Condizione femminile in Italia
La condizione femminile in Italia, al pari degli altri paesi occidentali industrializzati, ha subito radicali mutamenti nel corso dei secoli. Le donne da "minoranza" priva di diritti hanno visto riconosciuto nel corso del XIX e XX secolo il loro ruolo di componente paritaria della società contemporanea.
Storia
Dal Medioevo al Rinascimento
All'interno di una struttura sociale patriarcale, che assegna loro un ruolo subalterno nella famiglia e nella società, le donne italiane hanno pochissime occasioni per distinguersi durante il Medioevo, se non in conseguenza di circostanze straordinarie. Una vedova può ereditare una posizioni di potere dal proprio marito, come nel caso di Matilde di Canossa. Una donna istruita può trovare opportunità di leadership nel convento, da Chiara d'Assisi a Caterina da Siena.
Nel Rinascimento (XV-XVI secolo) le donne restano ancora confinate ai ruoli tradizionali di "monaca, moglie, serva, cortigiana" [1] Cresce, tuttavia, la diffusione dell'alfabetizzazione tra le donne delle classi privilegiate e si apre l'occasione per un numero crescente di donne di partecipare alla vita intellettuale anche in ambito laico. Veneziana di nascita Christine de Pizan scrive La Città delle Dame nel 1404; l'autrice descrive il genere femminile come privo di inferiorità innata rispetto agli uomini. Alcune donne fortunate che la propria posizione sociale libera dal fardello del lavoro domestico sono in grado di ottenere una educazione, o hanno un padre o un marito che permette loro di coltivare i propri talenti artistici e culturali. Lucrezia Tornabuoni a Firenze, Veronica Gambara a Correggio; Veronica Franco e Moderata Fonte a Venezia, Vittoria Colonna a Roma, sono nobildonne che si affermano per le proprie riconosciute capacità intellettuali. Le donne forti del Rinascimento italiano, come Isabella d'Este, Caterina de' Medici o Lucrezia Borgia, uniscono l'abilità politica a interessi culturali e di patronato nelle arti.
Dal Rinascimento all'età napoleonica
All'inizio del Seicento, le donne italiane intellettuali sono ormai una presenza affermata nella cultura del tempo, anche se il fenomeno resta limitato alle classi privilegiate e non si traduce in provvedimenti legislativi; la loro attività resta confinata ai loro salotti di casa. [2] Tra queste donne ci sono i compositori Francesca Caccini e Leonora Baroni, e la pittrice Artemisia Gentileschi.
Al di fuori del contesto familiare, le donne italiane continuano a trovare opportunità nei conventi e ora sempre più, anche nel teatro, a cominciate da Anna Renzi (descritta come la prima diva della storia dell'opera) e Barbara Strozzi. Nel 1678 Elena Lucrezia Cornaro è la prima donna in Italia a ricevere una laurea accademica, in filosofia, dall'Università di Padova.
Nel Settecento l'Illuminismo offre per la prima volta alle donne italiane, come ad esempio Laura Bassi, Cristina Roccati, Anna Morandi Manzolini e Maria Gaetana Agnesi, la possibilità di eccellere nel campo delle scienze. Soprani e primedonne italiane continuano ad essere famose in tutta Europa: Vittoria Tesi, Caterina Gabrielli, Lucrezia Aguiari e Faustina Bordoni. Tra le donne celebri del Settecento italiano troviamo anche la pittrice Rosalba Carriera, e la compositrice Maria Margherita Grimani.
Il Risorgimento
L'età napoleonica e il Risorgimento italiano offrono per la prima volta alle donne italiane la possibilità di essere politicamente impegnate.[3] Già nel 1799 a Napoli, la poetessa Eleonora Pimentel Fonseca svolge un ruolo da protagonista nella Repubblica partenopea; pagherà con la condanna a morte questo suo impegno. Nella prima metà del XIX secolo, alcuni dei salotti più influenti in cui i patrioti, rivoluzionari e intellettuali italiani si incontrano, sono diretti da donne, come ad esempio Bianca Milesi Mojon, Metilde Viscontini Dembowski, Teresa Casati, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Antonietta De Pace e Giuditta Bellerio Sidoli. Alcune donne si distinguono anche sui campi di battaglia, da Luisa Battistotti Sassi (combattente nelle Cinque giornate di Milano) a Colomba Antonietti (caduta nella difesa della Repubblica Romana), da Anita Garibaldi (la moglie di Giuseppe Garibaldi) a Rosalia Montmasson (che partecipa alla Spedizione dei Mille come infermiera) e Antonia Masanello (unica donna ad unirsi ai combattenti garibaldini come soldato) .
Il Regno d'Italia (1861-1925)
Il nuovo Stato unitario esalta le madri e le spose del Risorgimento ma non concede alcun diritto alle donne. Il voto (anche amministrativo) è precluso. Il diritto di famiglia, disciplinato dal 1865 dal Codice Pisanelli, è improntato sulla supremazia maschile e preclude alla donna, attraverso la richiesta dell'autorizzazione maritale, ogni decisione di natura giuridica o commerciale. L’articolo 486 del Codice Penale del 1859 del Regno di Sardegna, esteso ora a tutta Italia, prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.[4]
Comincia subito la battaglia per l'acquisizione di una parità di diritti. Già nel 1864 Anna Maria Mozzoni, pioniera del movimento femminile in Italia, denuncia le discriminazioni legali cui la donna è sottoposta attraverso la pubblicazione di "La donna e i suoi Rapporti Sociali in Occasione della revisione del Codice Italiano". Nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presenta il primo disegno di legge per consentire il voto alle donne; la proposta è respinta con voto della Camera dei Deputati.
Nascono i primi giornali e le prime associazioni femminili. Nel 1868 Gualberta Alaide Beccari comincia la pubblicazione della rivista Donne a Padova. Nel 1879 la Mozzoni fonda a Milano una Lega promotrice degli interessi femminili, per rivendicare il suffragio femminile. Ogni proposta di legge per estendere (anche in modo limitato) il voto alle donne viene comunque respinta dal Parlamento italiano
Sul fronte dell'Istruzione, le donne ottengono nel 1874 l’accesso ai licei e alle università, anche se in realtà molte scuole continuarono a respingere le iscrizioni femminili. Ernestina Paper, una ebrea di origine russa trasferitasi in Italia, è nel 1877 la prima donna a laurearsi in Italia, in medicina. Dopo di lei e fino al 1890 le donne che in Italia conseguirono una laurea saranno una ventina appena; aumenteranno a 237 nel decennio successivo.
I cambiamenti legislativi sono molto lenti. I progressi maggiori sono ottenuti laddove lo sfruttamento era più grande ma anche la concentrazione femminile più significativa, ovvero nei campi e nelle fabbriche. Sotto l'influenza di leader socialisti, come Anna Kuliscioff e Angelica Balabanoff, le donne si organizzano nella costituzione dei primi sindacati operai. Significativi progressi si compiono anche nell'organizzazione delle lavoratrici agricole. Argentina Altobelli è tra i fondatori della Federazione nazionale dei lavoratori della terra (1901) e nel 1906 ne diventa segretaria (carica che manterrà nei prossimi 20 anni fino allo scioglimento dell'organizzazione da parte del regime fascista). Nel 1902 è approvata una prima legge per proteggere la lavoro delle donne (e bambini). È vietato loro di lavorare nelle miniere e le ore giornaliere sono limitate a 12.
Nuove opportunità si aprono anche alle donne che abbracciano la vita religiosa. Le sante italiane del XIX secolo non sono piu' solo mistiche attive nei conventi di clausura. L'impegno caritatevole si trasforma in un impegno sociale di pubblica rilevanza, come nel caso di suor Benedetta Cambiagio Frassinello, fondatrice nel 1856 delle Suore Benedettine della Provvidenza o di suor Francesca Saverio Cabrini, fondatrice nel 1880 a Codogno della congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, la quale, emigrata negli Stati Uniti, vi costruirà una rete di asili, scuole, convitti per studentesse, orfanotrofi, case di riposo per laiche e religiose, ed ospedali.
La battaglia per l'emancipazione femminile e il voto alle donne si riaccende agli inizi del Novecento con la creazione nel 1904 del Consiglio delle Donne Italiane (CNDI), aderente all'International Council of Women. La presidente è Gabriella Rasponi Spalletti. Il CNDI organizza a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle Donne Italiane, inaugurato dalla Regina Elena ed al quale erano presenti molte nobildonne. L'obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne della classi più elevate. Anche le donne cattoliche si organizzano sotto la guida della marchesa Maria Cristina Giustiniani Bandini, con un'agenda più conservatrice in linea con le direttive della Chiesa e sotto il controllo delle gerarchie ecclesiali; nasce così nel 1908 l’Unione delle Donne Cattoliche Italiane (UDACI), poi Unione Femminile Cattolica. Sempre in ambito cattolico, ma sul versante della sinistra popolare si collocano le voci di Adelaide Coari e di Elisa Salerno, fondatrice nel 1909 del giornale La donna e il lavoro.
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino propongono un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Il primo ministro Giovanni Giolitti però vi si oppone strenuamente, definendolo "un salto nel buio". La questione, rimandata all'esame di una apposita commissione, viene accantonata.
Nel campo della cultura, tra donne più famose del Regno d'Italia ci sono le attrici Eleonora Duse, Lyda Borelli e Francesca Bertini); le scrittrici Matilde Serao, Sibilla Aleramo, Carolina Invernizio, Ada Negri e Grazia Deledda (che nel 1926 avrebbe vinto il premio Nobel); le soprano Luisa Tetrazzini e Lina Cavalieri; la pedagogiste Giulia Cavallari Cantalamessa e Maria Montessori.
Con la prima guerra mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati al fronte vennero occupati dalle donne, nei campi, nelle fabbriche e nella pubblica amministrazione, con percentuali che in alcuni settori raggiungono anche l’80% degli addetti.
L'enorme contributo dato dalle donne alla causa bellica riaccende al termine del conflitto il dibattito sul suffragio femminile. Sia il Partito socialista che il Partito popolare appoggiano ora questa causa.
Dal Fascismo alla Resistenza (1925-1945)
Il nascente movimento fascista tiene inizialmente un atteggiamento ambiguo: da un lato dichiara il suo favore verso la concessione del voto amministrativo alle donne, dall'altro appoggia, anche con azioni squadristiche, le proteste verso le donne lavoratrici, accusate di togliere il lavoro ai reduci. Nel 1923 lo stesso Benito Mussolini si impegna di fronte al nono congresso dell'Alleanza femminile internazionale (che si svolge a Roma il 14-19 maggio) di estendere, sia pure a certe condizioni, il voto amministrativo alle donne. Il 22 novembre 1925 fa anche approvare una legge in tal senso, i cui effetti pero' sono immediatamente annullati dalla riforma podestarile del 4 febbraio 1926, che abolisce il voto amministrativo.
Con l'instaurazione del regime fascista, i diritti delle donne subiscono una radicale battuta d'arresto; l'ideologia fascista vede nella procreazione il dovere primario della donna.[5] Una serie di leggi mirano a costringere le donne italiane nuovamente al loro ruolo di mogli e madri. Il Codice di Famiglia viene ulteriormente inasprito dal fascismo, ponendo le donne in uno stato di totale sudditanza di fronte al marito. Anche nel nuovo Codice Penale sono confermate tutte le norme contrarie alle donne, aggiungendovi l’art. 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia (il cosiddetto "delitto d’onore").
La posizione del fascismo è rafforzata dalla sua coincidenza con quella della Chiesa con la quale i legami si fanno più stretti dopo i Patti Lateranensi del 1929. Nell'enciclica Casti connubio (1930) si ribadisce il ruolo primario della donna come madre e si condannava come "contro natura" ogni idea di parità tra i sessi. Le associazioni femminili cattoliche, guidate da Armida Barelli, sono tuttavia le uniche cui il regime permetta di esistere e per molte donne cattoliche esse saranno un importante luogo di formazione alla loro futura attività politica.
La retorica fascista esalta il ruolo di supporto della donna italiana, e ne incoraggia il ruolo sottomesso nella famiglia (Rachele Mussolini), o a intrattenimento del maschio italiano nel campo dello spettacolo (Luisa Ferida, Wanda Osiris). L'attività fisica delle giovani è vista con favore, come un complemento alla loro femminilità, e in questo senso è accolta con favore la medaglia d'argento conquistano dalle ginnaste italiane nella prima partecipazione femminile dell'Italia ai Giochi Olimpici del 1928. C'è il timore tuttavia che la donna attraverso lo sport possa acquisire troppo indipendenza e libertà e cosi', anche su pressione del Vaticano, nessuna atleta è inviata a rappresentare l'Italia ai Giochi Olimpici del 1932. La medaglia d'oro di Ondina Valla, la prima in assoluta di un'atleta italiana ad una competizione internazionale, ai successivi Giochi Olimpici di Berlino nel 1936 è accolta con un misto di orgoglio (per la risonanza internazionale che l'impresa riceve) e di preoccupazione che la donna non oltrepassi i rigidi confini a lei assegnati dall'ideologia fascista.[6]
Il fascismo celebra le sue eroine e militanti della prima ora (come Ines Donati), ma ogni attività pubblica autonoma delle donne (fosse anche in supporto al regime) è ora duramente repressa. L'unica donna alla quale si conceda ancora una qualche visibilità politica è Margherita Sarfatti che, amante e consigliera di Benito Mussolini, nel 1926 ha pubblicato Dux, un'apologetica biografia del Duce, tradotta in 18 lingue. In questa situazione sono relativamente poche anche le donne impegnate nei movimenti antifascisti: 748 furono le donne processate per crimini politici dal Tribunale speciale e circa 500 quelle a ricevere condanne. Tra queste vi è Camilla Ravera arrestata nel 1930 e condannata a 15 anni di carcere al confino. Le uniche donne a potersi permettere un atteggiamento ribelle e anticonformista e a mantenere una certa libertà d'azione sono donne "intoccabili" dal regime a causa dei loro legami familiari: Ernesta Bittanti (la vedova di Cesare Battisti), Edda Ciano Mussolini, e Maria José di Savoia.
Le leggi razziali del 1938 infliggono un altro duro colpo all'emancipazione femminile in Italia, perché una buona percentuale delle poche donne italiane ad avere ruoli accademici sono ebree, da Anna Foà a Enrica Calabresi.[7]
Dopo l'esperienza del fascismo e dei primi tragici anni di guerra, la Resistenza offre alle donne italiane la prima occasione di presenza di massa nelle vicende politiche del loro paese. Gia' nel novembre 1943 sono creati i Gruppi di difesa della donna diretti da Caterina Piccolato, riunendo gruppi femminili e donne antifasciste d'ogni provenienza con lo scopo di mobilitare le masse femminili contro l'occupazione. Secondo il CNL-Alta Italia le donne aderenti alla Resistenza furono: 75.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa, 35.000 partigiane, 4563 tra arrestate torturate e condannate, 623 fucilate e cadute, 2750 deportate, 512 Commissarie di guerra, 15 decorate con Medaglia d’Oro. Si tratta del 20% dei partecipanti al movimento di resistenza, senza contare le tante donne che agirono da fiancheggiatrici.[8]
L'Italia Repubblicana (1945-presente)
Anche in riconoscimento della lotta sostenuta da molte donne durante la Resistenza, il suffragio femminile viene riconosciuto già il 1 febbraio 1945, su proposta di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia.
Nel settembre del 1944, si forma a Roma l'UDI, Unione Donne in Italia, per iniziativa di donne appartenenti al PCI, al PSI, al Partito d'Azione, alla Sinistra Cristiana e alla Democrazia del Lavoro e fu l'UDI a prendere l'iniziativa di celebrare, l'8 marzo 1945, la prima giornata della donna nelle zone dell'Italia libera. Con la fine della guerra, l'8 marzo 1946 fu celebrato in tutta l'Italia e vide la prima comparsa del suo simbolo, la mimosa, che fiorisce proprio nei primi giorni di marzo, secondo un'idea di Teresa Noce,[9] di Rita Montagnana e di Teresa Mattei.[10]
Il 2 giugno 1946 si celebrarono libere elezioni, le prime dal 1924 e le prime dove le donne italiane esercitarono il diritto di voto. Vennero consegnate contestualmente agli elettori la scheda per la scelta fra Monarchia e Repubblica, il cosiddetto Referendum istituzionale, e quella per l'elezione dei deputati dell'Assemblea Costituente. 21 donne risulteranno elette all'Assemblea Costituente; cinque di esse (Maria Federici, Angela Gotelli, Nilde Jotti, Teresa Noce, Lina Merlin), faranno parte della Commissione per la Costituzione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione repubblicana. La Costituzione italiana del 1948 garantiva pari diritti in ogni campo (le donne hanno pari dignità sociale e uguali diritti rispetto al genere maschile, secondo l'articolo tre della Costituzione).
La spinta per l'emancipazione femminile si attenua con il raggiungimento del diritto al voto, e prosegue ora a piccoli passi. Nel 1948 Lina Merlin è la prima donna ad entrare nel Senato. Nel 1951 viene nominata la prima donna in un governo (la democristiana Angela Maria Guidi Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio). Nel 1958 viene approvata la Legge Merlin, che abolisce lo sfruttamento statale della prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute. Nel 1959 nasce il Corpo di polizia femminile, con compiti sulle donne e i minori, che sarà attivo dal 1961 fino alla soppressione nel 1981, quando viene integrato nella Polizia di Stato. Sempre nel 1959 suscita un vero scandalo l'uscita del libro di Gabriella Parca, Le italiane si confessano, nel quale si denunciano apertamente le prevaricazioni, gli abusi e i mille diffusi pregiudizi che ancora caratterizzano la società italiana.
Alla fine degli anni ‘60, sulla spinta anche degli avvenimenti europei e mondiali, nascono anche in Italia gruppi femministi, i quali non solo rivendicano l'applicazione dei principi costituzionali di eguaglianza ma mettono l'accento anche su temi di diritto specificamente femminili, quali il divorzio, l'aborto, la contraccezione, la lotta la maschilismo. Il dibattito sulla condizione femminile in Italia subisce una brusca accelerazione. Nel 1970 il divorzio diventa legale (decisione confermata nel 1974 da un referendum). Nel 1975 viene approvato il nuovo Codice di diritto di famiglia, che per la prima volta garantisce la parità legale fra i coniugi e la possibilità della comunione dei beni. Nel 1978 l'aborto è legalizzato in Italia (con una decisione confermata da una consultazione referendaria il 17 maggio 1981).
Nel 1976 Tina Anselmi diventa la prima donna ministro e dal 1979 al 1992 Nilde Iotti ricopre la carica di Presidente della Camera dei Deputati. Nel 1982 Camilla Ravera è la prima donna ad essere nominata senatrice a vita dal Presidente Sandro Pertini. ll 12 giugno 1984, in concomitanza agli altri paesi europei, viene istituita la Commissione Nazionale per la parità e la pari opportunità tra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio. Emma Bonino è ministro del commercio internazionale e delle politiche europee nel Governo Prodi (2006-08) e ministro degli esteri nel Governo Monti (2013-14). Emma Marcegaglia è la prima donna alla presidenza di Confindustria (2008-12).
Nel campo della cultura, delle arti e delle scienze, tra le donne italiane più famose del secondo dopoguerra ci sono le attrici Anna Magnani (Premio Oscar 1956), Sofia Loren (Premio Oscar 1962 e 1991) e Gina Lollobrigida; la soprano Renata Tebaldi; la ballerina Carla Fracci; la costumista Milena Canonero (vincitrice di 4 Premi Oscar); le scrittrici Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Alda Merini e Oriana Fallaci; l'astrofisica Margherita Hack e le scienziate Rita Levi-Montalcini (premio Nobel per la Medicina nel 1986 e senatrice a vita dal 2001), Elena Cattaneo (senatrice a vita dal 2013) e Fabiola Gianotti (dal 2016 direttrice generale del CERN).
Lo sport è un altro campo in cui le donne italiane acquisiscono una presenza e un ruolo sociale sempre più rilevanti. Se le medaglie olimpiche di Irene Camber, Novella Calligaris, Sara Simeoni e Gabriella Dorio hanno ancora i caratteri dell'eccezionalità, a partire dagli anni '90 lo sport femminile è una realtà complessa e articolata, capace di esprimere campionesse come Josefa Idem, Deborah Compagnoni, Valentina Vezzali, Federica Pellegrini e Tania Cagnotto. Le atlete italiane si distinguono a livello internazionale anche negli sport di squadra, in particolare nella scherma, nel tennis, nella pallavolo e nella pallanuoto.
La condizione femminile in Italia oggi
La condizione femminile in Italia è oggi radicalmente diversa al passato. Ancora oggi però il World Economic Forum con un'indagine chiamata Global Gender Gap Index[11], rivela che nel 2010, su 128 Paesi, l'Italia si trova al 74º posto per uguaglianza di genere.[12]
Lo svantaggio femminile nella scuola secondaria di secondo grado, che storicamente caratterizzava il sistema scolastico italiano, è stato colmato agli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento in poi le ragazze hanno sorpassato i ragazzi sia per tasso di partecipazione (il 93 per cento, contro il 91,5 degli studenti maschi nell'a.s. 2010/2011), sia soprattutto per percentuale di conseguimento del diploma: tra i diciannovenni nell'a.s. 2009/2010 il 78,4 per cento delle ragazze ha conseguito il diploma contro il 69,5 per cento dei ragazzi.[13].
Anche nel proseguimento degli studi universitari le donne ormai sorpassano gli uomini: nel 2004 su 100 laureati con il vecchio ordinamento 59 erano donne, mentre per i corsi triennali le donne rappresentavano il quasi il 57 per cento. Inoltre i voti finali sono mediamente più alti per le donne[14]. Attualmente le donne hanno maggiore accesso, e agevolazioni nel mondo del lavoro alla fine del percorso di studi (laurea)[15]. Inoltre, le giovani donne che decidono di essere single raggiungono posizioni dirigenziali in percentuale pari ai colleghi uomini nelle medesime condizioni[15].
Dal punto di vista universitario e del mondo del lavoro le giovani italiane sono ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato del lavoro: scelgono infatti percorsi umanistici, artistici e sanitari piuttosto che altri (soprattutto ingegneristici).[16][17]
Il tasso di disoccupazione femminile in Italia è più elevato (circa 4% Istat, 2005) di quello maschile. Il tasso di occupazione femminile è nettamente inferiore a quello maschile, risultando occupate nel 2010 solo circa 46 donne su 100, contro una percentuale del 67% degli uomini[18]. Nel Mezzogiorno le differenze sono più accentuate e l'occupazione delle donne arriva a appena a superare il 30%. Il tasso di inattività è, di contro, molto alto, arrivando a sfiorare la metà di tutta la popolazione femminile in età lavorativa. Tra le principali cause di questo fenomeno va citata l'indisponibilità per motivi familiari, motivazione che è quasi inesistente per la popolazione maschile[18]. Ad esempio il 15% delle donne dichiara di aver abbandonato il posto di lavoro a causa della nascita di un figlio. Spesso si tratta di una scelta imposta, infatti in oltre la metà dei casi sono state licenziate o messe in condizione di lasciare il lavoro perché in gravidanza[19].
Tutta questa inattività non si traduce però in un maggiore tempo libero per le donne. Al contrario, il tempo delle donne italiane è impiegato nel sopportare in maniera preponderante i carichi di lavoro familiari, molto più che in tutto il resto d'Europa. Gli uomini italiani risultano i meno attivi del continente nel lavoro familiare, dedicando a tali attività appena 1 h 35 min della propria giornata[20]. Per lavoro familiare si intende sia le attività domestiche (cucinare, pulire la casa, fare il bucato etc.), sia le attività di cura dei bambini e degli adulti conviventi. Si stima che il 76,2 per cento del lavoro familiare delle coppie sia ancora a carico delle donne. Considerando i tempi di lavoro totale, cioè la somma del tempo dedicato al lavoro retribuito e di quello dedicato al lavoro familiare, le donne lavorano sempre più dei loro partner. Una donna con una occupazione tra 25 e 44 anni senza figli lavora giornalmente 53 min in più del suo partner; se però ci sono i figli la differenza aumenta ad 1 h 02 min più del partner. Persino le madri non occupate lavorano più dei loro partner (8 h 15 m contro 7 h 48 m)[21]. Una conseguenza di questa disparità è che le lavoratrici italiane dormono meno che in tutti gli altri paesi europei e hanno poco tempo da dedicare allo svago[20].
I dati dimostrano che le lavoratrici donne sembrano orientate a lavori meno usuranti e meno pericolosi rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità sul lavoro è di circa 11 punti per milione; quello maschile si attesta a circa 86 unità per milione[15]. Inoltre le donne occupate che lavorano la sera sono il 16% contro il 25% dei loro colleghi uomini. Le donne occupare che lavorano la notte sono solo il 7% contro il 14% dei loro colleghi uomini[15].
Nella pubblica amministrazione italiana le lavoratrici donne sono poco più della metà del totale[22], grazie alla preponderanza femminile tra gli insegnanti soprattutto nella scuola di base. In tale settore si nota tuttavia una netta prevalenza maschile nelle qualifiche più elevate: ogni 100 dirigenti generali si contano solo 11 donne[22].
Le retribuzioni degli uomini in Italia sono superiori mediamente a quelle delle donne: nel 2004 ad esempio il monte salari maschile (reddito complessivamente percepito dagli uomini italiani) era superiore di circa il 7% rispetto a quello femminile, mentre nel 2010 questo divario è arrivato al 20%[21]. Questo si verifica perché l'occupazione femminile è concentrata su lavori a più bassa retribuzione[23] e perché a parità di mansioni gli stipendi maschili sono, seppur leggermente (del 2%), superiori[24]. Le donne inoltre hanno minori possibilità di beneficiare delle voci salariali accessorie, quali gli incentivi o lo straordinario[21].
La speranza di vita alla nascita femminile è di 5,6 anni superiore a quella maschile[25]. Le donne, inoltre, sono meno esposte ad omicidi ed aggressioni rispetto agli uomini: i decessi per tali ragioni ai danni di persone del genere femminile rappresentano circa un quarto del totale[26].
Sempre in materia di diritto di famiglia si registra che il 71% delle richieste di divorzio è presentata dal genere femminile[27]. Inoltre, in caso di divorzio, l'assegnazione della casa dove la famiglia viveva (in assenza di figli ed indipendentemente della proprietà della stessa) è attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex-mariti[27].
Sul totale delle persone che hanno svolto attività gratuita per un partito politico nel corso del 2005, circa un quarto sono donne[28]. Il numero di parlamentari donne in Italia è coerente con tale tasso di partecipazione alla vita politica.
Nel Parlamento italiano le donne rappresentano meno del 20% del totale (18,69% al Senato[29] e 21,43% alla Camera[30] nella XVI Legislatura) con un risultato peggiore rispetto ad esempio alla composizione del Parlamento europeo, nel quale le donne rappresentano circa il 35%[31].
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- ^ a b Istat, Rapporto sulle Famiglia, 2002
- ^ Istat, Rapporto Politica e società anno 2005
- ^ Statistiche XVI Legislatura
- ^ Composizione della Camera - Distinzione dei deputati per fasce di età e per sesso
- ^ Distribuzione uomini/donne nel Parlamento europeo