Carlo Alberto di Savoia
Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia-Carignano (Torino, 2 ottobre 1798 – Oporto, 28 luglio 1849) è stato Re di Sardegna dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849.
Carlo Alberto | |
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Re di Sardegna | |
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In carica | 27 aprile 1831 – 24 marzo 1849 |
Investitura | 27 aprile 1831 |
Predecessore | Carlo Felice |
Successore | Vittorio Emanuele II |
Principe di Carignano | |
In carica | 16 agosto 1800 – 27 aprile 1831 |
Predecessore | Carlo Emanuele |
Successore | Titolo abolito |
Nome completo | Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia-Carignano |
Altri titoli | Re di Cipro Re di Gerusalemme Principe di Carignano Principe di Piemonte Duca di Savoia Duca di Genova Conte di Barge Custode della Sacra Sindone |
Nascita | Torino, 2 ottobre 1798 |
Morte | Oporto, 28 luglio 1849 |
Sepoltura | Cripta Reale di Superga |
Casa reale | Savoia-Carignano |
Padre | Carlo Emanuele di Savoia-Carignano |
Madre | Maria Cristina di Sassonia |
Consorte | Maria Teresa di Toscana |
Figli | Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Cristina |
Durante il periodo napoleonico visse in Francia dove acquisì un'educazione liberale. Come principe di Carignano nel 1821 diede e poi ritirò l'appoggio ai congiurati che volevano imporre la costituzione a re Vittorio Emanuele I di Sardegna. Divenne conservatore e partecipò alla spedizione legittimista contro i liberali spagnoli del 1823. Non destinato al trono, diventò re dello Stato sabaudo nel 1831 alla morte dello zio Carlo Felice che non aveva eredi.
Da sovrano, dopo un primo periodo conservatore durante il quale appoggiò vari movimenti legittimisti d'Europa, nel 1848 aderì alle idee ispirate a un'Italia federata guidata dal papa e libera dagli Asburgo. Nello stesso anno concesse lo Statuto Albertino, la carta costituzionale che rimarrà in vigore (prima nel Regno di Sardegna e poi nel Regno d'Italia) fino al 1947.
Guidò le forze che portarono alla prima guerra di indipendenza contro l'Austria, ma, abbandonato da papa Pio IX e Ferdinando II di Borbone, nel 1849 fu sconfitto e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele. Morì in esilio qualche mese dopo nella città portoghese di Oporto. Il suo tentativo di liberare l'Italia settentrionale dall'Austria rappresentò il primo sforzo dei Savoia di mutare gli equilibri della penisola dettati dal Congresso di Vienna. L'opera sarà ripresa con successo dal figlio Vittorio Emanuele che diverrà il primo re d'Italia.
Carlo Alberto ebbe diversi soprannomi, fra cui Italo Amleto, assegnatogli da Giosuè Carducci per il suo carattere cupo, conflittuale ed enigmatico[1]. Ebbe anche l'appellativo di Re Tentenna ad opera di una satira di Domenico Carboni[2], perché oscillò a lungo tra la firma dello Statuto e le idee del suo passato da reazionario.
Biografia
Le origini e la prima giovinezza (fino al 1814)
Carlo Alberto nacque a Palazzo Carignano a Torino, figlio di Carlo Emanuele e di Maria Cristina Albertina di Sassonia. Suoi padrini di battesimo furono il re di Sardegna Carlo Emanuele IV e la consorte di quest’ultimo, la regina Maria Clotilde di Borbone[3].
Carlo Alberto apparteneva ai Carignano, il ramo cadetto dei Savoia discendente dal capostipite Tommaso Francesco, figlio di Carlo Emanuele I[4]. Al momento della nascita, Carlo Alberto aveva poche speranze di salire al trono, visto che erano in vita gli eredi del ramo diretto della dinastia, ovvero i fratelli del sovrano in carica e i loro figli. Ma nel 1799, e cioè un anno dopo la nascita di Carlo Alberto, morirono 2 dei 4 esponenti di casa Savoia che lo precedevano nella successione: il piccolo Carlo Emanuele (di vaiolo a 3 anni), figlio del futuro Vittorio Emanuele I; e Maurizio Giuseppe (di malaria, in Sardegna)[3].
Il periodo napoleonico
Il padre di Carlo Alberto, Carlo Emanuele di Carignano, aveva studiato in Francia ed era stato ufficiale nell'esercito francese[5]. Simpatizzante delle idee liberali, si trasferì a 27 anni a Torino, da dove re Carlo Emanuele IV a causa dell'invasione napoleonica del 1796 partì per l'esilio. Carlo Emanuele di Carignano, assieme alla moglie Maria Cristina Albertina, aderirono invece alla causa napoleonica[6]. Nonostante ciò i due furono tradotti a Parigi dove, sospettati in quanto parenti della decaduta dinastia sabauda, vennero tenuti sotto sorveglianza e costretti a vivere in ristrettezze economiche in una casa nei sobborghi della capitale, a Chaillot[7]. Qui cominciarono a crescere i loro figli: Carlo Alberto e Maria Elisabetta, nata il 13 aprile 1800[8].
Il 16 agosto dello stesso anno, Carlo Emanuele di Carignano morì improvvisamente. La madre di Carlo Alberto si trovò così sola, ma non accolse l'invito dei Savoia ad affidare loro il figlio per educarlo secondo i canoni conservatori[9]. Nel 1808, Albertina si sposò in seconde nozze con l'uditore al Consiglio di Stato Giuseppe Massimiliano Thibaut di Montléart[10][6], con il quale Carlo Alberto ebbe un pessimo rapporto[N 1].
All'età di 12 anni Carlo Alberto e la madre furono ricevuti da Napoleone Bonaparte, che conferì al ragazzo il titolo di conte dell’Impero e una rendita vitalizia di 100 mila franchi[11][7]. Nel 1812 il giovane entrò nel collegio San Stanislao (Collège Stanislas) a Parigi[6], scuola dove rimase però due anni. Infatti la madre Albertina si era trasferita a Ginevra, dove condusse Carlo Alberto che, dal marzo 1812 al dicembre del 1813[7], fu affidato al pastore protestante Jean-Pierre Etienne Vaucher (1763-1841), ammiratore di Jean-Jacques Rousseau[12][13].
Alla sconfitta di Napoleone alla battaglia di Lipsia nell'ottobre 1813, la famiglia lasciò Ginevra nel timore dell'arrivo degli austriaci e tornò in Francia[7], dove Carlo Alberto entrò nel liceo militare di Bourges[14].
Il primo periodo a Torino (1814-1821)
L'arrivo a Torino e la rieducazione
Uscito di scena definitivamente Napoleone, il 16 maggio 1814 il nuovo re Luigi XVIII di Francia festeggiò a Parigi il ritorno dei Borbone. Tra i presenti alla gran festa, la principessa Maria Cristina Albertina di Carignano con i figli Carlo Alberto ed Elisabetta. Nonostante il suo passato vicino a Napoleone, la famiglia fu accolta bene, ma Carlo Alberto dovette rinunciare ai benefici ottenuti con il vecchio regime[16].
Ristabilita la pace in Europa era opportuno che Carlo Alberto tornasse a Torino, così come gli consigliò il conte Alessandro di Saluzzo, suo tutore. Anche Albertina se ne convinse e il giovane lasciò Parigi (e il suo patrigno) per giungere a Torino il 25 maggio[13]. Qui fu ricevuto benevolmente dal re Vittorio Emanuele I (Carlo Emanuele IV aveva abdicato nel 1802) e dalla consorte Maria Teresa d'Asburgo-Este[N 2]. Data la situazione familiare (né Vittorio Emanuele I né il fratello Carlo Felice avevano figli maschi[N 3]) Carlo Alberto era ora l'erede presuntivo al trono.
Per questo gli fu assegnato un precettore che correggesse le sue idee liberali[N 4]: dapprima il conte Filippo Grimaldi del Poggetto, religiosissimo, e poi, quando questi fallì, il cavaliere Policarpo Cacherano d'Osasco[17][13]. Costui, benché fosse più adatto al compito, si accorse ben presto di non poter influire sulla mentalità di Carlo Alberto, che in questo periodo venne riconosciuto per la prima volta affetto da nevrosi[18].
Il matrimonio e la personalità
Si decise allora che era giunto il momento del matrimonio. La prescelta che Carlo Alberto accettò fu la sedicenne Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, figlia del granduca Ferdinando III di Toscana e parente della regina di Sardegna Maria Teresa d'Asburgo-Este. Il principe partì quindi per per Roma il 17 marzo 1817, dove giunse nell'aprile del medesimo anno visitando l'ex sovrano Carlo Emanuele IV, ormai ritiratosi dalla vita pubblica[19][7][20]. Dopo un ritorno momentaneo a Torino, il principe di Carignano arrivò finalmente a settembre a Firenze, dove il 30 di quel mese furono celebrate le nozze in Santa Maria del Fiore[7][21].
Il matrimonio solenne fu seguito da un ballo organizzato dall'ambasciata piemontese a Firenze. Da qui il 6 ottobre la coppia partì alla volta del Piemonte[7]. L'11 gli sposi giunsero al castello del Valentino da cui fecero il loro ingresso solenne a Torino[22].
La giovane Maria Teresa era timidissima e molto religiosa; i due abitavano a palazzo Carignano e Carlo Alberto, di altro temperamento, cominciò a invitare i giovani intellettuali con cui condivideva le idee liberali. I più intimi erano Santorre di Santa Rosa, Roberto d'Azeglio, Giacinto Provana di Collegno, Cesare Balbo, Guglielmo Moffa di Lisio e Carlo Emanuele Asinari di San Marzano (1791-1841)[23][24].
Dalla personalità complessa, Carlo Alberto in questi anni attraversò anche una profonda crisi religiosa. Ne fu artefice l'amicizia con il diplomatico francese Jean Louis de Douhet d'Auzers e la già citata visita che il principe fece a Roma nel 1817 all'ex sovrano Carlo Emanuele IV ritiratosi in convento. Negli anni successivi al matrimonio, tuttavia, Carlo Alberto ebbe alcune relazioni extraconiugali, fra le quali quella con Maria Carolina di Borbone, vedova del duca di Berry[25].
Né i rapporti con Maria Teresa languivano, poiché quest'ultima dopo un aborto e un incidente di carrozza che il 25 agosto 1819 poteva compromettere la seconda gravidanza[26], il 14 marzo 1820 diede alla luce l'erede, Vittorio Emanuele, futuro primo re d'Italia[27]. Il vecchio re Vittorio Emanuele I, come segno di stima e riconoscimento, nominò il 12 settembre dello stesso anno[28] Carlo Alberto comandante dell'artiglieria[24].
Il coinvolgimento nei moti del 1821
Le premesse
A seguito dei moti di Cadice del 1820 re Ferdinando VII di Spagna fu costretto a riconcedere la costituzione del 1812. In molti Stati europei si accese così la speranza di ottenere analoghe concessioni dai rispettivi sovrani. Moti insurrezionali scoppiarono a Napoli e a Palermo e anche a Torino cominciarono i primi disordini: un gruppo di studenti dell'Università di Torino sbandierarono coccarde di color rosso al Teatro d'Angennes, e per questo gesto furono incarcerati[29]. La mattina successiva i loro compagni e alcuni docenti, indignati, scesero in piazza per manifestare contro il clima d'oscurantismo in cui era caduto il Piemonte dopo la Restaurazione; manifestazione che fu repressa dall'esercito[30][31]. Carlo Alberto, unico della dinastia, inviò dei doni ai feriti negli scontri in ospedale e, secondo il giornalista Angelo Brofferio, si recò addirittura al nosocomio per visitare gli studenti, che erano controllati a vista. Portò loro conforto mentre i soldati di guardia si ritraevano, rispettosi della persona del Principe[32].
Il 6 marzo 1821, Santorre di Santa Rosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo di San Marzano e Guglielmo Moffa di Lisio (tutti militari, funzionari o figli di ministri) e Roberto d'Azeglio incontrarono Carlo Alberto. I giovani liberali erano pronti ad agire e avevano identificato nel Principe l'uomo nuovo di Casa Savoia, colui che avrebbe rotto con un passato di assolutismo[33].
Carlo Alberto aveva assicurato loro il suo appoggio e così fece anche quella sera, dichiarandosi favorevole all'azione militare. Si trattava infatti di «far sollevare le truppe…circondare il castello di Moncalieri dove il Re si era ritirato da qualche giorno, presentarsi a lui e “imporgli” di concedere la costituzione e di dichiarare guerra all'Austria»[34]. Il ruolo di Carlo Alberto sarebbe stato quello di mediatore fra i congiurati e il sovrano[N 5].
Ma la mattina del giorno dopo, il 7 marzo, Carlo Alberto ci aveva ripensato e ne informò i cospiratori. Inoltre convocò il ministro della Guerra Alessandro Di Saluzzo dichiarando di aver scoperto un complotto rivoluzionario[35]. Fu un tentativo di sganciarsi dalla congiura che, tuttavia, continuò a incoraggiare il giorno dopo, in occasione di un'altra visita di Santa Rosa e di San Marzano. Costoro però si insospettirono e diedero disposizioni per annullare l'insurrezione che doveva scoppiare il 10. Lo stesso giorno Carlo Alberto, completamente pentito del complotto, corse a Moncalieri da Vittorio Emanuele I svelandogli ogni cosa. Ma la situazione precipitò: nella notte la guarnigione di Alessandria, comandata da uno dei cospiratori (Guglielmo Ansaldi), si era sollevata e si era impadronita della città. I rivoluzionari a questo punto, benché abbandonati dal Principe, decisero di agire[36].
La reggenza e la costituzione spagnola
Domenica 11 marzo 1821, re Vittorio Emanuele I riunì il Consiglio della corona del quale faceva parte anche Carlo Alberto. Quest'ultimo, assieme alla maggior parte dei presenti, si dichiarò d'accordo a concedere la costituzione. Il Re decise di attendere (visto che l’Austria doveva ripristinare la situazione assolutista anche a Napoli), ma il 12 pure la cittadella di Torino cadde nelle mani degli insorti. Vittorio Emanuele I inviò allora Carlo Alberto e Cesare Balbo a trattare con i carbonari che rifiutarono ogni trattativa: volevano, come unica condizione, la concessione della costituzione spagnola[37]. Così, la sera, il Re, di fronte al dilagare della sollevazione militare, per non concedere la costituzione, abdicò in favore del fratello Carlo Felice, e poiché quest'ultimo si era ritirato a Modena fu nominato reggente Carlo Alberto[38][39].
Il giovane reggente, preso alla sprovvista dall’abdicazione dell’anziano monarca, fu costretto a nominare un nuovo governo: l'avvocato Ferdinando Dal Pozzo al ministero dell'Interno, il generale Emanuele Pes di Villamarina alla Guerra e Lodovico Sauli d'Igliano agli Esteri[40]. Davanti alla pressione degli eventi, la sera del 13 marzo 1821, Carlo Alberto firmò il proclama che annunciava la concessione della costituzione spagnola, sottomettendola all’assenso del nuovo sovrano Carlo Felice[N 6]. Così, il 15 marzo, di fronte alla Giunta frettolosamente istituita, Carlo Alberto giurò di osservare la costituzione di Spagna, la cui versione sabauda era stata emendata con alcune clausole volute dalla consorte di Vittorio Emanuele I, Maria Teresa d'Asburgo-Este[41].
Nel frattempo Giorgio Pallavicino Trivulzio, Gaetano Castiglia e Giuseppe Arconati Visconti, esponenti del liberalismo lombardo, chiesero a Carlo Alberto di dichiarare guerra all'Austria per fare sollevare Milano, ma il Principe li disilluse[N 7], sostenendo che il Piemonte non aveva i mezzi necessari per una guerra contro la potente vicina[42]. Egli accolse invece i consigli di Cesare Balbo: «riportare la disciplina nelle forze armate, impedire eccessi e diserzioni, radunare le truppe fedeli al re»[43]. Quest'ultimo accolse però malissimo la notizia dell'abdicazione del fratello, che considerò una «violenza abominevole» e, dal suo ritiro modenese, ordinò a Carlo Alberto di trasferirsi a Novara[42][44]. Quanto alla costituzione spagnola, dichiarò nullo qualunque atto di competenza sovrana fatto dopo l'abdicazione del fratello[45][46].
Il periodo reazionario (1821-1831)
Per ordine del re Carlo Felice, quindi, a mezzanotte del 21 marzo 1821, Carlo Alberto lasciò segretamente palazzo Carignano. Soltanto l'indomani i rivoluzionari scoprirono la sua partenza. Da Rondissone il 23 si diresse alla volta di San Germano, e da quella località a Novara[47], città che era rimasta fedele al Re dove Vittorio Sallier de la Tour, un generale rimasto fedele alla monarchia, stava raccogliendo truppe lealiste[7]. A Novara l'ex reggente si fermò 6 giorni perché il 29 gli arrivò un dispaccio di Carlo Felice che gli ordinava di partire subito per la Toscana[48].
A Firenze e il congresso di Verona
La mattina del 2 aprile 1821 il principe giunse a Firenze, dove il 13 fu raggiunto dalla moglie e dal figlio che intanto erano riparati in Francia. La famiglia si stabilì a palazzo Pitti, dal suocero del Principe, il granduca Ferdinando III[49]. Il mese dopo, a maggio, Carlo Felice, che intanto aveva chiesto e ottenuto aiuto dall'Austria per ristabilire l'ordine, si incontrò a Lucca con l'ex re Vittorio Emanuele I. I due si intrattennero a lungo sulla condotta del nipote e, nonostante la nuova regina Maria Cristina avesse preso le sue difese, Carlo Alberto fu giudicato responsabile della cospirazione[50].
Avvilito e umiliato dai giudizi e dalle circostanze (pensò anche al suicidio, tale era la depressione in cui era caduto[7]), il principe di Carignano decise di rinnegare le sue idee liberali, anche perché Carlo Felice stava valutando l'ipotesi di eliminarlo dalla linea di successione con l'intenzione di passare la corona direttamente a suo figlio Vittorio Emanuele. Sull'argomento il re di Sardegna chiese l'opinione del principe di Metternich che, contrariamente alle sue attese, lo invitò a recedere dai suoi propositi[51]: temeva non solo che i diritti di successione passassero a Francesco IV di Modena, genero del re sardo che aspirava al trono dei Savoia[52][N 8]; ma l'esclusione dell'erede legittimo al trono sabaudo avrebbe con sé minato anche il principio di legittimità su cui si reggeva l'impianto politico-ideologico del Congresso di Vienna[53]. Queste osservazioni dell'Austria a favore di Carlo Alberto, furono sostenute in occasione del congresso di Verona del 1822, e ottennero il consenso delle altre potenze europee che miravano a mantenere lo status quo[N 9].
La linea di successione di Carlo Alberto invece, dopo che il 16 settembre 1822 il piccolo Vittorio Emanuele era sfuggito all'incendio della sua culla, non correva più pericoli, grazie anche alla nascita, il 15 novembre, del secondogenito Ferdinando[54]. Tranquillo per il lieto evento, Carlo Alberto a Firenze cominciò a dedicarsi a diversi interessi culturali. Era diventato collezionista di libri antichi, ma gli interessavano anche autori della sua epoca: si fece procurare le poesie di Alphonse de Lamartine e le opere del conservatore Joseph de Maistre[55].
La spedizione in Spagna
All'inizio del 1823 il duca Louis Antoine d'Angoulême assunse il comando del corpo di spedizione francese a cui le potenze europee delegarono il compito di riportare sul trono re Ferdinando VII di Spagna catturato dai rivoluzionari spagnoli dopo i moti di Cadice. Carlo Alberto, che chiedeva di dimostrare il suo pentimento, chiese di far parte del contingente. Scrisse due volte a tale proposito a Carlo Felice, il 1° e il 20 febbraio 1823, ma ebbe il permesso di partire solo il 26 aprile[56]. Carlo Felice, che non aveva ancora perdonato il Carignano del suo coinvolgimento nei moti del 1821, scrisse al fratello Vittorio Emanuele questa cinica frase che riassumeva il suo astio per il cugino:
Finalmente, il 2 maggio, a Livorno Carlo Alberto si imbarcò sulla fregata sarda Commercio[57] che il 7 attraccò a Marsiglia[7]. Il giorno seguente il Principe si rimise in viaggio e, prima di arrivare a Boceguillas, che raggiunse il 18, fu assegnato alla divisione del generale francese Étienne de Bordesoulle (1771-1837). Il 24 giunse a Madrid, dove sostò fino al 2 giugno[7], per poi ripartire per il sud: all'attraversamento della Sierra Morena, in uno scontro a fuoco con il nemico, dimostrò coraggio e i francesi lo insignirono della Legion d'onore[58]. Proseguì poi fino a Cadice, dove si accampò davanti al Trocadero, la fortezza di Cadice, ultimo baluardo dei costituzionalisti. Il 31 agosto 1823 le truppe francesi nella battaglia del Trocadero assalirono improvvisamente la fortezza e la catturarono[59][60]. Carlo Alberto varcò coraggiosamente il canale che divideva il campo di battaglia dalla fortezza recando con sé la bandiera del 6º Reggimento. Cercò, inoltre, di evitare che i prigionieri nemici fossero uccisi[61] e, poiché si distinse da semplice granatiere, i soldati francesi gli offrirono le spalline di un ufficiale morto nell'assalto[62]. Restò sul posto fino al calare della notte e il giorno successivo fu tra i primi a penetrare nel Trocadero dove Ferdinando VII, liberato, si compiacque con lui. Il 2 settembre ci fu una grande parata militare, dopo la quale, davanti alle truppe schierate, il duca d'Angoulême decorò Carlo Alberto con la Croce dell'ordine di San Luigi[63][N 10].
A Parigi e il ritorno a Torino
Sciolto il corpo di spedizione, Carlo Alberto passò da Siviglia a Parigi, dove giunse il 3 dicembre 1823[7]. Nella capitale francese ebbe modo di partecipare a balli, ricevimenti, feste, e di coltivare l'affettuosa amicizia di Maria Carolina di Borbone, vedova da tre anni del duca di Berry. Il 15 dicembre il re di Francia Luigi XVIII diede un grande ricevimento per i vincitori del Trocadero e Carlo Alberto fu tra gli ospiti d'onore al pranzo reale[64]. In seguito, Luigi XVIII diede al giovane alcuni consigli sulla sua futura attività di sovrano, e lo insignì dell'Ordine dello Spirito Santo, il più prestigioso ordine cavalleresco della monarchia francese[65]. Inoltre, il monarca francese rimproverò a Carlo Felice dell'astio che questi continuava a mostrare verso il parente, in quanto il sovrano sardo aveva censuarto la notizia del Trocadero[66]. Comunque, Carlo Felice fece firmare a Carlo Alberto, nell'ambasciata sarda a Parigi, un giuramento nel quale si impegnava ad istituire un Consiglio di Stato non appena fosse salito al trono, e che avrebbe mantenuto lo stato politico-istituzionale che avrebbe trovato all'indomani della morte di Carlo Felice[66][N 12].
Di fronte al riscatto internazionale, il re di Sardegna Carlo Felice decise che era venuto il momento di far tornare a Torino Carlo Alberto che il 29 gennaio 1824 ricevette il permesso di partire. Lasciata Parigi, il 2 febbraio Carlo Alberto si mise in viaggio e il 6 passò il Moncenisio, dove, per evitare dimostrazioni, ebbe l'ordine di entrare di notte, alle 22[7]. Obbediente, il Principe rientrò a palazzo Carignano quasi alle 23[67].
Tornato a Torino, da erede al trono Carlo Alberto si preparò a regnare soggiornando nel Castello Reale di Racconigi[68]. Cominciò a studiare una materia poco apprezzata a corte, l'economia, e nel 1829 ottenne il consenso a visitare la Sardegna. Del viaggio trasse un'accurata relazione sulle condizioni dell'isola (Voyage en Sardaigne)[N 13]. Fu uno scrittore prolifico. Nel 1827 insieme alla moglie scrisse 38 favole per i figli intitolandole Contes moraux (Racconti morali) in francese, la lingua di famiglia. L'anno dopo si cimentò in una commedia e in seguito si occuperà di critica letteraria e di storia. Farà stampare anche tre piccoli saggi: Notizie sui Valdesi, Ricordi dell'Andalusia e il già citato Viaggio in Sardegna. Di tutti questi lavori Carlo Alberto si pentì e ordinò di ritirarli dalla circolazione. Lasciò comunque un grande numero di corrispondenze e di esercitazioni letterarie[69]. Nonostante le idee conservatrici del periodo, Carlo Alberto sosteneva anche i letterati che professavano idee liberali, tra cui Carlo Botta i cui libri erano proibiti in Piemonte. Possedeva le opere di Adam Smith e la Collezione degli scrittori classici italiani di economia politica curata dal napoleonide Pietro Custodi[70].
La morte di Carlo Felice e l'ascesa al trono
Nel 1830 i francesi cacciarono Carlo X e Il Principe di Carignano ne fu sconvolto. Nel frattempo, la salute di Carlo Felice ebbe un tracollo definitivo, aprendo a Carlo Alberto la strada per il trono. Dopo averlo fatto chiamare, il 24 aprile 1831, il sovrano, davanti ai suoi ministri, disse: «Ecco il mio erede e successore, sono sicuro che farà il bene dei suoi sudditi»[71]. Tre giorni dopo, l’ultimo esponente della linea diretta di Casa Savoia spirava[72].
La prima fase di regno (1831-1845)
La politica carloalbertina, durante la prima fase di regno, si mosse su due linee ideologicamente in contrasto fra di loro: da un lato, il nuovo sovrano continuò nel solco lasciato dai suoi predecessori, mantenendo fede alle disposizioni che Carlo Felice gli aveva fatto giurare all'indomani del Trocadero; dall'altra, era consapevole che il Regno necessitasse di quelle riforme economiche e sociali volte a farne uno stato più moderno. Questa dicotomia ideologica si basava su su una politica estera fortemente filo-austriaca e conservatrice e su una politica sociale rigidamente conservatrice, specialmente nei rapporti con il clero; dall'altro, però, le varie riforme legislative ed economiche adottate da Carlo Alberto aprirono la strada ai borghesi e ai liberali, ponendo le basi per lo sviluppo del Regno in questa direttiva. Tale politica troverà pieno compimento durante il decennio di preparazione all'unità d'Italia (1849-1859) ad opera di Cavour[N 15]. Significative sono le stesse parole usate da Carlo Alberto nel suo diario e riportate da Silvio Bertoldi nella biografia del re sardo:
La politica interna
La composizione del governo
La diarchia tra elemento liberale e reazionario si riscontrò nella composizione del governo. Quando il ministro[N 16] della Guerra Matteo Agnès Des Geneys (1763-1831) morì, lo sostituì con Carlo San Martino d'Agliè che a sua volta gli era poco gradito. Tenne Vittorio Sallier de la Tour agli Esteri per poi sostituirlo nel 1835 con l'arciconservatore Clemente Solaro della Margarita. Ma importanti incarichi vennero fatti con l'idea di rinnovare l'oligarchia ministeriale: nel 1831 nominò Gaudenzio Maria Caccia conte di Romentino (1765-1834) ministro delle Finanze; Giuseppe Barbaroux ministro della Giustizia e il riformatore Antonio Tonduti conte dell'Escarèna (1771-1856) ministro dell'Interno. Tutti uomini che «godono di qualche reputazione di liberalismo»[73]. Il 5 aprile 1832 in sostituzione di d'Agliè, nominò ministro della Guerra Emanuele Pes di Villamarina[74][75][76].
Le riforme economiche e legislative
Come stabilito dal documento che firmò a Parigi all'indomani della vittoria del Trocadero, Carlo Alberto creò un Consiglio di Stato di 14 membri. Ma, essendo consapevole che il Piemonte aveva bisogno di riforme che lo mettessero alla pari degli altri Stati d'Europa, contravvenendo alla parte del documento in cui non avrebbe mutato nulla dal punto di vista economico e sociale, Carlo Alberto abrogò le esenzioni doganali privilegiate per la famiglia reale e per le cariche dello Stato, abolì la tortura, proibì le ingiurie ai cadaveri dei giustiziati e abolì la confisca dei beni dei condannati[75][77].
Analogamente, Carlo Alberto in campo economico rinnovò profondamente il commercio, ciò che consentì investimenti in campo agricolo, della viabilità stradale e ferroviaria e delle infrastrutture portuali a Genova e Savona. Nello specifico, i provvedimenti del Re che consentirono questi investimenti furono: una riduzione delle tasse doganali per il grano (per il quale scesero da 9 a 3 lire il quintale), per il carbone, per i tessuti e per i metalli; una facilitazione nell'importazione dei macchinari per l'industria; e la possibilità di esportare la seta grezza. Questa politica portò ovviamente a minori entrate nel settore dei dazi ma favorì altre entrate del bilancio dello Stato che, dal 1835, risultò in attivo per diversi anni[7].
Tra cultura e istruzione
Inoltre ebbe una notevole attenzione per la cultura: istituì nel 1832 la “Pinacoteca Regia e della Galleria Reale” di Palazzo Madama (oggi Museo civico d'arte antica) e la libreria di Palazzo reale che, già nel 1835, arriverà a contare ben 35.000 volumi[78]. Edificò diversi monumenti e palazzi, rifondò nel 1833 l'Accademia d'arte che prese il suo nome, Albertina, e fondò nello stesso anno la Regia Deputazione sopra gli studi di Storia Patria, alla quale seguirono tutte le Deputazioni di storia patria fondate nel corso del XIX secolo[77][79]. Le riforme non riguardarono soltanto le istituzioni culturali e le classi colte. Nel 1840, infatti, Carlo Alberto riformò il sistema scolastico di base, fondando il ministero della Pubblica istruzione delegandolo alla persona di Cesare Alfieri[80] e sottraendo così il Regno di Sardegna al potere educativo del clero[73][N 18].
La riforma della Giustizia e dei codici
Fin dal momento della sua ascesa al trono, Carlo Alberto aveva nominato una commissione, sotto la presidenza del Barbaroux, che aveva avuto il compito di redigere i nuovi codici civile, penale, di commercio e di procedura penale[81][82].
Il percorso di questa riforma fu assai lungo, al termine del quale, il 20 giugno 1837 fu promulgato il nuovo codice civile, ispirato in parte al Codice Napoleonico[7]. Il Re partecipò alla stesura anche del nuovo codice penale che fu emanato il 26 ottobre 1839[7]. Durante i lavori Carlo Alberto insistette sul concetto della pena correttiva, limitando così il più possibile la pena di morte. Egli chiese però pene severe per i colpevoli di sacrilegi e per i suicidi, i cui testamenti perdevano qualsiasi valore giuridico. Nel 1842, inoltre, vennero promulgati sia il codice di commercio, sia il codice di procedura penale, con delle innovazioni sulle garanzie dei diritti dell'accusato.
La «fusione perfetta»
A completare le riforme legislative, Carlo Alberto il 29 novembre 1847 attuò la cosiddetta “Fusione perfetta” dello Stato Sabaudo, estendendo alla Sardegna le riforme attuate sul continente e ponendo fine alla posizione secondaria dell'isola rispetto alle province continentali. Il sovrano, fin dalla visita che compì nel 1829 quando era ancora principe ereditario, aveva mostrato particolari sollecitazioni nei confronti dell'isola e nel 1838, ormai re, vi abolì il feudalesimo cercando di migliorare le condizioni di vita dei sudditi sardi[7].
La riforma dell'esercito
Grande attenzione dedicò Carlo Alberto alla riorganizzazione e al rafforzamento dell'esercito piemontese. Si riportano le parole di Brofferio: «Con sovrana determinazione del 15 ottobre 1831 si stabiliva di formare la fanteria dell'esercito in dieci brigate colla soppressione dei cinque battaglioni di cacciatori allora esistenti; decretavasi che ogni brigata fosse composta di due reggimenti, che ogni reggimento constasse in tempi di guerra di tre battaglioni, in tempo di pace di due e che ogni battaglione si componesse di sei compagnie, una di granatieri, una di cacciatori e quattro di fucilieri. Altri ordinamenti del 31 di dicembre dello stesso anno provvedevano a nuove riforme e prescrivevano il tempo del militare servizio. Altri decreti succedettero, ed altri ancora»[83].
Per tutti i 18 anni di regno di Carlo Alberto, l'esercito fu la principale attenzione del monarca, provvedendo che la maggior parte delle entrate andassero al mantenimento e al potenziamento dell'apparato militare, come ricorda anche Giuseppe Talamo: «la spesa media...per l'esercito era di 30 milioni all'anno, con risultati, tra l'altro, non del tutto soddisfacenti almeno per quanto riguardava il genio e i servizi logistici». Tare che in parte emergeranno durante la prima guerra d'indipendenza.
La riforma del clero
Devotissimo alla Chiesa Cattolica, Carlo Alberto si propose di infondere nuova linfa nel clero piemontese, promuovendo non soltanto il più possibile gli ordini religiosi (cui era affidata per la maggior parte l'istruzione), ma anche cercando di migliorarne le competenze, la condotta di vita e i costumi[84], così come la regolamentazione dei registri di stato civile e una riforma giuridica del foro ecclesiastico[85]. Appena salito al trono, inviò un memorandum al nuovo pontefice Gregorio XVI (1831-1846) in cui il monarca sabaudo proponeva di adottare misure disciplinari già attuate tre secoli addietro a Milano da Carlo Borromeo e di dare maggiore autorità ai vescovi per valutare la morale del clero delle loro diocesi[86][87]. Per questo motivo Carlo Alberto propose come supervisore generale il vescovo di Moriana Alexis Billiet, ma il pontefice preferì nominare l'italiano Giuseppe Morozzo Della Rocca quale supervisore del regno[88]. Secondo Cristina Siccardi, l'operato sociali di molti sacerdoti e religiosi piemontesi fu favorito dall'accondiscendenza del re: tra questi, si deve ricordare l'opera di san Giovanni Bosco.
Lo spirito reazionario: contro Mazzini e Garibaldi
Nell'anno dell'ascesa al trono di Carlo Alberto, nel 1831, vi erano stati tumulti a Roma, la rivolta carbonara di Ciro Menotti a Modena, e l’insurrezione di Bologna e Parma con la fuga di Francesco IV e Maria Luigia. Ma l’Austria era riuscita a riportare l’ordine e il re dello Stato sardo considerò provvidenziale la sua alleanza con gli Asburgo, improntando la concezione del potere allo spirito più reazionario.
Appena salito al trono, infatti, Carlo Alberto concesse l'amnistia solo a coloro che avevano commesso dei reati non politici[89] e, deciso a riabilitarsi agli occhi delle corti europee, condusse un'azione violenta contro i movimenti settari, in special modo contro quelli ispirati a Giuseppe Mazzini, il fondatore della ‘’Giovine Italia’’. Mazzini aveva rivolto al nuove re Carlo Alberto la lettera firmata “Un italiano”, in cui lo esortava a farsi promotore dell’unità nazionale[90]. Carlo Alberto ignorò l’appello e due anni più tardi represse duramente una rivolta mazziniana scoppiata nel suo regno.
Nell'aprile 1833, infatti, a Genova due sottufficiali furono arrestati per una lite e si scoprì che appartenevano alla Giovine Italia. Gli arrestati fecero vari nomi e le indagini si estesero ad altre guarnigioni. Carlo Alberto, che considerava l'associazione di Mazzini la «più terribile e sanguinaria», ordinò di andare fino in fondo, nel rispetto della legge, ma con la massima severità[91].
Celebrati i processi, furono eseguite 12 fucilazioni e ci furono due suicidi in carcere. 21 condanne a morte non poterono essere eseguite perché i condannati erano fuggiti o come Giuseppe Mazzini erano già all'estero. Carlo Alberto non concesse alcuna grazia e gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna a Torino presentarono a corte una protesta per la severità delle condanne e la mancanza di qualsiasi gesto di clemenza. Il re di Sardegna manifestò invece la sua gratitudine distribuendo onorificenze a quanti si erano distinti nella repressione[92].
Falliti i moti insurrezionali, Mazzini pensò a una spedizione militare. Nel 1834 tentò infatti di organizzare un corpo di bande in Svizzera che avrebbe dovuto attaccare la Savoia (che a quel tempo faceva parte del Regno di Sardegna) e contemporaneamente sollevare la popolazione contro il Re. Ma le notizie di quella iniziativa trapelarono e Carlo Alberto predispose una vera e propria imboscata[N 19]. L'invasione della Savoia del 3 febbraio 1834 fallì, comunque, quasi per conto suo: un po' per la disorganizzazione, un po' per gli svizzeri che bloccarono e internarono i mazziniani. Solo alcuni congiurati attaccarono sconsideratamente una caserma a Les Échelles: due di loro vennero catturati e fucilati. Nello scontro morì il carabiniere Giovanni Battista Scapaccino, alla cui memoria Carlo Alberto conferì la prima medaglia d'oro della storia d'Italia. Intanto, a Genova, il giovane mazziniano Giuseppe Garibaldi che si preparava a far insorgere la città veniva informato che tutto era finito e che era stato individuato. Riuscì a fuggire e il 3 giugno 1834 fu condannato a morte in contumacia[93].
Politica estera
La Rivoluzione di luglio e l'alleanza con l'Austria
Durante la prima fase del suo regno, se per la politica interna v'erano state delle riforme in senso liberale, per quanto riguardava la politica estera essa rimase improntata alla dimensione reazionaria grazie alle manovre del ministro deputato ai rapporti con gli stati, il conte Solaro della Margarita. L'atteggiamento legittimista del nuovo Re si dimostrò in occasione degli eventi della Rivoluzione di Luglio del 1830 che avevano deposto Carlo X di Francia e determinato l'ascesa al trono di un ex rivoluzionario, Luigi Filippo. Sconvolto e indignato[N 21], Carlo Alberto decise di stringere un'alleanza difensiva con l'Austria. Il trattato, ratificato il 23 luglio 1831 e migliorato con l'aggiunta di quattro articoli nel 1835, stipulava un trattato di mutuo soccorso in occasione di un'invasione francese[N 22]. Tuttavia, in caso di guerra, il comandante dell'esercito congiunto sarebbe stato Carlo Alberto. Quest'ultimo aveva scritto all'ambasciatore austriaco Ludwig Senfft von Pilsach (1774-1853): «[…] il più bel giorno della mia vita sarà quello in cui si farà guerra contro i francesi e io sarò felice di servire nelle truppe austriache»[94].
Coerente con tale atteggiamento legittimista fu l'appoggio che Carlo Alberto diede alla sua amica del dicembre 1823, Maria Carolina di Borbone, la quale, in quanto vedova del duca di Berry, secondogenito del re deposto Carlo X, aspirava per il figlio Luigi Antonio al trono di Francia[95]. Nel 1832 Carlo Alberto fece avere alla duchessa di Berry, contraendo un debito, un milione di franchi e le mise a disposizione un piroscafo con il quale trasportare in Francia i volontari legittimisti. L’impresa si rivelò un totale disastro: il piroscafo fu bloccato a Marsiglia e in Vandea i partigiani della duchessa non poterono fare nulla contro le truppe regolari. Maria Carolina di Borbone dopo una breve fuga fu arrestata a Nantes e rinchiusa nella cittadella di Blaye, presso Bordeaux[96].
L'appoggio ai reazionari spagnoli e portoghesi
Nella penisola iberica, nel frattempo, dopo la morte di re Ferdinando VII, avvenuta nel settembre del 1833, la Spagna si era divisa in due fazioni; la prima, di reazionari antiliberali che appoggiava le aspirazioni legittimiste di Carlo di Borbone-Spagna, detto Don Carlos, e la seconda di costituzionalisti che difendevano la reggenza di Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie a tutela della piccola Isabella. Russia Austria e Prussia appoggiarono politicamente Don Carlos; Gran Bretagna, Francia e Portogallo appoggiarono anche materialmente i costituzionalisti. Carlo Alberto si unì ai primi, ma dopo la guerra carlista del 1833-1840, prevalsero i costituzionalisti[97]. Analogamente, nelle Guerre Liberali portoghesi (1828-1834) che seguirono la morte di Giovanni VI, Carlo Alberto si schierò con gli assolutisti di Dom Miguel che fu ospitato in Piemonte. Anche in questo caso, però, vinsero i liberali comandati dal fratello di Dom Miguel, Dom Pedro che era appoggiato dalla Gran Bretagna e dalla Francia di Luigi Filippo[97].
L'inizio della crisi con l'Austria
Tuttavia, l’idillio fra Carlo Alberto e l’Austria non era destinato a durare a lungo. Nel 1840, infatti, la crisi d'oriente che contrapponeva la Francia di Luigi Filippo alle altre potenze europee, indusse il re di Sardegna a progettare una politica espansionistica ai danni dei possedimenti austriaci in Italia[98]. Contestualmente, tra il 1840 e il 1843[99], si aprì una crisi commerciale fra Torino e Vienna per un vecchio trattato con il quale il Piemonte si impegnava a non fornire sale alla Svizzera. A seguito della violazione di questo trattato l'Austria aumentò del 100% il dazio sui vini piemontesi che entravano nel Lombardo-Veneto. Per tutta risposta, Carlo Alberto minacciò di costruire una rete ferroviaria che passasse per la Svizzera permettendo così di continuare a commerciare con gli Stati tedeschi senza dover transitare per il Lombardo-Veneto[100].
Si trattava ancora solo di schermaglie perché le diplomazie dei due Stati riuscirono, ad esempio, a combinare un magnifico matrimonio tra il primogenito di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, e Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena, matrimonio che fu celebrato l'11 aprile del 1842 a Stupinigi. La sposa era figlia di Ranieri Giuseppe, viceré austriaco del Lombardo-Veneto e cognato di Carlo Alberto, avendone sposato nel 1820 la sorella Maria Elisabetta[101]. I due novelli sposi erano quindi cugini di primo grado.
Il periodo liberale (1845-1848)
L'elezione di Pio IX e il neoguelfismo
A partire dal 1845 Carlo Alberto mutò decisamente l'orientamento della sua politica estera. A Massimo d'Azeglio, che era andato a riferirgli sugli avvenimenti, gli disse: «… che il giorno della lotta contro l'Austria egli si sarebbe gettato con i suoi figli, con il suo esercito, con tutte le sostanze, a combattere per l'indipendenza d'Italia»[102]. Comprensibilmente, l'8 giugno 1846, per ordine del Cancelliere Klemens von Metternich l'ambasciatore austriaco a Torino, Karl Buol, invitò Carlo Alberto a chiarire la sua politica estera: o con l’Austria o con la rivoluzione. Il re di Sardegna temporeggiò[103].
Ma la svolta finale ci fu, qualche giorno dopo, con l'elezione, il 16 giugno, di Pio IX, la cui prima preoccupazione fu di concedere l'amnistia ai condannati per reati politici[103]. Carlo Alberto, d'altronde, aveva letto il Primato morale e civile degli italiani del sacerdote neoguelfo Vincenzo Gioberti (1843), in cui si auspicava un'unione federale degli Stati italiani sotto la guida del pontefice. Il Re, sentitamente cattolico, vide favorevolmente le aperture politiche e riformiste del nuovo pontefice, pensando di poter coniugare così la devozione alla Chiesa con le antiche sue idee liberali; ma pensò anche di usare il fermento risorgimentale che s'era formato intorno a Pio IX per rendere il Piemonte protagonista di questo momento storico[104][105][106].
Conseguentemente, nel settembre 1847 Cesare Trabucco, segretario di Carlo Alberto, in un’occasione pubblica fu autorizzato a leggere una lettera del 2 del mese nella quale il Re sperava che Iddio gli facesse la grazia di poter intraprendere una guerra di indipendenza per la quale lui avrebbe preso il comando dell’esercito e della causa guelfa. Queste dichiarazioni e questi atteggiamenti resero molto più popolare Carlo Alberto che, tuttavia, continuava a far sciogliere le manifestazioni antiaustriache, anche perché la corte e il governo erano divisi. Il generale De La Tour, Il ministro degli Esteri Solaro della Margarita (che poi si dimise[107]) e l’arcivescovo Luigi Fransoni consideravano pericolosa la nuova strada intrapresa; ma gli erano favorevoli il ministro della Guerra Villamarina, Cesare Alfieri di Sostegno, Cesare Balbo, Massimo e Roberto d’Azeglio e il giovane conte di Cavour[108].
Il 1848: la "Primavera dei popoli"
Anche sull'ondata del neoguelfismo ispirato dalla personalità di Pio IX, il biennio 1846-1848 vide il rinforzarsi del movimento risorgimentale. Carlo Alberto decise di allentare la presa assolutista sulla società concedendo, sul finire dell'ottobre del 1847, l'Editto delle Riforme, che prevedeva fra l'altro una certa libertà di stampa e di parola[109].
Si era giunti così all'inizio del 1848. In Francia scoppiava la rivoluzione contro Luigi Filippo; e nel Regno delle Due Sicilie a seguito della rivoluzione in Sicilia Ferdinando II di Borbone concedeva la costituzione. Analoghi provvedimenti di Leopoldo II di Toscana e di Pio IX misero Carlo Alberto davanti al dilemma se assecondare o meno i liberali piemontesi sulla medesima questione.
Il 7 gennaio 1848 all'albergo Europa di Torino si era tenuta la riunione dei giornali della città e Cavour, direttore del Risorgimento, aveva proposto di chiedere al Re la costituzione. Anche la maggior parte dei ministri era del parere che la costituzione andava concessa, anche per impedire che venisse imposta dal popolo. Carlo Alberto, indeciso sul da farsi, non volendo mancare al giuramento di più di vent'anni prima di rispettare religiosamente tutte le leggi fondamentali della monarchia, pensò di abdicare, come aveva fatto in analoghe circostanze Vittorio Emanuele I. Mandò quindi a chiamare il figlio per prepararlo alla successione, ma l'erede riuscì a convincerlo a farlo desistere dall'abdicazione[110]. Il Re pensò dunque di risolvere questa questione di coscienza e si fece assolvere dal giuramento prestato a Carlo Felice da parte dell'arcivescovo di Vercelli, Alessandro d'Angennes il 7 febbraio[111].
Lo Statuto Albertino
Il 7 febbraio 1848 si riunì un Consiglio di Stato straordinario, che comprendeva sette ministri del governo, i decorati dell'ordine dell'Annunziata e altre importanti personalità. L'argomento del Consiglio era la opportunità promulgare una carta costituzionale e i lavori si dilungarono per diverse ore. Il Re decise in un primo momento di non partecipare. Contrari alla costituzione erano De La Tour, Carlo Beraudo di Pralormo e Luigi Provana di Collegno. Nell'intervallo del pranzo Carlo Alberto ricevette una rappresentanza della popolazione di Torino che gli chiese di concedere la costituzione per il bene comune e per preservare l'ordine pubblico[112].
Era ormai necessario prendere una decisione e, alla fine, fu incaricato il ministro dell'Interno Giacinto Borelli (1783-1860) di preparare un progetto di costituzione. Il documento venne approvato e gli fu dato il nome di “Statuto”. Carlo Alberto aveva premesso che non avrebbe firmato se nel testo non fosse stato chiaro il rispetto della religione cattolica e l'onore della monarchia. Ottenutele, firmò. La seduta si sciolse all'alba[113].
Verso le 15,30 dello stesso 8 febbraio, venne affisso per le strade di Torino un editto del Re che esponeva in 14 articoli le basi dello Statuto per un sistema di governo rappresentativo. Già alle 18 la città era tutta illuminata e percorsa da imponenti dimostrazioni a favore di Carlo Alberto[114]. L'editto precisava che la religione cattolica era l'unica dello Stato; che il potere esecutivo apparteneva al re che comandava le forze armate; che il potere legislativo era esercitato da due Camere, una delle quali elettiva e l'altra di nomina regia; e che si proclamava la libertà di stampa e quella individuale[113]. Lo Statuto, completo di tutti i suoi articoli, fu firmato il 4 marzo da Carlo Alberto. Il primo governo costituzionale fu presieduto da Cesare Balbo che si insediò il 16 marzo 1848, due giorni prima dell'inizio delle Cinque giornate di Milano[115].
I rapporti con il governo provvisorio milanese
Dopo i fenomeni rivoluzionari in Francia e in Sicilia e dopo la promulgazione dello Statuto albertino, la ribellione si propagò a Milano il 18 marzo 1848, a Venezia e perfino a Vienna dove i moti costrinsero Metternich e l'imperatore Francesco Giuseppe alla fuga. A Milano ci si aspettava che Carlo Alberto cogliesse l'occasione ed entrasse in guerra contro l'Austria. Al liberale lombardo Francesco Arese giunto a Torino fece avere un chiaro messaggio:
Nonostante le risorse del Regno fossero esigue, l'esercito piemontese cominciò la mobilitazione. Le truppe per lo più si trovavano schierate ai confini occidentali, essendo quelli orientali garantiti dal trattato di alleanza con l'Austria. Tuttavia Carlo Alberto si rese conto che non avrebbe potuto mancare un'occasione unica, quella di ampliare i propri possedimenti con l'acquisto della Lombardia. Per questo chiese ai milanesi di proclamare l'annessione al Regno di Sardegna quale ricompensa al suo imminente intervento militare[116].
Il 23 marzo 1848 a Torino l'inviato piemontese a Milano tornò con la notizia che gli austriaci erano stati costretti a evacuare la città e che si era costituito un governo provvisorio guidato da Gabrio Casati il quale invocava Carlo Alberto come alleato. Evidentemente non molto entusiasti dell'idea di essere annessi, i milanesi chiesero al Re di non entrare in città e di adottare come bandiera il tricolore della Repubblica Cisalpina[117].
Carlo Alberto, benché non avesse avuto la garanzia dell'annessione, accettò le condizioni dei milanesi e chiese solamente che sul tricolore comparisse lo stemma di Casa Savoia[N 23]. Stava per entrare in guerra contro una grande potenza le cui truppe in Italia erano comandate da uno dei migliori generali del momento: Josef Radetzky. Riscattatosi completamente dal suo passato reazionario, il sovrano apparve al balcone di palazzo reale a fianco dei rivoltosi milanesi agitando il tricolore, mentre, entusiasta, lo acclamava al grido di: «Viva l'Italia! Viva Carlo Alberto!»[118].
La prima guerra di indipendenza (1848-1849)
Il 23 marzo 1848 venne pubblicato il proclama di Carlo Alberto ai popoli dell'italia settentrionale:
Il federalista Carlo Cattaneo non apprezzò: «Ora che il nemico è in fuga il Re vuole venire con tutto l'esercito: doveva mandarci almeno un carro di polvere tre giorni fa: si udì per cinque giorni, in Piemonte, il rimbombo della mitraglia che ci divorava: il Re lo sapeva e non si mosse: i poveri volontari si sono ben mossi»[119].
Per il Piemonte arrivò comunque il momento di agire. Ma, al di là della situazione contingente, la decisione di Carlo Alberto rispondeva a un sogno dinastico, ovvero l'espansione verso la pianura padana che, da Carlo Emanuele I in avanti, era diventata parte della politica dei Savoia; e all'estromissione, di conseguenza, degli austriaci padroni del Lombardo-Veneto[120].
La prima Campagna
Intenzionato a mettersi a capo dell’armata, la sera del 26 marzo 1848, Carlo Alberto partì dalla capitale sabauda per Voghera. Il governo provvisorio milanese non si era ancora pronunciato chiaramente sull’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna e ciò lo metteva in ansia. Gli austriaci del generale Josef Radetzky, intanto, si apprestavano a schierarsi al di là del fiume Mincio, in quello che veniva denominato il Quadrilatero, ovvero l’area geografica delimitata dalle quattro fortezze asburgiche di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago. Proseguendo la sua avanzata verso est, Carlo Alberto fece il suo ingresso fra le acclamazioni del popolo, il 29 marzo, nella città di Pavia e, passando per Cremona e Castiglione delle Stiviere, l'11 aprile giunse a Volta Mantovana, a quattro chilometri dal Mincio[121].
Aperte le ostilità, fra l'8 e il 9 i bersaglieri avevano ottenuto un successo nel primo scontro della campagna battendo gli austriaci nella battaglia del ponte di Goito. Passato il Mincio con il suo esercito, Carlo Alberto il 30 aprile ottenne un'altra vittoria a Pastrengo, dove si espose in prima linea: il reparto al suo seguito fu preso di mira dagli austriaci che vennero dispersi da una carica dei carabinieri a cavallo. Fu in questa atmosfera di entusiasmi che il 2 maggio arrivò la notizia che Pio IX il 29 aprile, con un'allocuzione[122], aveva ritirato il suo appoggio militare e politico alla causa italiana[123].
Nonostante ciò i soldati pontifici inviati non si ritirarono e rimasero a combattere come volontari, ma politicamente l’idea neoguelfa di Vincenzo Gioberti che Carlo Alberto aveva abbracciato per giustificare la sua guerra, venne meno. Né si sarebbe potuto realizzare il progetto di un’Italia unita a guida pontificia[124]. Il sovrano tuttavia non si scoraggiò e continuò l'avanzata verso Verona, alla cui periferia, il 6 maggio, un duro scontro con gli austriaci, la battaglia di Santa Lucia, ebbe un esito incerto[125].
Politicamente l’idea neoguelfa di Vincenzo Gioberti che Carlo Alberto aveva abbracciato per giustificare la sua guerra, venne meno[124][N 24]. Il sovrano tuttavia non si scoraggiò e continuò l'avanzata verso Verona, alla cui periferia, il 6 maggio, un duro scontro con gli austriaci, la battaglia di Santa Lucia, gli precluse la possibilità di conquistare la piazzaforte[125].
Due altri avvenimenti seguirono nei giorni successivi. Il 21 maggio il contingente di 14.000 uomini dell'esercito napoletano che si era messo in marcia contro l'Austria, ebbe ordine da Ferdinando II (che aveva seguito l'esempio Pio IX) di tornare in patria; e il 25 i rinforzi austriaci che avevano attraversato il Veneto raggiunsero a Verona le truppe di Radetzky che passò alla controffensiva[126]. A Carlo Alberto, ambizioso ma di modeste capacità strategiche, non rimase che proseguire da solo la guerra. La battaglia di Goito e la resa di Peschiera (30 maggio) furono i suoi ultimi successi; poi, gli austriaci conquistarono Vicenza (10 giugno) disperdendo i volontari pontifici e, infine, ottennero sui piemontesi un vittoria decisiva nella battaglia di Custoza tra il 22 e il 27 luglio[127].
L'8 giugno i milanesi e i lombardi avevano nel frattempo votato a stragrande maggioranza per l'annessione al Regno di Sardegna, così come avevano fatto il 24 maggio i cittadini del Ducato di Parma e Piacenza. Ma le cose per Carlo Alberto andavano male: i soldati risentivano delle recente sconfitta e della fatica, ed erano affamati ed esausti, oltreché ormai ostili ideologicamente al conflitto[N 25]. Un consiglio di guerra scelse, allora, l'ipotesi di chiedere una tregua all’Austria[128].
Gli eventi di Milano e la tregua
La sera del 27 luglio 1848 gli austriaci si resero disponibili alla tregua, ma solo se i piemontesi si fossero ritirati sulla sponda destra dell'Adda (a poco più di 20 km a est di Milano) e avessero rinunciato sia alle fortezze, tra cui quella di Peschiera, sia ai ducati di Parma e Modena che intanto erano stati abbandonati dai loro monarchi. Carlo Alberto, in contrasto con il figlio Vittorio Emanuele sulla conduzione della guerra, esclamò «Piuttosto morire!» e si preparò a resistere sull'Oglio (cioè almeno 25 km più a est rispetto a quanto chiesto da Radetzky)[129]. Il re di Sardegna non voleva accettare l’idea di perdere la Lombardia, con il grave pericolo per il Piemonte di un successo repubblicano a Milano e un conseguente soccorso della Francia ai lombardi[130].
Rifiutata la proposta austriaca, si giudicò però l'Oglio troppo debole come linea difensiva e le truppe dovettero comunque ritirarsi sull'Adda. Qui alcune manovre dovute alla libera iniziativa di un generale portarono all'isolamento di una divisione e alla necessità di retrocedere ancora, verso Milano. Nei suoi pressi gli austriaci attaccarono i piemontesi il 4 agosto. Dopo una giornata di battaglia le truppe di Radetzky prevalsero e i piemontesi, il 6 agosto, si ritirarono nelle mura della città. Carlo Alberto, riparatosi a palazzo Greppi, trattò con gli austriaci la resa di Milano in cambio della possibilità di ritirarsi con l'esercito in Piemonte[131][132].
Il giorno dopo i milanesi seppero dell'accordo e scoppiò la loro indignazione. La folla protestò di fronte a palazzo Greppi e quando il Re si affacciò al balcone furono sparate alcune fucilate al suo indirizzo[N 28]. Allora il secondogenito di Carlo Alberto, Ferdinando, e il generale Alfonso La Marmora portarono in salvo il Re che di, notte, lasciò Milano seguito dall'esercito[133][N 29].
L'8 agosto, il generale Carlo Canera di Salasco tornò a Milano e trattò con gli austriaci l'armistizio che poi prese il suo nome (Armistizio Salasco) e che fu firmato il 9. Carlo Alberto ratificò l'armistizio nonostante il parere negativo di alcuni, fra cui Gioberti, che ritenevano auspicabile e probabile un aiuto della Francia. Quest'ultima, secondo il Re, così come aveva dichiarato l'ex ministro degli Esteri francese Alphonse de Lamartine, avrebbe aiutato esclusivamente i repubblicani[134].
La seconda Campagna e l'abdicazione
Dopo la sconfitta militare, che con l’armistizio Salasco aveva sospeso la guerra almeno per sei settimane, Carlo Alberto fu oggetto di severe critiche, sia da parte dei politici che del popolo. Lo si invitava a lasciare l’alto comando e a sostituire quei generali che avevano mancato nello spirito combattivo e nelle azioni. Ma il Re volle rimanere a capo dell’esercito, restio a riconoscere le proprie manchevolezze e convinto che lo scoraggiante risultato della campagna militare in Lombardia era «un segno dell’ira divina per l’empietà parlamentare e governativa verso gli ordini religiosi». Carlo Alberto esonerò tuttavia tre generali, ma non aprì alcuna inchiesta, né volle cambiare le modalità di reclutamento. Riabilitò invece i gesuiti e stese la sua protezione sulle congregazioni religiose[135].
Mandò anche alle stampe la sua versione della campagna militare[N 30] e decise di rompere l'armistizio. Il 1º marzo, all'inaugurazione della legislatura, parlò esplicitamente di guerra e la Camera gli rispose positivamente. Per l'imminente ripresa delle ostilità il Re finalmente si persuase ad abbandonare il comando dell'esercito che continuò a detenere in modo formale e, amareggiando i generali piemontesi, scelse come comandante supremo il generale polacco Wojciech Chrzanowski[136]. L'8 marzo 1849 a Torino il consiglio dei ministri decise che la tregua sarebbe stata interrotta il 12. Per cui, secondo le clausole dell'armistizio, le ostilità sarebbero cominciate otto giorni dopo, il 20 marzo[137].
Quello stesso giorno, infatti, la prima guerra di indipendenza riprese. Il 22 marzo Carlo Alberto giunse a Novara e il giorno dopo Radetzky attaccò la città da sud in superiorità numerica presso il borgo della Bicocca. Chrzanowski commise alcuni importanti errori tattici e, nonostante il valore dei piemontesi e dello stesso Carlo Alberto che si batté in prima linea con il figlio Ferdinando, la sconfitta fu disastrosa[138]. Tornato a Novara, a palazzo Bellini, il Re dichiarò:
Le condizioni poste dall'Austria furono durissime: occupazione della Lomellina e della fortezza di Alessandria, nonché consegna di tutti i patrioti lombardi che si erano battuti contro l'Austria. Carlo Alberto chiese allora al suo stato maggiore se fosse stato possibile un’ultima azione di sfondamento verso Alessandria. La risposta fu negativa: la sua incolumità era in pericolo, le truppe non rispondevano più e molti soldati saccheggiavano le campagne del circondario[139].
Alle 21,30 dello stesso 23 marzo 1849 Carlo Alberto riunì l’ultimo consiglio di guerra con i figli, Chrzanowski, i generali Alessandro e Carlo La Marmora, Giovanni Durando, Luigi Fecia di Cossato (che aveva trattato l'armistizio) e il ministro Carlo Cadorna. Dichiarò che non poteva che abdicare e, ai tentativi di dissuasione, nella speranza che l'erede potesse ottenere condizioni migliori, concluse dicendo: «La mia decisione è frutto di matura riflessione; da questo momento io non sono più il re; il re è Vittorio, mio figlio»[140].
L'esilio (1849)
Il figlio primogenito di Carlo Alberto, ormai re di Sardegna con il nome di Vittorio Emanuele II, si incontrò il 24 marzo 1849 a Vignale con Radetzky e ottenne effettivamente delle clausole più vantaggiose rispetto a quelle previste in un primo momento. Gli austriaci avrebbero occupato momentaneamente la Lomellina e solo una metà della piazzaforte di Alessandria, per la cui servitù nelle clausole di pace si parlava di “permesso” e non di “diritto”[141].
Il viaggio verso il Portogallo
Carlo Alberto intanto aveva lasciato Novara a mezzanotte circa del 23 marzo 1849. La carrozza si diresse verso Orfengo (a metà strada fra Novara e Vercelli) probabilmente senza una meta finale precisa, al solo scopo di lasciare l’Italia. Ma dopo poco fu fermata a un posto di blocco austriaco. Carlo Alberto disse di essere il conte di Barge (titolo che realmente possedeva), colonnello dell'esercito piemontese. Il generale Georg Thurn Valsassina (1788-1866) volle interrogarlo e non si sa se lo riconobbe o meno. Fattolo riconoscere come conte di Barge da un bersagliere catturato (alla domanda «potete confermare che si tratta del conte di Barge?» il soldato rispose «È il conte di Barge»), Carlo Alberto fu lasciato passare e proseguì il suo viaggio verso sud-ovest[7][142].
L'ex sovrano proseguì per Moncalvo, Nizza Monferrato, Acqui, Savona, Ventimiglia e il Principato di Monaco, dove arrivò il 26 marzo. A Nizza (all'epoca del Regno di Sardegna) gli fu consegnato un passaporto che gli avrebbe permesso di viaggiare senza problemi in Francia, Spagna e Portogallo. Da Antibes, in Francia, pur non citando la consorte, mandò a Torino disposizioni riguardanti la famiglia. Il 1º aprile aveva raggiunto Bayonne, quasi sulla costa atlantica, e il 3 lo raggiunsero da Torino per fargli firmare l'atto legale di abdicazione[143][7].
L'ex sovrano proseguì per Torquemada, Valladolid, Leon, La Coruña, dove arrivò il 10 aprile e dove terminarono le strade rotabili. A cavallo, affrontando il maltempo, giunse a Lugo e il 15 aprile varcò la frontiera con il Portogallo a Caminha. Da qui giunse a Viana do Castelo, Póvoa de Varzim e, finalmente, il 19 aprile a Oporto. Da qui avrebbe voluto forse imbarcarsi per l'America, ma fu costretto a fermarsi perché era malato e il viaggio l'aveva troppo affaticato[144].
Gli ultimi tempi
Appena giunto nella città portoghese, Carlo Alberto fu sistemato all’Hotel do Peixe dove rimase per due settimane, durante le quali sue condizioni si aggravarono. Accettò poi una nuova residenza da un privato in rua de Entre Quintas, con vista sull'oceano. Qui il 3 maggio accolse Giacinto Provana di Collegno e Luigi Cibrario che gli trasmisero un saluto del governo piemontese[145]. A loro disse:
Durante quei giorni Carlo Alberto soffriva di deperimento progressivo, tosse, ascessi. Lo colpirono due infarti, ma i medici consideravano più grave la situazione del fegato, per la quale l'ex sovrano si ostinava a mangiare pochissimo e a digiunare il venerdì. Leggeva le lettere e i giornali che arrivavano dall'Italia. Scriveva saltuariamente alla moglie, ma con calore e assiduità alla contessa di Robilant. Vietò sia alla madre sia alla moglie e ai figli di fargli visita[146].
Nel mese di giugno il suo stato di salute peggiorò irrimediabilmente. Dal 3 luglio, assistito dal medico Alessandro Riberi che Vittorio Emanuele gli aveva inviato da Torino, non fu più in grado di alzarsi ed era scosso da attacchi sempre più frequenti di tosse. Trascorse la notte fra il 27 e il 28 luglio in grande agitazione. Durante la mattinata del 28 si sentì meglio ma poi le condizioni peggiorarono a causa di un terzo infarto. Il sacerdote portoghese don Antonio Peixoto, che lo assisteva spiritualmente, accorse e gli impartì l'estrema unzione. L'ex sovrano mormorò in latino: «In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum» («Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito»). Si addormentò con il crocifisso sul petto. Morì alle 15,30 del 28 luglio 1849, a poco meno di 51 anni[147][N 32].
Il corpo fu imbalsamato ed esposto nella cattedrale di Oporto. Il 3 settembre giunsero le navi Monzambano e Goito al comando di Eugenio di Savoia, cugino del defunto. Il 19 la salma fu trasportata a bordo del Monzambano che salpò la sera stessa per Genova, dove giunse il 4 ottobre. I funerali, con grande partecipazione di popolo, si svolsero il 13 nel Duomo di Torino, celebrante l'arcivescovo di Chambéry Alexis Billiet assistito da cinque vescovi piemontesi. Il giorno dopo la salma venne tumulata solennemente nei sotterranei della Basilica di Superga, dove tuttora riposa[148].
Matrimonio e discendenza
Il 30 settembre 1817 Carlo Alberto sposò Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, figlia del granduca Ferdinando III di Toscana e di Luisa Maria Amalia di Borbone-Napoli. Dal matrimonio di Carlo Alberto e Maria Teresa nacquero:
- Vittorio Emanuele, successore di Carlo Alberto e primo re d'Italia;
- Ferdinando, duca di Genova, padre della futura regina d'Italia, Margherita;
- Maria Cristina (1826-1827).
Ascendenza
Carlo Alberto di Savoia | Padre: Carlo Emanuele di Savoia-Carignano |
Nonno paterno: Vittorio Amedeo II di Savoia-Carignano |
Bisnonno paterno: Luigi Vittorio di Savoia-Carignano |
Trisnonno paterno: Vittorio Amedeo I di Savoia-Carignano |
Trisnonna paterna: Vittoria Francesca di Savoia | ||||
Bisnonna paterna: Cristina Enrichetta d'Assia-Rheinfels-Rotenburg |
Trisnonno paterno: Ernesto Leopoldo d'Assia-Rheinfels-Rotenburg | |||
Trisnonna paterna: Eleonora Maria Anna di Löwenstein-Wertheim-Rochefort | ||||
Nonna paterna: Giuseppina di Lorena |
Bisnonno paterno: Luigi di Lorena, principe di Brionne |
Trisnonno paterno: Luigi di Lorena, principe di Lambesc | ||
Trisnonna paterna: Jeanne Henriette Marguerite de Durfort | ||||
Bisnonna paterna: Louise de Rohan-Rochefort |
Trisnonno paterno: Charles de Rohan, principe di Rochefort | |||
Trisnonna paterna: Eléonore Eugénie de Béthisy de Mézières | ||||
Madre: Maria Cristina di Sassonia |
Nonno materno: Carlo di Sassonia |
Bisnonno materno: Augusto III di Polonia |
Trisnonno materno: Augusto II di Polonia | |
Trisnonna materna: Cristiana Eberardina di Brandeburgo-Bayreuth | ||||
Bisnonna materna: Maria Giuseppa d'Austria |
Trisnonno materno: Giuseppe I d'Asburgo | |||
Trisnonna materna: Guglielmina Amalia di Brunswick-Lüneburg | ||||
Nonna materna: Contessa Francesca Corvin-Krasinska |
Bisnonno materno: Conte Stanislao Corvin-Krasinski |
Trisnonno materno: Conte Aleksander Krasinski | ||
Trisnonna materna: Salomea Trczinska | ||||
Bisnonna materna: Anna Humiecka |
Trisnonno materno: Stefan Humiecki, Voivoda di Podole | |||
Trisnonna materna: Katarzyna Krosnowska |
Onorificenze
Onorificenze sabaude
Carlo Alberto fu insignito delle tradizionali onorificenze spettanti ai monarchi del Regno di Sardegna:
Onorificenze straniere
Carlo Alberto fu insignito di numerose onorificenze straniere. Queste quelle di cui si ha notizia da fonti attendibili[149][150][151][152]:
Note
Esplicative
- ^ Talamo: «C. A. soffrì molto per il matrimonio della madre e la forzata sottomissione al padrigno».
- ^ Montanelli, VII, p. 280 riporta le parole del sovrano al fratello Carlo Felice: «[È] un ragazzo di buon cuore e di buona volontà, ma di cui c’è da rifare tutta l’educazione».
- ^ Deceduto il secondogenito maschio a tre anni, a Vittorio Emanuele I rimanevano quattro figlie, ma la legge di successione salica vigente nel Regno di Sardegna non consentiva loro di salire al trono. Carlo Felice, invece, non ebbe figli.
- ^ Talamo: «Vittorio Emanuele I aveva voluto subito C. A. presso di sé per provvedere alla sua educazione, per cancellare da essa le influenze degli anni ginevrini e parigini».
- ^ Talamo: «Probabilmente C. A. che, in linea di massima, era (o credeva di essere) d'accordo con i "ribelli", ritenne di poter essere il mediatore tra il sovrano e l'elemento liberale».
- ^ Talamo, La sera di quello stesso giorno il reggente concedeva la costituzione di Spagna, salva l'approvazione di Carlo Felice, e due giorni più tardi prestava il giuramento.
- ^ Talamo: «Contemporaneamente, era premuto anche dai federati lombardi perché dichiarasse la guerra all'Austria. Ma se aveva dovuto cedere di fronte alla prima richiesta e concedere la costituzione, C. A. era ben deciso a non cedere di fronte alla seconda».
- ^ Montanelli, VIII, p. 37: «Metternich aveva calcolato giusto puntando su di lui e favorendo la sua successione al trono contro le pretese di Francesco IV di Modena».
- ^ Talamo: «Ma a tale piano [di Carlo Felice] erano contraria la Francia favorevole al riconoscimento dei diritti di C. A. in funzione antiaustriaca, l'Inghilterra preoccupata per la situazione europea (rivoluzione in Spagna e rivoluzione in Grecia), le corti tedesche».
- ^ Talamo:«il coraggio mostrato nell'assalto alla fortezza (agosto 1823) gli fruttò la croce di S. Luigi»
- ^ Dipinto di Horace Vernet del 1834.
- ^ Talamo: «Giunto a Parigi il 3 dicembre, sottoscrisse verso la fine del mese, nell'ambasciata di Sardegna, il giuramento deciso a Verona sul mantenimento delle leggi fondamentali dello Stato sabaudo».
- ^ Talamo: «Nell'isola si era già recato nel 1829, redigendo una memoria (Voyage en Sardaigne, 1829)».
- ^ Dipinto di Jean-Baptiste Isabey.
- ^ Significativo il riassunto fatto da Oliva, p. 358: «Contraddittorio, dunque, il Piemonte di Carlo Alberto, ad immagine del suo re: uno Stato conservatore ma non immobile, un modello politico che guarda al passato e un progresso economico che invece prelude all'avvenire, il monopolio gesuitico sull'istruzione scolastica, ma anche la nascita del liberalismo moderato dei Cavour e dei Gioberti».
- ^ All'epoca i ministri si chiamavano “primi segretari”.
- ^ Dipinto di Giovanni Marghinotti.
- ^ Talamo: «...un'istruzione affidata in massima parte al clero (particolarmente ai gesuiti)...»; Lorandi, p. 168: «i [chierici] regolari - per Carlo Alberto rivestivano una funzione di fondamentale importanza per il bene della religione, poiché attribuiva loro un ruolo insisostituibile nell'insegnamento...»
- ^ Carlo Alberto scrisse nel novembre del 1833 a Francesco IV di Modena: «Stanco dello stato di angoscia in cui ci tiene la “Giovine Italia”, delle sue reiterate minacce di invasione, dubitando che i suoi membri non osassero intraprendere nulla […] dato che le grandi potenze non si risolvono a troncare il male alla radice, ho mandato un agente sicurissimo, circa sei settimane fa, per stimolare i capi della “Giovine Italia” a organizzare un movimento contro di me, lasciando loro intravedere la possibilità che un maggiore del forte di Fenestrelle gli consegnerebbe questa posizione, purché vi giungessero in gran numero e avessero alla loro testa Ramorino, Mazzini, [Carlo] Bianco [di Saint Jorioz] e i loro capi principali: […] la facilità di recarmi io stesso fin là con forze considerevoli in poche ore, mi indusse a tentare quest'astuzia di guerra per impadronirmi dei capi rivoluzionari italiani […]» (Bertoldi, p. 196).
- ^ Ritratto di Thomas Lawrence del 1825.
- ^ Osserva Montanelli, VIII, p. 36: «Forse, a ispirargli tanto zelo legittimista era proprio il fatto che anche lui, come l'Orléans, veniva da un ramo cadetto della dinastia Savoia...Voleva insomma dimostrarsi più Savoia degli stessi Savoia».
- ^ Talamo: «Stipulata il 23 luglio 1831 (una convenzione supplementare venne firmata il 27 marzo 1832, e quattro articoli addizionali nel febbraio 1835), la convenzione prevedeva non soltanto la difesa di entrambi gli Stati "contre toute aggression et entreprise de la part de la France", ma anche l'opposizione di quest'ultima all'ingresso nel Regno sardo di truppe austriache chiamate dal sovrano a causa di una rivoluzione interna o di tentativi di penetrazione da parte di fuoriusciti».
- ^ Da quel momento il tricolore divenne la bandiera del Regno di Sardegna e del successivo Regno d'Italia.
- ^ Mack Smith, p. 209: l'allocuzione del 29 aprile fu tale che Carlo Alberto si sentì spegnere la movenza ideologica che l'aveva spronato a dichiarare guerra all'Austria, dal momento che Pio IX, con tale atto, aveva sconfessato le operazioni militari e il movimento neoguelfo.
- ^ Oliva, p. 364: «La truppa, inoltre, reclutata fra contadini ideologicamente legati al clericalismo reazionario delle campagne, non comprende le ragioni della guerra nazionale e dopo i primi rovesci dimostra un'avversione per i combattimenti...»
- ^ Dipinto di Carlo Bossoli.
- ^ Esposta nell'Armeria Reale di Torino.
- ^ Questo il resoconto della nobildonna Cristina Trivulzio di Belgiojoso che partecipò attivamente ai moti di Milano e in seguito alla difesa della Repubblica romana dai francesi:«Una deputazione della guardia nazionale salì a interrogare Carlo Alberto sul motivo della capitolazione. Egli negò, ma fu costretto a seguire, suo malgrado, quei deputati al balcone da dove arringò al popolo, scusandosi della sua ignoranza dei veri sentimenti dei Milanesi; e compiacendosi di vederli così pronti alla difesa, promise solennemente di battersi alla loro testa sino all'ultimo sangue. Qualche colpo di fucile partì contro Carlo Alberto. Alle ultime parole del suo discorso, il popolo sdegnato gridò: “Se è così lacerate la capitolazione”. Il re allora levò di tasca un pezzo di carta, lo tenne in alto affinché il popolo lo vedesse, e poi lo fece a pezzi.»
- ^ A favore della rivoluzione non furono tutti i milanesi, ma soltanto gli esponenti della borghesia e dell'aristocrazia liberale, sia che fossero di tendenza monarchica (l'artistocrazia guidata da Casati), sia che fossero di tendenza repubblicana, come l'intellettuale e tecnico Carlo Cattaneo. Difatti, Clark, p. 88 ricorda la scarsa resistenza della popolazione, con «quasi un terzo della popolazione» che «aveva abbandonato la città accodandosi ai soldati piemontesi in ritirata». Più in generale sulla partecipazione delle masse al processo unitario, cfr. il giudizio espresso da Montanelli, VIII, p. 523: «Ma altrettanto fatale era che le messe, rimaste aliene alla sua formazione, continuassero a sentirsi tali, identificando lo Stato nella borghesia...»
- ^ Memorie ed osservazioni sulla guerra dell'indipendenza d'Italia, raccolte da un ufficiale piemontese, Stamperia Reale, Torino, 1848. Scritto in forma anonima, il libro fu subito tolto dalla circolazione per desiderio del nuovo ministro della Guerra Giuseppe Dabormida che vi ravvisava la fonte di future polemiche. Il volume cercava di dimostrare il coraggio del re, dei figli e della truppa; ma quasi nulla diceva sulle responsabilità del comando supremo.
- ^ Dipinto di Antonio Puccinelli.
- ^ Lo storico Oliva, p. 366 così commenta: «morì portandosi nella tomba la convinzione di non essere mai stato compreso, ma anche la contraddizione di non avere mai compreso se stesso».
Bibliografiche
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- ^ a b Bertoldi, pp. 25-26
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- ^ Per la biografia di Carlo Emanuele, cfr. Lemmi
- ^ a b c Oliva, p. 350
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- ^ Bertoldi, pp. 26-27
- ^ Bertoldi, pp. 27-28
- ^ Bocca, p. 191
- ^ Comandini, I, p. 403
- ^ Bertoldi, pp. 31-32
- ^ a b c Bocca, p. 192
- ^ Bertoldi, p. 33
- ^ Ferma restando la genealogia dei Savoia, il tema della successione ad Umberto II come capo del casato è oggetto di controversia tra i sostenitori di opposte tesi rispetto all'attribuzione del titolo a Vittorio Emanuele piuttosto che a Amedeo: infatti il 7 luglio 2006 la Consulta dei senatori del Regno, con un comunicato, ha dichiarato decaduto da ogni diritto dinastico Vittorio Emanuele ed i suoi successori ed ha indicato duca di Savoia e capo della famiglia il duca d'Aosta, Amedeo di Savoia-Aosta, fatto contestato anche sotto il profilo della legittimità da parte dei sostenitori di Vittorio Emanuele. Per approfondimenti leggere qui.
- ^ Bertoldi, pp. 34-35
- ^ Commandini, I, p. 730, §1
- ^ Bertoldi, p. 40
- ^ Commandini, I, p. 938, §2
- ^ Bertoldi, p. 56
- ^ Bocca, p. 193
- ^ Comandini, I, pp. 954, 956
- ^ Bertoldi, pp. 46-47
- ^ a b Bocca, p. 194
- ^ Bertoldi, pp. 52-55, 57
- ^ Comandini, I, p. 1028, §2
- ^ Bertoldi, p. 59
- ^ Comandini, I, p. 1035, §2
- ^ Brofferio, p. 130
- ^ Oliva, pp. 346-347
- ^ Brofferio, pp. 131-137
- ^ Brofferio, pp. 138-139
- ^ Comandini, I, p. 1116, §1
- ^ Bertoldi, p. 65
- ^ Comandini, I, p. 1116, §2
- ^ Bertoldi, pp. 75-79
- ^ Comandini, I, p.1118, §2
- ^ Bertoldi, pp. 85-89, 98
- ^ Montanelli, VII, p. 280
- ^ Bertoldi, p. 93
- ^ Bertoldi, p. 96
- ^ a b Comandini, I, p. 1122, §1
- ^ Bertoldi, p. 97
- ^ Oliva, p. 352
- ^ Bertoldi, pp. 97-99
- ^ Montanelli, VII, pp. 350-351
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- ^ Bertoldi, pp. 109-110
- ^ Bertoldi, pp. 116-118
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- ^ Montanelli, VII, pp. 353-354
- ^ Montanelli, VII, p. 393
- ^ Bocca, p. 197
- ^ Bertoldi, pp. 135-136
- ^ Bertoldi, pp. 123-125, 127-128
- ^ Comandini, I, p. 1210 §2
- ^ Bertoldi, pp. 130-131
- ^ Oliva, p. 356
- ^ Bertoldi, p. 140
- ^ Bertoldi, pp. 140-141
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- ^ Bertoldi, pp. 141-142
- ^ Bertoldi, pp. 142-144
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- ^ a b Montanelli, VII, p. 396
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- ^ Bocca, pp. 197-198
- ^ Bertoldi, pp. 153-156
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- ^ Bertoldi, p. 161
- ^ Comandini, II, p. 290
- ^ a b Oliva, p. 357
- ^ Bertoldi, p. 177
- ^ a b Brofferio, III, p. 8
- ^ Maria Alberta Sarti, Barbaroux. Un talento della diplomazia e della scienza giuridica alla corte sabauda, CEDAM, Milano, 2011, p. 71.
- ^ a b Bertoldi, pp. 181-182
- ^ Oliva, p. 358
- ^ Brofferio, III, pp. 9-10
- ^ Bocca, p. 200
- ^ Brofferio, III, p. 9
- ^ Bocca, p. 198
- ^ Brofferio, III, p. 10
- ^ Siccardi
- ^ Lorandi, p. 167
- ^ Siccardi
- ^ Cibrario, p. 416
- ^ Cibrario, p. 416; per un quadro complessivo dell'attività del Morozzo della Rocca, si veda il capitolo del libro di Lorandi, Parte terza. Riformare il clero secolare e regolare. Da Novara al Regno di Sardegna, pp. 115-180
- ^ Montanelli, VIII, p. 35
- ^ Bertoldi, pp. 178, 181
- ^ Bertoldi, pp. 187-191
- ^ Bertoldi, pp. 192-194
- ^ Bertoldi, pp. 194-198
- ^ Bertoldi, pp. 173-174
- ^ Bertoldi, pp. 174-175
- ^ Bertoldi, pp. 175-176
- ^ a b Bertoldi, p. 184
- ^ Piccola-Treccani, p. 723
- ^ In Bertoldi, p. 201 si riporta la prima data; Talamo riporta invece la seconda.
- ^ Bertoldi, p. 201
- ^ Bocca, p. 200
- ^ Bertoldi, p. 203
- ^ a b Bertoldi, pp. 201-202
- ^ Montanelli, VIII, p. 107
- ^ Bertoldi, p. 202
- ^ Oliva, p. 360
- ^ Bocca, p. 201
- ^ Bertoldi, pp. 202-203
- ^ Bocca, p. 201
- ^ Bertoldi, pp. 204-206
- ^ Oliva, p. 361
- ^ Bertoldi, pp. 206-207
- ^ a b Bertoldi, p. 208
- ^ Comandini, II, p. 1374
- ^ Bertoldi, pp. 208-210
- ^ Bertoldi, p. 229
- ^ Bertoldi, pp. 229-230
- ^ Bertoldi, pp. 230-231
- ^ Bertoldi, p. 233
- ^ Clark, p. 87
- ^ Bertoldi, pp. 234-236
- ^ Mac Smith, p. 209
- ^ Pieri, pp. 202-211
- ^ a b Bertoldi, p. 237
- ^ a b Pieri, pp. 211-213
- ^ Clark, p. 88
- ^ Pieri, pp. 222-226, 243-251
- ^ Bertoldi, p. 240
- ^ Bertoldi, pp. 240-241
- ^ Pieri, p. 251
- ^ Pieri, pp. 252-263, 333-337
- ^ Montanelli, VIII, p. 218
- ^ Comandini, II, p. 1518
- ^ Bertoldi, p. 244
- ^ Pieri, pp. 264-265
- ^ Montanelli, VIII, pp. 258-259
- ^ Bertoldi, p. 245-247
- ^ Pieri, p. 286-311
- ^ Bertoldi, p. 251
- ^ Bertoldi, pp. 251-252
- ^ Bertoldi, pp. 258-259
- ^ Bertoldi, pp. 260-265
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- ^ Bertoldi, pp. 266-267
- ^ Bertoldi, pp. 268-269
- ^ Bertoldi, pp. 270-271
- ^ Bertoldi, pp. 271-272
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Voci correlate
Altri progetti
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Collegamenti esterni
- Carlo Alberto, in Dizionario di storia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. URL consultato il 2 marzo 2018.
- Cristina Siccardi, Carlo Alberto di Savoia, su santiebeati.it, 1º settembre 2013. URL consultato il 14 marzo 2018.
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