Shahsevan

tribù dell'Azerbaigian iraniano

Gli shahsevan (in persiano شاهسون‎) sono un insieme di tribù generalmente presenti nell'Iran nordoccidentale, in particolare nella pianura di Mughan e nella provincia di Ardabil in Azerbaigian Orientale, e tra Zanjan e Qazvin.[1] Nell'Azerbaigian indipendente vivono invece circa 2000 famiglie di shahsevan, concentrate nella parte sudorientale del Paese, presso Cəbrayıl e Masallı.[2]

Una donna shahsevan

Tra il XVI e il XVIII secolo furono una vera e propria confederazione tribale. Il loro nome è associato all'estrema lealtà personale e alla devozione religiosa che essi riponevano nei confronti dei re safavidi.[1] Difatti il termine turco s̲h̲āhīsēwan significa "coloro che amano lo Scià".[3]

 
Bambine shahsevan di una famiglia benestante di fine Ottocento

La storia degli shahsevan inizia a essere ben documentata a partire dal XVIII secolo. La loro identità è chiaramente turca, ma alcuni loro rami hanno origini curde o di altro tipo. La versione maggiormente accreditata vuole che si siano formati come tribù nell'ambito delle politiche militari e tribali dei sovrani safavidi. Pare che i loro antenati provenissero dall'Anatolia e che fossero guidati da un certo Yünsür Pasha. Le leggende che vorrebbero gli shahsevan divisi tra beyzadä (beg-zāda; discendenti degli immigrati originari) e popolani (hampā o rayät/raʿiyat) hanno ceduto il passo alla teoria secondo cui gli shahsevan erano composti da 32 tribù (otuz-iki tayfa/ṭāyefa), tutte di pari status.[1]

I primi shahsevan erano pastori nomadi. In inverno erano soliti stanziarsi vicino al livello del mare nella pianura di Mughan, mentre d'estate si spostavano a 100-200 km più a sud, in particolare sul monte Sabalan e sulle catene montuose limitrofe, negli shahrestān di Ardabil, Meshgin Shahr e Sarab. Per quanto i nomadi fossero in minoranza in questa regione, erano di religione islamica sciita e parlavano il turco come i sedentari, che conoscevano come tāt.[1] Un tempo si contavano 100 mila famiglie di shahsevan, ma questo numero si ridusse drasticamente nel corso dei secoli.[3]

Vivevano in una terra di frontiera ben frequentata e sviluppata, contrariamente ai bakhtiari e ai qashqai dei Monti Zagros: Ardabil e Tabriz godevano di importanza storica, strategica e commerciale, e la pianura di Mughan era fertile e irrigata in epoca medievale. Qui venivano prodotti cereali, frutta, lana e carne, e vi si commerciava la seta grezza prodotta nel Gilan e nello Shirvan. Proprio per questi motivi, a partire dal XVI secolo la terra degli shahsevan fu oggetto di continue rivendicazioni da parte dei persiani, degli ottomani. dei russi e dei sovietici.[1]

Negli anni venti del Settecento gli shahsevan mostrarono fedeltà ai safavidi resistendo alle incursioni ottomane, a differenza di altre tribù più arrendevoli come gli shaqaqi, gli inallu e gli afshari. Con l'avvento di Nadir Shah, le tribù rimaste nella pianura di Mughan vennero riunite in una confederazione guidata dal generale Badr Khan Shahsevan.[1]

Nel 1800 gli shahsevan si divisero in due confederazioni associate agli shahrestān di Ardabil e Meshgin Shahr. I primi appoggiarono i qajar, i secondi i russi. Le prime informazioni dettagliate sulla società tribale degli shahsevan si hanno proprio grazie ai resoconti dei funzionari zaristi risalenti al XIX secolo: gli shahsevan di Ardabil erano ormai già sedentari, mentre a Meshgin Shahr si praticava ancora il nomadismo. I capi di entrambi i clan avevano legami matrimoniali con i re qajar e molti di loro prestarono servizio a corte o come ufficiali militari. La confederazione unificata con una leadership centrale dinastica non esisteva più, ma nacquero nuovi rami guidati da capi guerrieri diversi, con da un lato i Qojabeyli, gli ʿIsālu, gli Ḥāj-ḵojalu e i Geyikli a Meshgin Shahr, e dall'altro i Polatlı e gli Yortči ad Ardabil. Per quarant'anni gli shahsevan vennero confinati nella pianura di Mughan dai russi, il ché li rese de facto indipendenti dall'autorità persiana e allo stesso tempo vittime del crescente banditismo e delle vendette tra i guerrieri dei principali clan.[1]

Nei primi decenni del Novecento gli shahsevan raggiunsero l'apice del loro potere e della loro influenza. La loro battaglia contro i russi sulla frontiera di Biləsuvar spinse gli zaristi a invadere l'Azerbaigian iraniano in larga scala, il ché mise in difficoltà il neoinsediato governo nazionalista. Gli shahsevan quindi ne approfittarono per unirsi a Rahimkhan Chalabianloo proclamando l'opposizione alla rivoluzione costituzionale persiana e l'intenzione di marciare su Teheran per restaurare il deposto Mohammad Ali Shah Qajar. La loro resistenza godette di ampia copertura mediatica in Europa, ma le loro rivolte vennero presto sedate sia dal governo centrale, sia dai russi.[1]

Russi, turchi e britannici sottomisero gli shahsevan durante la prima guerra mondiale, sino a quando Reza Shah Pahlavi non riprese il controllo sulla regione reintegrando tutte le tribù nello Stato iraniano. Nel 1941 molti shahsevan costretti alla sedentarietà ripresero le migrazioni e ricostituirono una confederazione tribale poco solida, causando problemi alle forze di occupazione sovietiche e al successivo governo democratico del 1946. I nuovi progetti di irrigazione e la riforma agraria degli anni sessanta non solo privarono molti capi della loro base di potere, ma nazionalizzarono i pascoli e li aprirono agli stranieri, riducendo drasticamente le terre di pascolo per gli shahsevan e aumentando il tasso di insediamento. Solo gli shahsevan sedentari parteciparono attivamente agli eventi della rivoluzione iraniana, mentre i pastori nomadi furono pressocché emarginati e si videro ridurre ancor di più il loro raggio di azione.[1]

Struttura sociale

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L'alačıq, la tipica tenda degli shahsevan
 
Sella di seta per cavallo prodotta dagli shahsevan, risalente alla seconda metà dell'Ottocento, conservata presso il Museo del tessuto dell'Università George Washington

Gli shahsevan si differenziano dagli altri gruppi tribali nomadi dell'Iran per vari aspetti della loro cultura e della loro organizzazione sociale ed economica. Uno dei loro segni più distintivi è l'alačıq, una tenda emisferica ricoperta di feltro simile alla iurta degli oghuz dell'Asia centrale. In ogni alačıq vive una famiglia composta in media da sette a otto persone.[1]

Negli anni sessanta del Novecento le famiglie si riunivano in un oba, un'unità di pastorizia fatta di accampamenti che a loro volta erano legati da rapporti agnatizi tra i capifamiglia maschi, formando quindi una sezione tribale (tira). Una tira era solitamente anche una comunità (jamahat o jamāʿat) che si spostava come un'unità durante le migrazioni di maggio e ottobre e i suoi membri celebravano tutti insieme molte cerimonie religiose. Ogni gruppo, dall'oba allo jamahat, era guidato da un anziano riconosciuto (aq-saqal), mentre la tribù (tayfa) era composta da due a oltre venti sezioni e da cinquanta a quasi mille famiglie. In quegli anni vi erano circa quaranta tribù poco organizzate, poi il governo cercò di trattare direttamente con le sezioni e con i loro anziani, che erano spesso uomini più giovani dei capi che li avevano preceduti, provenienti dalle famiglie più ricche della comunità e dotati delle competenze necessarie per trattare con le autorità. Le tribù tuttavia rimasero un elemento importante della cultura shahsevan, sia per i nomadi che per i sedentari.[1]

In merito alla gestione del pascolo, i singoli pastori ereditavano, acquistavano o affittavano quote ben definite dei diritti di pascolo su specifiche aree delimitate, sebbene in pratica i membri di un'unità di pastorizia sfruttassero congiuntamente i loro diritti su una stessa area di pascolo. Questo sistema fu ufficialmente invalidato dalla nazionalizzazione dei pascoli negli anni sessanta, ma continuò a funzionare informalmente almeno fino agli anni novanta.[1]

Durante le feste, le donne si separavano dagli uomini e si riunivano in una tenda, dove le anziane discutevano di questioni importanti per la comunità, come accordi matrimoniali, controversie e comportamenti non tollerati, o questioni economiche e politiche. Le decisioni prese venivano poi diffuse ai membri maschi una volta che le donne rientravano a casa.[1]

Fonti di sussistenza

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La maggior parte dei pastori vendeva latte, lana e animali in eccesso ai commercianti in cambio di farina e altre provviste, mentre altri lavoravano come pastori salariati o si recavano stagionalmente in città e nei villaggi per lavorare come venditori ambulanti o per svolgere altri impieghi occasionali.[1]

Le donne invece producevano tappeti, borse portaoggetti e coperte, tutti manufatti destinati a uso domestico o ai corredi nunziali delle giovani spose. Tuttavia, l'aumento del costo della vita e l'avvento della rivoluzione islamica hanno gradualmente spinto gli shahsevan a produrre tappeti per il commercio estero.[1]

Lingua e religione

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Gli shahsevan parlano il dialetto mughan della lingua azera. Sono principalmente sciiti duodecimani, sebbene vi siano anche minoranze di sciiti estremisti e bahá'í.[2]

Abbigliamento

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L'abbigliamento tradizionale maschile degli shahsevan era composto da camicie bianche o blu, pantaloni di stoffa marrone, čocha, papacha di pelle di pecora e scarpe di cuoio. Si radevano la testa e portavano la barba e dei riccioli sulle tempie.[2]

Le donne invece indossavano camicie blu, pantaloni, arkhalig, chador blu, calze di lana, gioielli d'oro e d'argento e una sciarpa legata intorno alla testa. Nei mesi freddi indossavano cappotti di pelle di pecora con maniche lunghe.[2]

  1. ^ a b c d e f g h i j k l m n o (EN) Richard Tapper, SHAHSEVAN, su Encyclopaedia Iranica, 28 ottobre 2012.
  2. ^ a b c d (RU) Шахсевены, su Большая российская энциклопедия, 20 marzo 2024. URL consultato il 2 settembre 2025.
  3. ^ a b (EN) V. Minorskij, S̲h̲āh-sewan (XML), su Encyclopaedia of Islam First Edition Online. URL consultato il 2 settembre 2025.

Bibliografia

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