Alberto Granese

critico letterario italiano (1934-)
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Alberto Granese professore universitario e critico letterario.

Biografia

Nato a Montecorvino Rovella (SA), Alberto Granese vive e lavora a Salerno.

Laureatosi nell'Università degli Studi di Roma con Giacomo Debenedetti, il più grande critico letterario del Novecento, Alberto Granese ha anche frequentato il corso di perfezionamento in Filologia Moderna, diretto da Natalino Sapegno.

Dopo un periodo di insegnamento nei Licei e un altro di ricercatore universitario, è stato, prima, professore associato, poi, ordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Salerno.

Nella stessa Facoltà ha anche insegnato Storia della lingua italiana, Lingua italiana, Sociologia della letteratura, Letteratura teatrale italiana, Letteratura e cinema, Letterature comparate e Didattica della Letteratura italiana, cattedra da lui istituita presso il corso di Laurea Specialistica / Magistrale in Filologia Moderna.

Ha ricoperto anche incarichi politici e istituzionali, comunali e provinciali, e svolto un’intensa attività di promozione culturale.

Il percorso intellettuale

Pur essendo Granese autore di molti articoli giornalistici, saggi pubblicati su riviste, in volumi miscellanei e in Atti di convegni, di numerose presentazioni, prefazioni e postfazioni a opere poetiche, narrative e critiche, di  diversi interventi apparsi in opuscoli, programmi di iniziative culturali e cataloghi di mostre, si prendono in considerazione solo le sue personali raccolte di saggi a carattere più chiaramente organico e soprattutto i suoilavori monografici, perché manifestano con maggiore evidenza il rigore metodologico e la struttura concettuale delle argomentazioni, svolte sempre secondo una coerente e coinvolgente logica.

I suoi  interessi scientifici si estendono alle principali discipline del settore umanistico, anche se il suo ambito fondamentale e prevalente di ricerca è costituito dalla Letteratura italiana, con una intensa e frequente penetrazione in tutte le affini componenti disciplinari e le molteplici tematiche interdisciplinari. Rigore metodologico e disponibilità ermeneutica gli hanno, inoltre, consentito di collegarsi tempestivamente nei suoi studi ai nuovi e diversi livelli conoscitivi raggiunti dalla ricerca letteraria. Proprio questa è una delle ragioni per le quali le sue pubblicazioni hanno poi avuto una rilevante incidenza all’interno della comunità scientifica non solo nazionale, se – come è ampiamente documentato nella seconda parte del suo libro, Lettere dal deserto – Biblioteche e Università europee hanno curato la traduzione e valorizzato per le proprie ricerche alcuni suoi studi, ritenendoli scientificamente innovativi.

Senza perdere mai di vista anche le ragioni del lettore, e dunque tenendo sempre sotto controllo possibilità e limiti del discorso critico, strettamente in rapporto con i testi analizzati (con la loro «circolare» centralità), il fondamentale e rigoroso impianto metodologico, sempre coerentemente alla base della sua produzione scientifica, consiste nello svelare lo specifico e autonomo processo di formazione delle opere, la reciproca e interna funzionalità delle strutture compositive, la loro inconfondibile e originale identità nell’ambito del sistema letterario. Dell’intero tessuto linguistico dei testi ha, pertanto, scandagliato non solo i nuclei lessicali e stilistici, ma anche le relazioni intertestuali e variantistiche, attraverso una complessa rete di collegamenti delle procedure d’analisi con i loro presupposti epistemologici. In questo variegato quadro critico le documentate ricerche delle coordinate storiche, delle componenti inconsce e delle originarie basi antropologiche, in cui gli autori studiati affondano le loro indissolubili radici, si intrecciano con i suoi costanti interessi per le teorie e i metodi della critica letteraria, per la circolazione delle opere e i rapporti della letteratura italiana con il pensiero filosofico, le letterature europee e le altre espressioni dell’attività estetica.

In tal senso, il lavoro monografico, uscito nel 1976, La maschera e l’uomo. Saggio su Giacomo Debenedetti e la cultura europea del Novecento, pur muovendo dallo studio della critica debenedettiana, finisce per essere sostanzialmente la ricerca di alcuni motivi centrali del romanzo europeo moderno (Joyce, Proust, Kafka, Pirandello, Svevo, Tozzi): la scissione dell’Io, la perdita dell’unità del Soggetto. Il suo scavo fenomenologico nella cultura del Novecento ha fatto emergere, attraverso lo specifico letterario della forma-romanzo, la fitta rete di relazioni (anche tra campi del sapere tra loro lontani) che sottende alle novità essenziali delle strutture e dei personaggi della narrativa moderna. Granese illumina anche i parametri critici di Debenedetti, che non si impongono mai dall’esterno agli autori studiati come una griglia preformata, ma si pongono in “disponibilità”, cercando gli approcci euristici da diverse angolazioni, secondo indicazioni e stimoli provenienti dall’opera stessa da interpretare. L’idea debenedettiana di critica si ispira alla lezione di Proust, per cui è concepita come un’avventura della memoria: il critico deve porre l’accento sull’aspetto fascinoso della poesia, che deposita le sue melodie nel fondo della memoria, mentre il tempo sembra rapirle; ma esse ritornano, evocate dagli atti istantanei della “memoria involontaria”, che ne ‘ricanta’ i ritornelli e ritrova il “tempo perduto”, che nessuna operazione della volontà e dell’intelligenza sarà mai capace di fare rivivere in tutta la sua pregnanza.

Granese, inoltre, rileva in Debenedetti una tensione tra le sue rimosse aspirazioni narrative e il suo destino di critico letterario; questa tensione lo costringe a seguire particolari direzioni di approccio ai testi e a trovare soluzioni ermeneutiche diverse rispetto ai soliti luoghi comuni: eretiche, suggestive, sfuggono a tutte le logore etichette e, pertanto, sono uniche e irripetibili, perché sostanzialmente sono le metafore stesse del suo mito personale. Si fornisce, a questo punto, la spiegazione del particolare interesse debenedettiano per il romanzo italiano ed europeo: per Granese, essenzialmente consiste nell’idea che il vero romanzo rappresenta tutta la realtà con la sua complessa dialettica e l’ambiguità delle sue infinite componenti; in tal caso, diventa un’autentica e profonda presa di coscienza, in grado di rivelare non solo le contraddizioni di una determinata società, ma anche il mondo interno, il mondo dell’inconscio, il mondo stesso della vita. Pertanto, quando le linee del destino del critico “sposano”, per un tratto del loro corso, quelle del destino del personaggio di un grande romanzo, allora, attraverso questa operazione “osmotica”, si verifica uno scambio scrittore-critico, che riesce a svelare le ragioni interne di un’opera d’arte, pur se questa continua sempre a sfuggire nella sua inesauribile ricchezza.

Sviluppando il discorso ermeneutico del precedente lavoro, in un altro libro del 1979, Parco centrale. Critica letteraria e sociologia della produzione culturale, Granese propone un’idea di letteratura più ampia e comprensiva di fenomeni espressivi di solito esclusi dalla sfera dell’estetico. Il titolo, che allude agli scritti benjaminiani su Baudelaire e sulla centralità della sua opera nella cultura moderna, è ripreso con l’intento di mostrare come “centrali” le risposte date dalle avanguardie storiche – attraverso la rivoluzione dei mezzi tecnici di riproduzione dell’arte e il progetto di trasformare gli apparati culturali – ai tentativi di riduzione consumistica dei prodotti letterari e artistici. Lo studio filologico, inoltre, del pensiero gramsciano, che esclude le tradizionali ripartizioni disciplinari, si riflette anche nel titolo, Strategia dello scambio. Letteratura, linguaggio, critica e classi sociali (1979), raccolta di saggi in prevalenza sulla letteratura italiana tra Otto e Novecento, organicamente collegati dal concetto generale e unitario di «scambio», inteso come reciprocità tra settori di ricerca spesso ritenuti diversi e distanti. Attraverso questo nuovo metodo di indagine critica, la struttura dei linguaggi della comunicazione (iconico e verbale, filmico e letterario, poetico e scientifico) e i livelli della scrittura, gli archetipi culturali e i modelli narrativi, esaminati attraverso scrittori dal Trecento al Cinquecento e autori moderni da Verga a d’Annunzio, da Vittorini a Pasolini, rivelano insospettate omologie e imprevedibili disponibilità al passaggio da un codice espressivo a un altro.

Lungo questa linea, la sua indagine critica si è estesa alla letteratura del secondo Novecento, fino a incontrare un terreno privilegiato (per alcune sue peculiarità) nella narrativa degli anni Settanta, esplorata, ancora una volta, con un metodo di analisi particolarmente attento non tanto alla cronologia lineare degli eventi culturali, quanto – attraverso un discorso critico di taglio “orizzontale” – ai modi e alle forme dell’espressione letteraria, ai contenuti, emersi dal contesto sociale e dall’immaginario collettivo (in quel determinato momento storico), organizzati “stilisticamente” da personalità diverse di scrittori. Frutto di questa direzione di ricerca è il volume monografico del 1984, La leggenda del Nilo. L’immaginario e il sociale nella narrativa italiana degli Anni Settanta, in cui l’enigmatico mito dell’androgino, nella sua essenza diadica, doppia – in cui si fondono inscindibilmente il Bene e il Male, simboleggiati dall’Angelo ribelle o Lucifero celeste –, è interpretato come emblema satanico, demonizzazione del Potere, tema centrale nella narrativa e nella cultura non solo letteraria di quel decennio. Gli argomenti, infatti, pur nella loro varia articolazione, ruotano intorno alla metafora ossessiva e possessiva del Potere. Se i sociologi hanno definito l’attuale società italiana come un insieme di poteri corporativi decentrati, il Pasolini “corsaro” e “luterano” alludeva suggestivamente a un unico “Potere senza volto”, una specie di Leviatano, individuato nel consumismo e nell’inevitabile “omologazione” che questo produce.

Percorrendo una suggestiva linea ermeneutica, che dal Kafka di Das Schloss porta all’Alvaro di L’uomo è forte, Granese riesce a illuminare le manifestazioni e gli effetti perversi, che spesso producono intime catastrofi e alimentano le inquietudini del mondo moderno. Il Potere genera violenza o direttamente o attraverso le azioni eversive, finalizzate a rovesciarlo e a instaurare un contropotere: ecco perché decide di affrontare anche i temi scottanti del terrorismo italiano, in particolare del caso Moro (attraverso Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino), e delle diverse violenze che si sono manifestate nella storia (di qui il fenomeno del romanzo cosiddetto “storico”, ma che è in realtà una proiezione in tempi passati di situazioni e problemi recenti). Inoltre, il nuovo potere tecnologico e consumistico ha distrutto definitivamente la società contadina e messo in crisi, quasi irreversibile, l’intellettuale di tipo “tradizionale” (in senso gramsciano): argomento di grande interesse, che sviluppa nel capitolo delle “identità perdute”, a cui è contrapposto quello delle nuove identità o dei nuovi soggetti, con riferimento al romanzo “al femminile”, che mostra la donna autrice e protagonista, e alla singolare figura di operaio (creato da Primo Levi), che sembra una lungimirante proposta di un nuovo tipo di lavoratore, diverso sia da quello del cosiddetto romanzo “di fabbrica” degli anni Sessanta, sia dall’operaio della letteratura “selvaggia”. Un largo consenso alla novità di questo libro, soprattutto per l’ultimo capitolo sulle violenze della storia e le storie della violenza, gli giunse inaspettatamente dalla Humboldt Universität di Berlino (come racconta in Lettere dal deserto), che organizzò un Convegno internazionale di studi interamente basato, per esplicito riconoscimento, sulle tesi di fondo per la prima volta avanzate proprio in quel capitolo.

I problemi della produzione e circolazione dei testi nella civiltà industriale di massa e, in genere, per le nuove avanguardie, emergono con maggiore approfondimento e più ampia articolazione di ricerca nelle tre pubblicazioni successive. Infatti, recuperando e ampliando studi in parte pubblicati in due volumi precedenti (Storia e metodologie della critica letteraria, 1978; I metodi critici del Novecento, 1979), in Segno Simbolo Sogno del 1982 Granese analizza i fondamenti estetici e filosofici delle moderne metodologie della critica letteraria italiana e straniera, innervando gli imprescindibili collegamenti teoretico-gnoseologici nel tessuto storico-culturale, attraverso la ricerca delle ragioni genetiche e l’attenzione al processo di svolgimento delle singole proposte teoriche all’interno di ogni specifico settore tematico. Particolarmente interessanti i capitoli sull’autore come “produttore” nella società di massa (Benjamin), sulla critica dell’industria culturale (Adorno, Marcuse), sull’ermeneutica simbolica, tematica e archetipica (Bachelard, Poulet, Richard). Il suo lavoro, inoltre, articola, nel dibattito sui metodi critici del Novecento, una varietà e complessità di argomenti, organati con precisi riscontri testuali e frequenti rinvii alla ricca bibliografia che conclude il volume. Le sue considerazioni sulle teorie della critica letteraria si sviluppano in maniera personale, senza applicazioni dogmatiche di metodi o concessioni scolastiche ai linguaggi specialistici, soprattutto quando affronta, anche con riferimenti al pensiero scientifico-filosofico europeo e statunitense, alcuni temi di grande interesse, posti dai numerosi dibattiti sull’ermeneutica e le teorie dell’interpretazione.

In questo ambito si colloca anche Integrazione e rivolta. Dittico per Debenedetti e Salinari (1985): nell’indagine letteraria di Giacomo Debenedetti e di Carlo Salinari, rispettivamente, la poesia ermetica e la narrativa di Pirandello, le avanguardie storiche e il neorealismo costituiscono – secondo un nuovo e diverso metodo di lettura applicato ai loro testi – i rispettivi punti di partenza che, se pure distanti come oggetti di ricerca e per fondamenti metodologici, attraverso un filo sottile di inattesi precorrimenti, trovano l’approdo sorprendentemente comune nel dibattito sulle neoavanguardie dei primi anni Sessanta. Di questo dibattito Granese ricostruisce la complessa articolazione, che ha al centro l’incontro-scontro con le nuove correnti di pensiero e i nuovi sperimentalismi espressivi, in cui – secondo la sua interpretazione – si intrecciano, con gioco ambiguo e ambivalente, integrazione al sistema di potere e rivolta contro di esso, adesione organica all’ideologia dominante e opposizione ai suoi codici abituali di comunicazione, cristallizzazione accademica dell’iniziale fase trasgressiva e rottura rivoluzionaria di tutte le inerti sedimentazioni del linguaggio cosiddetto ufficiale.

In Sociologia della letteratura. La produzione culturale nella società di massa (1990), arricchendo il discorso precedente, già iniziato in questa direzione, analizza le fondamentali teorie critiche sulla produzione e socializzazione delle opere d’arte nella moderna civiltà industriale. Una particolare attenzione rivolge al processo di svolgimento delle diverse proposte teoriche, attraverso la ricerca delle loro incidenze nel contesto storico-sociale delle rispettive aree culturali. A rendere completa questa sociocritica dei prodotti estetici e degli apparati culturali di massa contribuisce la seconda parte del volume con l’articolato quadro dei principali generi della cosiddetta paraletteratura (il romanzo popolare, poliziesco, rosa, fantascientifico) e con il profilo dei suoi maggiori e più accreditati autori, tutti accomunati in una rassegna organica.

Così pure, un ulteriore approfondimento di una direzione di ricerca già da tempo intrapresa è rappresentato da Il labirinto delle analisi infinite. L’interpretazione delle strutture profonde nel testo letterario (1991), concepito come un variegato periplo intorno al mondo sconfinato e imprevedibile della letteratura, in cui si indaga l’intricata e conflittuale pluralità dei livelli interpretativi che emergono dall’esplorazione, semiologica e psicoanalitica, degli infiniti sistemi di nessi e di rapporti tra le strutture semiotiche e le strutture profonde immanenti nel testo letterario. Con Freud e Lacan, Bachtin e Jakobson, Jung e Frye, Eco e Barthes, Contini e Ricoeur, Debenedetti e Starobinski il viaggio labirintico, per la fitta rete di collegamenti delle procedure di analisi con i loro presupposti storico-teorici, non poteva che essere interminabile. Vi si incontrano, inoltre, archetipi e simboli, codici e segni, miti e simulacri, sogni e parole nascoste, metafore ossessive e universi immaginari: tutto come in una sorprendente avventura della memoria che, durante ogni sosta, rievoca e ripropone i luoghi testuali esemplari per proiettare sul percorso circolare e sotterraneo nuovi e più intensi fasci luminosi. Un particolare riconoscimento a questi lavori sulla critica letteraria è venuto dalla Sound Library di Oslo, che ne ha promosso la traduzione in lingua norvegese su schede magnetiche sonorizzate, come Granese ricorda sempre in Lettere dal deserto.

Iniziava intanto la frequentazione della poesia di Giorgio Caproni, pubblicandone testi inediti con nuove proposte ermeneutiche. Anche Salvatore Quasimodo, poeta già molto discusso dalla critica letteraria, è interpretato con un’ottica completamente diversa, che, per la prima volta, rilegge le sue opere non più attraverso la traduzione e l’ascendenza della poesia lirica greca, ma attraverso il teatro; in particolare, la tragedia di Eschilo e Sofocle e quella del periodo elisabettiano. Una novità è rappresentata anche dallo studio dei poeti della potente famiglia abruzzese degli Acquaviva d’Aragona: il periodo storico preso in esame va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Settecento. Muta solo lo sfondo storico, ma il metodo di lettura è ancora una volta quello di privilegiare inediti percorsi euristici: in questo caso, l’interesse maggiore è dato dall’individuazione, in personalità poetiche vissute in periodi molto diversi, di una stessa identità antropologica, di un’ininterrotta memoria storica e di un’originale eredità culturale.

Nell’ambito di questo interesse per la letteratura regionale rientra lo studio sul molisano Giose Rimanelli, anche se il discorso spazia fino alla produzione degli anni “americani”, al particolare sperimentalismo delle sue ultime opere, riconsiderate (sulla base delle indicazioni di Bachtin) alla luce di una tradizione letteraria da Rabelais a Sterne, a Joyce. Infine, la Lucania di Albino Pierro. In uno studio, che propone un’originale interpretazione della sua poesia (con riferimenti ai nuovi interessi degli studiosi della filosofia rinascimentale per l’alchimia, sulla scorta della Melencholia I di Albrecht Dürer e degli studi di Walter Benjamin sull’allegoria nel dramma barocco tedesco e nell’arte espressionista del Novecento), l’opera poetica di Pierro viene scandagliata fino a penetrare le complesse stratificazioni del suo ricco e suggestivo universo semantico ed espressivo. Sono questi alcuni contributi scientifici alla base di L’aquila e il poeta. Ricerche e studi di letteratura italiana (1991), che – pur nella continuità e nella coerenza di una precisa metodologia di lettura – sposta ancora oltre gli orizzonti gnoseologici, sperimentando nuovi e inediti percorsi. L’episodio leggendario dell’aquila e del poeta Eschilo, nell’ultimo giorno della sua vita, assurge a simbolo dell’altezza vertiginosa della sublime poesia tragica e del mistero della sua origine, profondamente immerso nei sacri rituali del mito. Un’antica e grande tradizione storica di nobiltà e di cultura viene emblematizzata nell’austera immagine del poeta-guerriero; le cifrate allegorie della contemplazione melanconica assumono il volto, sfingetico e saturnino, del poeta-alchimista, mentre la continua tensione interna della parola verso il colore e l’armonia si manifesta nelle inquiete figure del poeta-pittore e del poeta-musicista. Nell’ampio e vario universo del romanzo si alternano e si intrecciano due coordinate essenziali: l’anamorfosi, come visionaria deformazione di una realtà, che appare oniricamente ribaltata e trasgressivamente “altra” rispetto a quella conformistica e“ufficiale”; la metamorfosi, come immediata trasformazione delle più diverse e brucianti esperienze esistenziali del drammatico presente nelle forme letterarie del racconto.

Va particolarmente segnalato che, all’interno di questi lavori, è possibile rilevare anche forti interessi per i problemi linguistici, come, ad esempio, lo studio dei rapporti tra livelli della scrittura e forme espressive non-verbali, dei sistemi di transcodifica e ricezione dei messaggi nei complessi percorsi della comunicazione multimediale, dei differenti statuti semantico-strutturali del linguaggio scientifico e del linguaggio poetico negli approdi teorici del “New Criticism” americano (Strategia dello scambio). Affrontando la sociocritica della produzione culturale nella civiltà di massa con Parco centrale, prima, e Sociologia della letteratura, successivamente, sono studiate, da un punto di vista semiotico, strutture linguistiche e codici della letteratura di massa e della narrativa di consumo con particolare riguardo alle relazioni tra il linguaggio della scienza e quello della moderna produzione fantascientifica (su cui si ritorna in alcuni capitoli, dedicati al romanzo italiano degli anni Settanta tra il sociale e l’immaginario, della Leggenda del Nilo). Con Integrazione e rivolta si estende questo tipo di ricerca allo sperimentalismo linguistico delle neo-avanguardie italiane degli anni Sessanta, collocate tra integrazione organica agli apparati ideologici del Potere e strategia oppositiva alle inerti sedimentazioni del linguaggio cosiddetto ufficiale. I problemi teorici della linguistica moderna sono affrontati con Segno Simbolo Sogno, in cui se ne analizzano alcuni momenti essenziali, dal Circolo linguistico di Praga alle proposte semiologiche di Peirce, Lotman ed Eco. Questo discorso è ripreso in Il labirinto delle analisi infinite, ampio studio sulle strutture profonde del testo letterario, in cui – come in un viaggio all’interno dell’universo testuale – le figure retoriche della psicanalisi postfreudiana si incontrano, anche sulla base dei suggerimenti teorici di Benveniste, con la linguistica saussuriana e i processi metaforici / metonimici jakobsoniani. In ambito più strettamente italiano, Granese si concentra sul rapporto tra lingua nazionale e linguaggi dialettali, soprattutto attraverso l’analisi dell’idioma tursitano di Albino Pierro e della frammentazione lessicale degli originari nuclei polisemici del suo linguaggio poetico (L’aquila e il poeta). Nei costanti interessi per il confronto tra linguaggi verbali e non-verbali si collocano anche due altri studi apparsi sempre in quest’ultimo libro, che indagano le tensioni interne della parola verso la pittura e la musica attraverso alcuni significativi poeti del Novecento.

Sulla base di questi studi e in coerente collegamento con alcune linee fondamentali, che vi cominciavano a emergere, i suoi lavori si sono ulteriormente estesi in diverse aree culturali, a partire dall’ampio volume (1992), I Gaurico e il Rinascimento meridionale, che raccoglie organicamente – secondo una precisa strategia di risistemazione critica e metodologica dei diversi contributi scientifici – gli Atti di un Convegno Internazionale di Studi (1988). Attraverso la pubblicazione e diffusione di questo volume la conoscenza del Rinascimento meridionale si è notevolmente arricchita di elementi nuovi e ulteriormente approfondita, come hanno anche dimostrato gli unanimi riconoscimenti di illustri studiosi italiani e stranieri, oltre che la continua incidenza su tutte le recenti pubblicazioni di area umanistico-rinascimentale. Come Granese sostiene, nelle pagine introduttive e soprattutto conclusive del volume, gli studi sull’attività culturale dei Gaurico hanno confermato e, per certi aspetti, esaltato la peculiare identità del Rinascimento meridionale, contribuendo anche a metterne in luce le costanti e frequenti relazioni con le esperienze culturali più vive del Rinascimento italiano ed europeo, attraverso un’intelligente ricerca del loro scambio reciproco e il deciso superamento della precedente tendenza a contrapporre i diversi centri umanistici.

Con La cultura italiana del Settecento (1993) inizia una trilogia di studi dedicati alla civiltà letteraria del secolo XVIII: sono esplorati i momenti e le figure della cosiddetta età vichiana (dalla reazione antibarocca dell’Arcadica ai prodromi dell’Illuminismo), con una particolare sensibilità per il concreto tessuto storico, in cui quelle esperienze maturarono. Granese ne propone nuove interpretazioni, che spesso capovolgono acquisizioni apparentemente consolidate, soprattutto nell’indagine sulle resistenze della cultura tradizionale italiana alle innovazioni di quella inglese e francese. Attraverso lo studio del pensiero di Gianvincenzo Gravina, Ludovico Antonio Muratori, Antonio Conti e della complessa personalità di Giambattista Vico (di cui dà una lettura “diversa” e in chiave dialettica), fino al cosmopolitismo di Algarotti e al nuovo “codice” letterario di Saverio Bettinelli, rivolge una particolare attenzione alle origini filosofiche del libertinismo, al deismo di Alberto Radicati, al mito del mondo di natura di Pietro Giannone, sempre nel contesto storico-culturale del contraddittorio rapporto tra intellettuale riformatore e despota illuminato. Tutto il volume ha un articolato registro interdisciplinare, non solo nel rapporto tra culture letterarie di lingue diverse, ma anche nel confronto tra i risultati della storiografia, della letteratura, della critica d’arte, delle scienze e della filosofia.

Il lavoro scientifico sul secolo XVIII continua con La “cornice” nel sistema tragico di Vittorio Alfieri (1993), in cui si sostiene che nell’universo poetico alfieriano il conflitto tragico si sviluppa lungo una linea contrassegnata da una dialettica profondamente negativa, in cui polarità radicalmente opposte e inconciliabili non raggiungono l’armonia suprema della sintesi. Proprio la severa consapevolezza dell’assoluta assenza di una rassicurante, e perciò falsa e illusoria, composizione pacificatrice delle laceranti contraddizioni esistenziali, che travolgono le sue tragiche creature, fa di Vittorio Alfieri non solo un poeta di statura europea, ma soprattutto un intellettuale autenticamente moderno, non più il mito-monumento della tradizione agiografica risorgimentale. Il poeta astigiano, inoltre (ed è questo per Granese un altro emblematico segno della sua modernità), ha direttamente gestito la propria fortuna critica, orientando lettori e spettatori delle tragedie con la controllatissima guida di un ampio corpus di scritti autoesegetici, che costituiscono una singolare “cornice”, una struttura, sia pure extratestuale, senza cui tuttavia leggere e interpretare il testo poetico vero e proprio sarebbe operazione metodologicamente riduttiva e parziale; anche perché il poeta stesso ha inteso correlare questi due aspetti della sua produzione letteraria (i versi e i rispettivi giudizi autorali) in maniera dialetticamente speculare. Alla poetica complessa elaborazione dell’arte tragica sono organicamente collegati quegli scritti di Alfieri, che, pur provenendo da fonti testuali diverse e spesso distanti nel tempo, contribuiscono a   formare, in base a un esplicito e coerente disegno sistematico, l’intero contesto autoanalitico di ogni singola tragedia.

Il terzo studio sul secolo XVIII è Divina Libertà. La rivoluzione della Tragedia, la tragedia della Rivoluzione: Pagano Galdi Salfi (1999), in due tomi (il secondo, Teatrali contese, contiene alcune opere esemplari di questi tre autori, riedite per la prima volta). La tesi centrale del libro, particolarmente innovativa sul piano letterario e soprattutto storiografico, è che Francesco Mario Pagano, oltre ad essere “costruttore” dello stato repubblicano, in quanto redattore della sua carta costituzionale, e il martire più illustre della repressione borbonica, è anche il pensatore e il poeta tragico che, con la sua opera drammatica del 1782, Gli esuli tebani, riesce a prefigurare la rivoluzione napoletana del 1799. In netto contrasto con la più consolidata tradizione storiografica, i documentati risultati scientifici di questo lavoro anticipano di circa dieci anni la rottura di Pagano con il riformismo borbonico, fondando le basi iniziali della ricerca sulla prima edizione dei suoi Saggi politici (1783-85), invece che, come gli studiosi hanno sempre fatto, sulla seconda (1792-93). Granese, inoltre, riesce a cogliere i toni prefoscoliani del suo stupendo epicedio, In morte di Gaetano Filangieri, ingiustamente trascurato della critica letteraria. Se Pagano, nella Napoli borbonica, prefigura con illuminanti metafore la nascita della democrazia e della libertà, Francesco Saverio Salfi, nella Milano napoleonica, ne prevede il rapido tramonto, mentre Matteo Angelo Galdi, pubblicista molto attivo nella prima Repubblica Cisalpina, ne diffonde i motivi ideali, individuando non solo una via nazionale alla rivoluzione e alla costituzione di uno stato repubblicano, ma esprimendo anche la coscienza di un’identità italiana, secondo un’intuizione di fondo che sarà ripresa da Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco.

Attraverso un variegato percorso critico, intorno alla tragedia salfiana, Pausania, Granese costruisce una fitta rete di imprevedibili collegamenti, che ampliano lo scenario storico, fino ad abbracciare non solo tutta la grande tradizione culturale meridionale, da Vico a Filangieri, ma anche alcuni significativi contributi dei maggiori poeti italiani tra Sette e Ottocento: Parini, Alfieri, Monti, il giovane Manzoni e, soprattutto, Foscolo, a cui dedica molte pagine per meglio porre in rilievo, come aspetto paradigmatico del confronto tra intellettuale e potere, il rapporto del poeta ellenico-veneziano con Napoleone, sulla scorta di una dettagliata analisi delle sue opere politiche. I parametri metodologici di Divina Libertà privilegiano, quindi, in maniera decisiva la centralità del quadro epocale, riscoprendone il senso e il gusto. Su questo sfondo Granese proietta eventi e personaggi: il riformismo illuministico e la rivoluzione napoletana, l’intensa attività politica degli esuli meridionali a Milano e la geniale e complessa personalità del grande condottiero corso. L’aspetto più squisitamente letterario di questo lavoro è rivolto a interpretare le strutture profonde e le forme espressive delle opere poetiche, in un continuo scambio con il contesto storico-politico e con le coordinate culturali del tempo, sì che poesia e storia ricevono reciprocamente da questo tipo di analisi spessore, respiro e significato.

Il secondo tomo, Teatrali contese, oltre a contenere le tragedie di Salfi e Pagano (e l’epicedio di quest’ultimo), presenta anche un’accurata ristampa del trattato di Galdi, Delle vicende e della rigenerazione de’ teatri, in cui lo scrittore salernitano con grande lucidità politica traccia le linee fondamentali dell’educazione rivoluzionaria in Italia attraverso lo spettacolo teatrale, dimostrando che proprio la tragedia rappresenta la massima espressione artistica per diffondere gli ideali di libertà. Le «teatrali contese», che sono la drammatica apparenza delle azioni vere, soprattutto quando mettono in scena forti e vive passioni, possono «utilmente commuovere e piacevolmente istruire» (Pagano), possono quindi essere «la scuola più rilevante del popolo» (Salfi) e «rigenerarne» lo spirito, la mente e il costume (Galdi). Per questi scrittori, in tali principi consiste il fine supremo dell’opera tragica, che ha al centro un’azione rivoluzionaria per la libertà, in cui l’evento poetico è già di per sé evento politico che si svolge sullo scenario stesso della storia. Particolarmente elaborata la cura della riedizione di queste opere settecentesche: Granese, infatti, attenendosi a criteri filologici prevalentemente conservativi e generalmente assecondando le scelte di linguaggio e di scrittura degli autori, ma anche operando una serie organica e argomentata di interventi per restituirli alla più chiara e completa ricezione possibile del lettore moderno, è riuscito ad armonizzare (ed è stata questa la parte forse più delicata del lavoro) le differenti originarie impostazioni strutturali delle opere e trasferirle nell’insieme di un’organizzazione testuale che le rispecchia e rispetta interamente.

Subito dopo la conclusione della trilogia settecentesca, Granese scrive uno dei libri senza dubbio fondamentale nella sua produzione dei primi anni del nuovo millennio, soprattutto per le annotazioni e i riferimenti anche personali, Lettere dal deserto. Sulla letteratura del secondo Novecento (2000), articolato in due parti, in cui restituisce alla loro lezione originaria i suoi lavori sulla letteratura italiana della seconda metà del Novecento. Le ragioni del recupero di questi studi e della loro ricomposizione testuale, spesso condotta con un’organica riutilizzazione di glosse e appunti rintracciati nei fogli sparsi, sono da lui spiegate, di volta in volta, nelle brevi premesse a ogni sezione del volume, in cui rievoca le occasioni che ne furono all’origine. Si viene così naturalmente a creare una cornice interna, che, oltre a costituire un ininterrotto filo conduttore attraverso il tempo, scandisce i ritmi di un variegato percorso euristico lungo sentieri letterari meno frequentati e scoperti, più eccentrici e nascosti, invece di quelli già noti e rivelati. Da questa serie organica di saggi su alcune significative opere del secondo Novecento emergono sulla scena della scrittura segni e codici, miti e simboli di nuovi universi immaginari ed assumono l’emblematico aspetto di cifre essenziali delle inquietanti contraddizioni del nostro tempo.

Nel libro, il cui titolo è un omaggio a Giorgio Caproni, con cui era in stretto contatto epistolare, Granese concentra una vasta gamma di scritti significativi, anche quelli che, pur essendo a volte meno impegnativi sul piano strettamente ermeneutico, si sono invece rivelati poi molto incisivi per la diffusione e la conoscenza di alcuni autori. Tra questi va segnalato lo studio su Giose Rimanelli, uscito in edizione bilingue a New York con una postfazione di Antony Burgess, in cui Granese, attraverso l’analisi delle varianti d’autore e dei livelli espressivi della sua creatività linguistica e stilistica, non solo esplora il suo laboratorio poetico, ma ne individua anche le componenti antropologiche (italo-molisane, prima, e, poi, americane), in uno scambio interdisciplinare tra diverse strutture linguistiche e differenti aree etnico-culturali. Così pure, indaga le «finzioni e funzioni» del narrare di alcuni scrittori (da Primo Levi a Leonardo Sciascia) con una “chiave di lettura” (critico-ermeneutica) intesa essenzialmente a identificare e definire la tipologia della scrittura, la particolare cifra stilistica, la sintassi narrativa, la struttura compositiva, la costruzione dei personaggi, la scelta del linguaggio. In questa procedura d’analisi rientra anche il lavoro, presentato al Convegno internazionale di Berlino e pubblicato in lingua tedesca a Stoccarda, sulla formalizzazione letteraria di alcune tematiche storico-sociali contemporanee, a partire dalla dissacrazione del potere omologante e dalla critica ai sistemi della comunicazione nel Pasolini dei primi anni Settanta. Nella parte finale del libro, colloca alcuni scritti lungo un percorso diacronico per scandire le varie fasi di un organico complesso di riflessioni, osservazioni e proposte critico-metodologiche, che altrimenti sarebbero rimaste collegate alle diverse occasioni, dalle quali nel corso del tempo furono stimolate e provocate. Questi interventi, proprio perché non marginali e irrelati, riescono a raccordarsi all’insieme del volume, costituendone preziosi segmenti, indispensabili alla continuità e all’unità del discorso ermeneutico.

Con Sterminate eredità. La letteratura del Mezzogiorno d’Italia dal Cinquecento al Settecento (2002) comincia un appassionato recupero, su basi rigorosamente scientifiche, della civiltà culturale del Mezzogiorno d’Italia: il titolo deriva dalla diversa combinazione di due sintagmi vichiani: «sterminata antichità» (Scienza nuova [1744], capoverso 45) – in parte ripreso da Paolo Rossi per il suo fondamentale studio del 1969 – e «giacenti eredità» (ivi, capov. 1036), inserito nel contesto della geniale intuizione sulla natura «tutta poetica» dell’antica giurisprudenza, «la quale fingeva... i morti vivere nelle loro giacenti eredità». Basandosi soprattutto su quest’ultimo concetto, la nuova espressione, «sterminate eredità», a cui non è estranea una sottile intenzione provocatoria per il suo implicito richiamo alla giusta valorizzazione dei caratteri esemplari della cultura meridionale, indica significativamente le polarità ispirative e le coordinate essenziali del libro. Granese porta, quindi, alla luce, con un nuovo e più rigoroso percorso ermeneutico, i momenti cruciali e le figure emblematiche della civiltà letteraria meridionale, collegandoli in una fitta trama di rapporti italiani ed europei, e soprattutto inserendoli nel quadro organico della loro continuità e identità. Dalle sue complesse e variegate indagini testuali affiorano progressivamente non solo inesauribili ricchezze culturali accumulate nel corso di un lungo e difficile cammino storico, ma anche sconfinate potenzialità di un’alta e originale funzione paradigmatica. Nei capitoli iniziali, ripercorrendo alcuni significativi momenti della civiltà letteraria dalla fine del Quattrocento ai primi anni del secolo XVIII, accerta e, per certi versi, conferma la peculiare identità dell’Umanesimo e del Rinascimento meridionali: a partire da Masuccio Salernitano ai Gaurico, Pomponio e Luca, all’esperienza poetica di Bernardo Tasso, fino ad alcuni poeti poco noti (come Girolamo Britonio e Giovan Girolamo Acquaviva d’Aragona), ma innovativi e singolari nella cultura meridionale, Granese pone le premesse per studiare anche la produzione “minore” del Seicento, ricca e variegata, tra cui spiccano le opere di Fabrizio Pinto e Tommaso Gaudiosi, e del primo Settecento, con le rime di Gherardo degli Angioli (De Angelis), amico e discepolo di Vico.

Il recupero della cultura del Mezzogiorno d’Italia trova una temporanea conclusione nel libro immediatamente successivo, Le occasioni del Sud. Civiltà letteraria dall’Ottocento al Novecento (2003). Va subito osservato che le «occasioni» sono anche quelle personali di Granese: interne spinte emotive e/o consapevoli sollecitazioni intellettuali che si manifestano non direttamente, ma si oggettivano nelle concrete scansioni e negli snodi dinamici del discorso critico, che consentono di accentuare la densità delle situazioni e l’intensità dei profili. La ricchezza e la novità della sua indagine rivelano, nelle strutture compositive delle opere e nelle riflessioni teoriche degli autori, inattesi collegamenti e soprattutto la sorprendente duplice funzione di essere cifre dell’inquieto presente e inquietanti premonizioni del futuro. Si crea così, naturalmente, una cornice interna, che, oltre a costituire un ininterrotto filo conduttore attraverso il tempo, scandisce i ritmi di un variegato percorso euristico lungo sentieri letterari meno frequentati e scoperti, più eccentrici e nascosti. Da questa serie organica di studi su alcune significative opere emergono la specificità della loro cifra stilistica, la sintassi narrativa e poetica, la scelta del linguaggio; in particolare: la prestigiosa attività giornalistica di Matilde Serao nell’ambito della letteratura di viaggio “fin de siècle” e del mondo magico-rituale napoletano; il tragico, comune destino di alcuni intellettuali meridionali e di Piero Gobetti; l’archetipo eschileo, impersonato da Oreste, attualizzato nel mondo moderno dalla poesia di Quasimodo; la tensione libertaria e l’ardito sperimentalismo di Alfonso Gatto; la narrativa degli scrittori “selvaggi” tra lingua e dialetto; il suggestivo intreccio dell’ispirazione religiosa e della tensione civile con la ricerca letteraria nei poeti del Sud.

Si inserisce, a questo punto della produzione di Granese, con il recupero di alcuni spunti sparsi in Divina Libertà, una direzione di ricerca organicamente collegata ai lavori sulla letteratura tra fine Settecento e inizio Ottocento, in cui più volte è richiamata l’ideologia politica foscoliana. Di qui ha origine la monografia, Ugo Foscolo. Tra le folgori e la notte (2004): i suggestivi richiami analogici tra il titolo e i versi in epigrafe di Shakespeare costituiscono l’illuminante metafora delle esperienze umane e poetiche di Foscolo. «Tra le folgori e la notte», prelievo da una sua tragedia, Ajace (II i 47), è, infatti, un’espressione che, letta in controluce, sembra alludere alle tormentate vicende esistenziali del poeta. Secondo un’intuizione di Granese, i versi, tratti dal Macbeth («Give sorrow words: the grief that does not speak / Whispers the o’erfraught heart and bids it break», IV iii 209-210), parzialmente citati da Foscolo nell’articolo On Hamlet – ora nel volume decimo, p. 588, dell’Edizione Nazionale delle Opere – e collegati nel ricordo a un’osservazione di Seneca («curae leves loquuntur, ingentes stupent», Hyppolytus, 606), incosapevolmente rivelano per fulminea associazione strati profondi del suo mondo interiore.

Il libro attraversa ‘tutta’ la ricca e varia produzione letteraria foscoliana con un rigoroso metodo di lavoro, che – fin dall’iniziale contestualizzazione storica di ogni singola fase compositiva del poeta – intreccia la memoria della tradizione critica e delle più recenti proposte ermeneutiche con i suggerimenti di nuovi percorsi euristici. Un ampio apparato esegetico, tramato di rinvii alle fonti, di osservazioni linguistiche e interventi nel “conflitto” delle interpretazioni, sottende alla “lettura” delle opere, condotta con puntuale aderenza al loro tessuto verbale e con assoluta essenzialità di scrittura. Pertanto, le composizioni giovanili, i tentativi di narrativa sperimentale, il romanzo epistolare, le liriche della maturità (odi, sonetti, carme), i frammenti del poema incompiuto, le traduzioni (Omero, Sterne), i saggi critici (Dante, Petrarca, Boccaccio) sono analizzati non solo rilevandone strutture essenziali e temi principali, ma anche in rapporto alla storia editoriale, alla genesi, alla cultura coeva e alle vicende biografiche del poeta, le cui tappe fondamentali vanno dall’impegno politico-militare, soprattutto negli anni giovanili, al periodo dell’esilio, prima in Svizzera e poi in Inghilterra.

Come momento esemplare della tensione interpretativa di Granese vanno almeno menzionate le conclusioni della sua esegesi ai Sepolcri, soprattutto quando sostiene che il carme, prevedendo, nella sua forma di epistola, un destinatario, in quanto si rivolge a un sia pure assente interlocutore, presenta un processo dialettico e quindi anche una struttura argomentativa, finalizzata, attraverso ampi quadri storici, a saldare la visione “privata” del sepolcro a quella di ordine più propriamente pubblico. Questa complessa struttura, infatti, si sostanzia, a livello intertestuale, di una complessa rete di riferimenti, a volte, esplicitamente citati, altre, finemente allusi, secondo una coerente applicazione della poetica classicista dell’imitatio, a partire dai molteplici rinvii mitologici (ad esempio, i miti di Elettra e di Aiace) e da una serie di immagini tipicamente classiche (come le ore danzanti, la Speranza ultima dea). Risultano fondamentali, inoltre, la presenza di Omero, per la personale e originale assimilazione del suo linguaggio epico, e la rilettura – fatta alla luce della Scienza Nuova di Giambattista Vico – dei poeti antichi, intesi come espressioni delle grandi civiltà del passato e creatori di eroi, divenuti «universali fantastici», ancora vivi e attuali. Nell’ambito della tradizione greca, si avverte l’ascendenza e di Pindaro e di Callimaco; ma è particolarmente il De rerum natura di Lucrezio – per quanto concerne quella latina, in cui rientrano anche Virgilio e Catullo, Properzio e il Lucano del Bellum civile – a esercitare un’auctoritas, poetica e filosofica insieme, sulla composita elaborazione del carme, dal momento che gli antichi scrittori rappresentano, per il vitale classicismo foscoliano, non solo dei modelli letterari, ma i valori stessi, religiosi, etici e sociali della civiltà umana. La letteratura italiana, medievale, rinascimentale (Dante, Petrarca, i lirici del Cinquecento, Tasso) e moderna (Parini, Alfieri, Monti, Pindemonte), i poeti sepolcrali inglesi ed Ossian (ma l’elenco potrebbe allargarsi a Delille e a Legouvé) completano il composito quadro dei richiami letterari.

Di tutta questa ricca e variegata tessitura intertestuale, nei versi dei Sepolcri, non rimane, a giudizio di Granese, alcuna scoria; tutto viene genialmente assorbito e bruciato nel «mirabile» e nel «passionato» della sublime poesia foscoliana. Come ha osservato lo stesso poeta, ogni verso ha una sua «melodia» e ciascun periodo è retto da una propria «armonia», per cui la complessa struttura semantica e la composita tessitura metrico-ritmica, con l’inconfondibile misura e l’originale accentazione degli endecasillabi, sono tali che nessuna approfondita indagine potrebbe svelarne il segreto: resta intatta, con il suo inesauribile “mistero”, la sublime intensità lirica con cui Foscolo, a volo d’aquila, in poco meno di trecento versi, ha attraversato tutta la storia dell’umanità, creando un esempio imperituro di «liberal carme». Sulla base di queste, come di altre interessanti osservazioni, l’impianto monografico del lavoro di Granese si presenta complessivamente come un’armonica costruzione testuale, fondamentale in un libro che, nelle sue intenzioni, deve contribuire alla”visione globale” di un’esperienza umana e poetica tra le più complesse e affascinanti della moderna civiltà europea.

Diverso l’oggetto di studio di una successiva raccolta di saggi, il cui titolo, l’emistichio tratto da un sonetto tassiano, Le «stelle erranti», e il verso di Georg Trakl in epigrafe («Wie scheint doch alles Werdende so krank») emblematizzano le linee eccentriche che attraversano, come segnala il sottotitolo, Manieristi e moderni nella letteratura italiana (2005). Granese mette sulla scena della scrittura tenebrosi orrori nel tramonto del Rinascimento (Tasso e Marino), esilaranti virtuosismi verbali di un estroso scienziato (Della Porta), tensioni epiche di un geniale filosofo (Vico) modulate sulla tradizione lirica italiana (Petrarca), singolari letture novecentesche con finale palinodia di due tra i maggiori poeti del primo Ottocento (Monti e Foscolo), profane storie in pastiche trecentesco in piena egemonia del Naturalismo (Fleres), sintomatici indizi premonitori nei “cartoni” preparatori di un celebre romanzo (d’Annunzio), eventi esistenziali visti (e raccontati) con sorprendente “occhio” filmico (Serao), quando il cinema non era ancora l’arte del Ventesimo secolo. Dall’intricata texture emergono figure e codici epocali, esplorati da Granese con variegata e complessa ermeneutica, in cui ai tradizionali strumenti esegetici (storico-letterari, filologico-linguistici, metrico-stilistici) si alternano indagini intertestuali, analisi variantistiche e percorsi euristici à rebours.

Facendo riferimento ad almeno alcuni di questi saggi, nel lavoro su amore e morte durante l’autunno del Rinascimento, protagonista è il Tasso lirico, che compiange, insieme con tutta la città di Napoli, sullo sfondo di un cupo affresco prebarocco, la tragica sorte di due “nobilissimi” amanti, violentemente oltraggiati in una sinistra e tenebrosa notte. Granese rileva che queste composizioni sono sapientemente tramate con sintagmi contrastivi, che esaltano e conferiscono una netta preminenza all’area semantica del lutto e del dolore, con il nero al vertice della scala cromatica, per cui è proprio la strumentazione linguistica ed espressiva che consente al poeta di far celebrare alla Morte, assisa sul carro funebre, il suo trionfo. Nello studio sulle poesie di Vico, in particolare sulla canzone dedicata a Massimiliano II Emanuele, elettore di Baviera, governatore imperiale nei Paesi Bassi spagnoli, individua, attraverso un’approfondita analisi intertestuale, la sostituzione, operata dall’autore della Scienza Nuova, dell’Amore e della Bellezza di Laura nelle canzoni 71, 72 e 73 dei Rerum Vulgarium Fragmenta, con la Virtù e la Potenza del valoroso guerriero, essendo il loro vero e unico punto di convergenza nella luce: come nelle cosiddette tre “sorelle” di Petrarca, in cui si lodano gli occhi di Laura, trattandosi dell’organo della vista domina la luce, così, nell’encomio di Massimiliano, il condottiero e il suo cantore sono investiti dalla stessa Luce superiore. Per Granese, è la dimensione luminosa, quindi, a collegare il trittico elogiativo petrarchesco con quello celebrativo vichiano: nell’uno, la luce spirituale, che si manifesta negli occhi della donna; nell’altro, la luce metafisica, che guida la Ragione dell’eroe e ispira la mente del poeta. Così pure, con un ampio saggio illumina l’opera più celebre del Monti “romano”, la Bassvilliana, definita drasticamente il poema della “reazione” italiana, ritenendo, invece, di non sottovalutare la giustificazione di tipo “storicistico”, data da Foscolo nell’Esame su le accuse contro Vincenzo Monti, perché l’opera montiana, il cui successo si dovette anzitutto alle grandi attese degli intellettuali moderati per il suo contenuto ideologico, fu la ‘prima’, di ampie dimensioni, completamente dedicata a vicende politiche contemporanee di assoluta centralità e assolutamente coinvolgenti, composta dal poeta non tanto per opportunismo di cortigiano, quanto per provare l’orchestrazione di una “macchina” di preminente costruzione retorica, alla quale affidare il suo prestigio e la sua fama di artista “senza pari”.

L’altro libro, I campanili di Martinville. Debenedetti tra progetto e destino (2007), è, ancora una volta, una solida monografia di raffinata impostazione teorica, letteraria e soprattutto filosofica, sull’originale saggistica debenedettiana, rigorosamente ricostruita attraverso le ascendenze psicoanalitiche e filosofiche, da Freud e Jung a Bergson e Husserl, le suggestioni letterarie, da Montaigne e Proust a Saba e Svevo, il paradigma ermeneutico, da De Sanctis a Serra. Il volume è dedicato “Alla memoria di Giacomo Debenedetti in occasione dei quarant’anni dalla sua morte (1967-2007)” e “Alla memoria di Renata Debenedetti con la nostalgia dei primi anni Settanta del secolo scorso, quando la sua generosa ospitalità mi permise di ‘vivere’ per lunghi periodi tra i libri e i celebri quaderni, ancora inediti, dell’indimenticabile mio maestro”. Granese rileva in Debenedetti non tanto un “racconto critico”, secondo la nota definizione di Edoardo Sanguineti, ma una vera e propria “drammaturgia critica”, che da involontaria avventura della memoria, imprevedibile viaggio verso il mondo della vita e ininterrotta disponibilità a fondere orizzonti di lontani destini, anche attraverso inattesi precorrimenti di nuove correnti di pensiero e di avanguardistici sperimentalismi espressivi, finisce per rivelarsi fatale metafora di un segreto mito personale.

Convinto che l’ermeneutica debenedettiana aveva un’ascendenza filosofica molto ampia e al tempo stesso coerente e rigorosa, spesso trascurata o sottovalutata dai suoi critici, ne traccia il percorso, a partire dall’idea di fondo secondo cui il raffinato e acuto saggista aveva frequentato le maggiori correnti del pensiero moderno sempre da un versante tutto personale, con parametri di approccio suggeritigli dal suo bergsonismo vitale e organico. Le Weltanschauungen, essenzialmente fondate sul dualismo dialettico interagiscono con l’animus bergsoniano di Debenedetti, che ne privilegia, in modo particolare, proprio quegli aspetti sentiti più affini e congeniali; pertanto, la permanenza di questo animus, nonostante l’assimilazione della psicoanalisi e successivamente della fenomenologia, induce Granese a ritenere che egli si era avvicinato a ben precise correnti del pensiero moderno proprio a causa del suo originario bergsonismo e che le traduceva in praxis critico-letteraria con parametri euristici squisitamente bergsoniani e proustiani. Il titolo del libro, infatti, rinvia a Proust, perché, secondo Debenedetti, come al giovane Marcel, il protagonista della Recherche, si presentano i famosi campanili di Martinville per svelare la loro anima segreta, così anche al critico si deve rivelare l’opera d’arte, deve cioè epifanizzarsi: in questo senso, l’operazione critica è una ricerca du temps perdu e, a livello fenomenologico, un “disoccultamento”.

Il problema della scissione del soggetto, il recupero della sua totalità, la demistificazione delle illusorie sovrastrutture, che alterano o occultano il senso profondo del reale, sono i centri focali di tutta la concezione antropologica debenedettiana. Di qui il quadro delle ascendenze individuato da Granese: la classica distinzione della Traumdeutung freudiana tra contenuto latente e contenuto manifesto, e dunque la distinzione fondamentale della psicoanalisi tra Es ed Ich, implicante la polarità libido / coscienza; l’Ichspaltung junghiana, ossia la divisione del soggetto tra “persona”, la maschera esteriore che si assume nei rapporti sociali, e io profondo (da Debenedetti più volte ricordata, insieme con la tipologia psicologica introverso / estroverso); la dialettica tra struttura economica e sovrastruttura ideologica della filosofia marxiana; la differenziazione husserliana tra descrizione naturalistica e descrizione fenomenologica, che permette di carpire le “donazioni di senso” del reale, e quindi Lebenswelt / costruzioni categoriali. Sono queste le polarità che richiamano analogicamente il dualismo bergsoniano profondeur / surface, duré / spazio, in cui il momento designato dal secondo termine del binomio deriva dal primo, ma finisce per occultarlo e camuffarlo, e richiede, pertanto, un’operazione ermeneutica per imprimere un’inversione al processo mistificante e recuperare, al di là dell’opaca apparenza, il senso nascosto e, quindi, il valore e il Telos della realtà umana. Secondo Granese, prescindere da questi elementi basilari significa non comprendere compiutamente alcune eccezionali e irripetibili interpretazioni debenedettiane: si spiega in tal modo la ragione di avere privilegiato di tutto il denso lavoro, non tanto il discorso più strettamente letterario, ma, almeno in parte e per rapida sintesi, la componente filosofica, la meno scoperta e la più emarginata.

Comincia un particolare interesse per il mondo classico, che si manifesta in numerosi interventi critici soprattutto sui rapporti della cultura greca con la Modernità. Il punto di partenza è una spericolata avventura letteraria: in Omero, «Odissea» (2007), Granese, infatti, non fa altro che delibare e raccontarsi il poema in assoluto più amato fin dagli anni dell’adolescenza: compie, insomma, un atto d’amore. Illudendosi di non tradire l’ispirazione originaria, parafrasa, traduce, ridice il poema in una durata cronologica compatibile con le impazienti esigenze del lettore contemporaneo, selezionando e collegando gli episodi più significativi per dare linearità e scorrevolezza alle sequenze narrative. Non si esclude qualche novità: ad esempio, i tempi verbali misti e gli inserti di versioni libere dei versi greci riescono non solo a esaltare i momenti più intensamente poetici, ma, imprimendo movimento alla scrittura, anche a costruire un variegato tessuto testuale, che immediatamente suscita attenzione e interesse. Fondamentale, ai fini di una maggiore chiarezza rappresentativa, è l’articolazione del testo in segmenti diacronici, che, pur essendo funzionali alle diverse fasi diegetiche di ogni singolo evento, costituiscono delle microstrutture autonome e intrinsecamente unitarie.

Anche il libro, uscito nel 2009, Le tracce nel testo. Esperienze letterarie tra due milleni, rientra in questa singolare disponibilità ‘amatoriale’ a dedicarsi, in tal caso,  alla produzione letteraria di amici, esercitando la sua scrittura, attraverso l’esplorazione di alcune «esperienze letterarie» tra gli ultimi anni del Millenovecento e i primi del Duemila, sugli aspetti più difficili e rischiosi della critica militante che, nel “prendere posizione sul presente”, non si lascia attrarre dai circuiti mediatici dominanti delle grandi case editrici e delle organicamente connesse cordate giornalistiche. Se le prime due sezioni riguardano le “ricerche” di poesia e le “prove” di racconto, le ultime sono prevalentemente “inviti” alla lettura e soprattutto personali ricordi di “civili” scritture, in cui Granese traccia il profilo intellettuale di colleghi universitari, a lui in passato legati per stima e affetto. Primo tra tutti, un altro dei suoi maestri, Gioacchino Paparelli, di cui ricostruisce non la produzione scientifica e accademica, ma la variegata gamma delle sue prose giornalistiche, in cui, secondo il riconoscente allievo, maggiormente balzano in primo piano non solo le sue esperienze esistenziali e intellettuali, ma soprattutto il polifonico e rapido alternarsi di vari e diversi registri espressivi: meramente informativo, ironico-umoristico, lirico-visionario. Evoca, inoltre, la fondazione della rivista «Misure Critiche» (1972), in un periodo intenso ed entusiasmante, in cui, proprio per suggerimento di Paparelli e per suggestione del suo relativismo metodologico ed ermeneutico, inizia lo studio preparatorio della monografia su Debenedetti. Negli anni Settanta del secolo scorso, gli interventi giornalistici paparelliani di critica militante presentano, secondo la radicata convinzione di Granese, un’inconfondibile cifra stilistica, venata di superiore e sottile ironia nei confronti dell’oggetto delle sue attenzioni, un’innata capacità di comunicare in un linguaggio di elegante semplicità e di illuminante chiarezza, un modo o, per meglio dire, un costume assolutamente ‘laico’, un’etica di lettura della sfuggente complessità del reale, attraverso i prodotti artistici e letterari dell’ingegno umano.

L’infatuazione omerica, l’insistente interesse per il mondo classico e soprattutto i suoi rapporti con la civiltà moderna trovano finalmente il loro naturale punto di approdo nelle quattrocento pagine del corposo volume uscito nel 2010, Menzogne simili al vero. Epifanie del Moderno: il mito, il sacro, il tragico, pubblicato nell’ambito di un progetto di ricerca di interesse nazionale (“Il mito, il sacro e la storia nella tragedia e nella riflessione teorica sul tragico”), con dedica alla moglie di Granese, deceduta nel 2009, che si trascrive, per sua espressa volontà: “A Virella, tenera e radiosa luce sempre viva nella memoria, alla sua rara sensibilità nel capire le ragioni degli altri, al vitale entusiasmo, che sapeva infondere nella sua forte passione civile, al suo appassionato e generoso lavoro per la crescita culturale della nostra comunità”. Il libro, che presenta in evidenza alcuni versi della poesia, Mito, tratti da Lavorare stanca di Cesare Pavese, e una riproduzione della Médée di Eugène Delacroix, si apre con la “lectura” del canto XIV del Paradiso, ben corredata di riferimenti scientificamente controllati e motivati, in cui Granese appare particolarmente attratto dalla sua dimensione creaturale, di portata straordinaria nella storia dell’umanità, ancora attuale e presente nella sensibilità contemporanea: il disio e la resurrezione dei corpi, gli affetti terreni degli Spiriti Sapienti nel cielo del Sole, esaltati dal poeta nei versi 43-66. Sarà, infatti, il corpus gloriosum, la carne glorïosa e santa, a ricostruire l’integrità della persona umana, e sarà la sua unità ad accrescerne la perfezione e, di conseguenza, ad aumentare la grazia illuminante, quel dono gratuito che, permettendo di vedere e intendere meglio il Sommo Bene divino, accrescerà l’ardore di carità e, quindi, lo splendore luminoso della persona umana, ormai eternamente ricostituita nella beatitudine del Paradiso.

Dopo questo omaggio a Dante, una parte consistente del volume sviluppa un lungo e approfondito discorso sui miti ellenici, che si presentano alla sensibilità culturale moderna, nelle sue riscritture e nelle sue autorappresentazioni, come le radici stesse, oscure e inestirpabili, della nostra civiltà, trasmessi da una lingua di assoluta fascinazione, come la lingua greca, dalla grande poesia omerica e dai poeti tragici: per Granese, sono cellule primarie, atomi di racconto, fasci di relazione, dotati di interna coerenza, di capacità combinatorie e polisemiche, essendo connotati da forte energia emotiva, tale da incidere sugli strati abissali della psiche e da sollecitare l’immaginario collettivo, soprattutto attraverso l’abilità affabulatrice del narratore in grado di risvegliarne e rivitalizzarne gli archetipi profondi. Tuttavia, il dato fondamentale, che caratterizza i più significativi recuperi dei miti nella Modernità, è la tendenza ad andare oltre i testi poetici della tradizione greco-romana e a ricollegarsi direttamente alla loro fonte archetipica, poiché si avverte la struttura letteraria classica come una delle varianti possibili del racconto mitico, anzi come una variabile, per così dire, “censurata”, e soprattutto ispirata alla vittoria definitiva degli dei olimpici che, già dall’ottavo secolo avanti Cristo, popolano i poemi omerici. La tendenza, rilevata da Granese, è, dunque, quella di evocare le divinità preolimpiche, gli eroi di un mondo arcaico e primitivo: il mito, insomma, nella sua scaturigine ancestrale, prima ancora che sia diventato letteratura.

Di qui l’analisi, in un saggio di ampie dimensioni, del mito di Medea attraverso il tempo – dalle fonti preuripidee a Euripide e a Seneca, da Grillparzer ad Alvaro, alle versioni cinematografiche di Pasolini e di Lars von Trier –, in cui Granese rileva che l’ ”intellettualismo” del tragico greco non esclude un’acuta esplorazione delle passioni e un altrettanto senso della crisi del Logos, poiché la sua Medea è un’eroina non dissociata tra passione e ragione, essendo in lei la spinta passionale a guidare e dominare i suoi lucidi piani d’azione, mentre il messaggio pasoliniano, nella costruzione filmica del versante intimo della protagonista, esclude il conflitto tra amore materno e vendetta omicida: l’infanticidio è, infatti, provocato dalla diversità culturale della donna “barbara”, dalla perdita delle sue radici, dalla non integrazione nella civiltà greca, dalla mancanza di quell’“eros”, che in lei aveva sostituito il “sacro” del suo mondo arcaico. Pertanto, il mito di Medea diventa allegoria dell’ineluttabilità ontologica della sofferenza, vissuta nella solitudine più assoluta: la conclusione completamente inattesa, a cui giunge Granese, è che a esprimerla cinematograficamente in maniera mirabile è non tanto Pasolini, quanto Lars von Trier, che ha dato al suo capolavoro non solo uno spessore moderno, ma – facendolo assurgere a metafora dell’umana esistenza, dominata dalle forze primigenie della natura – anche e soprattutto una dimensione metafisica di valore universale. Il regista danese, al di là delle divisioni per generi, è, quindi, considerato tout court uno dei più geniali artisti del nostro tempo ed è tra i massimi interpreti della Modernità.

L’attenzione per il mondo omerico e la passione per l’arte cinematografica trovano in Granese il loro punto di incontro nell’analisi comparativa, collocata non a caso a centro del libro, tra un romanzo di Alberto Moravia, Il disprezzo, i cui protagonisti devono girare un film sull’Odissea, da loro variamente interpretata, e la sua versione cinematografica, Le mépris, realizzata da Jean-Luc Godard. Di un episodio del film, da lui considerato un vero e proprio manuale di storia del cinema, una “summa” degli stilemi della nouvelle vague e in particolare dell’arte godardiana, esibisce un’illustrazione in termini rigorosamente tecnici, che è opportuno ripercorrere in sintesi, perché coglie una delle componenti più interessanti della sua poliedrica sensibilità culturale: dominio assoluto del piano-sequenza, con relativa riduzione al minimo degli stacchi, tipici del découpage classico, con campi e controcampi; uso costante dell’inquadratura fissa, della panoramica e del carrello, su cui la macchina da presa segue e insegue i personaggi nei loro movimenti; libertà degli spostamenti e della stessa recitazione degli attori, spesso improvvisata e sciolta dai vincoli della sceneggiatura; banalità da routine delle loro azioni, casualità degli eventi e della conversazione, con discorsi spesso franti e inconcludenti; ripetizioni delle stesse frasi; e, ancora, sempre sul piano del linguaggio filmico, movimento oscillatorio e pendolare della macchina da presa mobile, allo scopo di ridurre l’opera di montaggio; immagini che spezzano la normale e verisimile concatenazione diegetica con inserti spazio-temporali in flash-back di analessi e prolessi, che si susseguono rapidamente – secondo l’idea bergsoniana del tempo come durée – e presentificano per inconscia associazione microeventi già accaduti e che devono accadere, ma tali da interrompere con effetti di Verfremdung l’illusione realistica della scena rappresentata.

Un tipo di analisi questa già sperimentata, all’inizio della seconda parte del volume, nel più veloce confronto tra Der Tod in Venedig di Thomas Mann, un romanzo con cospicui e suggestivi riferimenti all’idea di Bello del mondo ellenico, e Morte a Venezia di Luchino Visconti. L’indagine di Granese, infatti, dopo una serie di significativi raffronti testuali tra le tragedie greche e le versioni “creative” moderne – sulla base della concezione di Walter Benjamin del tradurre come atto di comunicazione tra due culture – e un’esplorazione delle riscritture novecentesche di personaggi tragici esemplari (Edipo, Oreste, Antigone, Fedra), da Hofmannsthal a Brecht, da Gide ad Anouilh, da O’Neill alla Yourcenar, culmina proprio con un’interpretazione globale, attraverso lo studio dell’originale tedesco in rapporto alle fonti greche (Platone, Senofonte, Plutarco), di Der Tod in Venedig, considerata opera esemplare per l’originalità nella raffigurazione dell’archetipo mitico e la rivitalizzazione del classico antico. Così pure, non sul film, mai realizzato, ma sul romanzo-sceneggiatura del San Paolo di Pasolini – con continui richiami agli scritti “corsari” e “luterani” sul Potere “senza volto” e il Processo al Palazzo degli intrighi, lontano dai bisogni reali del Paese – si concentra un tipo di ricerca contestuale, nel senso che è attenta non solo a rilevare come la morte violenta di Paolo di Tarso, suo alter-ego, sia premonitrice della tragica fine del poeta, ma anche a confrontare l’opera pasoliniana con i romanzi degli anni Settanta del Novecento, ambientati in epoche lontanissime nel tempo, per dare uno spessore metaforico al mondo contemporaneo, ricostruendone una dimensione speculare in chiave allegorica. Secondo Granese, chi ribalta questa impostazione, poiché colloca nella situazione attuale l’antica vicenda dell’apostolo e le conferisce un valore simbolico di portata universale, è solo Pasolini con il San Paolo, in cui le storie di violenza, narrate in quei romanzi, si fondono in modo nuovo e originalissimo con le violenze della storia.

Affrontando poi, nelle pagine conclusive del libro, le Novelle della Pescara di d’Annunzio, ne individua gli aspetti tematici che si ritrovano nel Trionfo della Morte, e, in particolare, nella descrizione del pellegrinaggio al santuario di Casalbordino, in cui si realizza una profonda interrelazione tra violenza e idolatria (sacro). Granese, mettendo a fuoco questi dati fondamentali, con un inedito percorso euristico riesce, quindi, a dimostrare l’irrilevanza delle varianti tra le redazioni originarie, quasi sempre giornalistiche, di alcune novelle e i testi successivamente raccolti nei diversi volumi pubblicati dall’autore nell’arco di un ventennio, a partire proprio dal romanzo, uscito a puntate sul «Mattino» di Napoli. Così pure, discorrendo intorno al progetto teatrale, proposto, com’è noto, nel Fuoco, rileva che d’Annunzio già nella Rinascenza della tragedia aveva ideato, sull’esempio wagneriano, di riportare l’opera drammatica alla dimensione rituale delle sue origini, essendo la sola forma vitale con cui i poeti si manifestano al pubblico per offrirgli la rivelazione della Bellezza e comunicare i sogni eroici in grado di trasfigurare immediatamente la vita. Pertanto, sottolinea l’importanza di questo intervento, mettendone bene in primo piano la tesi programmatica: mito, rito ed eroismo si armonizzano nella visione dannunziana di un teatro che sappia risollevarsi alla dignità primitiva, infondendole l’antico spirito religioso, come appare nell’esordio drammaturgico dei Sogni con le innovazioni del loro linguaggio scenico.

Se l’accentuata presenza delle letterature del mondo ellenico-romano e di lingua non solo italiana contribuisce all’apertura europea di questi studi, in cui ininterrottamente l’Antico “parla” al Moderno, quando Granese si addentra in profondità nel mondo contemporaneo, inevitabilmente tocca la disciplina che più di tutte lo connota e lo rappresenta, la scienza, attraversandola, a fine libro, con Sinisgalli, di cui elegge a momento esemplare la sua «Civiltà delle macchine». La rivista, che non si rivolgeva solo agli intellettuali, ma a un pubblico di lettori attenti e interessati alle novità delle due culture, la scientifico-tecnologica e l’artistico-letteraria, si basava su un programma, implicante, certo, il rispetto della pagina scritta, ma finalizzato soprattutto alla chiarezza delle idee, tanto da presentare scritti rigorosi nelle diverse discipline, dalle traduzioni di Esiodo e di Lucrezio alle antologie dei poeti futuristi, dalle acute analisi delle teorie di Einstein e dai metodi per risolvere alcuni complessi problemi di alta meccanica alle applicazioni di statistica matematica all’industria. Scegliendo e privilegiando questa conclusione del volume, Granese ha verosimilmente voluto rendere, ancora una volta e attraverso un processo circolare nel tempo, un omaggio alla lezione del suo maestro, Giacomo Debenedetti, che riteneva – trasmettendo arte e scienza, pur nella diversità dei codici, lo stesso messaggio – ugualmente presenti l’ ”onda di probabilità” e il “principio di indeterminazione”, scoperto da Heisenberg, sia nella fisica del Novecento, sia nelle grandi scritture della Modernità.

L’aspetto più squisitamente letterario della prima parte del libro del 2015, Con pura passione. Dall’«itale glorie» di Foscolo all’«umile Italia» di Pasolini, è rivolto a indagare le strutture profonde e le forme espressive delle opere foscoliane, in un continuo scambio con il contesto socio-politico e con le coordinate culturali del tempo, sì che poesia e storia ricevono reciprocamente da questo tipo di analisi spessore, respiro e significato. Su questo sfondo Granese proietta eventi e personaggi: il riformismo illuministico e la rivoluzione napoletana del 1799, l’intensa attività politica degli esuli meridionali a Milano e la geniale e complessa personalità di Napoleone Bonaparte. Nell’«Intermezzo», pausa riflessiva al centro del libro, illumina, prima, il rapporto delle letterature occidentali moderne con le opere della civiltà greco-romana, a suo avviso, condizionato dalle autorappresentazioni e dalle autodefinizioni che la Modernità, attraverso l’insieme delle sue istituzioni, dà di se stessa, poi, l’idea della composizione poetica come partitura, che implica l’equazione pittura-poesia-musica, la corrispondenza sotterranea dei sensi, captata da Baudelaire, la sinestesia tra le arti, avvalorata da Rimbaud, la supremazia della musica anche nei versi e nei colori, sostenuta da Verlaine. Nella seconda sezione del volume, partendo da un’intuizione originale sull’amicizia “underground” di Moravia e Pasolini, Granese rileva che i personaggi di La ciociara subiscono la guerra, non la incontrano direttamente: Moravia non racconta particolari eventi bellici, ma i loro riflessi fisici, psichici ed etici, connotati da un’irreversibile profanazione della personalità umana, trasformandone o addirittura ribaltandone i comportamenti; pertanto, la guerra è considerata non in sé, ma in rapporto all’istruzione, all’educazione, alla cultura, o meglio in rapporto al loro uso. Interpreta, quindi, il “Discorso della Montagna” nel Vangelo secondo Matteo come una sorta di ‘specchio’ per una vita cristiana, che annunzia il suo evolversi, attraverso il ‘Testo-Cristo’, verso un’assoluta eticizzazione e una totale interiorizzazione dei suoi insegnamenti, che, per il Pasolini dei primi Anni Sessanta, piombano sul consumismo omologante della società industrializzata e neocapitalistica, sull’universo “orrendo” dell’alienazione contemporanea, sul suo fondamentale conformismo, tutti stigmatizzati come “infernali” nella Divina Mimesis, non rifacimento o riscrittura, com’è stata considerata, ma intelligente reinvenzione del senso autentico del messaggio dantesco della Commedia, colto nella sua essenziale profondità e calato nell’ambigua modernità. Non solo quest’opera va considerata, secondo Granese, il vero ‘testamento’ dell’autore, perché, a differenza del romanzo Petrolio, realmente uscito postumo, è l’ultima composizione scritta a cui ha personalmente dato il ‘si stampi’, imprimendovi, quindi, la volontà di aprirla alla fruizione del pubblico dei lettori, ma la sua produzione letteraria e cinematografica, complessivamente letta in un’ininterrotta, duplice componente, visionaria e storica, scopre anche e soprattutto un Pasolini che riesce a essere nello stesso tempo poeta di inquieta tensione conoscitiva e intellettuale civilmente impegnato.

La raccolta di saggi, «Per guisa d’orizzonte che rischiari». Florilegio degli scritti, ripubblicati nel 2015, con Introduzione, Un percorso intellettuale, di Rosa Giulio, a cura di Angelo Fàvaro e Carlo Santoli, ha inizio, in occasione dei 750 anni dalla nascita, da un omaggio a Dante: dal Paradiso (xiv 69) è tratto il luminoso e illuminante verso del titolo, «Per guisa d’orizzonte che rischiari». Segue un gruppo omogeneo di tre lavori, dall’autore definito il suo “asse” civile, su Giannone, nel contesto storico-culturale del contraddittorio rapporto tra intellettuale riformatore e despota illuminato, Vico, di cui dà una lettura “diversa” e in chiave dialettica, Pagano, “costruttore” dello stato repubblicano e insieme premonitore del fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Subito dopo, Alvaro e Quasimodo rispecchiano, per gli argomenti svolti, i suoi interessi di ricerca, rispettivamente, sul Potere e sul Tragico, mentre la Medea, da Euripide a Lars von Trier, e il romanzo-film di Moravia-Godard riflettono i suoi amori per il teatro e il cinema. Infine, altri due omaggi: a Pasolini, per i 40 anni dalla sua tragica morte, e a Debenedetti, con cui si è laureato, da lui sempre considerato il suo “maestro” di critica letteraria.

Nella monografia del 2016, Il metodo umano. Gramsci e Debenedetti: politica nazionale e cultura europea, Granese ricostruisce il pensiero di Antonio Gramsci iuxta propria principia, interpretandolo con parametri filologici e filosofici suggeriti dalla sua stessa opera, senza tentazioni volte a collocarlo pregiudizialmente in aree culturali costruite ad arte dagli scontri politici attuali o a dirottare l’attenzione dei lettori in zone marginali e sensazionali, ma irrilevanti, ai fini della comprensione, puntuale e rigorosa, dei suoi scritti. Facendo convergere due personalità, tra le più originali della cultura italiana del Novecento, indagate, in una prima fase, in maniera autonoma, ciascuno nei rispettivi ambiti e in undici punti essenziali, e recuperando un illuminante “discorso” tenuto nel 1947 da Giacomo Debenedetti sulle Lettere dal carcere, penetra nelle strutture profonde non solo della sua “drammaturgia” ermeneutica, ma anche negli snodi problematici del suo rapporto con l’eccezionale autore dei Quaderni del carcere. L’atto di “scambio” umano, emotivo e razionale, tra il più grande pensatore politico moderno e il più grande critico letterario della Modernità, rappresenta l’effettiva verifica dell’ipotesi euristica di Granese: i due profili, dopo il percorso analitico separato, alla luce della dialettica gramsciano-debenedettiana tra politica nazionale e cultura europea, si “incontrano”, fino a diventare speculari, pur nella loro profonda differenza e nel loro diverso destino.

In un profilo completo di Alberto Granese rientrano anche alcuni impegni a carattere scientifico, a cui si è costantemente dedicato nel tempo: l’attiva partecipazione a Convegni di studi nazionali e internazionali con propri contributi; la progettazione e organizzazione di Convegni, tra cui “Tasso e i Romantici”, “Leopardi e la cultura meridionale”; l’ideazione e la direzione del gruppo di ricerca (con finalità scientifiche e didattiche) del Corso di perfezionamento in “Letteratura, culture e linguaggi del Novecento in Italia”; la presenza, fin dalla fondazione, nel Comitato scientifico delle riviste «Misure Critiche» e «Sinestesie»; la direzione delle collane di saggi e testi “Civiltà letteraria italiana”, poi “Le civiltà letterarie”, dell’Edisud di Salerno e “Il cannocchiale rovesciato” delle edizioni Guida di Napoli. Ha, inoltre, rappresentato l’Università di Salerno nel Comitato Scientifico della “Fondazione Filiberto Menna. Centro Studi d’Arte Contemporanea” e del Cirleg – “Centro Interuniversitario di Ricerca Letteratura e Giornalismo. La terza pagina”. A tali impegni vanno anche aggiunti non solo il suo costante inserimento negli articolati programmi di ricerca sulla civiltà letteraria del secolo XVIII, svolti all’interno delle strutture accademiche salernitane (ivi compresa la sua attività di componente del Comitato di lettura per la pubblicazione di lavori filologici e letterari, finanziati con fondi universitari), ma anche il coordinamento scientifico, in qualità di Responsabile delle Unità di Ricerca, di diversi programmi interuniversitari di rilevante interesse nazionale: “Letteratura e istituzioni dalla crisi della cultura illuministica alle avanguardie del Novecento (storia, teoria, strumenti)”, con particolare riferimento alla “Circolazione delle idee e modelli letterari nell’Italia meridionale tra Settecento e Ottocento”; “Forme letterarie tra Ottocento e Novecento: dagli aspetti testuali in Campania alla narrativa dell’emigrazione transoceanica”, con il compito di individuare e raccogliere organicamente – attraverso un’articolata mappa di autori ottonovecenteschi – testi e manoscritti, in cui si rivela il fecondo e originale rapporto tra aspetti letterari e dati storico-regionali della Campania, stabilendo proficui contatti con diverse università italiane e straniere, in particolare con l’Università di Stony Brook (New York), sede del Center for Italian Studies, a cui fa capo «Forum Italicum», la più diffusa rivista di italianistica tra quelle pubblicate fuori dall’Italia; “Forme del romanzo storico in Campania dall’Ottocento al Novecento”, con il compito di indagare alcuni innovativi procedimenti diegetici, soprattutto dal punto di vista narratologico, stilistico e linguistico, per poter comprendere e descrivere le diverse forme assunte dal romanzo storico nel corso dei due secoli, nonché i reali percorsi diacronici, a cui gli autori si sono ispirati, al fine di verificare il contributo concreto della produzione narrativa alla maggiore conoscenza di un determinato e particolare momento della storia otto-novecentesca; “Il mito, il sacro e la storia nella tragedia e nella riflessione teorica sul tragico”, Convegno organizzato dall’Università di Salerno sulle opere tragiche in versi e in prosa che hanno drammatizzato un comune patrimonio di memorie e di conoscenze nelle forme del mito, del sacro e della storia, per contribuire a comprendere e interpretare gli aspetti fondamentali dell’epoca in cui sono state prodotte.

Nell’attività didattica Granese ha inteso sempre confrontare le coordinate della sua ricerca scientifica: i corsi delle discipline da lui insegnate sono stati tenuti sugli argomenti dei suoi lavori, con proficui risultati, perché il colloquio con gli allievi, lo scambio di idee, il dialogo continuo anche con linee di tendenza, che si andavano affermando in un dibattito nazionale non meramente accademico, gli davano la possibilità di verificare e discutere alcuni risultati di studio con profitto reciproco. Così pure, nelle tesi di laurea assegnate agli studenti ha cercato sempre di raccordare e armonizzare i loro personali interessi culturali con queste aree di ricerca per potere offrire un ottimale supporto scientifico e bibliografico al loro lavoro. Tali considerazioni guidavano anche i suoi criteri di valutazione e di giudizio (in qualità di componente e di presidente delle sedute di laurea) ed erano alla base del rapporto di assistenza e di orientamento con i laureandi nel corso della preparazione delle tesi, senza prescindere naturalmente dal saper cogliere e dallo stimolare con opportuni suggerimenti culturali e con solleciti incoraggiamenti quelli tra loro che manifestavano chiare attitudini alla ricerca scientifica. Per venire incontro a pronunciate esigenze di aggiornamento, soprattutto da parte delle giovani generazioni, oltre che di sofferta ricerca dei necessari collegamenti teorici, estetici e filosofici di qualsiasi discorso critico non semplicisticamente impressionistico, le esercitazioni sulle nuove metodologie e le teorie moderne della critica e della letteratura, da lui predisposte, si rivelavano proficue per orientare e indirizzare gli studenti verso la conoscenza di un panorama culturale quanto più storicamente ampio e sinteticamente organato. Gli è stato possibile conseguire tali risultati (e verificarli sia nel corso delle discussioni seminariali, sia nel dialogo e nel dibattito durante gli incontri con autori e critici che, nel quadro della programmazione accademica, erano  invitati dall’Ateneo salernitano), in base a un metodo di lavoro didattico che non giustapponeva meccanicisticamente le più diverse teorie critiche, ma le collegava costantemente al loro complesso contesto storico, esplicitandone le ragioni genetiche e seguendone la successiva evoluzione fino all’incontro e all’assorbimento in aree culturali diverse. Proponeva, pertanto, agli studenti una pratica di letture, finalizzate – in riferimento anche alle nuove disposizioni per le prove concorsuali – all’analisi e alla ridefinizione critica dei diversi registri stilistici nelle opere letterarie studiate e della loro tensione espressiva, anche al fine di indirizzarne la pratica di scrittura, educando le loro potenzialità comunicative non solo orali.

Alcuni raccordi interdisciplinari, di volta in volta da lui proposti, con le scienze umane (sociologia, antropologia, psicologia), con la filologia, la linguistica e la storia della lingua italiana si rivelavano stimolanti, nonché con altri linguaggi non strettamente verbali-letterari (iconici, visivi, musicali), contribuendo a dare ai giovani allievi l’idea precisa della letteratura come momento non irrelato, ma, pur nell’autonomia dei suoi peculiari statuti, parte di un processo e del circuito ben più ampio della comunicazione. Il suo impegno didattico, quindi, ben lungi dal ridursi in un momento meramente subordinato nel quadro del lavoro accademico, aveva sempre un taglio, un metodo, una spiegazione scientifica nel corso della sua esplicitazione, motivata dalle finalità del lavoro stesso, essenzialmente consistenti nel formare culturalmente e nel dotare di qualificati strumenti professionali giovani che, almeno fin quando non saranno delineati nuovi profili professionali, dovranno svolgere in maniera preponderante il ruolo di insegnanti, e quindi di formatori, nel contesto sociale. I risultati, quindi, raggiunti come Presidente della Commissione Didattica Paritetica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno e nell’ambito della docenza nelle Scuole di Specializzazione all’Insegnamento e nel Dottorato di Ricerca in Italianistica, soprattutto gli obiettivi conseguiti dal Corso di perfezionamento e aggiornamento professionale in “Letteratura, culture e linguaggi del Novecento in Italia”, da lui progettato e diretto, coordinando un gruppo di lavoro formato da professori di diverse discipline (dalla filosofia all’estetica, dalla storia alle lingue e letterature europee moderne, dalle arti visive a quelle dello spettacolo), rimarranno memorabilmente fondamentali per tante generazioni di laureati, dottori di ricerca, insegnanti medi e universitari, che gli sono ancora oggi grati e riconoscenti.

Bibliografia

Dalle pubblicazioni, elencate in ordine cronologico, sono esclusi tutti gli articoli, usciti su quotidiani, le numerose recensioni, presentazioni, introduzioni, postfazioni di libri di poesia, narrativa, saggistica, che, oltre a non essere agevolmente reperibili, sono stati sempre considerati dall’autore interventi occasionali, scritti per amici e colleghi, certamente con il dovuto rigore, ma privi di personali e autonome motivazioni scientifiche.

  • La critica antropologica di Giacomo Debenedetti (Dal «cauto omaggio» a Renato Serra al Vittorini a Cracovia), in «Misure Critiche», 3, 1972, pp. 1-42;
  • Da Wellek a Hirsch. Metodologie critiche negli Stati Uniti, in «Misure Critiche», 18, 1976, pp. 103-116;
  • La maschera e l’uomo. Saggio su Giacomo Debenedetti e la cultura europea del Novecento, Salerno, Palladio, 1976, pp. 390;
  • I Quaderni del carcere: dalla “convertibilità” come principio ermeneutico all’ “egemonia” come educazione reciproca all’autogoverno, in Politica e storia in Gramsci, Atti del Convegno Internazionale di Studi Gramsciani, Firenze, 9-11 dicembre cura dell’Istituto Gramsci e di F. Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1977, II, pp. 395-418;
  • Un lavoro critico ripassato “a contrappelo”, Atti del Seminario di Studi, Per Carlo Salinari, Salerno, 8 maggio cura dell’Istituto di Letteratura italiana, Università di Salerno, in «Misure Critiche», 30, 1979, pp. 133-141;
  • Parco Centrale. Critica letteraria e sociologia della produzione culturale, Napoli, Fratelli Conte, 1979, pp. 184;
  • Strategia dello scambio. Letteratura linguaggio critica e classi sociali, Salerno, Boccia, 1979, pp. 190;
  • La poetica del “cigno” nei cataloghi di Gatto, in Stratigrafia di un poeta: Alfonso Gatto, Atti del Convegno di Studi, Salerno–Maiori–Amalfi, 8-10 aprile cura di P. Borraro e F. D’Episcopo, Galatina, Congedo, 1980, pp. 231-242;
  • Segno Simbolo Sogno. Sulla critica letteraria, Napoli, Conte, 1982, pp. 294;
  • Struttura e personaggio nella narrativa dell’“ultimo” Palumbo, in Le stagioni di Nino Palumbo, a cura di S. Martelli, Foggia, Bastogi, 1983, pp. 269-287;
  • Gli ermetici e Pirandello: “campionario” Anni Trenta di Giacomo Debenedetti, in La cultura italiana negli anni ‘30-‘45 («Omaggio ad Alfonso Gatto»), Atti del Convegno di Studi, Salerno, 21-24 aprile cura dell’Università di Salerno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, I, pp. 431-462;
  • La leggenda del Nilo. L’immaginario e il sociale nella narrativa italiana degli Anni Settanta, Napoli, Fratelli Conte, 1984, pp. 295;
  • Integrazione e rivolta. Dittico per Debenedetti e Salinari, Salerno, Edisud, 1985, pp. 210;
  • Note su Giorgio Caproni, in «Misure Critiche», 55-57, 1985, pp. 125-132;
  • Ritorno alla “terra impareggiabile”: teatro, teatralizzazione e colore nell’opera di Quasimodo, in Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre, Atti del Convegno di Studi, Messina, 10-12 aprile cura di G. Finzi, Bari, Laterza, 1986, pp. 295-310;
  • La critica di Salinari tra avanguardie storiche e neoavanguardie degli anni Sessanta, in Atti del Simposio di Studi su Carlo Salinari, Matera-Montescaglioso, 6-7 aprile cura dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Matera, Matera, Edad, 1986, pp. 29-97;
  • Tracce poetiche degli Acquaviva d’Aragona dal tardo Rinascimento all’Arcadia, in Gli Acquaviva d’Aragona Duchi di Atri e Conti di S. Flaviano, Atti del VI Convegno di Studi, Teramo, Centro Abruzzese Ricerche Storiche, 1986, II, pp. 231-249;
  • La terra è di tutti di Mario Puccini tra “Bildungsroman” e romanzo storico, in Mario Puccini, due giornate di studio e di testimonianze, Atti del Convegno di Studi, Senigallia, 28-29 aprile cura di A. Antonietti, Comune di Senigallia, 1987;
  • Tracce poetiche degli Acquaviva d’Aragona dal tardo Rinascimento all’Arcadia, in Letteratura fra centro e periferia. Studi in memoria di Pasquale Alberto De Lisio, a cura di G. Paparelli e S. Martelli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987, pp. 439-461;
  • Le anamorfosi di Rimanelli. Testo, pre-testo e contesto del romanzo Graffiti, in «Misure Critiche» (Su/per Rimanelli), 65-67, 1988, pp. 168-215;
  • Melancolia e allegoria nella poesia dialettale di Albino Pierro, in Il transito del vento: il mondo e la poesia di Albino Pierro, Atti del Convegno di Studi, Salerno, 1-4 ottobre cura di R. Meccia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989, pp. 141-200;
  • L’invisibilità dell’evidenza nelle inchieste del commissario Sciascia, in Humanitas e Poesia. Studi in onore di Gioacchino Paparelli, a cura di L. Reina, Salerno, Laveglia, 1990, II, pp. 1099-1118;
  • Sociologia della letteratura. La produzione culturale nella società di massa, Salerno, Edisud, 1990, pp. 304;
  • La critica come dramma, mito personale di un ingegnoso nemico di se stesso, in Il Novecento di Debenedetti, Atti del Convegno di Studi, Roma, 1-3 dicembre cura di R. Tordi, Milano, Mondadori, 1991, pp. 207-215;
  • Il labirinto delle analisi infinite. L’interpretazione delle strutture profonde nel testo letterario, Salerno, Edisud, 1991, pp. 350;
  • L’aquila e il poeta. Ricerche e studi di letteratura italiana, Salerno, Edisud, 1991, pp. 380;
  • Introduzione e Conclusioni, in I Gaurico e il Rinascimento meridionale, Atti del Convegno di Studi, Montecorvino Rovella, 10-12 aprile cura di A. Granese, S. Martelli, E. Spinelli, Salerno, Centro Studi sull’Umanesimo Meridionale, 1992, pp. 581: vii-viii, 547-549;
  • L’universo scheggiato di Albino Pierro, in «Filologia antica e moderna» (Per Pierro), 3, 1992, pp. 69-90;
  • La cultura italiana del Settecento, Salerno, Gentile, 1993, pp. 340;
  • La “cornice” nel sistema tragico di Vittorio Alfieri, Salerno, Edisud, 1993, pp. 280;
  • Il talismano dell’esule e la poesia di Alien Cantica, introduzione a G. Rimanelli, Alien Cantica. An American Journey (1964-1993), con Postfazione di A. Burgess, edizione bilingue a cura di L. Bonaffini, New York, Peter Lang, 1995, pp. xvi-xxxvii;
  • Il potere e la violenza nell’immaginario di Pasolini, in Il primato della cultura, a cura di G. Scarsi, Salerno, Sottotraccia, 1996, pp. 215-227;
  • L’attività letteraria di Carmine Manzi negli anni di fine millennio, in «Misure Critiche», 97-99, 1996, pp. 103-112;
  • Die Sprachen der Gewalt als Formen des Lebens oder Leben der Formen. Pasolini und die italienische Erzählung der 70er Jahre, in Gewalt der Geschichte - Geschichten der Gewalt. Zur Kultur und Literatur italiens von 1945 bis heute, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Berlin, Humboldt-Universität, vom 25 bis 27 September cura di P. Brockmeier e C. Fischer, Stuttgart, M. & P., 1998, pp. 127-147 (la traduzione italiana è in Lettere dal deserto. Sulla letteratura del secondo Novecento, cfr. oltre, pp. 189-214);
  • Divina Libertà. La rivoluzione della Tragedia, la tragedia della Rivoluzione: Pagano Galdi Salfi, Salerno, Edisud, 1999, pp. 240;
  • Teatrali contese (con scritti di F. M. Pagano, M. A. Galdi, F. S. Salfi), Salerno, Edisud, 1999, pp. 230;
  • Lettere dal deserto. Sulla letteratura del secondo Novecento, Salerno, Edisud, 2000, pp. 380;
  • La cultura letteraria a Salerno in età moderna (XVI-XVII-XVIII secolo), in Storia di Salerno, a cura di G. Cacciatore, I. Gallo e A. Placanica, II, Salerno in età moderna, a cura di A. Placanica, Pratola Serra, Elio Sellino Editore, 2001, pp. 201-212;
  • Il mio Hamlet, in Le letture che abbiamo attraversato, a cura di G. Cavallini, T. Tornitore e S. Verdino, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 107-110;
  • Il Pausania di Francesco Saverio Salfi, in La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, a cura di P. Sabbatino, I, L’Ottocento, Napoli, Liguori, 2002, pp. 13-25;
  • «Visse come Aristide e morì come Socrate»: Francesco Mario Pagano e la prefigurazione mitopoetica del Novantanove, in Novantanove in idea. Linguaggi miti memorie, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 405-426;
  • La rivoluzione culturale di Matteo Angelo Galdi, in «Critica letteraria», 115-116, 2002, Miscellanea di studi critici in memoria di Pompeo Giannantonio, I, pp. 507-526;
  • Primo Levi: l’eroe e i mostri dell’immaginario tecnologico, in Letteratura e critica. Studi in onore di Michele Cataudella, a cura di M. Montanile, Salerno, Poligraph Arti Grafiche, 2002, pp. 355-374;
  • La catastrofe napoletana del ’99 e il 18 brumaio tra affabulazione mitopoietica e riflessione storico-politica negli esuli meridionali (Salfi, Lomonaco, Cuoco), in «La Nuova Ricerca», 11, 2002, Studi in onore di Michele Dell’Aquila, I, pp. 341-356;
  • Sterminate eredità. La letteratura del Mezzogiorno d’Italia dal Cinquecento al Settecento, Salerno, Edisud, 2002, pp. 310;
  • Il misticismo della Serao: uno sport per l’aldilà? in Letteratura e cultura a Napoli tra Otto e Novecento, Atti del Convegno di studi, Napoli, 28 novembre-1 dicembre cura di E. Candela, Napoli, Liguori, 2003, pp. 333-346;
  • L’onomastica mistica di Matilde Serao, in Atti dell’VIII Convegno Internazionale di Onomastica & Letteratura, Pisa, 21-22 febbraio cura di M. G. Arcamone, D. De Camilli, B. Porcelli, in «il Nome nel testo», V, 2003, pp. 133-146;
  • L’inferno della violenza nelle dissonanze di Quasimodo, in Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, Atti del Convegno di Studi, Milano, 18-19 febbraio cura di G. Baroni, in «Rivista di letteratura italiana», 1-2, 2003, pp. 85-95;
  • Il riformismo politico-religioso di Pietro Giannone e Alberto Radicati, in «Esperienze letterarie», 4, 2003, pp. 3-27;
  • Le occasioni del Sud. Civiltà letteraria dall’Ottocento al Novecento, Salerno, Edisud, 2003, pp. 230;
  • Ugo Foscolo. “Modulo-Icon” (Italian Culture on the Net), pp. 70 (ca., in mat. cart.), settembre-ottobre 2003;
  • L’edizione delle commedie, in L’edizione nazionale del teatro e l’opera di G.B. Della Porta, Atti del Convegno di Studi, Salerno, 23 maggio cura di M. Montanile, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004, pp. 97-102;
  • Antroponimi e toponimi nella narrativa di Matilde Serao, Atti del IX Convegno Internazionale di Onomastica & Letteratura, Napoli, 25-28 febbraio cura di M. G. Arcamone, D. De Camilli, B. Porcelli, in «il Nome nel testo», VI, 2004, pp. 125-140;
  • Le Profane istorie di Ugo Fleres, in Narrativa minore del secondo Ottocento in Sicilia, Atti del Convegno di Studi, Messina, 11-13 dicembre cura di G. Rando, Messina, Sfameni, 2004, pp. 151-158;
  • Il poeta “integrale” in Oscar Mondadori, in «Oggi e Domani», 7 / 8, 2004, pp. 29-30;
  • Il “Monti di Muscetta, in «Sinestesie», fascicolo monografico: Carlo Muscetta. Studi, testimonianze, note, II, 2004, pp. 83-95;
  • Ugo Foscolo. Tra le folgori e la notte, Salerno, Edisud, 2004, pp. 360;
  • Sulla bibliografia manzoniana in Cd-Rom, in «Sinestesie», III, 2005, pp. 91-92;
  • Idolatria e violenza: i “cartoni” napoletani del Trionfo della Morte, in d’Annunzio a Napoli. Napoli e d’Annunzio, a cura di A. R. Pupino, Napoli, Liguori, 2005, pp. 155-165;
  • Le «stelle erranti». Manieristi e moderni nella letteratura italiana, Salerno, Edisud, 2005, pp. 240;
  • Trasmutazioni della scrittura “selvaggia” negli anni Settanta, in «E’n guisa d’eco i detti e le parole». Studi in onore di Giorgio Bàrberi Squarotti, a cura di M. Guglielminetti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, II, pp. 913-928;
  • Alfonso Gatto: tensione libertaria e sperimentalismo ardito, Studi di letteratura italiana. Per Vitilio Masiello, a cura di P. Guaragnella e M. Santagata, Roma-Bari, Laterza, 2006, III, pp. 573-591;
  • Gobetti e gli intellettuali meridionali (Fortunato, Salvemini, Dorso, Fiore), in Piero e Ada Gobetti: due protagonisti della storia e della cultura del Novecento, Atti del Convegno di Studi, Cassino, 21-23 novembre cura di A. Fabrizi, Roma, Domograph, 2006, pp. 183-200;
  • «Tenebrosi orrori»: da Tasso a Marino le rime per il duplice delitto di Gesualdo, in Carlo Gesualdo nella storia d’Irpinia, della musica e delle arti, Atti del Convegno di Studi, Taurasi–Gesualdo, 6-7 dicembre cura di P. Mioli. Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2006, pp. 3-14;
  • Pro Patria, romanzo storico di Carlo Del Balzo (con testo), Salerno, Edisud, 2006, pp. 250;
  • Terrore e tremore nel “diluvio” alvariano, in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre, Atti del Convegno di Studi, Cosenza–Reggio Calabria–San Luca, 27-29 settembre cura di A. Giannanti e A. M. Morace, Cosenza, Pellegrini, 2006, pp. 313-328;
  • Storia di due anime (quasi una sceneggiatura), in Matilde Serao. Le opere e i giorni, Atti del Convegno di Studi, Napoli, 1-4 dicembre cura di A. R. Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp.175-190;
  • L’altra scrittura: da Kawagi a Breton. Gli interventi giornalistici di Paparelli, in «Misure Critiche», 1-2, 2006, pp. 170-185;
  • Il “Foscolo” di Muscetta: una palinodia vent’anni dopo, in Ritratto di Carlo Muscetta, Atti del Convegno di Studi, Avellino, 6-8 aprile 2005, Avellino, Edizioni del Centro Dorso, 2007, pp. 241-260;
  • Toponimi nella narrativa di Matilde Serao, in Toponimi e antroponimi: Beni-documento e Spie d’identità per la Lettura, la Didattica e il Governo del territorio, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Università di Salerno – Vietri sul Mare, 14-16 novembre cura di V. Aversano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, II, pp. 543-552;
  • Poetica e poesia di Alfonso Gatto tra le due guerre, in È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo, Atti del Convegno di Studi, Firenze, 23-24 marzo cura di D. Maffia e C. Mezzasalma, Quaderno della Fondazione il Fiore, Firenze, Passigli, 2007, pp. 33-52;
  • I campanili di Martinville. Debenedetti tra progetto e destino, Salerno, Edisud, 2007, pp. 160;
  • Omero, Odissea, Salerno, Edisud, 2007;
  • Vico: luci e ombre, in Tra res e imago. In memoria di Augusto Placanica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, I, pp. 477-497;
  • Gli Indici di «Silarus», in «Silarus», I, 2008, pp. 7-8;
  • L’aureo sole di Napoli: dal guappo di Marotta al camorrista di Saviano, in Napoli nell’immaginario letterario dell’Italia unita, Atti del Convegno di Studi, Napoli, 6-9 novembre cura di E. Candela e A. R. Pupino, Napoli, Liguori, 2008, pp. 141-151;
  • Prima della Pescara: novelle di “violence” e“sacré” per i lettori francesi, in «Sinestesie», fascicolo monografico: Gabriele d’Annunzio. Letteratura e modernità, a cura di C. Santoli, VI-VII, 2008-2009, pp. 316-327;
  • Antonio Palermo e gli ultimi convegni napoletani, in Il critico e l’avventura, a cura di P. Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, I, pp. 135-143;
  • «Non insegno, io racconto». Viaggio di Debenedetti verso il “mondo della vita”, in Studi sulla letteratura italiana della Modernità. Per Angelo R. Pupino. 2. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, a cura di E. Candela, Napoli, Liguori, 2009, I, pp. 223-236;
  • Le tracce nel testo. Esperienze letterarie tra due millenni, Salerno, Edisud, 2009, pp. 230;
  • I volti di Medea da Euripide a Lars von Trier: mito letteratura cinema, in Macramè. Studi sulla letteratura e le arti, a cura di R. Giulio, D. Salvatore, A. Sapienza, Napoli, Liguori, 2010, I, pp. 1-38;
  • I Sogni e l’esordio teatrale a Parigi, in Gabriele d’Annunzio, Léon Bakst e i Balletti russi di Sergej Djagilev, Atti del Convegno di Studi, Roma, 4-5 marzo cura di C. Santoli e S. da Capua, Roma, Quaderni della Biblioteca Nazionale Centrale, 15, 2010, pp. 147-159;
  • Menzogne simili al vero. Epifanie del Moderno: il mito, il sacro, il tragico, Salerno, Edisud, 2010, pp. 400;
  • “Corpus gloriosum”: Dante, Paradiso XIV, in «Del nomar parean tutti contenti». Studi offerti a Ruggero Stefanelli, a cura di P. Guaragnella, M. B. Pagliara, P. Sabbatino, L. Sebastio, Bari, Progedit, 2011, pp. 35-59;
  • Miti e archetipi dei classici greci e latini nella modernità letteraria, in Come parlano i classici. Presenza e influenza dei classici nella modernità, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Napoli, 26-29 ottobre cura di E. Malato, Roma, Salerno Editrice, 2011, pp. 395-427;
  • Il «Potere senza volto»: Pasolini tra storie di violenza e violenze della storia, in Pasolini dopo Pasolini, Atti del Convegno di Studi, Salerno, 8-10 novembre cira di A. Pietropaoli e G. Patrizi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 303-315;
  • Agli albori del Risorgimento: Foscolo, il poeta “civile” dell’Unità d’Italia, in «Sinestesie», fascicolo monografico: La letteratura e le arti dell’Italia unita, a cura di C. Santoli, IX, 2011, pp. 339-364;
  • Letteratura e cinema. Il disprezzo di Moravia dal romanzo al film, in Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni, a cura di P. Ponti, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2012, pp. 553-557;
  • Sinisgalli e «Il Mattino» di Napoli, in Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli, a cura di S. Martelli e F. Vitelli, Salerno-New York, Edisud-«Forum Italicum», Stony Brook, 2012, pp. 287-300;
  • Foscolo, l’Europa e l’Unità d’Italia, in La funzione civile della letteratura, a cura di G. Scarsi, Roma, Studium, 2012, pp. 259-282;
  • Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Intellettuali, scrittori, amici, in «Sinestesie», XI, 2013, pp. 11-20;
  • Gatto o del “trobar clus” (poetica e poesia), in Alfonso Gatto. L’uomo, il poeta, Atti del Convegno di Studi, Fisciano – Salerno, 30-31 maggio cura di L. Reina e N. Acanfora, Napoli, Liguori, 2014, pp. 43-58;
  • Guerra vs Cultura – Guerra vs Natura in La ciociara di Moravia, in Alberto Moravia e La ciociara. Letteratura. Storia. Cinema, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Fondi, 13 aprile cura di A. Fàvaro, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2014, pp. 125-147;
  • Napoleone a teatro: dall’illusione al disinganno. Il Pausania di Salfi e l’Ajace di Foscolo, in Culture del Teatro moderno e contemporaneo. “Per Angela Paladini Volterra”, Atti delle Giornate di Studi, Roma, 3-4 ottobre cura di R. Caputo e L. Mariti, Roma, Edicampus, 2014, pp. 79-91;
  • Preludi del linguaggio scenico moderno nei ‘Sogni’ dannunziani, in d’Annunzio drammaturgo d’avanguardia. Le martyre de Saint Sébastien e La Pisanelle, a cura di C. Santoli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, pp. 79-93;
  • Moravia-Godard: duplice lettura di un dramma coniugale, in Occasioni e percorsi di letture. Studi offerti a Luigi Reina, a cura di R. Giglio e I. Chirico, Napoli, Guida, 2015, pp. 417-438;
  • Il Genio della Libertà: spettacolo della politica e politica dello spettacolo come istruzione pubblica rivoluzionaria, in Dalla Sicilia a Mompracem e altro. Studi per Mario Tropea in occasione dei suoi settant’anni, a cura di G. Sorbello e G. Traina, Caltanisetta, Edizioni Lussografica, 2015, pp. 241-251;
  • “Sinestesie” poetico-pittoriche in Gatto e in Sinisgalli, in Sentieri della modernità. Da Leopardi a Pasolini, «Sinestesie», XIII, 2015, pp. 259-278;
  • Costruzione del personaggio tragico antico nelle riscritture teatrali moderne, in Culture del Teatro moderno e contemporaneo. “Per Angela Paladini Volterra”, Atti delle Giornate di Studi, Roma, 2-3 ottobre cura di R. Caputo e L. Mariti, Roma, Edicampus, 2015, pp. 127-137;
  • Sulle tenebre della notte foscoliana lo stellato etere tra silenzio e pietà, in «Romanticismi» - Rivista del c.r.i.e.r. (Università di Verona), numero monografico: La notte romantica, a cura di S. Aloe, 1, 2015, pp. 85-108;
  • Leonardo Sinisgalli al «Mattino», in C’era una volta la terza pagina, Atti del Covegno del C.i.r.l.e.g., Napoli, 13-15 maggio cura di D. De Liso e R. Giglio, Firenze, Cesati, 2015, pp. 281-302;
  • Pasolini “interprete” di Dante, in Noi e Dante. Per una conoscenza della Commedia nella modernità, a cura di C. Santoli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, pp. 135-155;
  • Con pura passione. Dall’«itale glorie» di Foscolo all’«umile Italia» di Pasolini, Salerno, Edisud, 2015, pp. 370;
  • «Per guisa d’orizzonte che rischiari». Florilegio degli scritti, Introduzione: Un percorso intellettuale di R. Giulio, a cura di A. Fàvaro e C. Santoli, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2015, pp. 380;
  • I «fotogrammi sublimi» del “Discorso della Montagna”, in «Non sono venuto a portare la pace ma la spada». Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, cinquant’anni dopo in Basilicata, a cura di Maura Locantore, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2015, pp. 111-122;
  • Le radici del male: il messaggio etico di Cesira e la dimensione educativa del romanzo moraviano (per una fruizione scolastica di La ciociara), Prefazione ad Alberto Moravia e La ciociara. Letteratura. Storia. Cinema. IV, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Fondi, 9 maggio 2014, Introduzione e cura di A. Fàvaro, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2016, pp. 7-11;
  • Il metodo umano. Gramsci e Debenedetti: politica nazionale e cultura europea, Salerno, Edisud, 2016, pp. 230;
  • Gatto e Sinisgalli. Poesia, pittura e discorso sulle arti, in Legami e Corrispondenze fra la Letteratura e le Arti, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 27-28 febbraio cura di A. Fàvaro, C. Gurreri, C. Ubaldini, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2016, pp. 197-221;
  • Arte come esemplarità naturale: nei cataloghi la poetica di Gatto, in Un poeta in prosa. Alfonso Gatto. «Cronache del piacere (1957-1958)», a cura di E. Ajello, «Sinestesie», XIV, 2016, pp. 345-348;
  • La dimensione religiosa nell’opera di Matilde Serao, in La letteratura e il sacro. IV. Narrativa e Teatro (Ottocento e Novecento fino agli anni Settanta), a cura di F. D. Tosto, Prefazione di A. Di Grado, Roma, BastogiLibri, 2016, pp. 263-279;
  • Dante, Paradiso: poesia e musica nei canti dell’Empireo, in Nel 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri. Letteratura e musica del Duecento e del Trecento, Atti del Convegno Internazionale, Certaldo Alto, 17-18-19 dicembre cura di P. Benigni, S. Campagnolo, L. R. Caputo, S. Cori, A. Ziino, Gesualdo (AV), Fondazione Carlo Gesualdo. Centro Internazionale di Studi, Ricerche e Documentazione, Studi e Testi 1, 2017, pp. 71-85;
  • Pasolini nel sud d’Italia: La lunga strada di sabbia, in Nei cieli di carta. Studi per Ettore Catalano, a cura di C. A. Augieri, L. Facecchia, A. Miglietta, Bari, Progedit, 2017, pp. 300-308;
  • La Storia del romanzo italiano di Gino Tellini, in «Misure Critiche», Nuova Serie XVI, 1-2, 2017, pp. 258-265;
  • Una trilogia di Vicente Barra, in «Misure Critiche», Nuova Serie XVI, 1-2, 2017, pp. 273-284;
  • Dante e dantismi in Pasolini e Moravia, in Moravia, Pasolini e il conformismo, a cura di A. Fàvaro, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2018, pp. 163- 181;
  • «La stupefazione immota di tutte le cose»: epifanie dell’«oltre» pirandelliano, in C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Dialogo tra i saperi intorno all’opera di Pirandello, Atti del Seminario Interdipartimentale, Campus di Fisciano, 29-30 marzo 2017, Introduzione e cura di M. Montanile, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2018, pp. 119-132;
  • La Storia del romanzo italiano di Gino Tellini, in «Sinestesieonline», VII, 22, 30 gennaio 2018, pp. 1-5;
  • Una trilogia di Vicente Barra, in «Sinestesieonline», VII, 22, 30 gennaio 2018, pp. 1-7.