Utente:Falco-85/Sandbox1
L'Irredentismo italiano fu quel movimento che nacque dopo il Risorgimento perorando la "liberazione" (redenzione, appunto) delle terre ancora in mani straniere.
Dopo il 1870 fuori dai confini del Regno d'Italia rimanevano territori abitati da popolazioni italiane e considerati entro i limiti storici, geografici e culturali dell'Italia. Da più parti si lamentava soprattutto che il Trentino e la Venezia Giulia fossero ancora sotto sovranità austriaca. Si perorava quindi la ripresa delle armi contro l'Austria, o si chiedevano trattative diplomatiche per spostare il più possibile i confini, su quei versanti. Nella prima fase l'irredentismo si diffuse molto negli ambienti della sinistra di ispirazione mazziniana e garibaldina, organizzandosi a seconda dei contesti: nei territori appartenenti alla monarchia asburgica, il sentimento irredentista si diffuse sotto forma di comitati clandestini presso i ceti urbani sia trentini che delle località lungo sponda orientale adriatica; nei confini del Regno si organizzarono varie associazioni, che contestavano la politica triplicista dei governi (e vennero anche contrastate dalle autorità in epoca crispina).
Durante l'età giolittiana il movimento tornò alla ribalta, sviluppando anche un filone nazionalista, che oltre al Trentino e alla Venezia Giulia, reclamava anche l'Alto Adige, e soprattutto Fiume e la Dalmazia, queste ultime nell'ambito di un disegno di egemonia italiana nell'Adriatico. Allo scoppio della Grande Guerra il problema delle "terre irredente" fu agitato dal movimento per l'intervento bellico dell'Italia contro l'Austria-Ungheria, fino alla fine del conflitto che vide l'unione al Regno di quasi tutti i territori in questione.
Diverso fu invece il discorso per le altre terre sotto altre sovranità, perlopiù la Corsica e l'ex contea di Nizza appartenenti alla Francia, la Svizzera italiana e l'arcipelago di Malta sotto dominio britannico: in questi luoghi la lotta per l’italianità fu assai più tenue, e le maggiori attenzioni su questi versanti si ebbero durante il periodo fascista.
Nel secondo dopoguerra isolati ambienti di ex fascisti, monarchici e nazionalisti tentarono di proporre - senza successo - un discorso neoirredentistico verso i territori rimasti ancora oltre i confini della neonata Repubblica: in particolare l'accento andò sui territori del confine orientale passati alla Jugoslavia e interessati dall'esodo giuliano-dalmata.
Premessa
In concomitanza con l'unità d'Italia (1861) si pose il problema dei territori che mancavano al nuovo Regno per completare l'unità nazionale: oltre al nodo del Veneto (rimasto austriaco) e del Lazio (ultimo residuo pontificio), si delineò sempre più quello delle terre periferiche, e quindi dei confini.
La Corsica, Malta, il Ticino e Nizza
In quest'ambito scarsa era l'attenzione verso territori come la Corsica (francese), Malta (britannica), per non parlare della Svizzera italiana (quasi tutta identificata con il canton Ticino). Visto l'apporto scarso di uomini da queste terre per la causa italiana si pensava più alle affinità culturali di questi territori con la nazione italiana che ad altro: per la Corsica si sottolineava il ricordo della battaglia di Pontenuovo e di Pasquale Paoli; per Malta e il canton Ticino, non si andava oltre il considerarle culturalmente parte dei mondi siciliano e lombardo. Ma in prospettiva più recente, queste terre erano state viste non tanto di più che come utili basi di emigrazione per i patrioti italiani[1].
Discorso un po' diverso lo ebbe Nizza, patria di Giuseppe Garibaldi che nel 1860 era passata - assieme alla Savoia - alla Francia e dove fino al 1871 si verificò qualche agitazione pro-italiana.
Il Trentino e il confine orientale
Tutt'altra attenzione era invece rivolta alle altre terre sotto dominio austriaco, comprese nell'arco di quella che veniva sempre più considerata come la regione veneta. Qui in primis stava il Trentino, o "Tirolo italiano" come si diceva all'epoca. Essendo popolato praticamente per intero da popolazione italiana, circa questo già dal 1848-49 la discussione riguardava unicamente il dove fissare i limiti con la nazione germanica, se cioè al confine linguistico alla chiusa di Salorno o a quello "naturale" della linea del Brennero. Diverso era invece il discorso delle terre sull'Adriatico orientale, e specie di quelle comprese tra l'Isonzo e il Quarnaro che molti consideravano parte storica e geografica della regione italiana. In questo caso il problema riguardava i rapporti specie con i nascenti movimenti nazionali degli slavi: infatti, nella fascia territoriale che abbracciava il Goriziano, Trieste e l'Istria, per continuare poi fino a Fiume e alla Dalmazia, le popolazioni italiane condividevano l'insediamento con popolazioni slave (specie slovene e croate). Non bastasse, sulle terre altoadriatiche - e specie su Trieste - si proiettava anche l'immaginario che i tedeschi avevano del proprio "spazio nazionale".
Ora, se la questione dei territori adriatici non era stata tanto affrontata negli anni addietro, a partire specie dal 1860 da parte di diversi in Italia si pensò di dover chiarire quale sarebbe dovuto essere il futuro confine orientale del Regno. In molti ambienti si paventava la prospettiva del collasso della monarchia degli Asburgo e quindi l'affermazione - tra l'area adriatica e quella danubiano-balcanica - anche dei movimenti nazionali magiaro e slavo del sud. In quest'ambito autori come il lombardo Sigismondo Bonfiglio e soprattutto i friulani Prospero Antonini e Pacifico Valussi (più vicini, per provenienza ed esperienza, alle zone di confine) avevano detto che, in tale prospettiva, il definitivo confine del Regno d'Italia sul versante ad oriente del Friuli sarebbe dovuto passare per loro ad est di Gorizia, seguendo la linea alpina e carsica e includendo Trieste e l'Istria, attestandosi quindi sul limite generalmente considerato come "geografico" e "storico" dell'Italia sul Quarnaro; al di là di esso sarebbero rimaste verosimilmente Fiume e certamente la Dalmazia[2].
Il tutto avveniva tra l'altro parallelamente al sempre maggiore rafforzarsi della coscienza nazionale e quindi delle tendenze filo-italiane presso le èlite di quei luoghi di frontiera. All'aprirsi ad esempio della fase costituzionale nell'Impero austriaco - dopo la guerra franco-austriaca - vi erano state chiare manifestazioni da parte di diversi rappresentanti degli organi di governo locale: come la dieta del Veneto ad esempio, anche la dieta provinciale dell'Istria si era rifiutata nella primavera del 1861 di inviare i propri delegati a Vienna. E soprattutto nel Regno, oltre agli emigrati politici veneti e friulani, cominciavano ad affluire anche fuoriusciti trentini (come Antonio Gazzoletti) e triestini e istriani (come Tomaso Luciani) che peroravano la causa delle loro terre tra quelle ancora soggette all'Austria.
Note
- ^ Volpe 1973, pp. 33-4.
- ^ Cfr Volpe 1973, pp. 34-5.
Bibliografia
- Gioacchino Volpe, Italia moderna, vol. 1. 1815-1898, Firenze, Sansoni, 1973.