Patobiologia dell'aterosclerosi

parte della patologia che ha come oggetto di interesse i fenomeni cellulari e biochimici che costituiscono la base biologica dell'aterosclerosi
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La patobiologia dell'aterosclerosi ha come oggetto di interesse i fenomeni cellulari e biochimici che costituiscono la base biologica dell'aterosclerosi. La patobiologia rientra così nell'ambito della patogenesi, rispetto alla quale ha un campo di studio più circoscritto.

L'aterosclerosi è una malattia infiammatoria cronica dell'intima delle arterie che rappresenta la risposta all'azione patogena protratta delle lipoproteine, con il concorso degli altri fattori di rischio cardiovascolare. Alla patobiologia dell'aterosclerosi prendono parte le cellule della parete arteriosa (endotelio, cellule muscolari lisce, cellule dendritiche, mastociti), alcune cellule ematiche (monociti/macrofagi, linfociti, piastrine), proteine plasmatiche (lipoproteine, fattori della coagulazione), proteine tessutali (proteine della matrice extracellulare dell'intima, enzimi), fattori di crescita e mediatori dell'infiammazione (citochine, chemochine, radicali liberi).

Teorie patogenetiche dell'aterosclerosi

Le due prime importanti teorie patogenetiche risalgono alla metà dell’800: la teoria della incrostazione di Rokitansky (1842) e la teoria della insudazione o dell’infiammazione di Virchow (1856). Secondo Carl von Rokitansky la patologia si sviluppava a causa della formazione di piccoli coaguli che si depositavano nella parete arteriosa, dove subivano l’organizzazione in tessuto fibroso. Rudolf Virchow sottolineava invece le differenze anatomiche tra le lesioni superficiali (le attuali strie lipidiche) e quelle ateromatose più profonde e considerava i due processi distinti, trattandosi nel primo caso di una semplice degenerazione grassa e nel secondo di un processo nel quale la metamorfosi grassa era preceduta da una fase di natura infiammatoria.

Teoria lipidica

Il concetto che l’aterosclerosi sia legata alla la deposizione dei lipidi plasmatici nell’intima (cosiddetta ipotesi lipidica) ha la sua base scientifica nei lavori sperimentali sui conigli condotti da Nikolai N. Anitschkow e Semens S. Chalatow (1913-1914). La nutrizione dei conigli con diete ad alto contenuto di lipidi, soprattutto con olio vegetale arricchito con colesterolo, risultava nella comparsa di lesioni aterosclerotiche. Questi autori hanno anche identificato l’anello di congiunzione tra dieta e lesioni: lo sviluppo dell’aterosclerosi era preceduto da una modificazione nella composizione dei lipidi del sangue, in particolare da uno spiccato aumento della concentrazione del colesterolo. La scoperta delle varie classi di lipoproteine, ottenuta con l'ultracentrifugazione del plasma da Gofman (1950), ha reso possibile appurare che nel coniglio a dieta ipercolesterolica la quota maggiore del colesterolo plasmatico migra con le lipoproteine a bassa densità (LDL); questo comportamento rappresenta il contrario di quanto avviene negli animali normali, nei quali prevale il colesterolo delle lipoproteine ad alta densità (HDL). Nelle LDL veniva così identificato il collegamento causale tra dieta e lesioni aterosclerotiche. L’origine plasmatica del colesterolo che si ritrova nelle lesione aterosclerotiche è stata definitivamente dimostrata negli anni 60 con studi che hanno impiegato dapprima isotopi radioattivi e successivamente anticorpi marcati anti-LDL. Con questa dimostrazione veniva interamente confermata l’ipotesi di Anitschow, che riconosceva nella sequenza dieta ipercolesterolica-ipercolesterolemia-accumulo lipidico nell’arterie il meccanismo patogenetico dell’aterosclerosi sperimentale indotta dalla dieta.

Teoria della risposta alla lesione

A partire dagli anni 60, grazie ai progressi della microscopia elettronica, le attenzioni dei ricercatori si sono focalizzate sulla patobiologia dell’aterosclerosi, ovvero sugli eventi cellulari che determinano la formazione delle lesioni. Le prime cellule ad essere considerate sono state le cellule muscolari lisce, ritenute l’elemento chiave dell’aterogenesi, in quanto capaci sia di trasformazione in cellule schiumose, sia di sintesi di matrice connettivale. Gli studi sperimentali degli anni 60 e 70 si sono rivolti principalmente all’indagine delle lesioni intimali indotte da agenti in grado di ledere gravemente il rivestimento endoteliale delle arterie. A tal fine sono state utilizzate diverse metodiche: danno meccanico mediante cateteri a palloncino, danno chimico da parte di omocisteina (Ross e Harker, 1976) o danno immunologico (Minick, 1973). La denudazione della superficie delle arterie (arterie iliache) di scimmie con cateteri a palloncino riproduceva lesioni simil-aterosclerotiche a componente essenzialmente fibro-muscolare; le lesioni erano reversibili dopo alcuni mesi dal danno. Quando gli esperimenti di denudazione con catetere erano effettuati in scimmie rese ipercolesterolemiche, le lesioni non mostravano alcuna regressione, ma al contrario tendevano a progredire. In un gruppo di macachi ipercolesterolemici la denudazione era eseguita in una soltanto delle due arterie iliache: nell’arteria non cateterizzata l’ipercolesterolemia era in grado di provocare la perdita del 5% della superficie endoteliale. Confrontando dopo 10 mesi l’arteria denudata con quella controlaterale non denudata dello stesso animale, i due vasi presentavano identico grado di lesioni.

Sulla base dei dati ottenuti si affermava la convinzione che le lesioni aterosclerotiche fossero dovute principalmente alla perdita dell’endotelio (e delle sue proprietà di barriera verso i costituenti ematici) e alla proliferazione delle cellule muscolari lisce nell’intima; qui esse avrebbero sintetizzato matrice connettivale e si sarebbero infarcite con lipidi, trasformandosi in cellule schiumose (foam cells). Responsabili della proliferazione delle cellule muscolari lisce erano considerate le proteine plasmatiche (in modo particolare le lipoproteine) e le piastrine: nelle zone di perdita del rivestimento endoteliale, le piastrine avrebbero aderito all'intima denudata e avrebbero rilasciato in situ i loro granuli, contenenti sostanze mitogene (PDGF: platelet derived growth factor). Questa interpretazione patogenetica aveva il suo fondamento, oltre che nei lavori sperimentali, nelle indagini immunoistochimiche con anticorpi anti-miosina muscolare marcati con fluorescina o perossidasi del rafano che attestavano la predominanza delle cellule muscolari lisce nelle lesioni, nella inibizione dello sviluppo delle lesioni con trattamenti anti-piastrinici e, infine, nell’isolamento in vitro del PDGF (ad opera di Heldin, Westermark e Wasteson nel 1979).

La teoria che identificava quale primum movens dell’aterosclerosi la desquamazione endoteliale e la proliferazione delle cellule muscolari lisce, in risposta ai fattori mitogeni rilasciati dalle piastrine, è stata formulata da Russel Ross e John Glomset con il nome di teoria della risposta alla lesione (endoteliale): la prima formulazione, che nel 1973[1][2] riconosceva lo stimolo mitogeno nelle proteine plasmatiche (soprattutto nelle lipoproteine), è stata più volte rivista negli anni seguenti[3] (con il ruolo fondamentale delle piastrine nella revisione del 1976) fino a evolversi nella teoria infiammatoria.

Contrariamente alla prima formulazione dell'ipotesi della “risposta al danno endoteliale”, oggi è generalmente accettato che l'inizio dell'aterosclerosi non richieda un danno endoteliale nella forma di desquamazione focale, con denudamento dell'intima e adesione piastrinica. Piuttosto l'evento precoce dell'aterogenesi è identificato nell'alterazione funzionale (disfunzione) dell'endotelio da parte delle noxae patogene. La compromissione della attività endocrino-paracrina dell'endotelio è responsabile della disfunzione endoteliale. L'alterazione funzionale si manifesta con l'espressione di molecole adesive alla superficie cellulare e con la secrezione di sostanze biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, radicali liberi), che sono responsabili dell'adesione dei leucociti, ma anche di turbe delle proprietà emostatiche dell'endotelio, della permeabilità alle proteine plasmatiche e del controllo del tono e della struttura vasale.

Anche se la disfunzione riguarda tutte le funzioni endoteliali, la diagnosi di disfunzione endoteliale si effettua valutando solo alcuni aspetti significativi di essa, come l'entità della vasodilatazione endotelio-dipendente nelle coronarie o nelle arterie brachiali, utilizzando l'infusione intra-arteriosa di agonisti e antagonisti endoteliali come il L. NMMA, inibitore della sintesi di ossido nitrico (NO), a dosi che non determinano effetti sistemici, oppure misurando la vasodilatazione flusso-indotta. Il termine “attivazione endoteliale” designa un tipo di disfunzione endoteliale caratterizzato dall'acquisizione (per effetto di vari stimoli, citochine in primo luogo) di nuove proprietà funzionali e antigeniche riguardanti soprattutto l'interazione con i leucociti.

Teoria monoclonale

Nel 1973, Benditt e Benditt[4] hanno studiato la distribuzione degli isoenzimi A e B dell'enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PDH) nelle placche ateromatose. Il gene che codifica la G6PDH è localizzato nel cromosoma X e può essere presente in due alleli (due geni alternativi) A o B; in un singolo cromosoma X può essere presente soltanto uno dei due alleli. Le donne eterozigoti hanno entrambi gli alleli A e B, ma ogni singola cellula esprime solo G6PDH A o G6PDH B, dal momento che in essa può essere attivo uno solo dei due cromosomi X. Essendo una struttura pluricellulare, la normale parete arteriosa delle donne eterozigoti è un mosaico di G6PDH A e G6PDH B. Studiando le lesioni aterosclerotiche Benditt e Benditt hanno osservato che, nelle donne eterozigoti, i segmenti di aorta non interessati dal processo aterosclerotico contenevano entrambi gli isoenzimi, mentre nelle placche fibrose, tranne rari casi, si rinveniva soltanto uno dei due isoenzimi. Questo aspetto monotipico delle singole placche ha portato gli autori a formulare l'ipotesi monoclonale, secondo la quale le lesioni sarebbero derivate da un'unica cellula muscolare liscia progenitrice e quindi verrebbero a essere l'equivalente di una proliferazione neoplastica benigna. L'effetto mutageno potrebbe essere legato ad agenti chimici esogeni (idrocarburi) o endogeni (colesterolo) o ad agenti biologici (virus). Gli studi successivi hanno concluso che la maggioranza delle placche sono in realtà oligoclonali piuttosto che monoclonali. Queste osservazioni non sono in antitesi con le attuali conoscenze, in quanto il carattere oligoclonale delle singole placche può essere spiegato tenendo presente che ciascuna lesione è il risultato della migrazione e della proliferazione di un numero limitato di cellule muscolari lisce.

Teoria infiammatoria

La teoria infiammatoria,[5] che ha rivoluzionato la convinzione pluridecennale che l'aterosclerosi fosse una malattia degenerativa, si è affermata molto più recentemente, proposta nella seconda metà degli anni 80 da Ross come aggiornamento della sua teoria della risposta alla lesione. Soprattutto sulle fondamenta degli studi sperimentali su animali sacrificati precocemente, la teoria ha spostato la sua attenzione dalle cellule muscolari lisce ai monociti/macrofagi.

Anche se non è stato ancora trovato un modello animale ottimale, gli studi sperimentali su conigli, maiali e scimmie rheusus a dieta aterogena, grazie all'uso della microscopia elettronica e delle tecniche immunoistochimiche, hanno permesso di fare molta luce sugli eventi biologici che portano alla formazione delle lesioni, a cominciare dagli studi pionieristici di Gerrity sui maiali (1979) e di Faggiotto e Ross sulle scimmie (1984). Sebbene in topi, ratti e cani si possono riprodurre lesioni aterosclerotiche solo con difficoltà e con notevoli modificazioni della dieta, dal 1992 i topi geneticamente modificati (apoE-deficienti e recettore LDL-deficienti) sono diventati un eccellente modello di studio, sia per la praticità di gestione degli animali, che per le possibilità di ulteriori manipolazioni genetiche attraverso nuovi incroci. I topi omozigoti per deficit del recettore LDL (LDL-R-/-), condizione analoga all'ipercolesterolemia familiare omozigote umana, sviluppano l'aterosclerosi dopo alcune settimane di dieta aterogena, mentre i topi omozigoti per deficit di apolipoprotena E (apoE-/-) sviluppano spontaneamente ipercolesterolemia e lesioni aterosclerotiche a 3 mesi di età.

Mentre nell'aterosclerosi indotta dal danno endoteliale mediante catetere prevalgono le cellule muscolari lisce e la fibrosi intimale, negli animali tenuti a dieta aterogena le lesioni sono composte fondamentalmente da foam cells macrofagiche. A differenza di quanto si nota nell'uomo, nei modelli animali le lesioni precoci dieta-indotte sono costituite quasi esclusivamente da foam cells distribuite nell'intero spessore dell'intima. Nell'uomo prevale, invece, l'accumulo lipidico nella compagine degli ispessimenti adattativi (che sono assenti negli animali); in un secodo momento, poco più tardi, al di sopra del pool lipidico si raccolgono le foam cells derivate dalle cellule muscolari lisce e più in superficie, subito al di sotto dell'endotelio, i macrofagi (vedi Patogenesi - Teoria risposta alla ritenzione). Pur considerando le differenze tra specie, senza i modelli animali non sarebbe stato possibile indagare le fasi precoci dell'aterogenesi.

In una serie di studi sui maiali tenuti a dieta aterogena moderata, Gerrity e Ross hanno esaminato preparati istologici di aorta dopo intervalli prestabiliti di esposizione alla dieta (da 2 fino a 12 settimane). L'esame con microscopia ottica ed elettronica a due settimane ha rilevato che, in assenza di lesioni macroscopiche, erano presenti monociti, aderenti alla superficie endoteliale e infiltrati nell'intima.[6][7] Analoghi risultati ha prodottoha lo studio di Faggiotto e Ross nelle scimmie: i preparati a 12 giorni dall'inizio della dieta aterogena mostravano che alla superficie endoteliale dell'aorta e delle arterie iliache aderivano gruppi di leucociti, principalmente monociti, molti dei quali erano in fase di migrazione attraverso le cellule endoteliali.[8] Studi con anticorpi monoclonali specifici per i macrofagi hanno confermato che nei conigli a dieta aterogena l'adesione dei macrofagi all'endotelio era il primo fenomeno visibile.[9]

Per indagare le fasi ancora più precoci dell'aterogenesi sono stati effettuati studi immunoistochimici su conigli New Zeland White tenuti a dieta solo da pochi giorni. Se dopo 4 giorni di dieta con 0.3% di colesterolo non vi erano differenze con i controlli, dopo una sola settimana i preparati di aorta mostravano sulla superficie endoteliale le molecole adesive VCAM-1 e P selettina, in assenza di macrofagi intimali; dopo 3 settimane di dieta erano evidenti anche gli infiltrati leucocitari (macrofagi e linfociti T) nell'intima.[10][11] Gli studi in vivo concordano con questi dati. L'osservazione intravitale di venule mesenteriche di conigli a dieta ipercolesterolemica (0,5% di colesterolo) ha rilevato un aumento di 10 volte del rolling leucocitario nella prima settimana e di 2 volte nella seconda, mentre l'adesione dei leucociti all'endotelio era moderatamente aumentata nella prima settimana, ma aumentava di 12 volte nella seconda.[12]

Teoria ossidativa

L’ipotesi che le LDL dovessero subire una qualche forma di modificazione per acquisire proprietà aterogene risale al 1979, quando Brown e Goldstein dimostrarono che l’acetilazione rendeva le  LDL-125I capaci di causare la trasformazione di macrofagi peritoneali di topo in cellule schiumose. Questa idea era nata dalla constatazione che i pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote, privi dei normali recettori per le LDL (LDL-R), accumulavano macrofagi carichi di colesterolo in sedi anomale. Tale fenomeno suggeriva l’esistenza di una via di captazione macrofagica diversa dal normale recettore LDL, via che riconoscesse le LDL in qualche modo alterate. Due anni più tardi, Henriksen rilevò che le normali LDL umane, dopo una notte di incubazione in vitro con cellule endoteliali di coniglio, erano convertite in una forma che era avidamente fagocitata dai macrofagi peritoneali di topo. Infine, nel 1983 Hessler  dimostrò che le LDL ossidate (OxLDL) risultavano altamente tossiche per i fibroblasti umani in coltura. Nel 1988, Kodama riuscì ad isolare e purificare il primo recettore spazzino (scavenger receptor) per le LDL modificate.

Nel 1989 Steinberg  ha proposto la teoria della modificazione ossidativa,[13] secondo la quale principale responsabile della reazione infiammatoria cronica dell'intima è la ossidazione delle LDL che restano intrappolate nella matrice extracellulare dello spazio subendoteliale. L'ossidazione delle LDL è dovuta a enzimi e metaboliti ossidanti prodotti dalle cellule residenti della parete arteriosa (endotelio e cellule muscolari lisce), ma soprattutto dai monociti-macrofagi reclutati nell'intima in conseguenza dell’attivazione endoteliale (vedi Ossidazione delle LDL).

Teoria della risposta alla ritenzione

Se gli studi animali hanno via via messo l'accento sul danno endoteliale, sulla proliferazione delle cellule muscolari lisce, sui fattori di crescita piastrinici, sull'infiltrazione di monociti/macrofagi, gli studi microscopici eseguiti su arterie umane hanno focalizzato l'interesse sulla matrice extracellulare dell'intima, più precisamente sugli ispessimenti adattativi diffusi dell'intima (DIT: diffuse intimal thickening), ponendo le basi per la più recente “teoria della risposta alla ritenzione” di Williams e Tabas (1995).[14][15]

I DIT (vedi Eziologia – fattori locali) sono alterazioni peculiari dell'uomo, che non si riscontrano nei comuni animali di laboratorio. Identificati sul finire degli anni 70, la loro importanza è emersa solo a partire dagli anni 90 e attualmente essi hanno conquistato un ruolo di comprimari nel processo dell'aterogenesi. La formazione degli ispessimenti intimali è dovuta agli stress emodinamici, che regolano l'attività di una varietà di geni proaterogeni nelle cellule endoteliali, tra i quali quelli coinvolti nella sintesi delle selettine E e P, del fattore chemiotattico per i monociti (MCF-1) e del fattore di crescita piastrinico (PDGF).[16] Quest'ultimo richiama nell'intima le cellule muscolari lisce della media, che sintetizzano nuova matrice extracellulare.[17]

Questi ispessimenti iniziano a formarsi durante la vita fetale[18] sotto lo stimolo delle forze emodinamiche locali e alla nascita sono evidenti, sebbene con differenti gradi di sviluppo, in tutti i neonati, soprattutto nei punti di biforcazione delle arterie e degli osti dei loro rami. Lo studio di Stary su sezioni di aorta e coronarie di oltre 600 individui di età compresa da 0 a 39 anni, deceduti per cause accidentali, ha confermato l'esistenza di ispessimenti intimali fin dalla nascita e l'accumulo preferenziale di lipoproteine e macrofagi in queste sedi.[19] In uno studio gli ispessimenti intimali delle coronarie (coronaria sinistra) erano rilevabili nel 33% dei feti di 8 mesi e nel 100% dei neonati di 3 mesi.[20]

L'interessante lavoro di Nakashima ha fornito un'importante sostegno all'ipotesi della risposta alla ritenzione. In accordo con alcune precedenti segnalazioni,[21] Nakashima ha dimostrato che la prima alterazione intimale a comparire è l'accumulo di lipoproteine in assenza di infiltrazione di macrofagi e di foam cells. Nakashima ha effettuato un esame microscopico di preparati di coronarie destre di 38 bambini e giovani adulti giapponesi (7-49 anni) con normali valori di colesterolo totale e di trigliceridi, deceduti per cause non cardiache.[22] L'obiettivo è stato l'individuazione degli eventi precoci dell'aterosclerosi, con particolare attenzione agli ispessimenti adattativi intimali e alla composizione della matrice extracellulare, utilizzando anticorpi marcati per lipoproteine (apo-B), lipidi ossidati (fosfatidil-colina ossidata), componenti della matrice extracellulare (biglicano, decorina ed elastina), cellule muscolari lisce (actina) e per il fattore chemiotattico per i monociti (MCP-1). I depositi extracellulari di lipoproteine sono stati rinvenuti principalmente nello strato profondo dei DIT, tra le cellule muscolari lisce intimali e i proteoglicani, in coincidenza con la localizzazione della decorina e del biglicano. I macrofagi farebbero la loro comparsa in un secondo momento, sotto lo stimolo chemiotattico delle lipoproteine ossidate o comunque modificate, per localizzarsi soprattutto negli strati superficiali dell'intima, subito al di sopra dei pools lipidici, dove era concentrata la chemochina MCP-1. Questi eventi darebbero luogo alla formazione degli “ispessimenti intimali patologici” (PIT), da Virmani considerati la vera lesione iniziale dell'aterosclerosi, i quali si caratterizzerebbero, oltre che per i depositi lipidici, anche per la perdita di cellule muscolari lisce per apoptosi. La successiva infiltrazione dei macrofagi nella compagine dei PIT darebbe l'avvio alla progressione delle lesioni. [23]

La novità principale della teoria della risposta alla ritenzione si ritrova nel fatto che gli eventi patogenetici non coinvolgono la sola componente cellulare, ma dipendono anche dalla matrice extracellulare, la quale viene a rivestire un ruolo patogenetico importante. Sotto questo aspetto gli ispessimenti intimali acquistano il significato di condizioni predisponenti, pur non trattandosi di alterazioni patologiche, in quanto esse fanno parte del normale rimodellamento vasale indotto dal flusso sanguigno.

Eventi iniziali dell'aterogenesi

Lo scenario in cui si svolgono gli eventi iniziali dell'aterogenesi è costituito dalla spazio subintimale, cioè quella regione dell'intima che è compresa tra l'endotelio e la lamina elastica esterna. La lamina elastica esterna non rappresenta una barriera passiva tra intima e media, ma esercita un effetto inibitorio sulla migrazione e sulla proliferazione delle cellule muscolari lisce della tonaca media. Il concetto di barriera attiva vale a maggior ragione per l'endotelio che tappezza la superficie vasale, le cui cellule svolgono un gran numero di funzioni.

Nello spazio subintimale sono presenti un certo numero di cellule muscolari lisce, mentre sono assenti fibroblasti, capillari e linfatici. A causa dell’assenza dei capillari, l’apporto di ossigeno all’intima può avvenire esclusivamente per diffusione dal lume; ciò implica che negli ispessimenti intimali si può determinare uno stato di relativa ipossia e una prevalenza del metabolismo anaerobio (glicolisi) delle cellule intimali, cosicché il pH in queste aree tende ad abbassarsi.

Lo spazio subintimale è occupato dalla matrice (sostanza) extracellulare (ECM: extra-cellular matrix) che è composta da collageno, elastina, proteoglicani, acido ialuronico (glicosaminoglicano non solfatato), proteine strutturali (fibronectina, laminina, tenascina, vitronectina, fibulina e bone-related matrix molecules) e un insieme di enzimi elaborati dalle cellule dell'intima e della media (lipoproteinlipasi, sfingomielinasi, fosfolipasi e proteasi). Nelle lesioni aterosclerotiche sono state identificate proteasi di origine plasmatica (callicreina, trombina, plasmina) e proteasi sintetizzate localmente (metalloproteasi e catepsine D, F, K e S, secrete da macrofagi e cellule muscolari lisce, e chimasi, triptasi, catepsina G, secrete dai mastociti). Fra gli enzimi lipolitici assumono notevole importanza le fosfolipsi A2 secretorie (sPLA2), enzimi che idrolizzano (scindono) l’acido grasso in posizione 2 dei glicerofosfolipidi (fosfatidilcolina, fosfetidiletanolamina, fosfatidilserina) presenti nelle lipoproteine e nel foglietto esterno delle membrane cellulari. Gli isoenzimi rilevati nelle lesioni aterosclerotiche (sPLA2-IIA, sPLA2-V e sPLA2-X) sono sintetizzati prevalentemente da cellule muscolari lisce e macrofagi in risposta ad alcune citochine (IL-1β, TNF-α e IFN). Le sfingomielinasi idrolizzano la sfingomielina delle lipoproteine.

I proteoglicani contenuti nella parete arteriosa comprendono: versicano, biglicano, decorina, sindecano, glipicano, perlecano. I proteoglicani arteriosi possono essere localizzati in due siti: i proteoglicani contenenti condroitinsolfato o dermatansolfato nello spazio extracellulare (versicano, decorina e biglicano) e quelli contenenti eparansolfato nello spazio pericellulare, aderenti alle membrane cellulari (sindecano e glipicano) o nelle vicinanze dell’endotelio dal quale sono sintetizzati (perlecano). I proteoglicani sono formati da uno scheletro proteico al quale sono legate catene laterali polisaccaridiche: i glicosaminoglicani solfatati (GAG). Grazie alle numerose cariche negative dei gruppi solfato, i proteoglicani interagiscono elettrostaticamente con gli altri componenti della ECM, acido ialuronico, glicoproteine e proteine fibrillari (collageno ed elastina), e trattengono acqua e ioni così da formare un gel che occupa l’intero spazio subintimale e che funziona da filtro per le molecole che diffondono dal sangue e da modulatore di alcune funzioni cellulari (adesione, migrazione e proliferazione).

I proteoglicani della ECM sono sintetizzati dall’endotelio, dalle cellule muscolari lisce e dai macrofagi e la loro sintesi risulta alterata, quantitativamente e qualitativamente, in condizioni patologiche, come aterosclerosi, diabete e ipertensione, in risposta a fattori di crescita, citochine e ox-LDL. L’esame immunoistochimico dimostra che l’intima umana normale è particolarmente ricca di versicano, che è sintetizzato principalmente dalle cellule muscolari lisce intimali. Nelle lesioni aterosclerotiche la quantità di versicano e dei condroitin- e dermatan-solfato-proteoglicani aumenta, il contenuto in eparan-solfato-proteoglicani diminuisce e le catene laterali dei condroitinsolfato-proteoglicani hanno una lunghezza maggiore rispetto ai tratti arteriosi normali;[24] nelle lesioni dei topi aumentano il perlecano e biglicano, ma non il versicano.[25]

Con le macromolecole dell'ECM vengono in contatto e interagiscono le lipoproteine che dal sangue diffondono nell'intima.

Ritenzione delle lipoproteine

In condizioni fisiologiche le lipoproteine diffondono attraverso l’endotelio arterioso per la massima parte (90%) in corrispondenza delle giunzioni intercellulari “incontinenti” (leaky) tra le cellule endoteliali in mitosi o in degenerazione; solo una piccola percentuale (10%) si serve del trasporto tramite le vescicole delle cellule endoteliali (transcitosi). Il loro passaggio attraverso le normali giunzioni intercellulari è invece pressoché nullo, a causa delle notevoli dimensioni della molecola di LDL (20-30 nm).I chilomicroni sono troppo grandi (>500 nm) per penetrare nell’intima e quindi non sono aterogeni; le particelle rimanenti (circa 100 nm) attraversano con difficoltà la barriera endoteliale, ma il fatto che esse contengano una quantità di colesterolo alcune decine di volte superiore alle LDL rende ragione del loro potenziale aterogeno.[26]

Studiando la cinetica fisiologica del flusso delle LDL marcate con 125I o con tiramina-cellobiosa nella parete dell’aorta toracica di conigli, Carew ha accertato che circa il 75% delle LDL penetrate dal plasma nella parete lascia di nuovo il vaso per diffusione (verso il lume o verso i capillari dell’avventizia), mentre il 10% viene degradato nell’intima e il 15% nella media-avventizia.[27] Nei tratti arteriosi athrosclerosis-prone la permeabilità alle macromolecole è superiore rispetto ai tratti atherosclerosis-resistant e ciò è stato messo in rapporto con il più elevato numero di mitosi in tali aree, sebbene potrebbe avere una certa importanza anche la modulazione che il flusso esercita sulla sintesi delle molecole delle giunzioni intercellulari. Per la permeabilità delle VLDL vedi Zilversmit;[28] per le cosiddette “small LDL”, altamente aterogene, vedi Rizzo.[29]

In condizioni di ipercolesterolemia, la penetrazione delle LDL nell’intima aumenta ulteriormente, sia per effetto del gradiente di concentrazione plasma-intima, sia per la maggiore permeabilità dell’endotelio disfunzionale. Anche il fumo si accompagna ad una maggiore permeabilità endoteliale per effetto della degenerazione delle cellule endoteliali. Tuttavia, l'accumulo delle LDL nell’intima non è dovuto tanto all'aumento della permeabilità dell'endotelio danneggiato, quanto al loro legarsi alle proteine della matrice extracellulare, legame che rende irreversibile il flusso di LDL nella parete arteriosa e che prolunga il tempo di residenza in situ delle lipoproteine e, quindi, la possibilità di una loro alterazione in senso pro-aterogeno.

In condizioni di ipercolesterolemia, la penetrazione delle LDL nell’intima aumenta ulteriormente, sia per effetto del gradiente di concentrazione plasma-intima, sia per la maggiore permeabilità dell’endotelio disfunzionale. Anche il fumo si accompagna ad una maggiore permeabilità endoteliale per effetto della degenerazione delle cellule endoteliali. Tuttavia, l'accumulo delle LDL nell’intima non è dovuto tanto all'aumento della permeabilità dell'endotelio danneggiato, quanto al loro legarsi alle proteine della matrice extracellulare, legame che rende irreversibile il flusso di LDL nella parete arteriosa e che prolunga il tempo di residenza in situ delle lipoproteine e, quindi, la possibilità di una loro alterazione in senso pro-aterogeno.

Partendo da quest’ultima considerazione, un filone di ricerche si è focalizzato sull'interazione tra lipoproteine e matrice extracellulare. Tre elementi della ECM sono stati indagati con attenzione particolare in funzione della ritenzione delle lipoproteine: 1) la composizione biochimica della matrice extracellulare  e le sue trasformazioni con età, condizioni predisponenti (atherosclerosis-prone areas e ispessimenti intimali) e sviluppo delle lesioni: le molecole della matrice mostrano differenze a seconda che si tratti di lesioni avanzate, DIT o atherosclerosis-resistant areas; 2) la presenza di enzimi (lipasi e proteasi); 3) il pH dell’ambiente subendoteliale (infiammazione). Anche variazioni delle dimesioni, del contenuto lipidico e del grado di ossidazione delle LDL hanno influenza sul legame lipoproteine-proteoglicani. L’acidità dell’ambiente circostante favorisce le modificazioni proaterogene delle LDL.

La ritenzione dei lipidi nell’intima inizia con l’interazione ionica tra le regioni cariche positivamente della componente proteica delle lipoproteine (proteina apo-B 100) con proteoglicani, fibronectina e collageno. I legami ionici si formano soprattutto tra apoB e i gruppi solfato dei condroitinsolfato-GAG (versicano e biglicano). Alcuni lavori hanno avuto come obiettivo la definizione della relazione tra LDL e proteoglicani nelle lesioni e a tal fine hanno fatto ricorso a metodiche immunoistochimiche, tecniche in vitro e manipolazioni genetiche dei topi (gene apoB-100). Da essi è emersa (nell’aterosclerosi umana) una stretta colocalizzazione delle apoB con il biglicano e, in misura minore, con la decorina. Fatto significativo è che il biglicano si dispone negli strati superficiali dei DIT, in modo simile a quanto si verifica per le LDL,  mentre il versicano tende a localizzarsi nelle parti più profonde dei DIT. Nelle lesioni complicate il versicano si rinviene all’interfaccia trombo-intima.[30] Per il momento è prematuro trarre definitive conclusioni da tali lavori.

Il legame delle lipoproteine ai proteoglicani è favorito da alcune proteine presenti nella ECM: maggiromente studiate sono state le lipoproteinlipasi, le fosfolipasi A2 secretorie (sPLA2) e le sfingomielinasi. Le lipoproteinlipasi svolgono un’azione enzimatica di tipo idrolitico sulle lipoproteine, ma oltre a questa è stato dimostrato che esse sono capaci di legarsi ai GAG, per cui possono formare ponti tra la molecola lipoproteica e i proteoglicani, contribuendo al processo della ritenzione. Gli enzimi lipolitici da una parte aumentano l’affinità delle LDL per il legame con i proteoglicani, dall’altra favoriscono la formazione di aggregati lipoproteici. L’attività idrolitica delle sPLA2 libera dalle lipoproteine native o ossidate e dalla superficie delle membrane cellulari lipidi bioattivi e proinfiammatori: acidi grassi non esterificati (NEFA), acido arachidonico, lisofosfolipidi (lisofosfatidilcolina), liso-PAF (liso-platelet acting factor), ox-NEFA.

Ruolo delle fosfolipasi secretorie nell’aterogenesi. Le lipoproteine penetrate nell’intima sono idrolizzate dalle fosfolipasi secretorie (sPLA2) con liberazione di lisofosfolipidi (LisoPL) e acidi grassi non esterificati (NEFA). Tali modificazioni facilitano l’aggregazione e l’ossidazione delle lipoproteine e producono metaboliti proinfiammatori. EIM = membrana elastica interna.

Nella fase precocissima, i modesti depositi lipoproteici non alterano la struttura dell’intima e non possono essere svelati né con la microscopia ottica ad alta risoluzione, né con il microscopio elettronico, a meno di un’immuno-marcatura delle LDL. Le LDL si possono osservare soltanto con tecniche particolari (freez-eching). Una volta legate alla matrice extracellulare, le lipoproteine subiscono una serie di modificazioni ad opera degli enzimi ossidativi, delle proteasi e soprattutto degli enzimi lipolitici e vanno incontro ad aggregazione spontanea (agLDL) sotto la spinta di forze idrofobiche. Le LDL modificate dalle sPLA2 manifestano una maggior affinità per i proteoglicani rispetto alle LDL native, una più spiccata tendenza all’aggregazione e alla fusione, una maggiore suscettibilità alla endocitosi da parte dei macrofagi.

Gli aggregati vengono parzialmente idrolizzati e captati dai macrofagi attraverso una forma particolare di fagocitosi, chiamata da Kruth patocitosi, che utilizza un sistema di compartimenti tubuliformi intracellulari connessi con la superficie cellulare, dove vengono in contatto con gli aggregati; la patocitosi appare specifica per particelle idrofobiche di grandi dimensioni[31] (vedi Patogenesi - Formazione delle foam cells).Poiché la percentuale di lipoproteine in forma di aggregati è molto elevata (in uno studio variava dal 12% all’80% circa, a seconda che si trattasse di fatty streaks o di ateromi),[32] si ritiene che per la genesi delle foam cells l’importanza delle agLDL sia più rilevante di quella delle ox-LDL monomeriche.

Ossidazione delle LDL

Le LDL che stazionano a lungo nello spazio subendoteliale subiscono una serie di modificazioni a opera di enzimi e metaboliti prodotti dalle cellule endoteliali, dalle cellule muscolari lisce, dai macrofagi e dai linfociti T.

Inizialmente si ha la perossidazione della componente lipidica delle LDL che interferisce scarsamente sull'interazione delle LDL con il recettore ApoB-E (o LDL-R); tali mm-LDL (LDL minimamente ossidate) sono “cavalli di Troia” (Hajjar: Journal of Biological Chemistry 1997, 272,22975), fisicamente simili alle LDL, ma con un carico di macromolecole bioattive che viene introdotto nella cellula con la endocitosi delle mm-LDL. Nelle fasi successive si generano prodotti dei lipidi perossidati e prodotti aldeidici (malondialdeide, MDA; 4-idrossinonenale) che possono modificare covalentemente la componente proteica delle LDL; queste ox-LDL “sabotatori cellulari” non vengono più riconosciute da LDL-R, ma si legano agli "scavenger receptors" (SR: SR-A, CD36 e CD68). Poiché gli SR non sono soggetti a regolazione a feedback-negativo,le ox-LDL non solo introducono nelle cellule che le fagocitano macromolecole attive, ma in aggiunta causano l'accumulo intracellulare di esteri del colesterolo, responsabile della trasformazione in cellule schiumose o foam cells, caratteristiche del tessuto aterosclerotico.

L'interazione con i corrispondenti recettori LDL-R e SR (e la conseguente generazione di messaggeri intracellulari, in particolare i radicali liberi dell'ossigeno o ROS) e l'introduzione nella cellula di prodotti ossidati sono la base biochimica dell'azione patogena delle LDL. Le ox-LDL attivano nelle cellule (endotelio, macrofagi, cellule muscolari lisce), alcuni fattori di trascrizione (es. NF-κB), che inducono l'espressione di geni (cosiddetti geni proinfiammatori) che codificano per molecole adesive, citochine e fattori di crescita e che danno l'avvio alla risposta infiammatoria. Ad esempio, nell'endotelio i geni per le molecole adesive ICAM-1, VCAM-1 ed E selettina, per il fattore chemiotattico MCP-1 e per il Fattore Tessutale sono sotto il controllo del fattore di trascrizione redox-sensibile NF-κB. Kume N nel 1991 ha suggerito che le cellule endoteliali assorbono le ox-LDL attraverso una via recettoriale che non coinvolge gli scavenger receptors. Sawamura, Kume e altri nel 1997 hanno identificato il primo recettore delle cellule endoteliali per le Ox-LDL che è stato denominato LOX-1 (lectinlike Ox-LDL receptor-1).

Gli studi sperimentali hanno attestato che le LDL ossidate possiedono numerose attività biologiche sulle cellule della parete arteriosa, inclusa un'azione citotossica diretta e un'azione mitogena su cellule muscolari lisce, macrofagi, fibroblasti e cellule endoteliali. Nell'endotelio inducono l'espressione di molecole adesive per i leucociti; stimolano la produzione di sostanze chemiotattiche (che in parte rimangono legate alla superficie endoteliale e in parte sono liberate nel subendotelio) e favoriscono la sintesi di fattori di crescita per i monociti/macrofagi e per le cellule muscolari lisce; stimolano la sintesi di PAI-1 (plasminogen activator inhibitor-1) e di fattore tessutale, promuovendo la coagulazione del sangue; stimolano la produzione di endotelina e inibiscono quella di NO, inibendo la vasodilatazione endotelio-dipendente. Sui macrofagi esercitano un effetto chemiotattico diretto; determinano la trasformazione in cellule schiumose; stimolano la produzione di citochine, fattori di crescita e metalloproteasi. Nelle cellule muscolari lisce inducono la sintesi di MCP-1 Infine le LDL ossidate attivano le piastrine e ne provocano l'aggregazione.

Note

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