateniese in Sicilia
Collegamenti esterni
- Testo integrale delle Guerre del Peloponneso, su filosofico.net. URL consultato il 12 giugno 2008.
- La spedizione, su YouTube. URL consultato il 12 giugno 2008.
- Ritorno a Siracusa, su icsm.it. URL consultato il 12 giugno 2008.
- (EN) L'assedio di Siracusa, su livius.org. URL consultato il 12 giugno 2008.
- (EN) Sicilian expedition, su livius.org. URL consultato il 12 giugno 2008.
- (EN) Syracuse 415-413 BC di Nic Fields, Peter Dennis da Google Books