Tormento della Veglia
Il tormento della veglia (tormentum vigiliae), popolarmente e impropriamente conosciuto come culla di Giuda, è stato uno strumento di tortura utilizzato tra il XVI e il XVII secolo, consistente in uno sgabello appuntito sul quale il condannato era costretto a sedersi, con l'ano scoperto, mentre era sostenuto da corde legate alle braccia e alle gambe. Lo sgabello aveva tipicamente un angolo ottuso[1], ma talvolta anche acuto[2], sebbene la forma ottusa si preferisse per evitare di causare la morte del condannato; tuttavia, anch'essa era in grado di infliggere grande dolore al condannato, poiché questa era spesso costretto a restarvi anche per decine di ore, in un caso addirittura 40[3]. Da qui il nome di "tormento della veglia", in quanto il condannato, nella dolorosa posizione, non riusciva ad addormentarsi.


Sebbene la denominazione culla di Giuda sia di origine incerta e probabilmente spuria, l’esistenza dello strumento a cui essa si riferisce è comprovata da numerosi fonti storiche del tempo[1][2][3][4].
Storia e testimonianze
modificaL'invenzione di questo metodo di tortura è attribuita al giurista Ippolito Marsili[5].
Una delle prime descrizioni dello strumento è fornita da Flaminio Cartari (1531-1593), giurista di Orvieto[6], che riporta:
«E questo è il tormento della veglia, quello dello sgabello di legno che il popolo chiama “capra” -il cui uso era più frequente fino a pochi anni fa e che alcuni suppongono ancora in uso nello Stato della Chiesa - il quale è un genere atrocissimo di tortura, nella quale il reo, senza scarpe e denudato con l’ano scoperto, e legato da tutte le parti, affinché non possa cadere, siede sulla cosiddetta “capra”.
Per cui per le ottenerne le parole [la confessione], il sedente è posto sullo sgabello di legno, senza scarpe e denudato, e nel quale il reo viene fatto torcere sullo strumento di tortura; poiché il reo subisce tormenti di tutti i generi, e poiché esso è certamente un genere di tormento atrocissimo, i giudici non devono comminare la pena in qualsivoglia tipo di crimine, ma solo in presenza di gravissimi e urgentissimi indizi precedenti, e anche in questi casi in modo sporadico, tantomeno per quaranta ore.»
Una descrizione molto più dettagliata dello strumento è fornita dal medico Paolo Zacchia nelle sue Quaestiones Medico-Legales:
«Il secondo tormento che è utilizzato negli interrogatori, esso è quello che chiamano tormento della veglia, che in parecchi casi sembra essere molto più atroce della tortura della fune; tale è la natura di questo tormento. Il reo è completamente denudato e rasato dei peli delle parti recondite [dell’ano], legato con le braccia contorte dietro la schiena, come nella tortura della corda, e in tal modo è legato con la fune il torturando. Viene preparato allora uno sgabello a 3 piedi, noto volgarmente come “capra”, “cavallo” o “cavalletto”, di 6 piedi di altezza, il cui spessore alla sommità è di un pollice e la cui larghezza è di due palmi; la superficie della tavola ovviamente non è del tutto piana, ma i suoi lati si innalzano gradualmente verso il centro, formando un angolo ottuso o piuttosto una superficie ottusa. Il reo in questo modo è posto a sedere legato a una corda pendente da una carrucola. Sono applicate delle larghe fascia al petto, e sul retro è tenuto fermo dalla parete vicina; entrambi gli omeri sono poi legati dai lati con una lunga corda; allora ai piedi è applicato un lungo bastone per divaricare i piedi stessi, affinché il reo non li possa congiungere; questo bastone, attraverso un’altra fune collegata al suo centro, fermata sulla parete opposta, innalza i piedi e le gambe del reo. In questo modo resta il misero per dieci, dodici, quindici, o venti e più ore a discrezione del Giudice, se i delitti non sono confessati»
Un’altra descrizione è fornita da Tranquillo Ambrosino nel suo ‘’ Processus Informativus’’ (1667):
«Il tormento della veglia è un tipo di sgabello di legno, alto circa sette-otto palmi da terra, con tre piedi di sostegno, non piano ma un po’ ripido ed elevato in mezzo, fabbricato ad angolo ottuso, sopra il quale siede il reo con l’ano denudato. Ho detto ancolo ottuso, poiché se fosse acuto, ogni qualvolta ne vidi uno, il torturato può essere ucciso per via delle parti interiori rotte e forate. Per questo sii ben cauto e oculato [nell’utilizzarlo].»
Un caso notevole di utilizzo del tormento della veglia fu quello del filosofo Tommaso Campanella, processato più volte dall'Inquisizione; nell'ultimo processo, tenutosi nel 1600, Campanella subì il tormento della veglia per 40 ore. Come riporta dallo stesso Campanella nel Proemio all'Ateismo trionfato[7]:
Note
modifica- ^ a b Paolo Zacchia, Quaestiones Medico-Legales, 1661 [1621], p. 411.
- ^ a b Tranquillo Ambrosino, Processus Informativus sive De Modo Formandi Informativum Brevis Tractatus, 1667, p. 237.
- ^ a b Flaminio Cartari, Theoricae et praxis interrogandum reorum, 1590.
- ^ Giovanni Battista Scanaroli, De Visitatione Carceratorum, 1655, pp. 290-293.
- ^ Domenico Fisichella, Analisi del totalitarismo, 1976, p. 76.
- ^ CARTARI, Flaminio, su Treccani.
- ^ Alessandro d'Ancona, Tommaso Campanella, Opere di Tommaso Campanella scelte, ordinate ed annotate da Alessandro d'Ancona, e precedute da un discorso del medesimo sulla vita e le dottrine dell'autore, 1855.
Bibliografia
modifica- Flaminio Cartari, Theoricae et praxis interrogandum reorum, 1590.
- Giovanni Battista Scanaroli, De Visitatione Carceratorum, 1655, pp. 290-293.
- Paolo Zacchia, Quaestiones Medico-Legales, 1661 [1621], p. 411.
- Tranquillo Ambrosino, Processus Informativus sive De Modo Formandi Informativum Brevis Tractatus, 1667, p. 237.
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