Dottrine non scritte di Platone

Le dottrine non scritte di Platone sono un insieme di teorie metafisiche che alcune fonti antiche (principalmente Aristotele e i suoi commentatori) attribuiscono al filosofo ateniese, ma che non trovano una chiara e immediata corrispondenza nei suoi dialoghi, e che si ritiene possano essere state l'argomento degli insegnamenti orali che tenne nell'Accademia di Atene. Per questo motivo si parla anche di «dottrine esoteriche» di Platone, cioè dottrine destinate a essere divulgate solo nella cerchia ristretta dei suoi allievi.[1]

Busto in marmo di Platone, copia romana (I secolo d.C.) di un originale greco in bronzo risalente al IV secolo a.C. Altes Museum, Berlino, Germania

La loro ricostruzione è al centro del «nuovo paradigma ermeneutico» proposto da alcuni studiosi dell'Università di Tubinga (Hans Krämer, Konrad Gaiser, Thomas Alexander Szlezák), e accolto in Italia da Giovanni Reale e dai suoi allievi presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (da cui il nome «scuola di Tubinga-Milano»). Secondo la loro interpretazione si tratterebbe di dottrine fondamentali, ma comprensibili solo a pochi, che Platone avrebbe preferito non affrontare nelle sue opere scritte per evitare che venissero fraintese, e che quindi avrebbe riservato alla comunicazione orale, insegnandole solo ai suoi discepoli.[2] Quella che ne risulta è un'immagine del pensiero platonico molto diversa rispetto a quella che si ricava dalla sola lettura dei dialoghi. In particolare, Platone avrebbe formulato una dottrina dei principi, che pone al vertice della realtà due principi, l'Uno e la Diade indefinita, dai quali discendono tutti gli altri esseri, comprese le idee. Le dottrine non scritte e il loro contenuto sono tuttavia oggetto di dibattito tra gli storici della filosofia antica.

Argomenti a sostegno dell'esistenza delle dottrine non scritte

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A favore dell'esistenza delle dottrine non scritte (in greco antico: ἄγραφα δόγματα?, ágrapha dógmata) ci sono anzitutto due passi delle opere platoniche in cui il filosofo critica la scrittura e afferma la superiorità del discorso orale, in particolare nel Fedro e nella Lettera VII.[3][4]

 
Frammento papiraceo del Fedro di Platone

Il primo passo è contenuto nel mito di Theuth del Fedro:[5] Socrate racconta che il dio egiziano Teuth inventò molte arti e le mostrò al re Thamus, che all'epoca regnava sull'Egitto. A seconda dei casi, il sovrano lodò o biasimò le invenzioni. Molto duro fu però il suo giudizio sulla scrittura:

«la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non da di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria.

Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno [...]»

Una critica della scrittura è presente anche nella Lettera VII, che la maggioranza degli studiosi moderni considera autentica.[6] In questo caso, Platone nega di avere affidato alla scrittura le sue teorie più importanti:

«Su queste cose non c'è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti, la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall'anima e da se stessa di alimenta.

[...] da tutto questo si deve concludere che, allorché si vedano opere scritte di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti qualche altro genere, le cose scritte non erano per tale autore le più serie, se egli è serio, perché queste stanno riposte nella parte più nobile di lui [...]»

Inoltre Aristotele, allievo di Platone, in alcune sue opere attribuisce al maestro delle dottrine che non vengono affrontate direttamente nei dialoghi. Nella Fisica, per esempio, riporta le teorie platoniche relative alla materia, affermando che si possono trovare espresse nel Timeo e in quelle che definisce le «cosiddette dottrine non scritte».[7] Altre teorie non direttamente riscontrabili negli scritti platonici sono discusse nella Metafisica, e in particolare nei libri I, XIII e XIV, nei quali si parla dell'Uno e della Diade, dei numeri, delle idee e della dottrina dei principi.[8]

Da un allievo di Aristotele, Aristosseno, abbiamo invece informazioni riguardo a una lezione pubblica sul Bene (τήν περὶ τἀγαθοῦ ἀκρόασιν) tenuta da Platone. Nei suoi Elementa harmonica[9] ricorda infatti che Aristotele amava raccontare che Platone tenne una conferenza sul Bene aperta al pubblico: gli ascoltatori, che si aspettavano un discorso edificante, rimasero però sorpresi e contrariati, perché il filosofo parlò di numeri, dimostrazioni matematiche, geometria e astronomia, e identificò il Bene con l'Uno.[10][11]

In base a tutti questi elementi sembra dunque che Platone abbia formulato delle teorie che riteneva della massima importanza, ma che non ha affrontato nelle sue opere scritte a causa dei limiti intrinsechi di questo mezzo, riservandole quindi al solo insegnamento orale.[12] Aristotele avrebbe ascoltato queste dottrine negli anni in cui frequentò l'Accademia, e successivamente le discusse nelle sue opere, che quindi rappresentano un'importante fonte per la loro ricostruzione.[13]

A sostegno di questa ricostruzione viene riportato il fatto che Platone visse nell'epoca di passaggio dalla cultura tradizionale orale alla civiltà della scrittura, e che questo influenzò il suo modo di intendere il rapporto tra oralità e scrittura.[14] Alcuni interpreti (come Szlezák[15] e Reale[16]) sostengono inoltre di avere individuato nei dialoghi dei rimandi alle dottrine non scritte.

Le fonti per ricostruire le dottrine non scritte

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Copia romana al Palazzo Altemps del busto di Aristotele di Lisippo

Per potere ricostruire il contenuto delle dottrine non scritte è necessario rivolgersi alle fonti indirette. Raccolte di testimonianze antiche sugli insegnamenti orali di Platone sono state curate da Gaiser,[17] Krämer,[18] John N. Findlay[19] e Marie-Dominique Richard.[20] Un'edizione dei Testimonia Platonica è stata realizzata anche da Margherita Isnardi Parente,[21] che però è stata critica verso l'approccio della scuola di Tubinga-Milano.[22]

Le principali fonti per ricostruire le dottrine non scritte di Platone sono:

Bisogna però precisare che le testimonianze antiche, a cominciare da quella di Aristotele, contengono anche imprecisioni, e le dottrine platoniche possono essere state deformate oppure riportate utilizzando un linguaggio concettualmente nuovo rispetto a quello usato da Platone.[29] Questo ha generato difficoltà interpretative e, per altro verso, ha spinto alcuni critici (come Harold Cherniss[30]) a mettere in dubbio l'affidabilità delle fonti indirette.

Ricostruzione delle dottrine non scritte

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Gli esponenti della scuola di Tubinga-Milano (Krämer, Gaiser, Szlezák, Reale), con i loro allievi e collaboratori, hanno svolto un complesso lavoro per ricostruire quello che doveva essere il contenuto delle dottrine non scritte. Secondo questi interpreti, le teorie formulate negli insegnamenti orali sono il cuore del pensiero platonico e la loro conoscenza consente la piena comprensione dei dialoghi, i quali contengono dei riferimenti a esse. A partire dalle dottrine non scritte, infatti, ritengono che sia possibile fare ordine nel vasto materiale contenuto negli scritti e ricostruire così l'unità del pensiero platonico, per ottenerne una visione sintetica e organica,[31] e dargli una forma sistematica.[32]

I due principi fondamentali: l'Uno e la Diade indefinita

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Sito archeologico sul luogo dove sorgeva l'Accademia platonica di Atene

La tradizione indiretta presenta la filosofia platonica come una ricerca delle cause e dei principi:[33] come per i presocratici, anche qui c'è alla base la convinzione che la realtà e la molteplicità dei fenomeni debbano essere spiegati attraverso dei principi che devono essere i più semplici possibili e nel minor numero possibile.[34] Al vertice della realtà vengono quindi posti due principi (ἀρχαί):

  • l'Uno, cioè il principio dell'unità;
  • la Diade indefinita, principio della molteplicità.

Bisogna precisare che la Diade è intesa come non-unità, cioè principio indeterminato e illimitato, che è all'origine della molteplicità degli esseri.[35] La Diade è poi concepita come «dualità di grande e piccolo», perché tende sia all'infinitamente grande sia all'infinitamente piccolo. Il nome «Diade» deriva infatti proprio da questa sua dualità: viene chiamata anche «dualità di molto e poco» o «di maggiore e minore».[36]

Ogni essere è un misto di unità e molteplicità, che nasce dalla cooperazione dei due principi, cioè dalla delimitazione della molteplicità mediante l'Uno, in quanto principio di determinazione. Tutto ciò che è, infatti, è qualcosa nella misura in cui è determinato e definito, e quindi nella misura in cui partecipa dell'unità originaria; allo stesso tempo, però, può essere solo perché partecipa anche della molteplicità indeterminata, e quindi è diverso dall'Uno.[37] La Diade, in altre parole, è il principio materiale, il sostrato su cui si compie l'azione dell'Uno, e produce la molteplicità delle cose in tutte le loro diverse forme: in questo modo, la Diade è all'origine di tutte le molteplicità, compresa la pluralità delle forme che caratterizzano la gradazione gerarchica degli enti.[38]

Inoltre, se l'essere è «generato» dai principi, ne consegue che i principi sono anteriori all'essere: in particolare l'Uno è al di sopra dell'essere, mentre la Diade è al di sotto dell'essere[39] (la tradizione indiretta dice che è non essere[40]). Tuttavia, anche se l'Uno è gerarchicamente superiore alla Diade, senza di essa non potrebbe produrre niente. I principi, infatti, sono tra di loro in una relazione di polarità, sono due poli che necessitano l'uno dell'altro in maniera strutturale.[41]

Principi e idee

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Sulla base della testimonianza di Aristotele,[42] la gerarchia della realtà sovrasensibile prevede:[43]

  1. l'Uno e la Diade,
  2. i Numeri ideali,
  3. le idee (o forme),
  4. gli enti matematici intermedi.

La dottrina dei principi è una spiegazione metafisica di secondo livello rispetto a quella delle idee. Nei dialoghi si legge che la molteplicità del mondo sensibile viene unificata dalle idee, che sono a un livello superiore e metasensibile; inoltre, le idee sono le cause di tutte le cose, spiegano l'esistenza e le caratteristiche del mondo dell'apparenza (δόξα). Anche le idee (o forme), tuttavia, si presentano come una molteplicità, e quindi necessitano a loro volta di una unificazione. Questa unificazione dipende allora da un'ulteriore sfera di realtà superiore, costituita dai principi, dai quali le idee derivano.[44] Aristotele inoltre afferma che le idee sono cause formali delle cose, mentre l'Uno è causa formale delle idee; la Diade, invece, è causa materiale.[45][46]

Reale afferma che la dottrina dei principi è la seconda tappa della «seconda navigazione» di cui parla il Fedone. Per i marinai greci, la navigazione «seconda» era quella a remi, a cui si ricorreva quando non era possibile usare le vele per l'assenza dei venti. È un tipo di navigazione più faticoso, ma allo stesso tempo necessario. Nel dialogo, Socrate usa a questa metafora per spiegare la svolta nelle sue ricerche sulle cause prime: non riuscendo a trovare maestri, dovette cambiare modo di navigare.[47] La prima tappa della navigazione porta alla teoria delle idee, che si trova espressa nei dialoghi; la seconda è invece la dottrina dei principi, riservata agli insegnamenti orali all'interno dell'Accademia, con la quale la ricerca di Platone giunge a un secondo livello di fondazione metafisica.[48] Nella prima tappa si accetta il postulato più solido, che riconosce come vere cause le realtà intelligibili; in un secondo momento, però, è necessario riesaminare i postulati per poter giungere ai principi supremi.[49]

Il Bene

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Un altro tema affrontato nelle dottrine non scritte doveva essere il Bene, che era anche l'argomento della celebre lezione pubblica ricordata da Aristosseno. In particolare, la lezione terminava con l'identificazione del Bene con l'Uno. Questa identificazione viene spiegata a partire dalla tradizione indiretta, secondo cui la virtù (ἀρετή) di una cosa dipende dall'armonia delle sue parti con il tutto, la quale a sua volta si basa sull'ordine. Perché vi sia ordine, però, è necessario che vi sia unità. L'Uno quindi, in quanto principio dell'unità, è anche la causa di ogni bene ed è esso stesso il Bene.[50]

Il mondo sensibile, tuttavia, non è completamente buono, né unitario: bisogna quindi prendere in considerazione un principio non-unitario, che è causa della pluralità indefinita e che sarà non-buono. Discipline come l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e l'armonia musicale mostrano l'operato di questi due principi, perché mettono in luce le regole attraverso cui l'Uno agisce sulla pluralità, e mostrano come la molteplicità dei fenomeni può essere analizzata con numeri e forme, e può essere spiegata attraverso rapporti matematici. Ma proprio questi rapporti matematici, che si possono osservare, sono manifestazioni della virtù che si basa sull'ordine e sull'unità.[51]

 
Frammento papiraceo della Repubblica

Gaiser ricollega il Bene così inteso al programma educativo descritto nella Repubblica:[52] i governanti, per conoscere il Bene, devono prepararsi studiando a lungo matematica ed esercitandosi con la dialettica.[53] Nello stesso dialogo c'è poi il celebre passo in cui Socrate paragona il Bene al Sole, che con la sua luce illumina le cose e le rende visibili alla vista. Allo stesso modo

«ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l'essere conosciuti, ma anche l'essere e l'essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene essere, ma ancora al di sopra dell'essere, superiore ad essa in dignità e potere.»

Interpretando il passo alla luce delle dottrine non scritte, l'essenza del Bene è l'Uno, che determina il principio della molteplicità indeterminata, e così produce l'essere, al quale è superiore. E poiché è conoscibile solo ciò che è determinato, l'Uno produce anche la conoscibilità; inoltre, produce anche l'intelletto (poiché l'intelletto è una funzione unificante) ed è la causa del valore di ogni cosa (che, essendo delimitata, ha ordine e armonia).[54]

A questo proposito, Reale sottolinea come le dottrine non scritte – così ricostruite – possano spiegare il successivo sviluppo del neoplatonismo. La dottrina plotiniana secondo cui l'Uno coincide con il Bene ed è superiore all'essere, sembra un ripensamento della dottrina del Bene negli insegnamenti orali di Platone, ripresa però in stretta connessione con i dialoghi.[55]

I Numeri ideali

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Secondo una tradizione risalente alla tarda antichità, all'ingresso dell'Accademia era affissa la scritta: «Non entri chi non è geometra». La mancanza di fonti più antiche rende difficile stabilire se questa notizia sia vera o falsa, tuttavia è stato osservato che la massima è coerente con l'interesse per le scienze matematiche dimostrato da Platone.[56] E un aspetto particolarmente complesso delle dottrine non scritte riguarda proprio i Numeri ideali e i loro rapporti con le idee e i principi.

I Numeri ideali sono numeri metafisici, cioè sono le essenze dei numeri aritmetici: il Due non è il numero 2 ma la dualità in sé, così come il Tre è la trialità in sé, e così via. Questo punto, avvisa Aristotele, distingue Platone dai pitagorici, perché pone i Numeri ideali come trascendenti.[57][58] Per il loro status metafisico non possono essere usati per svolgere operazioni aritmetiche, ma sono dei modelli ideali: sono i «primi generati», perché rappresentano la forma originaria dell'unità nella molteplicità che si ritrova in tutti i diversi piani della realtà. Il numero ideale è infatti una delimitazione, prodotta dall'Uno sulla Diade:[59] il primo principio ha la funzione di «rendere uguale», mentre il secondo quella di «duplicare», intesa come raddoppiamento o dimezzamento.[60]

Aristotele, poi, precisa che per Platone i numeri ideali non si generavano all'infinito, ma si fermano alla Decade (δεκάς).[61] È quindi probabile che Platone associasse ai Numeri ideali solo le cause più generali della realtà. Nella Decade, inoltre, erano comprese anche le «grandezze spaziali»: Gaiser, ricollegandosi al Timeo,[62] ricostruisce che ai Numeri ideali corrispondono delle dimensioni. In particolare, c'è una coordinazione tra i numeri 1, 2, 3, 4 e le forme dimensionali monade, linea, larghezza, profondità.[63] In questa articolazione dimensionale, i numeri possono essere riconosciuti come rapporti divisori:[64] infatti, come sottolinea Reale, i Greci consideravano i numeri come logoi, relazioni, cioè come rapporti articolati di grandezze.[65] Al vertice della struttura ontologica c'è quindi un sistema unitario di relazioni numeriche articolato in modo vario.[66] I rapporti numerici, che sono immutabili, sono l'essere che permane mentre le cose cambiano.[67]

Tuttavia, non è chiaro quale sia il rapporto tra le idee e i Numeri ideali, poiché le fonti si contraddicono. Alcuni passi della Metafisica di Aristotele, infatti, parlano di un'identificazione tra idee e Numeri,[68] mentre dai frammenti di Teofrasto sembrerebbe che ci sia una riduzione delle idee a Numeri.[69] Sorgono quindi degli interrogativi: come si concilia questa identità con la subordinazione delle idee ai Numeri? E le forme specifiche (come uomo o cavallo) si identificano con dei numeri precisi?[70]

Gaiser afferma che i Numeri possono essere intesi come idee perché, come i primi quattro numeri contengono la dimensionalità in sé, così «gli altri numeri, secondo la posizione che occupano all'interno del sistema di relazioni, agiscono come principi costitutivi della forma del cosmo visibile e delle singole apparenze corporee».[71] Nel Sofista e nel Politico, però, Platone ricerca le idee particolari attraverso la diairesi, della quale parla come se fosse una divisione di superfici o di segmenti. Con questo metodo, il numero dei termini raddoppia a ogni divisione: partendo da un genere (γένος), si ottengono prima 2 idee, poi 4 e così via. In sintesi, le idee sorgono da un genere originario attraverso un'operazione che si può determinare matematicamente, e i generi più universali, che stanno all'origine della diairesi, sono i Numeri ideali della Decade. Infatti, le singole idee si possono determinare come Numeri solo se il primo genere è un Numero. Le singole idee maggiormente differenziate che risultano dalla divisione diairetica, invece, vanno intese come logoi, che si possono riportare a numeri interi. In questo modo, conclude Gaiser, tutte le idee vengono associate ai Numeri, «di modo che si potrebbe parlare di un'identificazione tra le Idee e i Numeri, e anche di una subordinazione delle Idee comuni e particolari ai Numeri puri».[72]

Dai Numeri ideali sono invece molto diversi gli enti matematici, come i numeri e le figure, che occupano una posizione intermedia (μεταξύ) tra gli enti intelligibili e quelli sensibili. Da un lato questi enti sono immobili ed eterni, ma, dall'altro, di ciascun numero e di ciascuna figura ce ne sono molti. Quindi condividono alcune caratteristiche delle idee, come l'eternità e l'immobilità, ma presentano anche la molteplicità tipica delle cose sensibili. L'aritmetica e la geometria mostrano che i numeri e le figure sono enti intelligibili, tuttavia non sono numeri o grandezze ideali perché con essi è possibile svolgere operazioni che possono richiedere molti numeri o figure uguali (si pensi alle dimostrazioni geometriche che richiedono molti triangoli di aspetto diverso).[73]

Il dibattito sulle dottrine non scritte

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L'Ottocento e i primi del Novecento

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Friedrich Schleiermacher

Gli allievi diretti di Platone, come Speusippo e Aristotele, dovevano avere conosciuto le dottrine non scritte direttamente dalla voce del maestro. Dopo questa prima fase, in età ellenistica l'Accademia si spostò su posizioni scettiche, e a partire dall'età imperiale l'interpretazione del pensiero di Platone fu influenzata dal medioplatonismo e soprattutto dal neoplatonismo, che, secondo Reale, leggeva gli scritti in maniera «allegorica» e incorporava elementi dalle dottrine orali.[74] L'impostazione neoplatonica attraversò i secoli, sopravvisse nel Medioevo (seppur in maniera ridotta) e nel Quattrocento influenzò anche Marsilio Ficino, che tradusse in latino i dialoghi platonici, ma poi finì per esaurirsi nel XVII secolo.[75]

Un momento fondamentale si ebbe all'inizio dell'Ottocento, quando Friedrich Schleiermacher tradusse i dialoghi di Platone, lavoro che lo impegnò dal 1804 al 1828. Secondo il filosofo tedesco, il pensiero platonico è interamente contenuto nei suoi scritti: a proposito della critica della scrittura nel Fedro afferma che, poiché «ha scritto così tanto, è chiaro che [Platone] deve aver cercato di rendere, per quanto possibile, l'insegnamento scritto simile a quello ritenuto migliore», cioè a quello orale.[76]

Eduard Zeller ne La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico (1844-1891) minimizzò l'importanza delle dottrine orali e mise in dubbio l'attendibilità delle fonti indirette, che secondo Zeller contenevano fraintendimenti e alterazioni delle teorie platoniche.[77]

L'interesse per le dottrine non scritte si riaccese nel Novecento. Léon Robin, in La théorie platonicienne des idées et des nombres d'aprés Aristote (1908), studiò il pensiero platonico a partire dalla tradizione indiretta e in particolare dalle testimonianze di Aristotele, ed osservò che lo Stagirita sembrava mettere sulla via di un'interpretazione neoplatonica del suo maestro.[78] Al rapporto tra le teorie dell'ultimo Platone e l'evoluzione del pensiero aristotelico si dedicò poi Julius Stenzel, che collocò la formulazione delle dottrine non scritte nell'ultima fase della vita del filosofo ateniese: solo la vecchiaia e la morte gli impedirono di affrontarle nei dialoghi.[79]

Sul tema delle dottrine non scritte intervenne anche Hans-Georg Gadamer, che scrisse: «Il tema centrale dell'interpretazione platonica, quale si presenta a noi oggi, si fonda sull'oscuro rapporto esistente tra l'opera dialogica e la dottrina di Platone, che conosciamo soltanto mediante una tradizione indiretta».[80] Così anche lo statunitense John Niemeyer Findlay, autore negli anni settanta del saggio Plato: The Written And Unwritten Doctrines,[81] maturò fin dagli anni venti l'idea che i dialoghi non fossero sufficienti per ricostruire il pensiero platonico, ma fosse necessario investigare anche le dottrine non scritte.

La scuola di Tubinga-Milano e il nuovo paradigma ermeneutico

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La scuola di Tubinga-Milano e Hans-Georg Gadamer (Tubinga, 6 settembre 1996). In piedi: Hans Krämer, Giovanni Reale, Hans-Georg Gadamer, Thomas A. Szlezák, Maurizio Migliori; seduti: Maria Bettetini, Federico Ferri, Giuseppe Girgenti, Federico Leonardi

A partire dagli anni cinquanta il dibattito sulle dottrine non scritte di Platone iniziò a ruotare attorno alle tesi formulate da alcuni storici della filosofia antica che insegnavano all'Università di Tubinga, in Germania. Gli iniziatori di questa linea interpretativa furono Hans Krämer e Konrad Gaiser: il primo si impegnò per dimostrare la realtà storica degli insegnamenti esoterici di Platone, mentre il secondo cercò di ricostruire i soggetti su cui si basava. Secondo la scuola di Tubinga, il cuore del pensiero platonico è rappresentato dalla dottrina di principi, la quale, sebbene non venga mai esposta esplicitamente nei dialoghi, verrebbe però richiamata in alcuni passi. La sua ricostruzione è possibile attraverso le testimonianze indirette, fonti a cui riconoscono affidabilità e autenticità. A sostegno di queste tesi vengono citate, inoltre, le due «autotestimonianze» già ricordate: la critica della scrittura nel Fedro e nella Lettera VII (che la scuola di Tubinga considera autentica).[82]

Thomas Alexander Szlezák, anch'egli formatosi a Tubinga e docente presso quell'università a partire dal 1990, si concentrò invece sugli aspetti letterari dell'opera platonica. In Platone e la scrittura della filosofia (edizione originale: 1985) analizza la struttura dei dialoghi per dimostrare che gli scritti di Platone non sono opere autosufficienti, ma, piuttosto, possono essere adeguatamente compresi solo se integrati con l'insegnamento orale e in particolare con la dottrina dei principi.[83]

In Italia, le tesi interpretative della scuola di Tubinga sono state riprese e sviluppate da Giovanni Reale, docente all'Università Cattolica di Milano, e dai suoi allievi, come Maurizio Migliori e Roberto Radice: per questo motivo spesso si parla di «scuola di Tubinga-Milano».[84] Reale ha analizzato e ricostruito l'evoluzione delle ricerche platoniche ricorrendo alle teorie di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche[85] e descrivendola quindi come un cambio di «paradigma»: dopo quello «neoplatonico-allegorizzante» e quello «romantico-letterario» (con capofila Schleiermacher), l'approccio della scuola di Tubinga-Milano rappresenta un nuovo paradigma storico-ermeneutico.[86] In quest'ottica, Reale ha riletto gli scritti di Platone alla luce delle dottrine non scritte, ricollegando a esse i punti dei dialoghi che si presentano più difficili da comprendere, così da fornire un quadro coerente e omogeneo del pensiero platonico.[87] Questo orientamento è anche alla base dell'edizione di Tutti gli scritti di Platone, condotta da Reale e dai suoi collaboratori.[88]

Reazioni al nuovo paradigma ermeneutico

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Harold Cherniss

L'interpretazione della scuola di Tubinga-Milano è stata accolta da vari studiosi, tra cui: Michael Erler,[89] Jürgen Wippern,[90] Karl Albert,[91] Heinz Happ,[92] Klaus Oehler,[93] Marie-Dominique Richard,[94] Detlef Thiel[95] e Christina Schefer.[96] Altri studiosi, invece, hanno accettato solo in parte le conclusioni del nuovo paradigma; tra questi: Enrico Berti,[97] Cornelia Johanna de Vogel,[98] Christopher Gill,[99] John M. Dillon[100] e Rafael Ferber.[101] Carl O'Brien ha sostenuto l'interpretazione della Scuola di Tubinga-Milano senza accettare la Settima Lettera.[102]

Il nuovo paradigma ermeneutico ha però destato anche obiezioni e dure critiche. Uno dei più radicali è stato Harold Cherniss, che fin dagli anni quaranta aveva sollevato dubbi sul valore delle dottrine non scritte, e a Robin aveva rimproverato di non avere comparato le testimonianze di Aristotele con gli scritti platonici, ma di avere preso in considerazione solo le idee e i numeri.[103] Cherniss si impegnò inoltre in un complesso lavoro di analisi, per mettere in relazione le teorie citate da Aristotele con i corrispondenti passi dei dialoghi, prendendo in considerazione anche i frammenti che ci sono giunti degli accademici. In particolare, sottolineò come Aristotele non fosse un dossografo ma un filosofo: nelle sue opere, quindi, lo Stagirita riporta le dottrine degli altri filosofi (comprese quelle di Platone) allo scopo di discuterle per costruire un proprio sistema filosofico, senza preoccuparsi di ristabilire la verità storica.[104][105]

Secondo Gregory Vlastos, invece, le dottrine riportate da Aristotele potrebbero fare riferimento a discussioni avvenute all'interno dell'Accademia tra Platone e i suoi allievi, speculazioni che però il filosofo non aveva trovato abbastanza interessanti da inserirle nei suoi scritti.[106]

Margherita Isnardi Parente ha poi sostenuto che la Lettera VII non contiene espliciti riferimenti alla dottrina dei principi, ma anzi l'«excursus è del tutto pacificamente interpretabile alla luce della dottrina delle idee»,[107] mentre la critica della scrittura del Fedro non rimanda a dottrine esoteriche, ma deve essere interpretata nel quadro della polemica contro la retorica sofistica.[108] La studiosa è intervenuta anche sul tema delle testimonianze indirette, curando una raccolta dei Testimonia Platonica.[21]

Posizioni critiche verso l'interpretazione della scuola di Tubinga-Milano sono state assunte anche da: Theodor Ebert,[109] Eugène Napoléon Tigerstedt,[110] Günther Patzig,[111] Ernst Heitsch,[112] Francesco Fronterotta,[113] Franco Trabattoni[114] e Luc Brisson.[115]

  1. ^ Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte», pp. 187-188.
  2. ^ Giovanni Reale, Platone e l'Accademia antica, pp. 511.
  3. ^ Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, p. 8.
  4. ^ Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, p. 75.
  5. ^ Platone, Fedro 274c-275b.
  6. ^ Sul dibattito circa l'autenticità della lettera si veda: Filippo Forcignanò (a cura di), Settima lettera, Roma, Carocci, 2019, pp. 9-16.
  7. ^ Aristotele, Fisica 209b.
  8. ^ Si veda ad esempio: Aristotele, Metafisica A 6 987a-988a; M 7-8 1079b-1085a; N 1-2 1087a-1090a.
  9. ^ Elementa harmonica II 30-31.
  10. ^ Konrad Gaiser, Plato's Enigmatic Lecture 'On the Good',  p. 5
  11. ^ John Niemeyer Findlay, Plato: The Written and Unwritten Doctrines, p. 413.
  12. ^ Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, p. 4.
  13. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, p. 29.
  14. ^ Reale, discutendo le tesi di Eric Havelock, afferma che Platone intese la scrittura come una forma di comunicazione non autonoma, ma che dipendeva dalla scrittura. Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, pp. 59-60.
  15. ^ Thomas A. Szlezák, Platone e la scrittura della filosofia, pp. 45-421.
  16. ^ Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte», cit.
  17. ^ Konrad Gaiser, Platons ungeschriebene Lehre. Studien zur systematischen und geschichtlichen Begründung der Wissenschaften in der Platonischen Schule, Stuttgart, Klett, 1963.
  18. ^ In appendice a: Hans Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone con una raccolta dei documenti fondamentali in edizione bilingue e bibliografia, traduzione di Giovanni Reale, Milano, Vita e Pensiero, 1994.
  19. ^ In appendice a: John Niemeyer Findlay, Plato: The Written and Unwritten Doctrines, pp. 413-454.
  20. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, pp. 273-463.
  21. ^ a b Margherita Isnardi Parente, Testimonia Platonica, voll. 1 e 2.
  22. ^ Margherita Isnardi Parente, Criteri e metodi per una nuova raccolta delle testimonianze sugli «agrapha platonica», in Rivista di storia della filosofia, vol. 50, n. 1, 1995, pp. 73-87.
  23. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, p. 126.
  24. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, pp. 442-443.
  25. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, pp. 434-437.
  26. ^ John Niemeyer Findlay, Plato: The Written and Unwritten Doctrines, pp. 425-431.
  27. ^ Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone, pp. 324-327.
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Bibliografia

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Fonti primarie e raccolte delle testimonianze
  • Margherita Isnardi Parente, Testimonia Platonica, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1997-1998:
    • vol. 1: Le testimonianze di Aristotele, 1997.
    • vol. 2: Testimonianze di età ellenistica e di età imperiale, 1998.
  • Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000.
  • Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte», Milano, Bompiani, 2008.
  • Marie-Dominique Richard, L'insegnamento orale di Platone. Raccolta delle testimonianze antiche sulle dottrine non scritte con analisi e interpretazione, traduzione di Giovanni Reale, prefazione di Pierre Hadot, Milano, Bompiani, 2008.
Bibliografia secondaria

Voci correlate

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