La città di Milano, sin dall'antichità, è stata beneficiata da numerose opere caritatevoli di cittadini e di istituzioni religiose e civili che la hanno dotata di strutture di accoglienza gratuita a favore di bambini, poveri ed emarginati. Quella che segue è una breve e incompleta descrizione delle principali attività filantropiche sviluppate a Milano a partire dall'anno 787 d.C., molte delle quali sono nei secoli divenute istituzioni ancora presenti e che hanno contribuito a rendere Milano una città che si è sempre distinta nei servizi ai propri cittadini[1] e che ha sempre mostrato particolare predisposizione alle opere di carità e di beneficienza, tanto da essere proverbialmente definita come Milan col coeur in man[2]


Evoluzione del primo brefotrofio di Milano

Lo Xenodochio di Dateo - anno 787

Il primo esempio documentato di queste istituzioni caritatevoli e previdenziali fu il brefotrofio o Xenodochio sorto su volere dell'arciprete Dateo, primo in Italia e forse in Europa a istituire un ospizio per trovatelli o esposti, il 22 febbraio dell'anno 787.[3] L'ospizio si trovava lungo l'attuale via Silvio Pellico, oggi a ridosso di piazza del Duomo, e aveva il nome di Xenodochio. In essa gli infanti trovatelli erano nutriti da balie, vestiti ed educati fino al settimo anno di età e successivamente avviati a qualche mestiere.[4] Nell'anno 815 Alberto Grasso, arcivescovo di Milano, accresceva le entrate dell'ospizio affinché i benefici fossero estesi ai fanciulli in genere. Nel 992 Landolfo II da Carcano, arvivescovo, trasferiva la sede del brefotrofio presso la chiesa di San Celso, tuttora esistente, vicino alla quale aveva eretto un convento.

L'Ospedale del Brolo - anno 1127

 
Santo Stefano (Marc'Antonio Dal Re, c. 1745

Nel 1127 il cittadino milanese Gottifredo de Busseri -antenato del più celebre e omonimo presbitero Goffredo da Bussero (1220-?) scrittore e cronachista- fondò l'Ospedale di San Barnaba in Brolo, che divenne il terzo rifugio per trovatelli della città a cui lo stesso de Busseri aggiunse nel 1150 l'Ospedale di Santo Stefano alla ruota (sempre con riferimento alla ruota o rota usata per abbandonare i neonati non desiderati): i due rifugi, uniti, formarono nel 1158 l'Ospedale del Brolo: situato nei pressi dell’odierna Basilica di Santo Stefano Maggiore e perciò fuori dalle mura romane, ma dentro la cerchia dei Navigli, il consorzio opedaliero, al quale fu annesso un piccolo cimitero che diede poi origine alla Chiesa di San Bernardino alle Ossa, ospitava pellegrini, viandanti, derelitti, poveri, bambini e lattanti e, testimonia Bonvesin de la Riva, alla fine del Duecento accoglieva «più di cinquecento malati poveri a letto e un numero ancora maggiore di non obbligati a letto. Tutti erano mantenuti a spese dell’ospedale, il quale provvedeva inoltre a più di trecento cinquanta bambini affidati fin dalla nascita ad altrettante nutrici».[5]

Dal 1167

 
Bernbò Visconti con la moglie Beaaatrice

Nell'anno 1166 veniva eletto arcivesco di Milano Galdino della Sala poi nominato Santo da papa Alessandro III: San Galdino fu attivissimo nella ricostruzione della città di Milano dopo le incursioni devastanti del Barbarossa e tenne sempre in massima cura l'aiuto verso i poveri: «Voi siete qui solo per servire i poveri», fu uno dei sui motti creati per gli amministratori della cosa pubblica; nel 1167 Galdino redigeva un nuovo regolamento per l'Ospedale del Brolo, così saggio che papa Clemente III lo sottoscrisse interamente nella bolla papale del 1° marzo 1190 obbligando l'ospedale ad accogliere e mantenere numerosi esposti, figli della grave crisi seguita alle guerre contro il Barbarossa.

L'ospedale veniva interamente finanziato dalla beneficenza dei milanesi fra i quali nel 1359 spiccava in generosità Bernabò Visconti, Signore di Milano, che in quell'anno concedeva all'Ospedale del Brolo la metà di alcuni terreni di Lodi e Cremona e le tenute di Bertonico Ceradello Vinzasca e di San Martino[6] con annessi diversi privilegi fra i quli la riscossione delle decime, la giurisdizione feudale, il diritto sulle acque per lo sviluppo agricolo e per la pesca.[7]

Dal 1448

Il 1448 vide una corposa riorganizzazione dell'Ospedale che, fino a quell'anno, era amministrato da maestri e precettori: a causa di un gestione disonesta delle risorse economiche delle opere di beneficenza, l'arcivescovo Enrico Rampini di Sant'Aloisio (in carica dal 1443 al 1450) con lettere del 9 marzo 1448, confermate dal pontefice Niccolò V con bolla del 9 luglio, riformò e coordinò la pubblica benericenza in modo da verificare e controllare che non vi fossero sprechi.[8] Stabilì inoltre che i piccoli ospedali sparsi per la città provvisti di piccole rendite utili al solo mantenimento degli addetti e non ai poveri fossero uniti agli altri ospedali più ricchi.[9] In particolare l'Arcivescovo raccomandò soprattutto cure premurose per gli esposti nell'Ospedale del Brolo.

Note

Bibliografia


Pena di morte nella Milano spagnola

Fra gli anni 1535 e il 1706 il Ducato di Milano fu assoggettato alla Corona di Spagna. Nei centosettantuno anni di dominazione spagnola vigeva nel Ducato la pena di morte, che poteva venire comminata per una ampia serie di delitti; va però tenuto presente che la legislazione penale di quei tempi non riconosceva tassativamente quali azioni costituissero un reato o crimine che prevedessero la morte: la pena capitale poteva essere inflitta indifferentemente per assassinio, omicidio, infanticidio, stupro, sodomia, furto, eresia, stregoneria, falsificazione di moneta, spergiuro, diserzione, spionaggio, tradimento, ma sempre in funzione dell'arbitrio e della ampia discreazionalità dei giudici e dell'occasione particolare che produceva la necessità di un giudizio.[1]

Il giudizio poteva essere emesso da diversi organi giudicanti: il Podestà, la Santa Inquisizione, il Capitano di giustizia, il Magistrato di sanità, il Giudice delle monete, il Senato, il Vescovo. Alla pena di morte, apparenemente, nessuno poteva quindi teoricamente sfuggire: militari, plebei, nobili, preti e frati; uomini e donne; giovani e vecchi.

Il Registro de' giustiziati dall'anno 1471 al 1763

Le informazioni sul funzionamento della pena capitale a Milano nel periodo spagnolo provengono in gran parte da un registro manoscritto compilato fra il 1471 e il 1763 dalla Confraternita di San Giovanni Decollato che aveva sede presso la chiesa di San Giovanni Decollato alle Case Rotte, poi demolita nel 1906. La Confraternita, che nel corso dei secoli assunse diverse denominazioni (Compagnia di Santa Maria della Morte e del Santissimo Corpo del Redentore, Scuola dei Bianchi, Scuola di disciplini di San Giovanni decollato alle Case rotte in San Giovanni decollato)[2] almeno dalla metà del Trecento aveva quale scopo l'assistenza spirituale ai condannati a morte e la sepoltura dei loro cadaveri in un cimitero attiguo alla chiesa. Il manoscritto, intitolato Registro de' giustiziati della Nobilissima Scuola di S. Gio. Decolato detto alle Case Rotte dall'anno MCDLXXI in avanti contiene un elenco di 3 124 esecuzioni alle queli i confratelli presero parte con l'opera pia di confortare e seppellire i condannati a morte. Probabilmente copia di un più antico testo andato perduto, il manoscritto è oggi conservato presso la Biblioteca Ambrosiana e fu oggetto di uno studio apparso nel 1882 nel Giornale dell'Archivio Storico Lombardo a firma di Matteo Benvenuti. E' in quel registro che fra, le altre, sono descritte le condanne a morte e le esecuzioni dei due untori Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, giustiziati durante la peste del 1630 e riportati alla memoria dal Manzoni nel celebre saggio Storia della colonna infame (1840).

Alcuni esempi di condanne a morte

La prima condanna a morte riportata nel registro è del 26 gennaio 1471:

«1471 addì 26 Genaro Giustizia fatta a Vigentino, decapitata una Lucia Fontana et sepolta nel detto luogo»

Va notata la laconicità del testo: non viene infatti segnalato il crimine commesso dalla Fontana né da quale autorità fosse stata impartita la condanna a morte. Manca inoltre una descrizione più particolareggiata dell'esecuzione, cosa che invece nel registro verrà descritta con sempre più precisione negli anni della dominazione spagnola. Come notava il Benvenuti[3]

«Le prime note si limitano all'indicazione del nome, nomignolo, età, paternità e giorno dell' esecuzione del condannato. In avanti, particolarmente dopo preso stabile piede la dominazione di Spagna, le rubriche diventano più colme e giungono non di rado, con ispagnolesca tronfia vacuità, a narrare con dettaglio i fatti incriminati e gli incidenti processuali»

Quando Milano cadde sotto il dominio spagnolo la pena capitale era già applicata nel Ducato retto da Galeazzo Sforza mediante impiccagione, decapitazione o messa al rogo; i luoghi ove venivano preparate le forche erano solitamente la piazza Mercanti -nei pressi del Duomo-, la piazza Vetra oppure il luogo dove il crimine era stato commesso. Per i nobili invece il patibolo veniva innalzato al Verziere, sul corso di Porta Tosa, oggi nei pressi di largo Augusto. I cadaveri, come detto, venivano seppelliti nel cimitero della chiesa dagli Scolari di San Giovanni Decollato oppure direttamente sul luogo dove era stato comesso i crimine; il quel caso la sepoltura era data direttamente dal boia. Non di rado, però, capitava che del cadavere del giustiziato rimanesse poca parte da seppellire: soprattutto in epoca spagnola, infatti, la pena non si esauriva con la morte del condannato o con i tormenti ad esso inflitti prima dell'esecuzione: anche il cadavere era "oggetto della pena" e spesso accadeva che la colpa dovesse essere espiata anche dal cadavere stesso. Ne sono esempio le condanne per squartamento, quando accadeva che la testa e i quarti del giustiziato venissero esposti sul luogo del crimine come monito e come simbolo del crimine commesso. In quei casi poteva succedere che quanto rimaneva del giustiziato venisse lasciato per giorni esposto alle intemperie e all'azione degli animali: quanto restava veniva raccolto dagli Scolari e seppellito, con tutte le difficoltà del caso.

«La pena di morte non era esente da esacerbazioni. In alcuni casi il condannato si trascinava al patibolo, a coda di cavallo. In altri casi lo si poneva sopra un carro ed a determinate località lo si attanagliava al dorso fino a tre volte con ferro rovente. Avveniva ancora, specie ai ladri, che prima dell' appensione o decapitazione, gli si tagliasse una ed anche ambe le mani. Fatti cadavere li si lasciavano esposti fino alla notte , ed alcune fiate li si squartavano, si mandavano i quarti nei luoghi ove eransi commessi i misfatti, e di frequente non rimanevano alla Nobilissima confraternita, che le interiora da seppellire nella fossa comune pei condan-

nati a S. Giovanni alle Case Rotte.»

Ne è un esempio l'esecuzione di un tal Giorgio Senese nel 1552:

«1552. Adi 8 Giugno , Giustizia fatta In la Piazza Castello , fu squartato vivo un Giorgio Senese, la Testa fu messa sopra il Torrione del Castello , et li quarti alle muraglie delle Porte , p. causa di voler dar via il Castello alli Francesi»

Note

Bibliografia

Collegamenti esterni