Il suicidio nell'antica Roma era considerato come la massima espressione della libertà personale.

Il suicidio secondo il Diritto romano

Mentre nella cultura antica greca il suicidio era legittimato solo nel caso riguardasse personaggi esemplari che si trovassero in situazioni particolari, nella tradizione romana era considerato un diritto appartenente a ogni cittadino romano che, pur avendo numerosi obblighi nei confronti dello Stato, in caso fallisse il proprio suicidio non doveva rispondere alla legge che non lo prevedeva affatto poiché la vita era stimata come un bene supremo ma legato al diritto privato della persona che poteva farne ciò che voleva senza risponderne a nessun altro [1].

 
Manuel Domínguez Sánchez, Il suicidio di Seneca, 1871, Museo Nacional del Prado, Madrid

Il diritto romano interveniva infatti quando sorgesse un conflitto di interessi tra individui che ricorrevano alla legge affinché fossero regolati secondo giustizia. Se, per un verso, il diritto romano non riconosceva particolari libertà ai cittadini, per un altro, non interveniva se non quando venisse danneggiato l'interesse di qualcuno. Il suicidio acquista allora allora la fisionomia di una libertà del cittadino poiché la legge non interviene a proibirlo. Quando infine i giuristi romani in età imperiale si interessano del suicidio si limitano a definirlo una "libertà naturale" [2] enumerando tutti i vari motivi che possono indurre al suicidio come per sofferenze fisiche o disgusto di vivere (taedium vivere), per follia o «ostentazione, come nel caso di certi filosofi» che vogliono mostrare il loro disprezzo per la morte, per lutti familiari o per malattia ma confermando sempre che si tratta di un aspetto che non riguarda la legge.

Su tutti i motivi che portano al suicidio vi è in evidenza per i Romani anche quello della "morte opportuna" per cui invece che attendere la morte passivamente, liberamente si decide di anticiparla suicidandosi:

(latino)
«...ex omnibus bonis, quae homini tribuit natura, nullum melius esse tempestiva morte...[3]»
(italiano)
«...tra tutti i beni che la natura offre agli uomini nessuno è migliore della morte tempestiva...»

Il suicidio degli schiavi

Tutto questo valeva per gli uomini liberi. Diverso l'atteggiamento del diritto nei confronti del suicidio dello schiavo, atto che viene giudicato come causato «dalla sua stessa nequitia» [4] per cui viene definito un "cattivo schiavo", ossia "uno schiavo che non è uno schiavo", non moralmente ma nel senso che la "res" servile mostrava con il tentato suicidio un difetto nascosto che la rendeva un utensile mal funzionante tanto che il venditore era obbligato a denunciare, se non voleva incorrere nel risarcimento al compratore, anche il tentato suicidio tra gli eventuali "vitia" dell'oggetto della vendita. [5]

 
Il ponte Fabricio (62 a.C.) in Roma

Le modalità del suicidio

Le fonti storiche antiche ci hanno tramandato esempi di suicidi di personaggi famosi che si uccidono in vari modi ma per lo più trafiggendosi di propria mano o gettandosi sopra un pugnale tenuto da uno schiavo o tagliandosi le vene, mentre trascurano quello che avveniva ogni giorno tra la gente comune. Un'eccezione è rappresentata da Orazio che ci descrive come per un disastro finanziario abbia tentato il suicidio sventato dall'intervento del filosofo Stertinio:

(latino)
«Unde ego mira descripsi docilis praecepta haec, tempore quo me, solatus iussit sapientem pascere barbam atque a Fabricio non tristem ponte reverti. Nam male re gesta cum vellem mittere operto me capite in flumen, dexter stetit et “cave faxis te quicquam indignum; pudor” inquit “te malus angit, insanos qui inter vereare insanus haberi. [6]»
(italiano)
«Ho trascritto di lui [del filosofo Stertinio] questi precetti mirabili, dal giorno in cui mi diede conforto e mi ordinò di farmi crescere la barba da filosofo e tornarmene via dal ponte Fabricio meno triste: andato ogni mio affare alla malora, mentre, coperto il capo, stavo lì per buttarmi nel fiume, egli comparve alla mia destra e disse:“Non farai cosa indegna di te. Falso pudore ti angustia: ti vergogni, temi d’essere considerato un pazzo in mezzo ai pazzi.»
 
La morte del console Publio Decio Mure per devotio, opera di Peter Paul Rubens, 1617-1618.

Il racconto di Orazio ci indica il ponte Fabricio quale luogo da dove forse comunemente ci si suicidava e il gesto di coprirsi la testa prima di uccidersi, che è confermato anche da Livio a proposito dei suicidi collettivi di plebei alla fine del V secolo a.C. per gli interventi per la carestia del prefetto dell'annona Lucio Minucio:

(latino)
«capitibus obvolutis se in Tiberim praecipitaverunt. [7]»
(italiano)
«si gettarono nel Tevere dopo essersi velati il capo.»

Mentre il ceto più alto trascurava questo modo di uccidersi come indegno della loro condizione sociale era invece frequente tra i plebei l'impiccagione, una forma semplice di uccidersi in privato che ci tramandano diverse commedie di Plauto. [8]

Il suicidio per devotio

Una originale forma di suicidio presso i Romani era la devotio per la quale un comandante dell'esercito nel corso della battaglia sacrificava la sua vita come offerta agli dei Mani per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini. Sebbene questo rito fosse praticabile da qualsiasi cittadino [9] di solito doveva essere eseguito dal console o dal dittatore romano ma in effetti lo si ritrova esclusivamente nella gens dei Decii.

Il primo fu nel 340 a.C. il console romano Publio Decio Mure, combattendo contro i Latini, dopo aver consultato gli auspicia prima della battaglia del Vesuvio e riscontrando che erano poco favorevoli, [10] chiese al pontefice come avrebbe potuto sacrificarsi per salvare il suo esercito, attirando sopra di sé la collera degli dei. Il pontefice gli mostrò un rito sacro, secondo il quale, indossata una toga praetexta, velatosi il capo, doveva così invocare gli dei:

(latino)
«Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupaui, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo. [11]»
(italiano)
«Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.»

Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra in modo eroico, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e un tale vigore che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell'armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La vittoria, alla fine, arrise ai Romani.[12]







Note

  1. ^ Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute in questa voce hanno come fonte: Paul Veyne, La società romana, Laterza.Roma-Bari 1990
  2. ^ Antonio Parrino, I diritti umani nel processo della loro determinazione storico-politica, GAIA srl - Edizioni Univ. Romane, 2007 p.25
  3. ^ Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXVIII, 1-14
  4. ^ Giulio Paolo, Dig. XXI, 1,43,4
  5. ^ Francesco Remotti, Forme di umanità, Pearson Italia S.p.a., 2002 p.68
  6. ^ Orazio, Satire, II, 3, 35-40
  7. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 12, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato
  8. ^ François Hinard, Marie-Françoise Lambert, La mort au quotidien dans le monde romain: actes du colloque organisé par l'Université de Paris IV (Paris-Sorbonne 7-9 octobre 1993), De Boccard, 1995 p.195
  9. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 10.
  10. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 9.
  11. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 9.
  12. ^ Aurelio Vittore, De Viris Illustribus Romae, 28.

Bibliografia

  • Paul Veyne, La società romana, Laterza, Roma-Bari 1990
  • Yves Grisé, Le suicide dans la Rome antique, Montréal, Bellarmin / Paris, Les Belles Lettres, 1982
  • Gabriel Matzneff, Le Suicide chez les Romains in Le défi, Table ronde, 1977 p. 144
  Portale Antica Roma: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Antica Roma