Italia turrita

personificazione dell'Italia
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L'Italia turrita è la personificazione nazionale dell'Italia, nell'aspetto di una giovane donna con la cornucopia e con il capo cinto da una corona muraria completata da torri (da cui il termine "turrita"). È spesso accompagnata dalla Stella d'Italia, da cui la cosiddetta Italia turrita e stellata.

L'Italia turrita rappresentata su un francobollo della serie "Siracusana"

La rappresentazione allegorica con le torri, che trae le sue origini dall'antica Roma, è tipica dell'araldica civica italiana, soprattutto di quella relativa ai comuni medioevali. Dal XIV secolo l'Italia turrita iniziò a essere raffigurata come una donna sconfortata e tormentata dalla sofferenza, visto il ruolo di secondo piano assunto dall'Italia dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente[1]. La popolarità dell'Italia turrita ha toccato il suo ultimo apice nel XIX secolo, durante il Risorgimento: dopo l'unità d'Italia è iniziato un declino che l'ha portata a un ruolo di secondo piano, superata per importanza da altri simbolismi[2].

L'Italia turrita, che è uno dei simboli patri italiani, è stata nei secoli ampiamente raffigurata in ambito artistico, politico e letterario. Il suo aspetto, che deriva dal mito primordiale della Grande Madre mediterranea, vuole trasmettere simbolicamente la regalità (grazie alla corona turrita), la ricchezza (la cornucopia) e il fulgido destino dell'Italia (la Stella d'Italia)[2].

Aspetto e raffigurazione

 
L'Italia turrita in varie rappresentazioni filateliche e numismatiche

Generalmente l'Italia è raffigurata come una donna dal corpo piuttosto rigoglioso, con i tipici attributi mediterranei, quali la carnagione colorita e i capelli scuri[3]. Spesso tiene in mano un mazzo di spighe di grano (simbolo di fertilità e rimando all'economia agricola) oppure una spada o una bilancia, metafore di giustizia, o una cornucopia, simbolo di abbondanza; durante il fascismo sorreggeva anche un fascio littorio[4][5][6].

Tuttavia la sua classica rappresentazione, derivata da una moneta coniata sotto l'imperatore romano Antonino Pio, la mostra seduta su un globo e tenente in mano una cornucopia e il bastone del comando[7]. L'iconografia dell'Italia turrita ebbe nei secoli un'evoluzione costante: la versione finale della personificazione della Penisola italiana si ebbe a cavallo del XVI e del XVII secolo[6].

Dopo la nascita della bandiera d'Italia, che avvenne nel 1797, è frequentemente mostrata con un abito verde, bianco e rosso[8]. Sopra il capo dell'Italia turrita è spesso raffigurata aleggiare una stella a cinque punte, la cosiddetta Stella d'Italia, che sin dall'epoca risorgimentale è uno dei simboli della Nazione, dal 1948 elemento dominante dell'Emblema della Repubblica[9][10]. La stella sopra la personificazione dell'Italia fu aggiunta in epoca tardo imperiale[11].

L'aspetto dell'Italia turrita, che ha origine dal mito primordiale della Grande Madre mediterranea, trasmette simbolicamente la regalità (grazie alla corona turrita), la ricchezza (con la cornucopia) e il fulgido destino (grazie alla presenza della Stella d'Italia)[2].

Storia

Nell'età antica

La prima personificazione di "Italia"

 
Area archeologica di Corfinium

La prima personificazione allegorica a cui fu associato il nome "Italia" è legata alla città romana di Corfinium[12]. Durante la guerra sociale (91 a.C. - 88 a.C.), che vide contrapposti Roma e i municipia italici, fino ad allora alleati del popolo romano, Corfinium fu scelta come capitale dai municipia (i cosiddetti socii) e venne ridenominata Italica poco dopo l'inizio della guerra in aperta sfida all'autorità romana: i questo modo i popoli italici rimarcavano l'autonomia dai loro ex alleati[12]. Durante la guerra sociale a Corfinium venne battuta una moneta raffigurante la personificazione di "Italia" con il capo cinto da una corona di alloro e il nome di Quinto Poppedio Silone, il generale del popolo italico dei Marsi un tempo amico del tribuno Marco Livio Druso e poi diventato uno dei riferimenti militari e politici della ribellione italica[12].

Il soggetto di questo conio deriva dalle monete romane, ovvero dalle monete della città loro nemica[12]. Sui denarii romani è infatti rappresentata la dea Roma, che era la divinità che personificava lo Stato romano[12]. L'origine di personificare e deificare la propria città affonda le radici nella Magna Grecia: fin dal V secolo a.C. a Segesta in Sicilia, a Cuma in Campania, a Velia in Lucania e a Terina in Calabria vengono coniate monete raffiguranti le personificazioni delle città[12].

 
Denarius dell'89 a.C coniato dai Marsi. Sulla sinistra, la raffigurazione di "Italia" con la corona d'alloro

Nello specifico, sulla moneta Corfinium è raffigurata "Italia" con un elmo alato e ornato di una cresta e di un grifo, quindi con una simbologia praticamente identica a quella utilizzata dai loro nemici per raffigurare la dea Roma[13]. Sull'altra faccia della moneta compare invece la scritta in lingua osca viteliu, che è uno dei termini da cui potrebbe derivare il nome "Italia" e la raffigurazione di Castore e Polluce[13]. Gradualmente, con il passare degli anni, le monete coniate a Corfinium che raffigurano "Italia" cambiano stile, con questa personificazione che si allontana dall'iconografia della dea Roma: dalla donna con l'elmo alato si arriva alla fine, dopo diverse tappe intermedie aventi soggetti differenti, a una donna alla guida di una biga con la testa corata dall'alloro della vittoria, iconografia tanto cara a molte città della Magna Grecia[13].

Gli studiosi hanno lungamente dibattuto sull'ipotesi che le monete raffiguranti la personificazione di "Italia", si ascrivessero alla sola Corfinium, oppure il il loro significato fosse ben più ampio, che andasse quindi oltre i confini locali della città legandosi all'intera Lega italica[14]. La maggioranza degli storici reputa valida la prima ipotesi, quindi la tesi locale, a scapito dell'ipotesi che vorrebbe il concetto di "Italia" condiviso da una vasta parte della popolazione italica dell'epoca, visto che monete raffiguranti "Italia" furono coniate anche da altre città, prefigurando in questo modo una consapevolezza di questi popoli legata a un'ipotetica comunanza di cultura indipendente da Roma che avrebbe potuto precorrere una presa di coscienza nazionale italiana ante litteram[14]. Questa consapevolezza, a detta degli storici, sarebbe stata impossibile perché i popoli italici avevano un legame troppo forte con Roma, città loro alleata fino a poco tempo prima[15].

La comparsa della cornucopia

Con la fine della guerra civile, viene coniata una moneta suggellante la pace[16]. Su questo denario sono raffigurante "Italia" e la dea Roma che si stringono la mano[16]. La dea Roma è raffigurata con una posa dominate marziale, indossante un chitone e avente in mano un giavellotto: il dominio sul mondo dell'epoca è rappresentato dal piede destra della dea Roma, che poggia su un globo[16].

 
Allegoria del fiume Tevere con "cornucopia", simbolo di abbondanza

Questa forza militare fa da contrasto con la raffigurazione di "Italia", che è rappresentata con un'umile tunica e con una cornucopia, simbolo di abbondanza[16]. La cornucopia, per le dimensioni e per la posizione, occupa un ruolo centrale della moneta[16]. Ciò non è un caso: in seguito scrittori e poeti latini scrissero nelle loro laudes Italiae sul ruolo non politico e militare della penisola italiana, sottolineandone invece l'importanza economica e produttiva[16].

Il primo scritto celebrante l'importanza economica della penisola italiana è stato il De re rustica, che è stato scritto nel 37 a.C. di Marco Terenzio Varrone[17]:

«[...] In Italia cosa v'ha di utile che non solo non nasca, ma non venga anche bene? Quale farro si potrebbe mai paragonare a quello della Campania? Quale frumento a quello dell'Apulia? Quale vino al Falerno? Quale olio a quello di Venafro? Non è l'Italia piantata ad alberi in modo da sembrar tutta un frutteto? O che la Frigia, che Omero chiama "vinosa" è forse più coperta di viti che non l'Italia? O Argo, che lo stesso poeta chiama "dal molto frumento" è più ricca di grano? In quale parte del mondo uno iugero di terra produce dieci o anche quindici culle i di vino, quanto ne producono alcune regioni d'Italia? [...]»
 
Vista frontale dell'Ara Pacis, altare dedicato da Augusto alla Pace, nella sua accezione di divinità. Si trova a Roma nella zona del Campo Marzio

Analogamente Dionigi di Alicarnasso, nel suo Storia di Roma arcaica, più noto come Le antichità romane, scrisse[18]:

«[...] Quale paese produttore di grano, irrigato non da acque fluviali, ma piovane ha mai superato il cosiddetto agro campano, nel quale io stesso ho veduto quelle terre produrre persino tre raccolti in un anno, con un raccolto estivo che segue quello dell'estate? Quale coltivazione di olive supera quella messapica, daunia, sabina e di molti altri popoli? Quale regione coltivata a vite può dirsi superiore al territorio di Tirrenia, a quello messapico e albano, che sono mirabilmente atti alla viticoltura e con il minimo di cure da parte dell'uomo producono le migliori uve delle più numerose varietà? [...]»

Tra le figure scolpite sull'Ara Pacis a Roma potrebbe essere presente anche la personificazione dell'Italia[19]. Figura centrale dei bassorilievi dell'Ara Pacis è una dea seduta su una roccia che sorregge due bambini[19]. Questa dea indossa una tunica e, sul capo, una corona di fiori e frutta[19]. Sul grembo sono appoggiati alcuni melograni e un grappolo d'uva, mentre in dirimpetto, appena davanti ai piedi, sono presenti una pecora e una giovenca[19]. Ai lati della dea sono presenti due fanciulle sedute, rispettivamente, su due animali, un drago marino e un cigno ad ali spiegate: sono le cosiddette Aurae velificantes[19]. L'identificazione della dea e delle Aurae velificantes non è chiara: queste ultime potrebbero essere identificate in Italia, Tellus, Cerere o Venere[19].

La dea Cibele e la corona turrita

 
Tetradramma di Smirne (160 a.C. - 150 a.C.), raffigurante il viso di profilo della dea Cibele, dove è ben evidente la corona turrita

L'origine della figura della donna turrita è legata a Cibele, divinità della fertilità di origine anatolica, nelle cui raffigurazioni indossa una corona muraria[20]. La dea Cibele, personificazione della Grande Madre e divinità delle montagne, delle sorgenti, delle belve e regina dei morti, è iconograficamente rappresentata seduta sul trono con il capo ricoperto di una corona di torri, che simboleggiano le città che sorgono nel mondo[20]. Generalmente ha in mano un tamburo, che richiama la liturgia delle cerimonie in suo onore, che sono scandite da questo strumento a percussione, uno scettro che simboleggia il suo potere di dare la vita e una cornucopia, simbolo dell'abbondanza che genera[20]. Ai suoi lati sono in genere raffigurati due leoni seduti, da lei sottomessi[20].

Il culto della dea Cibele arriva in Italia nel III secolo[20]. Nel 205 a.C., durante la seconda guerra punica (218 a.C. - 202 a.C.), mentre Annibale imperversava per la penisola e Scipione l'Africano erano in procinto di attaccare Cartagine, al Sacro collegio dei decemviri lesse sui Libri sibillini una predizione per la quale Roma si sarebbe stata salvata solo se vi fosse giunta l'immagine di Cibele, ossia della dea del monte Ida, rilievo nei dintorni di Troia[21]. In seguito a questa predizione, partì una missione diplomatica che aveva anche scopi politici: l'obiettivo era anche quello di stringere un'alleanza con Pergamo, città situata in un'area dove Annibale aveva già stretto patti con altre città[22]. In questo modo Roma voleva avere un appoggio militare in una zona strategica del Mediterraneo[22]. Ad Attalo, re di Pergamo, un'alleanza con Roma faceva comodo, visto che ne avrebbe anche guadagnato la protezione militare[22]. La convergenza di interessi tra Roma e Pergamo venne quindi suggellate dal comune culto della dea Cibele[22].

 
Raffigurazione del tempio della Magna Mater, dedicato a Cibele, su un altorilievo conservato presso Villa Medici a Roma

L'immagine, una pietra nera conservata a Pessinunte, venne nel 204 a.C. trasportata via nave a Roma e collocata temporaneamente all'interno del tempio della Vittoria in attesa che venisse innalzato un edificio sacro intitolato alla dea Cibele[22]. Prima dell'arrivo della pietra sulle coste italiane, un membro della delegazione diplomatica proveniente dall'Asia minore reca il responso dell'Oracolo di Delfi: l'arrivo della pietra nera in Italia deve essere accolto dal cittadino romano più onesto[22]. La pietra approda a Terracina accolta da matrone romane, dalle vestali e dal cittadino romano prescelto, Publio Cornelio Scipione Nasica[22]. L'esercito romano sconfisse poi Annibale e la città fu salva[23]. Inoltre, nello stesso anno, fu registrato un abbondante raccolto[23]. Entrambi i fausti eventi vennero ascritti alla dea Cibele, la cui popolarità iniziò a crescere costantemente[23].

A iniziare da questo evento, la dea Cibele iniziò a essere raffigurata su bassorilievi e su opere pittoriche, entrando nel Pantheon delle divinità romane e diventando una delle divinità di Roma, la Magna Mater[23]. Il 4 aprile del 191 a.C. (anniversario dell'arrivo a Roma della pietra nera) viene inaugurato un tempo a lei dedicato e furono istituite le Megalesia, festività che venivano celebrate tra il 4 e il 10 aprile e che prevedevano l'organizzazioni di giochi scenici e ludici[23]. La popolarità della dea Cibele non fu, perlomeno all'inizio, paragonabile a quella delle altre divinità romane, visti i suoi connotati esotici, che la rendevano estranea al modo di pensare dei romani[23]. Inoltre i sacerdoti che officiano la sua celebrazione erano di sesso maschile ed erano obbligati a evirarsi: ciò rendeva impossibile che un cittadino romano potesse diventarne sacerdote[23]. Per la legge romana, nessun romano di sesso maschile poteva diventare sacerdote e soprattutto non poteva evirarsi, mutilazione considerata un attentato alla Patria[23].

 
Cibele e Atti sul carro rituale, dalla patera di Parabiago, risalente alla seconda metà del IV secolo

Il suo culto fu osteggiato anche perché contenente riti orgiastici[22]. Il Sacro collegio dei decemviri, per tale motivo, stabilì delle modalità precise per la liturgia della sua celebrazione, limitando gli eccessi di questo aspetto[23]. I suoi sacerdoti, a cui non viene riconosciuto tale ruolo, bensì quello di famuli, ovvero servitori della dea, erano tutti originari della Frigia[23]. Perlomeno inizialmente al suo culto partecipano solo gli aristocratici, con la plebe che venera, come Magna Mater, la dea locale Cerere[23]. In questo viene conservato il culto delle divinità tradizionali della religione romana[23].

A partire dal II secolo a.C. l'importanza di Cibele crebbe notevolmente anche tra la plebe[24]. A lei venne riconosciuto il merito delle vittorie di Gaio Mario contro i Teutoni e in Asia minore[24]. Nel secolo successivo il numero di seguaci della dea Cibele raggiunge livelli notevoli, anche grazie a Cesare e Augusto, che le tributano ufficialmente e ripetutamente omaggio[24]. La dea Cibele entrò anche nella letteratura latina grazie a Ovidio, che descrisse nei suoi Fasti gli eventi che portarono la pietra nera a Roma[24], e a Virgilio, che nell'Eneide narrò di come il viaggio di Enea fosse stato protetto anche dalla dea, che fornì il legno degli alberi e salvò le navi dall'incendio di Turno[25].

 
Statua dell'Italia cinta da corona muraria a Reggio Calabria, piazza Italia

Le donne della famiglia imperiale presero a vestire, nelle raffigurazioni ufficiali, come la dea Cibele, ossia con una corona turrita posta sul capo[26]. Livia, moglie di Augusto, si fece ritrarre in un cammeo dove è raffigurata seduta su un trono mentre sorregge un mazzo di spighe e una statua di Augusto[26]. Sulla testa indossa una corona turrita. Anche Agrippina minore, moglie di Claudio, è raffigurata in un cammeo mentre indossa una corona turrita e di spighe[26]. Con l'ingresso ufficiale nella famiglia imperiale, il suo culto di diffuse ulteriormente entrando nell'immaginario collettivo dei romani anche fuori dall'Italia[26]. Nelle province greco orientali e in quelle danubiani, ad esempio, la dea Cibele viene vista come la rappresentazione metaforica dell'Italia[26]. Questa associazione all'Italia della dea Cibele divenne poi comune in tutto l'Impero romano[27].

La corona turrita fu poi apposta sul capo anche di altre divinità, come su quello della dea Roma[27]. La corona di torri è infatti principalmente simbolo delle città e quindi non fu ad appannaggio, dopo un certo momento in poi, solo della dea Cibele o della personificazione dell'Italia[28].

Durante il regno di Antonino Pio venne coniato un sesterzio rappresentante l'Italia come una donna turrita che siede su un globo e tiene in una mano una cornucopia mentre nell'altra il bastone del comando[7]. Questa diverrà poi l'immagine classica della personificazione allegorica dell'Italia[7]. Fu proprio a partire dal regno di Antonino Pio che l'importanza dell'Italia iniziò a crescere anche da un punto di vista politico[29], mentre è dal regno di Caracalla che la penisola italiana perde la sua unicità, iniziando a essere considerata una delle tante province romane[30]. Questa residua importanza scomparve completamente nel 476, con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, e con essa l'iconografia dell'Italia turrita[1].

In età moderna

Nel XIV secolo

 
La miniatura raffigurante Ottone II di Sassonia e le personificazioni allegoriche delle quattro province costituenti il Sacro Romano Impero: Germania, Francia, Italia e Alemannia

Nei secoli successivi alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, la penisola italiana perse l'unità politica e amministrativa, frantumandosi in molteplici enti statali autonomi[1]. Mel primo periodo medievale la personificazione dell'Italia in una donna turrita scompare quasi completamente dall'immaginario collettivo, limitandosi a comparire raramente senza però avere quei tratti distintivi, come la cinta muraria o la cornucopia, che tanto l'avevano caratterizzata in epoca romana[1].

Tra le apparizioni figurative della personificazione dell'Italia degne di nota sono due miniature risalenti, rispettivamente, ai regni di Ottone II e Ottone III di Sassonia, imperatori del Sacro Romano Impero del X secolo[31]. La prima miniatura, che raffigura Ottone II e che è custodita al Museo Condé di Chantilly, ha come soggetto le personificazioni della quattro regioni dell'impero (Germania, Francia, Italia e Alemannia) che rendono omaggio al sovrano[31]. Ottone II è raffigurato seduto sul trono in posa austera e solenne; intorno a lui sono presenti quattro donne coronate, che rappresentano le quattro provincie, vestite allo stesso modo, con una sottoveste azzurra e un mantello bianco, e con una scelta dei colori, da parte dell'artista, finalizzata a rendere le quattro figure di secondo piano[31]. Le tonalità, rispetto a quelle della restante parte dell'opera, sono infatti poco accese[31]. L'unica differenza visiva tra le quattro donne è la decorazione del colletto, che è diversi per ogni personificazione allegorica[31]. Anche l'atteggiamento è identico: omaggiante l'imperatore[31].

Anche sulla miniatura rappresentante Ottone III, similmente, sono presenti le quattro donne personificazioni delle quattro province dell'impero[31]. In questo caso l'imperatore è attorniato da importanti prelati della Chiesa e da due cavalieri armati[31]. Le quattro provincie (Schiavonia, Germania, Francia e Roma, che metaforicamente vuole simboleggiare l'Italia intera), rappresentate da altrettante donne, offrono simbolicamente doni all'imperatore senza che nessuna delle quattro emerga da un punto di vista visivo[32].

L'Italia turrita viene riscoperta all'inizio del XIV secolo, poco dopo l'età comunale, quando iniziarono a nascere le prime signorie[1]. Questa personificazione dell'Italia però non è associata all'intera penisola, bensì solo quella settentrionale, che è la parte dell'Italia che sta vivendo fasi politiche convulse che necessitano, a detta di molti, di un pacificatore[1]. L'Italia centrale e quella meridionale sono infatti politicamente stabili grazie alla presenza dello Stato Pontificio e del Regno di Sicilia[1].

In questo contesto storico, fu Dante a legare alla personificazione dell'Italia il supplizio e lo sconforto, visto il ruolo subalterno che aveva la penisola[1]. Questa iconografia fu successivamente ripresa da molti altri letterati ed artisti[1]. L'Italia viene vista come una serva, una vedova priva di un'autorità forte che la possa guidare e di una sovrana decaduta che possiede solamente un passato glorioso[2][33]: il Paese, infatti, non era più il protagonista assoluto di quegli importanti eventi politici e militari che tanto avevano caratterizzato la storia romana, ma era relegato, come già accennato, a semplice provincia del Sacro Romano Impero[34].

 
Cenotafio di Dante Alighieri (la statua di sinistra rappresenta l'Italia turrita), conservato all'interno della basilica di Santa Croce a Firenze

Parte degli intellettuali dell'epoca, per questo declino, davano la colpa agli italiani dell'epoca, che a loro dire erano impegnati a difendere esclusivamente i propri interessi individuali senza considerare i bisogni e le necessità della collettività[34]. La memoria dei fasti dell'Impero romano, con l'Italia al centro degli eventi e protagonista della storia, era ancora viva e quindi parte degli intellettuali dell'epoca non accettavano il fatto che la penisola fosse una semplice provincia del Sacro Romano Impero equiparata alle altre[34].

Un'allusione alla personificazione dell'Italia come dominatrice del mondo è contenuta nell'opera Liber de obsidione de Ancone di Boncompagno da Signa, che venne scritta tra il 1198 e il 1200 e che si riferisce all'assedio di Ancona del 1173 perpetrato dall'imperatore germanico Federico Barbarossa richiamando le potenzialità militari dell'Italia[34]:

(latino)
«[...] Non est provincia sed domina provinciarum. [...]»
(italiano)
«[...] Non è provincia, ma dominatrice delle province. [...]»

Accorso da Reggio, nel suo Corpus iuris civilis, analogamente, vede nella personificazione dell'Italia non una semplice provincia, ma la signora delle province ("provinciarum domina)[35]. Guittone d'Arezzo rimarca invece nella canzone Ahi lasso! ora è stagion di doler tanto la dolorosa stagione che sta vivendo l'Italia, un tempo avente ruolo centrale nella storia[36].

Dante, per quanto riguarda la posizione subalterna e servile dell'Italia, scrisse i celebri versi contenuti nel sesto canto del Purgatorio della Divina Commedia[35]:

«[...] Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave senza nocchiero in gran tempesta
non donna di province, ma bordello. [...]»

Dante non auspica un'Italia unita e indipendente politicamente, concetto non ancora elaborato dagli intellettuali dell'epoca, bensì una penisola italiana che diventi la provincia imperiale più importante, la "domina provinciarum", ovvero la signora delle province del Sacro Romano Impero: questo status, secondo Dante, sarebbe raggiunto solamente assicurando alla penisola la pace, pace che dovrebbe essere garantita dall'imperatore[37]. Per "Italia" Dante non intende però l'intera penisola italiana, bensì solo le sue regioni settentrionali, dal 781 al 1014 occupate dal regnum Italiae, fermo restando che il Sommo Poeta ha il ricordo, nei suoi versi, dell'Italia augustea, intesa come l'intera penisola, a cui dedica i famosi versi del trentatreesimo canto dell' Inferno della Divina Commedia[37]:

«[...] il bel paese là dove ’l sì suona. [...]»
 
La personificazione allegorica della Roma imperiale su un dipinto del 1578 di autore anonimo conservato Bibliothèque nationale de France a Parigi

Alla situazione subalterna dell'Italia, nel 1309, si aggiunse la Cattività avignonese, ovvero il trasferimento del papato da Roma ad Avignone, in Francia. Prima di questa data la personificazione allegorica di Roma veniva resa come una donna dagli attributi regali e solenni, mentre successivamente al trasferimento della sede papale in Francia, la sua personificazione assume metaforicamente attributi vedovili, a cui Dante, nel sesto canto del Purgatorio della Divina Commedia, dedica i celebri versi[38]:

«[...] piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
"Cesare mio, perché nonm’accompagne?" [...]»

Qui viene rimarcata l'importanza che avesse Roma nella cultura italiana trecentesca[38]. È infatti di questo secolo la frequente associazione delle personificazioni allegoriche di Italia e Roma, entrambe caratterizzate da attributi decadenti e travagliati[38]. Esempio letterario di questa rappresentazione allegorica è il Regia carmina, scritto da Convenevole da Prato fra il 1334 e il 1342 e dedicato a Roberto d'Angiò, re di Napoli dal 1309 al 1343, a cui il letterato si rivolge esprimendo il desiderio del ripristino dell'antico prestigio di Roma e di un'Italia pacificata e nuovamente con un ruolo centrale nella storia[39]. In questo componimento poetico la personificazione allegorica di Italia, qui rappresentata riccamente vestita ma dall'atteggiamento sottomesso, rivolge questa supplica a Roberto d'Angio[40]:

«[...] O re invitto e potente, acutissimo d’ingegno, dotto Roberto
e generoso e pio in ogni azione,
tu, o re, sei costante di animo nelle avversità e nei successi,
re forte nella virtù, re amante della pietà
re a cui posso confidare con franchezza
i miei diritti e il male, il veleno datomi e tutto diffuso
ed i lamenti per i crudeli danni, causati in molti
e vari modi da innumerevoli colpi. [...]»

Italia poi ricorda al re i fasti di un tempo, che stridono con la condizione della penisola nel Trecento[41]:

«[...] O re, io fui un tempo, non ora, signora di regni:
ogni popolo e dovunque mi chiama Italia.
A stento mi è rimasto il nome, a stento mi conosce nel mondo
qualcuno che sapeva come io ero ben nota.
È fuggito l’onore, le forze, è fuggita anche la celebre perizia,
è fuggita la fama conferita agli uomini virtuosi,
se n’è andato l’egregio sangue, il seme dell’onestà,
[...] e non è rimasto neppure l’amore
della patria comune, né l’amore municipale.
E non la pace né la concordia, che unisce e stringe i cittadini,
è con me: piangendo è fuggita esclamando: «Addio!». [...]»
 
Miniatura contenuta nell'opera Regia carmina di Convenevole da Prato, dove si vede la personificazione allegorica dell'Italia che si rivolge al re di Napoli Roberto d'Angiò

A questo punto Italia chiede aiuto re Roberto[41]:

«[...] Ohimè, mi vergogno e mi rincresce di prolungare una misera vita,
e mi dispiace di alimentare con la luce uomini ingrati
e di sopportare ora tanti pericolosi affanni,
se tu, o re, non mi dai un sollievo e non mi dai stabilità
e l'utile pace e la forza di salvezza che tu conosci,
e non mi dai quanto può, o re, il tuo fervido vigore.
O re Roberto, certamente tu soltanto puoi dare tutto questo,
lo puoi fare col senno e con l’aiuto materiale:
nessuno lo può davvero come te, o re. [...]»

In seguito il componimento di Convenevole da Prato continua con un analoga supplica proferita dalla personificazione allegorica di Roma[42]. Dipinti con protagoniste le personificazioni di Italia e Roma sono state eseguite in Campidoglio a Roma su commissione di Cola di Rienzo, notaio della Camera apostolica e ambasciatore papale, che fui protagonista della ribellione di Roma nei confronti della Cattività avignonese con l'instaurazione di un governo comunale autonomo[42]. Per propagandare il suo disegno politico, fece realizzare tre cicli di affreschi che si trovavano sui muri dei palazzi del Campidoglio (dipinti nel 1344), sulla facciata della chiesa di Sant'Angelo in Pescheria (1346) e sulla facciata della chiesa di Santa Maria Maddalena (1347)[42].

Questi affreschi, che erano provvisti di didascalie grazie alle quali i personaggi raffigurati comunicavano tra loro a mo' di fumetto moderno, erano incentrati sulle personificazioni allegoriche di Roma e Italia, che avevano, anche in questo caso, attributi dolenti e luttuosi[43]. Cola di Rienzo, per quanto riguarda il concetto di "Italia", intendeva l'intera penisola e sono le sue regioni settentrionali come molte altre personalità dell'epoca[43]. In una celebre didascalia degli affreschi del Campidoglio, la personificazione della Fede cristiana pregava con queste parole[43]:

«O summo patre, duca e signor mio, se Roma père dove starraio io? [...]»
 
L'Italia turrita seduta su un globo, statua dei giardini pubblici Indro Montanelli a Milano

Il letterato Antonio Loschi, alla corte di Jacopo Dal Verme, elemento di spicco della Signoria di Milano e capitano di Gian Galeazzo Visconti, individua nel signore di Milano il possibile unificatore della penisola italiana, all'epoca ancora divisa in molteplici Stati[44]. Nel 1388, a questo desiderio, dedica questi versi, che sono destinati alla personificazione allegorica dell'Italia, vista come una donna addolorata ma indomita[45]:

«[...] Italia si dia tutta a questo principe: è tutta sua, non si ritragga.
Ecco che già supplice bussa alla porta.
Se vedeste la sua immagine, sareste commossi, e direste: soccorriamo Italia; e andreste in suo aiuto.
Vedreste una signora prostrata e lacerata, ma piena di maestà, della gravità del comando, piena di lacrime, piena di dolori, e (cosa che dico più lietamente) di speranza.
Udireste dalle sue labbra parole magnifiche, che attestano apertamente quale fu e quale sarà.
Cosa ancora?
La vedreste esausta di forze, ma non d’animo. [...]»

Analogamente, un autore anonimo, dedica alla personificazione allegorica dell'Italia questi versi, sempre legati al ruolo di Gian Galeazzo Visconti nella possibile unificazione della penisola e con un richiamo ai celebri versi di Dante[45]:

«[...] Cesar mio novello
i’ son ignuda e l’alma pur vive:
or mi coprite col vostro mantello:
po’ francherem colei che Dante scrive
«non donna di province ma bordello»,
e piane troverem tutte sue rive. [...]»

Mentre Francesco di Vannozzo, sempre su Gian Galeazzo Visconti e l'Italia, scrisse[46]:

«Dunque correte insieme, o sparse rime,
E gite predicando in ogni via
Che Italia ride, e che è giunto il Messia. [...]»

Francesco Petrarca, in riferimento all'assoldamento di truppe mercenarie per alcune guerre fratricide combattute tra gli Stati dell'Italia settentrionale a metà del XIV secolo, nella canzone CXXVIII del Canzoniere, Italia mia, benché 'l parlar sia indarno, vede la personificazione allegorica della penisola come una donna il cui corpo è dilaniato da[47]:

«[...] piaghe mortali [...] sì spesse [...]»
 
Statua dell'Italia turrita a Venezia

E fa notare a questi signori che[47]:

«[...] [le loro] voglie divise guastan del mondo la più bella parte [...]»

Nella stessa opera il Petrarca definisce la personificazione dell'Italia come una:

«[...] madre benigna et pia [...]»

Farinata degli Uberti, nel suo Il Dittamondo, opera scritta nel XIV, a proposito dell'Italia e della sua personificazione in una donna, scrisse[2]:

«Italia con l'Alpi nel ponente
Della Magna e di Gallia confina
Sì che il bel petto il suo gran freddo sente.
E l'un dei bracci suoi distende e inchina
Verso Aquileja nel settentrione,
Laddove Istria e Dalmazia è vicina.
L'altro del corpo e coscie e piedi pone,
Entro due mari, e giunge fino a Reggio,
Dico fra l'Adriatico e il Leone

Dal XV al XVI secolo

 
La personificazione allegorica dell'Italia in un dipinto del 1834-1836 di Philipp Veit

La personificazione allegorica dell'Italia scompare quasi del tutto dalla letteratura e dalle arti già all'inizio del XV secolo: la situazione sociale e politica è infatti cambiata completamente rispetto al secolo precedente, con l'Italia che è ora divisa in nuovi Stati orgogliosi della loro autonomia e che danno origine, in ambito culturale, al Rinascimento e all'Umanesimo[48]. La personificazione allegorica dell'Italia come donna sofferente torna sulle scene letterarie e artistiche a partire dal 1494, con la prima discesa di uno degli eserciti che parteciperà, nel secolo successivo, alle cosiddette "guerre d'Italia", le truppe del re di Francia Carlo VIII, che rivendicava il trono del regno di Napoli[48]. In seguito l'Italia sarà tetro di guerre che coinvolgeranno anche il regno di Castiglia, il regno di Aragona e il Sacro Romano Impero[48].

Di questa situazione caratterizzata dalla trasformazione della penisola in un campo di battaglia continuamente devastato da eserciti stranieri, Niccolò Machiavelli ne Il Principe scrisse, richiamando la personificazione allegorica dell'Italia[49]:

«[...] volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine ch'ella è di presente, e che la fussi più stiava degli ebrei, più serva ch'è persi, più dispersa che li ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte di ruina. [...]»

Niccolò Machiavelli, nello scrivere queste parole, non era mosso da un irredentismo ante litteram, ma solo dalla semplice osservazione dei fatti politici e sociali dell'epoca[48]. In seguito alla pace di Cambrai (1529) tra Francesco I di Francia e Carlo V d'Asburgo, che iniziò a gettare le basi per la fine delle ostilità con la temporanea vittoria di quest'ultimo, un anonimo speranzoso scrisse, in riferimento al futuro ruolo di Carlo V nella penisola italiana, che personificata con un'allegoria dall'atteggiamento fiducioso[50]:

«[...] [Italia è sicura che Carlo V d'Asburgo] leva ogni gravezza, convertir sa inalegrezza, il passato dispiacere. [...]»

Non tutti però sono così ottimisti sul futuro dell'Italia[50]. La pace di Cambrai ha infatti posto solo temporaneamente fine alla guerra, che continua nei decenni successivi a causa di alcuni attacchi effettuati dall'esercito francese con l'obiettivo di riprendersi la penisola[50]. Domenico Venier dedica a questa situazione i famosi versi:

«[...] Mentre misera Italia in te divisa
Da strane genti ogni soccorso attendi
Contra te stessa in man la spada prendi
E vinca, o perda, hai te medesma uccisa. [...]»
 
Italia Turrita e Stellata (1861) a Napoli

La personificazione allegorica dell'Italia del XV secolo è sofferente, dolente e umiliata, ma con una vena di regalità mai sopita che le deriva dalle sue antiche glorie[48]. Quest'aspetto in chiaro scuro deriva, ed è stato perfezionato, dal contributo dato dagli intellettuali rinascimentali e umanistici, che hanno meglio definito i suoi tratti attualizzandoli alla situazione politica dell'epoca, soprattutto nei confronti delle nazioni straniere che ambiscono a controllare la penisola italiana[48]. A questa allegoria è dedicato un volantino distribuito a Milano nel 1552 in piazza Mercanti dov'è raffigurata la personificazione dell'Italia in una postura raggomitolata e con una corona abbandonata ai suoi piedi. Sopra la personificazione allegorica era presente la seguente didascalia, proferita da Italia, che cita i nemici da cui deve difendersi[50]:

«Il Turco crudel, che d'hora in hora
per la discordia dei Prencipi, adopra
sempre à mio danno e quasi mi divora.
[...] galli, orsi & cani [...] fieri Oltremontani;
Galli sono i francesi, gli Orsi brutti
Tedeschi, Spagnoi Veltri, animali strani.
[...] Rè Ferrando [che] tre terre mi viene usurpando,
cioè Goritia, Gradisca & Trieste
che già S. Marco haveva a suo commando. [...]
[Venezia è la] sola filia intacta manet
[mentre la Toscana è oggetto delle attenzioni del re di Francia che] la catena serra con molta forza
[con Cosimo dei Medici che] sforza la Lupa, che raffigura Siena,
a ritornar sotto l'Imperatore.
[...] I figli appresso me legati[51] in scura
veste con tre corone ai piedi, sono
i miei Baroni hor miseri, e in paura.
[...] L'Aquila [imperiale] e 'l Gallo pur vorrebono, ch'egli[52]
da la lor fosse e por-lo in grande intrico
per tenergli la man dentro a capegli.
Et ei, ch'esser non vuol d’alcun nimico,
come vero Pastor ch'egli è, responde,
ch'egli egualmente è degli amici amico.
[...] Tre corpi in terra posti ignudi, e lassi
poste giù le corone, & l’altre insegne,
tre regni son d'ogni lor gloria cassi;
Milan, Napol, Sicilia un tempo degne
provincie, hor poste in man del sacro Impero
ch'ogni lor forza, & fasto abbassa & spegne.
I Can che concuor desto & sincero
stanno a guardia de le tre contrade,
Hispani son, ch’an l'animo guerriero
[mentre il Piemonte dei Savoia ha] il corpo in terra misero, & meschino
fatto in tre parti[53].
[...] di questo modo è il corpo mio[54] conquiso [...]»
 
Statua rappresentante la personificazione allegorica dell'Italia (Cosenza)

Le caratteristiche di questa personificazione giungono pressoché intatte al 1559, alla pace di Cateau-Cambrésis, accordo che pose definitivamente fine alle guerre d'Italia riconoscendo la vittoria a Filippo II d'Asburgo, che ottenne il controllo del Ducato di Milano, del regno di Napoli e del regno di Sicilia[48].

Da ciò conseguì la nascita, nella penisola italiana, di un forte sentimento anti spagnolo che si espresse, tra l'altro, anche attraverso alla personificazione allegorica dell'Italia, che acquisì i tratti di una regina offesa e violata, ridotta in povertà e in attesa di liberazione[55]. A tal proposito Giovanni Guidiccioni scrisse[56]:

«[...] [Italia riposa seppellita in un] pigro e grave sonno [e si trova] di catene avvinta.
[...] [Inoltre] paventa e piange le sue piaghe alte e mortali.
[...] [Italia è la] degna nutrice de le chiare genti [ed è colei] che tanti secoli già stese
sì lungi il braccio del felice impero donna delle provincie, e di quel vero
valor, che 'n cima d'alta gloria ascese [ma che ora] giace vil serva.
[...] quest'afflitta Italia, a cui non dura in tanti affanni ormai la debil vita.
[...] madre d’imperi [che] ogn'ora geme
scolorato il real sembiante humano [e che desidera che] bianca il seno e 'l volto,
et la man carca di mature spiche, ritorni a noi la bella amata Pace»

Bernardino Pellippari nella sua opera L'Italia consolata, pubblicata nel 1561 per onorare la visita a Vercelli dei duchi Emanuele Filiberto di Savoia e Margherita di Valois, fa parlare così la personificazione allegorica dell'Italia[57].

«[...] mendica, et infelice,
Però che fatta son publico albergo
De' barbari crudeli empij e malvagi,
Li quali per sfogar l'animo iniquo
Ch'ebbero contra al mio valor immenso
M'han posta in servitù, noiosa e grave:
La cui puzza, et i cui brutti costumi
Mi dan la morte mille volte al giorno.
[...] [Il sogno dell'Italia è quello di vedere] scacciata
Dal mio terreno questa turba immonda,
Acciò si faccia col suo buon volere
Un ben unito ovile, e un sol pastore [...]»

Ancora una volta non si intende il desiderio di un'Italia politicamente unita, bensì la voglia di pace tra gli Stati italiani preunitari indipendenti dal dominio straniero e guidati dal papa[57]. Pellippari auspica anche un interventi militare in coalizione contro i turchi ("barbari crudeli empij e malvagi")[57].

Dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559) inizia per l'Italia una fase storica conosciuta come pax hispanica, ovvero un periodo di stabilità politica e militare, visto che il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, sul Regno di Napoli e sul Regno di Sicilia e i patti di non belligeranza firmati da Filippo II d'Asburgo con il Ducato di Savoia, il Ducato di Toscana e gli altri Stati italiani minori, garantisce un equilibrio destinato a durare diversi decenti, fermo restando che spesso si hanno avuti momenti di tensione poi risolti senza operazioni militari[58]. Nel 1571 si formò un'alleanza militare, la Lega Santa, tra lo Stato Pontificio, la Repubblica di Venezia, la Spagna di Filippo II, i Cavalieri di Malta, la Repubblica di Genova, il Granducato di Toscana, il Ducato d'Urbino, il Ducato di Parma, la Repubblica di Lucca, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Mantova ed il Ducato di Savoia il cui obiettivo era quello di combattere l'Impero Ottomano: la diatriba militare si risolse nella battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), che vide vincitrice la Lega Santa[58].

Il XVII secolo

 
Italia turrita a Cascina (Pisa)

Come già accennato, già dalla metà del XVI secolo, in Italia, iniziò serpeggiare malumore contro la potenza egemonica della Spagna, che nel secolo successivo si tramutò in breve tempo in un forte sentimento anti asburgico[58]. Gli spagnoli vengono visti come responsabili di un dominio arrogante e tirannico, e quindi la personificazione allegorica dell'Italia vista come una donna dal portamento regale per le sue glorie passate ma triste e malconcia per le vessazione dei tempi presenti, assume via via connotati sempre più forti[59]. In altre parole, le peculiarità della sua personificazione, la regalità e la tristezza, assumono tinte più marcate e decise durante il dominio spagnolo[57].

Testimone di questa tendenza è l'opera Lamento doloroso dell’Italia commemorando gli huomini illustri in arme, et in lettere in quella creati, et finalmente ricca rende à Principi, al Sommo Pontifice, & all’altissimo Iddio, per aiuto delle sue miserie, redatta da un autore anonimo nel 1559, anno della pace Cateau-Cambrésis, che fa proferire alla personificazione allegorica dell'Italia una supplica al papa affinché riunisca tutti i sovrani europei[60]:

«[...] prima l'Aquila Germanica
E il Giglio aureato, che mi fan tremiscere
E poi congionge in una voglia organica
A perseguir l'Imperatore Argolico
L'Anglo, il Pannonio, e la corona Hispanica
[in modo che] tutto quel che ha cumulato in cassa
Riserva a farcontra infidel l'impresa. [...]»
 
Italia turrita a Collarmele (L'Aquila)

Tra i primi autori a scrivere sull'Italia e sulla situazione politica della penisola italiana dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559), ovvero in seguito alla cristallizzazione della situazione politica italiana, fu Traiano Boccalini nella sua opera Ragguagli di Parnaso (1612-1613), che sostiene che l'Italia, vista come una personificazione allegorica di una regina (la "Reina d'Italia")[61]:

«[...] si valse degli aiuti stranieri, che per scacciarne i francesi facilitò agli Spagnuoli l'acquisto del regno di Napoli; e tra lei e la Monarchia di Spagna passò buona amicizia e perfetta intelligenza finché gli Spagnuoli, con la fraude nota ad ognuno, si fecero padroni del nobilissimo ducato di Milano, per lo quale acquisto, che fu di somma displicenza ai prencipi d'Italia, li Spagnuoli di modo si resero odiosi e sospetti a tutta l'Italia, che la Monarchia di Spagna e la Reina d'Italia, ancorché nell'apparenza mostrassero di continuare nell'antica confidenza, crudelissimamente nondimeno si insidiarno alla vita e alla riputation; e il tutto con tanta acerbezza d'animi infelloniti, che con le macchinazioni del denaro, con le insidie della penna per molti anni nella pace si fecero crudelissima guerra. [...] La Reina d'Italia, allorché i francesi soggiogarono Napoli e pretendeano Milano, per assicurarla sua libertà d'armi di così potente nazione fu sforzata congiungersi con la Monarchia spagnuola; ma che, avvedutasi poiché anch'essa, dopo gli acquisti che fece del regno di Napoli e del ducato di Milano, con ambizion più intensa, con artifici più cupi e con macchinazioni più fraudolente degli stessi francesi ambiva il dominio di tutta Italia [...] così crudelmente cominciò ad odiarla, che con ogni sorte di macchinazione l'una cercò il precipizio dell'altra. [...]»

Il sentimento anti spagnolo si evince anche nell'opera di Alessandro Tassoni le Filippiche, dove si schiera a favore di Carlo Emanuele I di Savoia e delle sue mire espansionistiche in Italia con un atteggiamento, perlomeno all'inizio, filo francese e antispagnolo (visto che egli "combatte per la riputazione dei prencipi d'Italia e per la nostra comune libertà")[62]. Tassoni, nella sua opera, che venne scritta tra il 1613 e il 1614, fa parlare la personificazione allegorica dell'Italia con queste parole ("madre ai principi suoi figli")[63]:

«[...] La Patria è più che madre, e se non è lecito fare schiava la propria madre per qualunque errore ella commetta, tanto meno è lecito mettere in schiavitù la propria patria per qualsivoglia imperfezione che si vegga nel suo governo [...]»

Le Filippiche di Tassoni continuano con una reprimenda a coloro che appoggiano il governo spagnolo[63]:

«[...] superbo e rio, armi, ridendo, onde mi squarci il seno [...]»

E con un monito affinché[63]:

«[...] se pietà di zelo o di valore, l'armi vostre non move a fieri sdegni, vi mova i danni miei, che son ben degni, ch'in voi si desti ormai dramma d'amore [...]»
 
Italia turrita a Milano, facente parte del Monumento ai caduti di Mentana

Analogamente Fulvio Testi nella sua opera L'Italia all'invittissimo e gloriosissimo prencipe Carlo Emanuel Duca di Savoia del 1615, meglio conosciuta come Pianto d'Italia, concepisce una personificazione dell'Italia che proferisce queste riflessioni[64]:

«[...] Bagnava il viso, e le rigava il petto,
sparso dagl'occhi in larga vena il pianto;
il pie d'aspre catene accinto, e stretto
era, e squarciato in varie guise il manto
e le cingeva i crini inculti, e sparti
un diadema Real rotto in più parti. [...]

[...] L'Italia mi chiam'io son io colei,
ch'ovunque gira il Dio lucido, e biondo,
alzando illustri, ed immortal trofei
tutte cacciai l'altrui grandezze al fondo;
quella son io, che viddi a cenni miei
chino ubbidir, e riverente il Mondo,
e temuta dal uno al altro Polo
formai di tutti i Regni un Regno solo. [...]

[...] Forse i titoli vani, onde son piene,
le mie Città; l’ampie promesse, in cui
fondano i forsennati ogni lor spene,
ond’ei con le lusinghe insidia altrui,
miei guiderdoni stima, e
premii sui? Premii questi non son, ben son catene,
quel cauto ucellator, che di poc’esca
mostra far suole à quegli augei, che invesca. [...]»

 
Monumento ai caduti di Montecatini Alto (Pistoia) che ha, nelal parte anteriore, una statua rappresentante la personificazione allegorica dell'Italia

Anche in questo caso, l'auspicato intervento di Carlo Emanuele I di Savoia non è legato a un'idea di un'unità politica dell'Italia sotto la bandiera, in questo caso, di Casa Savoia, bensì un semplice appello affinché il duca sabaudo cacci gli spagnoli dalla penisola italiana (nell'opera di Fulvio Testi Carlo quel generoso invitto core, è infatti riportato il famoso verso "da cui spera soccorso Italia oppressa") venendo sostituiti dalla Francia (nel Pianto d'Italia è indicativo il verso "Che l'onda del natio profondo Reno / Varcasse Celta con asciutto piede")[65].

Tommaso Campanella, nella sua opera D'Italia, richiama invece la personificazione di Roma, ricalcando i concetti espressi nei secoli precedenti, quando le opere letterarie erano meno pregne di significati legati alla politica del presente:

«[...] La gran donna, ch'a Cesare comparse
sul Rubicon, temendo a sé rovina
dall'introdotta gente pellegrina
onde 'l suo imperio pria crescer apparse;
sta con le membra sue lacere e sparse
e co' crin mozzi in servitù meschina. [...]»

Tra il XVI e il XVII secolo la personificazione inizia ad assumere, anche da un punto di vista figurativo i connotati definitivi con l'aggiunta di quelle peculiarità che sono arrivate al XXI secolo: il globo come trono, la cornucopia, la corona turrita illuminata da una stella, la Stella d'Italia[6]. La personificazione allegorica dell'Italia inizia a comparire, a partire dal XVI secolo, sulle carte geografiche, che iniziano a diventare comuni dopo la scoperta dell'America (1492)[6]. Una delle prime raffigurazioni della personificazione di Italia su una carta geografica è quella che si trova nella Sala del mappamondo, un ampio salone interamente decorato da carte geografiche che risale alla metà del XVI secolo e che è situato nella terza loggia del Palazzo Vaticano a Roma[66]. Su questa carta le personificazioni allegoriche dipinte sulla mappa della penisola italiana sono due, Italia e Roma, la prima priva di connotazioni particolari, la seconda da fattezze richiamanti l'antichità classica[66].

Il significato, solo accennato, che si evince dalle personificazioni allegoriche di Italia e Roma dipinte da nel Palazzo Vaticano è quello che sarà destinato a crescere costantemente nell'immaginario collettivo degli italiani nei secoli successivi fino a tradursi in azioni politiche e militari: l'idea che alla penisola italiana venga associata un'unità politica e amministrativa[66]. Medesimo significato si riscontra anche in altre mappe. La personificazione dell'Italia, ne L'Italia illustrata di Biondo Flavio, lasciata incompiuta nel 1463, e in Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, opera scritta nel 1568, comunicano entrambe l'unitarietà della penisola italiana[67].

 
Mappa di Italia, Corsica e Sardegna nella Galleria delle carte geografiche, che si trova nei Musei Vaticani. In basso a sinistra si riconosce, seduta sul trono, la personificazione allegorica dell'Italia

La Sala del mappamondo ispira a papa Gregorio XIII l'idea di realizzare una Galleria delle carte geografiche da dipingere, sempre nei Palazzi Vaticani, ma avente come soggetto la sola Italia[68]. Della realizzazione dell'opera si occupa Ignazio Danti, che la dipinge tra il 1580 e il 1581[68]. La Galleria delle carte geografiche, che ha dimensioni 120 m x 6 m, consta quaranta carte geografiche che raffigurano l'Italia intera, le regioni che la compongono e l'area intorno ad Avignone[68]. Rispetto a L'Italia illustrata di Biondo Flavio e Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, l'opera di Ignazio Danti è completamente nuova, frutto di un'elaborazione diversa rispetto ad altre mappe del passato, con la suddivisione in regioni che è stata eseguita da nuovi criteri politici e geografici[68]. Anche in questo caso la mappa dell'Italia, e la sua personificazione allegorica, trasmettono senso di unità politica[69].

Abraham Ortelius nel suo Il theatro del mondo, per quanto riguarda l'Italia, si ispira alla mappa di Ignazio Danti[69]. Per quanto riguarda la geografia dell'Italia, Ortelius scrisse[69]:

«È l'Italia [...] cinta dalle Alpi da una parte et dal mare dalle altre tre; tiene di lunghezza mille et dieci miglia, contando da Augusta Pretoria fino a Reggio, di larghezza quattrocento miglia dove però è più larga, perché in molti luoghi si va restrigendo, essendo figurata di forma d'una coscia et gamba humana; pare chela città di Rieti sia l'ombilico d'Italia. È traversata dal monte Appennino dal quale escono molti fiumi che sboccano nelle due bande del mare. In questa sono monti, colli, prati, campagne, laghi, fiumi, fonti, boschi, selve, che si somiglia un bellissimo giardino, nascendo in un medesimo campo grano, vino, oglio, con altri frutti senza impedirsi insieme, che pare quasi una maraviglia; la perfettione dell'aria si conosce da questa che in tute due le parti estreme di essa produce vino, oglio, cedri, et altri simili frutti nobili né vi mancano miniere d'ogni sorte de metalli»

Degli Stati e delle città italiane Ortelius osservò[70]:

«Qui risiede il Sommo Pontefice Vicario di Christo in terra, vi sono tante Repubbliche famose, tanti Regni, Ducati, Marchesati, Contee, Baronie et Signorie, ch'è cosa stupenda; né in tutta la Christianità è paese meglio adornato di Città magnifiche et sontuose, tra le quali alcuni principali hanno questa prerogativa di titolo, che si dice Roma santa, Napoli gentile, Fiorenza bella, Venetia ricca, Genova superba, Milano grande, Bologna grassa, Ravenna antica, lascio un numero infinito d'altre,che scrive Eliano essere state in Italia anticamente mille cento e sessanta sei Città, lascio che non è paese né più civile, né più polito di costumi, né di creanza di questo, et quello h'importapiù che sempre si sia meglio mantenuto nella vera fede catholica et Apostolica.»
 
L'Italia turrita e stellata di Cesare Ripa (1603). Si può notare, sopra la personificazione allegorica, la Stella d'Italia

Il primo a riprendere una figura dell'Italia turrita più simile a quella dell'età antica fu Cesare Ripa nel XVII secolo, che la descrive, nella sua Iconologia, come nel sesterzio di Antonino Pio, accostandole anche una stella che le brilla sopra la testa: il motivo di tale associazione risiede nel fatto che nell'antica Grecia all'Italia fosse accomunata la Stella di Venere, essendo la penisola italiana posta ad occidente della Grecia[71]. La Stella di Venere è infatti visibile sull'orizzonte, subito dopo il tramonto, a ovest. Da questa leggenda nacque uno dei nomi con cui era conosciuta l'Italia in questa epoca storica: Esperia, ovvero "terra di Espero, l'astro della Sera consacrato a Venere"[72][73]. La Stella d'Italia, risalendo all'antica Grecia, è quindi il più antico simbolo patrio italiano[74]. Cesare Ripa, per redigere la sua opera, fu ispirato dalla personificazione allegorica dell'Italia contenuta nella Galleria delle carte geografiche di Ignazio Danti[75].

L'Iconologia di Cesare Ripa è un elenco di immagini allegoriche, ordinate alfabeticamente e di derivazione classica, a cui sono associate la descrizione e la spiegazione dell'allegoria[76]. La prima edizione di questa opera, che è datata 1593, era priva delle raffigurazioni ed era quindi composta solamente dalla parte descrittiva: nel 1603 furono aggiunte le immagini delle allegorie[76]. L'Iconologia ebbe grande successo, e nei secoli successivi fu presa come riferimento per l'iconografia e la soggettistica dell'arte sacra e profana[77]. Le immagini rappresentate sul testo di Cesare Ripa non portano nulla di nuovo all'iconografia dei soggetti rappresentati: l'autore si limita infatti a riportare le immagini già pubblicate su testi precedenti[78].

Nell'opera di Ripa, tra l'altro, sono menzionate, raffigurate e descritte le personificazioni allegoriche dell'Italia e delle sue regioni ("Italia con le sue provincie & parti dell'Isole. Come rappresentata nelle Medaglie di Commodo, Tito & Antonino.")[72]. La rappresentazione dell'Italia, in particolare, prende ispirazione dall'allegoria dipinta nella Galleria delle carte geografiche di Ignazio Danti in Vaticano[72]. Questa la sua descrizione[72]:

«[...] Una bellissima donna vestita d'Habito sontuoso, e ricco con un manto sopra, e siede sopra un globo, ha coronata la testa di torri, e di muraglie, con la destra mano tiene uno scettro, overo un'hasta, che con l'uno, e con l'altra vien dimostrata nelle sopra dette Medaglie, e con la sinistra mano un cornucopia pieno di diversi frutti, e oltre ciò faremo anco, che habbia sopra la testa una bellissima stella. [...]»
 
Statua dell'Italia turrita a Brescia

Per quanto riguarda l'aggiunta della Stella d'Italia, Cesare Ripa si ispirò al Dictionarium historicum ac poeticum, opera redatta da Charles Estienne nel 1567[72]. Sull'Iconologia di Cesare Ripa la presenza della Stella d'Italia è così motivata[79]:

«[...] Italia è una parte dell'Europa, & fu chiamata prima Hesperia da Hespero fratello d’Atlante, il quale cacciato dal fratello, diè il nome, & alla Spagna, & all'Italia: overo fu detta Hesperia (secondo Macrobio lib. I. cap. 2) dalla stella di Venere, che la sera è chiamata Hespero, per esser l'Italia sottoposta all'occaso di questa stella. Si chiamò etiandio Oenotria, ò dalla bontà del vino, che vi nasce, ò da Oenotrio, che fu Rè de' Sabini. Ultimamente fu detta Italia da Italo Re di Sicilia il quale insegnò agl'Italiani il modo di coltivare la terra, & vi diede anco le leggi, percioché egli venne a quella parte, dove poi regnò Turno, & la chiamò così dal suo nome, come afferma Vergilio nel lib. I dell'Eneide. Hora noi la chiamiamo Italia dal nome di colui che vi regnò: ma Timeo e Varrone vogliono, che sia detta così dai buoi, che in lingua greca anticamente si chiamavano Itali, per esservene quantità e belli. [...]»

Secondo Cesare Ripa la personificazione allegorica dell'Italia sotto forma di donna è estremamente bella[80]:

«[...] per la dignità, & grande eccellenza delle cose, le quali in essa per addietro continuamente ritrovate si sono. [...]»

Richiamando la Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, Ripa menziona Francesco Petrarca che[80]:

«[...] ritornando di Francia, &avvicinatosi all'Italia & vedendola, con grandissima allegrezza disse Salve cara Deo tellus santissima, salve [...]»

E ricorda gli scritti di Virgilio, Strabone e Dionigi d'Alicarnasso, dove sono riportate lodi all'Italia[80]:

«[...] percioché in questa felicissima Provincia si ritrova per la maggior parte l'aria molto temperata, onde ne seguita esservi adagiato vivere, e con assai differenti e di animali, di augelli sì domestici, come anco selvaggi per uso degli uomini [...]»

Per tali motivi, secondo Cesare Ripa, la personificazione allegorica dell'Italia comunica ricchezza e autorità. Per questa ragione, ad essa a sono associate la Stella d'Italia (definita da Ripa, "la bella stella sopra il capo"), un corto chitone, un ricco mantello ("essendo che in quella nobilissima Provincia si veggono molti fiumi, cupi e laghi, dilettevoli fontane, vene di saluberrime acque tanto calde e tanto fresche [e ci sono] diverse miniere di metalli: ma etiandio varij, & diversi marmi, & altrepietre fine"), la corona turrita ("[che] dimostra l'ornamento, e la nobiltà delle Città, Terre, Gastella, & Ville") lo scettro ("[che] significa l'imperio, & il dominio, che hà sopratutte l'altre nationi"), la cornucopia ("[che] significa la fertilità maggiore di tutte l'altre Provincie del mondo"), il globo ("per dimostrare che l'Italia è Signora, & Regina di tutto il Mondo, come hanno dimostrato chiaro gli antichi Romani, & hora più che mai il Sommo Pontefice maggiore & superiore à qualsivoglia Personaggio")[81]. Cesare Ripa, per l'associazione di questi attributi, è stato ispirato da Antonio Agostini, che nella sua opera Discorsi da della personificazione dell'Italia questa descrizione[82]:

«[...] una donzella grande sopra un mondo con uno scettro nella mano diritta e nell'altra tiene un cornocopia, mostra il suo imperio e gran fertilità, ha la testa coronata di torri e di muraglie perché è piena d'abitazioni»
 
Statua rappresentante la personificazione allegorica dell'Italia (Lovere, Bergamo)

Cesare Ripa descrive nella sua Iconologiaanche le personificazioni allegoriche delle regioni italiane: la Liguria ("donna magra, di aspetto virile, & feroce sopra di uno scoglio, ò sasso"), la Toscana ("una bellissima donna di ricchi panni vestita, sopra de' quali haverà il manto del Gran Ducato di velluto rosso foderato di armellini"), l'Umbria ("una vecchia vestita all'antica, con elmo in testa"), il Lazio ("l'antico Saturno, cioè un'huomo con barba longa, folta, e canuta, sedendo in una grotta, tenendo in mano la falce") con Roma ("sopra la detta grotta [...] una donna à sedere sopra d’un mucchio di diverse armi"), la Campania ("la figura di Bacco, & di Cerere, li quali stiano inatto fiero di fare alla lotta, & che non si discerna avantaggio di forza più in uno, che nell'altra"), la Calabria ("donna di carnagione fosca vestita di color rosso"), la Puglia ("donna di carnagione adusta, ch'essendo vestita d'un sottil velo, habbia sopr'esso alcune tarantole"), l'Abruzzo ("donna di aspetto virile, & robusto, vestita di color verde"), le Marche ("donna bella e di virile aspetto"), la Romagna ("donna con bella ghirlanda in capo di lino con le due foglie, e fiori, & di rubbia"), la Lombardia ("donna bella grassa, & allegra, il suo vestimento sia di color verde tutto fregiato d’oro, & argento, con ricami, & altri ricchissimi, e vaghi adornamenti"), il Veneto ("donnaleggiadra, & bella, che habbia tre faccie"), il Friuli ("donna vestita d'habito sontuoso, & vario, con un castello turrito in testa"), la Corsica ("donna di aspetto rozzo sopra di eminente sasso circondato d'acqua"), la Sardegna ("donna di corpo robusto, & di color gialliccio sopra d'un sasso in forma della punta d'un piede humano circondato dall'acqua") e la Sicilia ("bellissima donna vestita d'habito sontuoso, et ricco che sieda sopra d'un lioco in forma tringolare, circondato dall'acqua")[83].

L'iconografia utilizzata da Cesare Ripa fu poi abbondantemente utilizzata in ambito artistico, con una profusione di rappresentazioni della personificazione dell'Italia con gli attributi sopra descritti, ovvero la Stella d'Italia, il chitone, il ricco mantello, la corona turrita, lo scettro, la cornucopia e il globo[82]. il suo primo utilizzo fu però in ambito letterario[82]. Rodolfo Campeggi nella sua opera Italia consolata. Epitalamio per le regali nozze di Vittorio Amedeo principe di Pie-monte e di Cristina di Francia, che scrisse nel 1619, descrive così la personificazione allegorica dell'Italia[82]:

«[...] Donna risiede a la fresc'herba in seno,
di cui sostegno fassi un Globo aurato,
Che dimostra ristretto in breve tondo
Delineato a parte, a parte il Mondo.
Chiudeva ne la man lo scettro, e intorno
Serica veste intesta d'or tenea,
Che per fregio di gemme indiche adorno
Ricamata di Soli esser parea.
Poi la Stella, che in Cielo annunzia il giorno
Sovra le chiome coronate havea,
E la Corona, che fra mille scielse
Feano merlate Mura, e Torri eccelse. [...]»

Il XVIII secolo

L'Italia è stata per secoli la meta prediletta dei viaggiatori europei, che erano interessati a visitare Roma, definita all'epoca Mirabilia urbis Romae tanto era apprezzata, e più in generale a essere immersi nella cultura italiana che era utile, per questi viaggiatori, a raffinare la loro educazione[84]. In questo fenomeno, che ebbe il suo culmine tra il Medioevo e l'Età moderna (nel primo periodo citato soprattutto per visitare Roma, culla della cristianità, nel secondo, a causa della frattura di quest'ultima avvenuta per la Riforma protestante, principalmente per fini culturali) erano coinvolte tutte le classi sociali, che erano anche attratte dalla produzione artigianale della penisola italiana, che era unica al mondo, dato che realizzava oggetti, anche artistici, di altissima qualità e introvabili in altre parti del globo[84]. Altri viaggiatori ancora avevano come obiettivo la frequentazione di corsi universitari, altri ancora viaggiavano per l'Italia per vedere i palazzi, i monumenti, le chiese e le opere d'arte, di cui l'Italia è ricchissima, con particolare attenzione a Roma, Venezia e Firenze[84]. L'Italia era solitamente l'ultima tappa di una lunga serie di viaggi che comprendeva tappe in altri Paesi europei come Francia e Germania: questa serie di soggiorni con finalità culturali, che era effettuata generalmente da giovani aristocratici, era chiamata Grand Tour[85].

Il turismo culturale nella penisola, che non si fermò neppure a causa delle guerre d'Italia, iniziò a diminuire negli ultimi decenni del XVII secolo, gli occhi dei visitatori stranieri cominciano a notare maggiormente la miseria della popolazione italiana piuttosto che la presenza monumentale e artistica della penisola italiana: a partire dalla fine del secolo citato, iniziò a serpeggiare l'idea che l'Italia fosse un esempio di decadenza, che era espressa, sempre a dire dei viaggiatori, dalla letteratura italiana e più ingenerale dalla cultura della penisola, giudicata di bassa qualità, vista la percezione di un'atmosfera smorta, retrograda e senza spunti[86].

Come risposta a queste critiche, gli intellettuali italiani di inizio XVIII secolo, su cui spiccò Ludovico Antonio Muratori, reagirono facendosi portatori di un cambiamento che portò alla nascita di movimenti meno asfittici e più ricchi di fermenti culturali[86]. Fu Ludovico Antonio Muratori l'intellettuale che incentrò la sua opera letteraria sulla creazione dell'idea dell'Italia come protettrice delle Muse e quindi, in senso metaforico, delle arti[87]. Questi avvenimenti si ripercossero anche sulla raffigurazione dell'Italia turrita, che diventò appunto la "protettrice delle arti"[87]. L'idea di creare un nuovo tipo di cultura nazionale italiana iniziò a circolare tra i circoli colti, quello più famoso dei quali aveva sede a Milano ed aveva, come riferimento intorno alla quale gravitava, una rivista letteraria, Il caffè[88]. Questo periodico, che fu alle stampe fra il giugno 1764 e il maggio 1766, sulla scorta delle novità in campo culturale, fu il primo a proporre idee politiche nuove[88].

Questo nuovo ruolo metaforico dell'Italia ha subito successo tra gli intellettuali italiani e si diffonde tra lungo tutta la penisola[89]. A questa tendenza fa da eco la risposta dei viaggiatori stranieri, inglesi, francesi, te-deschi e scandinavi in primis, il cui più famoso fu Goethe, che recuperano parzialmente l'immagine positiva dell'Italia esplorando anche luoghi mai frequentati assiduamente, come la Sicilia: i viaggiatori europei reputano ancora la penisola italiana capace di essere una delle protagoniste della cultura europea continuando però a criticare la cultura italiana, reputata ancora stagnante[89]. Complice di questo ritorno di fiamma fu la scoperta delle rovine romane di Ercolano e Pompei che riaccese l'interesse per la storia antica[89].

Testimone tangibile di questa nuova visione dell'Italia sono alcuni dipinti che si trovano nella Stanza della poesia del palazzo Chigi di Ariccia[89]. Le raffigurazioni vennero eseguite da Giuseppe Cades tra il 1788 e il 1789 su richiesta di Sigismondo Chigi[89]. Sulle pareti si evidenziano le personificazioni allegoriche di Italia (Italia nova) e Grecia (Graecia vetus) aventi, a differenza delle altre pitture, che hanno tinte policrome e raffigurano scene dell'Orlando furioso, una tonalità monocroma[89].

Gli attributi della personificazione della Grecia sono presumibilmente ispirate dalle formelle dell'Arco di Marco Aurelio[89]. La Grecia simboleggia lo scorrere del tempo, dato che impugna nella mano destra la corona d'alloro per premiare gli atleti dei giochi olimpici, che nell'antica Grecia erano organizzati annualmente[89]. La personificazione della penisola ellenica, che nella mano sinistra ha invece il tirso, è attorniata da Cerere, Pallade, Vulcano e Apollo in forma di cigno[89]. Gli oggetti che fanno da contorno simboleggiano le arti: le maschere il teatro, le Grazie la scultura, il tempio l'architettura, il cigno e la lira la poesia e la musica, mentre Cerere che ripara da sole la testa della personificazione della Grecia con alcune spighe mostra che per avere prosperità nelle arti occorre ricchezza economica[90].

La personificazione allegorica dell'Italia è profondamente ispirata a quella di Cesare Ripa, dato che ha i medesimi attributi fondamentali[91]. Ad essi sono aggiunte peculiarità che ne completano il significato metaforico[91]. Coma la personificazione della Grecia è seduta su un capitello, nella mano destra impugna l'uniboro mentre in quella sinistra la croce: completano la composizione pittorica un serpente che si morde la coda, metafora dell'eternità, e un triregno, simbolo del potere papale[91]. A destra è presente Euterpe, la musa della lirica che è attorniata da tre libri, la Divina Commedia, l'Orlando furioso e la Gerusalemme liberata, mentre a sinistra un putto che offre una moneta a un genio alato che trasporta il progetto della cupola di San Pietro, metafora del mecenatismo[91]. L'allegoria del progresso scientifico è invece resa da un putto che osserva il cielo con un cannocchiale[91]. Il ciclo di affreschi è completato dalla prua di un grande veliero[91].

Lo scenario pittorico è completato dalla seguente iscrizione compilata da Cesare Montalti[91]:

«Vedete l'Italia che tiene davanti a sé i pii simboli. Questo serpente rappresenta l'anno che come lei gli ha insegnato si attorciglia compiendo un ciclo preciso. Noi fendiamo le acque del mare e il cielo mostra più chiaramente ai nostri occhi le stelle. Costoro che cercano e portano alla luce le cose finite sotto terra dall'antichità ci permettono di conoscere le arti di quest'epoca. E la Musa si inorgoglisce del triplice poema.»

Altra celebre raffigurazione della personificazione allegorica è quella di un ciclo di pitture che è situato all'interno di Palazzo Belgioioso a Milano e che è stato realizzato da Martin Knoller tra il 1771 e il 1772 su commissione di Alberico Barbiano di Belgiojoso[92]. Le caratteristiche della personificazione dell'Italia furono suggerite da Giuseppe Parini[92]:

«Presso il Tempio dell'Immortalità al basso si vedranno più soldati in varie attitudini, con uno svolazzante vessillo avente il motto Italia ab exteris liberata, e la Italia che accenna il motto colla destra. Sarà una bella giovane, stellata, con una corona a foggia di torre; in piedi, coll'asta nella sinistra. Un puttino appoggerà la destra alla Italia, e terrà con la sinistra una catena spezzata. Un altro in ambo le mani due catene rotte; un terzo la cornucopia»

Nel XIX e nel XX secolo

Sul finire del XVIII secolo la personificazione allegorica subì una nuova trasformazione[87]. Complice di questo cambiamento è l'importazione in Italia, a causa delle guerre napoleoniche, della personificazione nazionale della Francia, che è caratterizzata da attributi che richiamano le virtù civiche derivanti dall'antica dominazione romana, rappresentate dai fasci littori, e le idee di rinnovamento nate in seno alla Rivoluzione francese, tra cui i diritti naturali estesi a tutti gli uomini e l'autodeterminazione dei popoli, che sono rappresentate dal berretto frigio[87]. Per diffondere le idee rivoluzionarie francesi venne usata anche la personificazione allegorica dell'Italia: un volantino distribuito nella penisola italiana poco dopo l'arrivo dei francesi mostrava una donna ormai sprovvista della benda che le copriva gli occhi, accompagnata da Napoleone verso la personificazione della democrazia, a cui mostra un atteggiamento ossequioso[93]. La personificazione della democrazia è legata alla Francia, dato che indossa un berretto frigio[94]. In questo volantino la personificazione dell'Italia, completamente priva di attributi specifici, compresi quelli relativi alla propria storia e all'arte, è pronta ad affrontare il suo futuro in ruolo subalterno alla Francia. Sulla didascalia che completa il volantino infatti è riportato: "La libertà, Italia, è già matura. Popolo ti risveglia à voti miei. Se libero, ed egual ti fè natura, Libero sei"[95].

Questi significati metaforici si trasferiscono prima nelle personificazioni degli Stati italiani filo napoleonici, che sostituirono gli antichi stati italiani presenti da secoli e aboliti da Napoleone, e poi, a iniziare dai primi anni del XIX secolo, nell'immaginario collettivo degli italiani[87]. Ciò fece nascere una nuova idea di personificazione allegorica dell'Italia: da semplice simbolo geografico della penisola italiana, diventa metafora di unità politica. Questo cambiamento è una delle dimostrazioni dell'ingresso in una nuova stagione storica: il Risorgimento[87].

Non tutti gli artisti forniscono alla personificazione allegorica dell'Italia connotati politici legati alla lotta per l'indipendenza[96]. Un esempio è un bassorilievo di Pompeo Marchesi del 1840 contenuto nella sua opera L'Italia madre delle arti, dove la penisola italiana indossa sul capo la corona turrita ed è sovrastata dalla Stella d'Italia: la raffigurazione, che simbolicamente rappresenta il ruolo di protettrice delle arti dell'Italia, è completata dalle rappresentazioni del genio della pittura e di quello della scultura[96]. Ai suoi piedi sono dipinti prodotti agricoli, una falce, un globo e un obelisco alla cui base è presente lo stemma papale[96]. È anche presente un celebre verso di Virgilio che recita "Salve magna parens frugum Saturnia tellus magna virum" e che è situato sul piedistallo che sostiene la donna[96]. Al suo fianco sono scolpiti i Dioscuri e i nomi di Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen. A parere di Pompeo Marchesi l'Italia è una delle tante province dell'Impero austriaco, ognuna delle quali deve assolvere un compito specifico garantendo l'equilibrio dell'insieme: il compito dell'Italia è quello di promotrice delle scienze e delle arti[96].

Altro celebre dipinto privo di connotazioni politiche[96] è Italia e Germania di Friedrich Overbeck, il soggetto è il dialogo di due donne vestite con abiti di stile rinascimentale, una dai capelli biondi (la Germania), l'altra dalla chioma bruna (l'Italia), che simboleggiano l'incontro tra due culture diverse ma complementari[97]. Friedrich Overbeck, a proposito della propria opera, dichiarò[97]:

«[...] sono due elementi che si contrappongono, certo,estranei l’uno all'altro, ma che è mio dovere fondere, almeno nella forma sensibile della mia arte, e li immagino quindi riuniti in una bella e fervente amicizia [...]. A essere evocata è la nostalgia, la quale attira in permanenza il Nord verso il Sud, verso la sua arte, la sua natura, la sua poesia»
 
Manifesto della prima guerra mondiale in cui l'Italia turrita invita a tacere per non divulgare segreti al nemico

L'Italia turrita recuperò l'aura solenne nel XIX secolo, diventando uno dei simboli del Risorgimento, durante il quale venne spesso rappresentata come prigioniera, ossia sottomessa alle potenze straniere che all'epoca dominavano il Paese, oppure inneggiante alla chiamata alle armi con l'obiettivo di spronare il popolo italiano a partecipare attivamente al processo di unificazione del Paese; l'iconografia della personificazione allegorica dell'Italia, durante il periodo risorgimentale, venne anche utilizzata nelle vignette propagandistiche per fini politici[98][99].

È di questo periodo la costruzione della maggior parte delle statue marmoree raffiguranti l'Italia turrita; l'erezione di monumenti alla personificazione allegorica del Paese continuò anche dopo le tre guerre d'indipendenza[99]. A unità d'Italia completata, l'iconografia dell'Italia turrita venne superata dal mito della storia dell'antica Roma; non è infatti un caso che nel novero delle statue presenti all'Altare della Patria a Roma sia assente proprio la personificazione allegorica dell'Italia cinta da una corona muraria con torri[100].

 
Scheda del referendum istituzionale del 2 giugno 1946: all'interno del cerchio di sinistra, si può riconoscere l'Italia turrita
 
La personificazione dell'Italia rappresentata su una moneta da 100 lire del 1993

Questa tendenza a relegare l'Italia turrita a un ruolo comprimario, che iniziò nel 1870 con la presa di Roma[101], fu confermata anche durante il fascismo, che fece del richiamo della storia romana uno dei capisaldi del regime[102]. In seguito la sua importanza decrebbe costantemente, che l'ha portata a scomparire quasi completamente dall'immaginario collettivo degli italiani[103]. Il motivo dell'abbandono progressivo dopo l'unità d'Italia dell'utilizzo della personificazione nazionale è legato al fatto che l'Italia turrita fu importante, durante le guerre risorgimentali, per fornire ai patrioti un simbolo dai connotati forti e imperiosi: terminata questa esigenza, questa personificazione così perentoria e determinata fu molto meno necessaria agli italiani[103]

In questi decenni la rappresentazione allegorica dell'Italia non fu particolarmente diffusa nell'architettura ufficiale, con il posizionamento di statue all'interno degli edifici più importanti[102], ma venne limitata ai monumenti marmorei realizzati in varie città italiane, all'emissione filatelica e alle stampe propagandistiche, in particolar modo quelle legate all'iniziale neutralità e alla successiva partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale.

L'iconografia della personificazione allegorica dell'Italia venne ripresa nel secondo dopoguerra: nel 1946 i sostenitori della repubblica scelsero l'effigie dell'Italia turrita quale loro simbolo unitario da utilizzare nella campagna elettorale e sulla scheda del referendum sulla forma istituzionale dello Stato, in contrapposizione allo stemma sabaudo, che rappresentava invece la monarchia[104][105].

Dopo la proclamazione della Repubblica, che vide l'Italia turrita protagonista, l'iconografia della rappresentazione allegorica del Paese tornò ad apparizioni sporadiche; comparve su francobolli (tra cui la serie detta "Siracusana"), monete, valori bollati e vignette[106].

Luoghi di raffigurazioni

L'Italia turrita è raffigurata in moltissimi contesti nazionali: francobolli, onorificenze, monete, monumenti e sul retro della carta d'identità italiana[107]. L'allegoria dell'Italia è inoltre presente nei cartigli di numerose mappe antiche[66]. Per la prima volta nel 1595, in una carta del Gastaldi inserita in Parergon, stampato ad Anversa; quindi in quella pubblicata da Willem Blaeu nel 1635, con la corona muraria sormontata da una luminosa stella a sei punte[108][109]. L'immagine più suggestiva accompagna una carta generale dell'Italia del Cassini edita nel 1793 a Roma[110].

Galleria d'immagini

Note

  1. ^ a b c d e f g h i Bazzano, p. 37
  2. ^ a b c d e Bazzano, p. 7
  3. ^ Bazzano, p. 103
  4. ^ Iconologia Italia (PDF), su panorama-numismatico.com. URL consultato il 26 gennaio 2016.
  5. ^ L'immagine dell'Italia, eredità antica - Dall'avventura coloniale al primo dopoguerra (sezione III, parte V) (PDF), su archeobologna.beniculturali.it. URL consultato il 26 gennaio 2016.
  6. ^ a b c d Bazzano, p. 89
  7. ^ a b c Bazzano, p. 178
  8. ^ Bazzano, p. 133
  9. ^ Bazzano, p. 158
  10. ^ I simboli della Repubblica – L'emblema, su quirinale.it.
  11. ^ Bazzano, p. 11
  12. ^ a b c d e f Bazzano, p. 17
  13. ^ a b c Bazzano, p. 18
  14. ^ a b Bazzano, pp. 18-19
  15. ^ Bazzano, p. 19
  16. ^ a b c d e f Bazzano, p. 20
  17. ^ Bazzano, pp. 20-21
  18. ^ Bazzano, p. 21
  19. ^ a b c d e f Bazzano, p. 23
  20. ^ a b c d e Bazzano, p. 24
  21. ^ Bazzano, pp. 24-25
  22. ^ a b c d e f g h Bazzano, p. 25
  23. ^ a b c d e f g h i j k l Bazzano, p. 26
  24. ^ a b c d Bazzano, p. 27
  25. ^ Bazzano, pp. 28-29
  26. ^ a b c d e Bazzano, p. 29
  27. ^ a b Bazzano, p. 30
  28. ^ Bazzano, pp. 30-31
  29. ^ Bazzano, p. 32
  30. ^ Bazzano, p. 33
  31. ^ a b c d e f g h Bazzano, p. 42
  32. ^ Bazzano, pp. 42-43
  33. ^ Bazzano, pp. 37-38
  34. ^ a b c d Bazzano, p. 43
  35. ^ a b Bazzano, p. 44
  36. ^ Bazzano, pp. 43-44
  37. ^ a b Bazzano, p. 45
  38. ^ a b c Bazzano, p. 47
  39. ^ Bazzano, pp. 47-48
  40. ^ Bazzano, pp. 48-49
  41. ^ a b Bazzano, p. 49
  42. ^ a b c Bazzano, p. 50
  43. ^ a b c Bazzano, p. 51
  44. ^ Bazzano, pp. 55-56
  45. ^ a b Bazzano, p. 56
  46. ^ Bazzano, p. 57
  47. ^ a b Bazzano, p. 53
  48. ^ a b c d e f g Bazzano, p. 63
  49. ^ Bazzano, pp. 67-68
  50. ^ a b c d Bazzano, p. 72
  51. ^ Intende gli italiani.
  52. ^ Intende il papa.
  53. ^ Dato che è conteso tra Sacro Romani Impero, Francia e Svizzera.
  54. ^ Intende il corpo dell'Italia.
  55. ^ Bazzano, p. 64
  56. ^ Bazzano, pp. 71-72
  57. ^ a b c d Bazzano, p. 75
  58. ^ a b c Bazzano, p. 74
  59. ^ Bazzano, pp. 74-75
  60. ^ Bazzano, pp. 75-76
  61. ^ Bazzano, pp. 76-77
  62. ^ Bazzano, pp. 76-78
  63. ^ a b c Bazzano, p. 79
  64. ^ Bazzano, pp. 80-81
  65. ^ Bazzano, p. 81
  66. ^ a b c d Bazzano, p. 92
  67. ^ Bazzano, pp. 92-94
  68. ^ a b c d Bazzano, p. 96
  69. ^ a b c Bazzano, p. 97
  70. ^ Bazzano, pp. 97-98
  71. ^ Bazzano, pp. 89-101
  72. ^ a b c d e Bazzano, p. 101
  73. ^ Bazzano, p. 12
  74. ^ Rossi, p. 38
  75. ^ Bazzano, p. 98
  76. ^ a b Bazzano, p. 99
  77. ^ Bazzano, pp. 99-100
  78. ^ Bazzano, p. 100
  79. ^ Bazzano, pp. 101-102
  80. ^ a b c Bazzano, p. 102
  81. ^ Bazzano, pp. 102-103
  82. ^ a b c d Bazzano, p. 104
  83. ^ Bazzano, pp. 103-104
  84. ^ a b c Bazzano, p. 117
  85. ^ Bazzano, p. 119
  86. ^ a b Bazzano, pp. 117-118
  87. ^ a b c d e f Bazzano, p. 118
  88. ^ a b Bazzano, p. 117
  89. ^ a b c d e f g h i Bazzano, p. 123
  90. ^ Bazzano, pp. 123-124
  91. ^ a b c d e f g Bazzano, p. 124
  92. ^ a b Bazzano, pp. 127-128
  93. ^ Bazzano, pp. 128-129
  94. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Cita|Bazzano|p. 128
  95. ^ Bazzano, p. 129
  96. ^ a b c d e f Bazzano, p. 125
  97. ^ a b Bazzano, p. 125
  98. ^ Bazzano, p. 161
  99. ^ a b L'immagine dell'Italia, eredità antica - Dall'Unità d'Italia ai primi anni del Novecento (sezione III, parte IV) (PDF), su archeobo.arti.beniculturali.it. URL consultato il 27 gennaio 2016.
  100. ^ Bazzano, p. 163
  101. ^ Bazzano, p. 164
  102. ^ a b Bazzano, p. 165
  103. ^ a b Bazzano, p. 8
  104. ^ Bazzano, p. 172
  105. ^ Ma chi è il volto della Repubblica Italiana?, su medium.com. URL consultato il 26 gennaio 2016.
  106. ^ Bazzano, p. 173
  107. ^ Identità, identificazione e riconoscimento, su books.google.it.
  108. ^ (EN) Italia Turrita - Figure Personifies the Italian Nation, su italian.about.com. URL consultato il 26 gennaio 2016.
  109. ^ L'Italia antica di Jan Moretus del 1601. Genesi e sviluppo tra cartografia, storia, arte e potere persuasivo delle immagini, su famedisud.it. URL consultato il 26 gennaio 2016.
  110. ^ Roberto Borri, L'Italia nelle antiche carte dal Medioevo all'Unità nazionale, ISBN 978-88-8068-495-4.

Bibliografia

Voci correlate

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