Tahmuras o Tahmures (in persiano تهمورث‎, in persiano طهمورث[fatʰæmures]; dall'Avesta Taxma Urupi, ossia "Forte volpe") era il terzo Scià di la mitica dinastia Pishdadiana dell'Iran secondo il poema epico di Firdusi, Shāh-Nāmeh. È considerato il costruttore di Merv.

Tahmuras sconfigge i Div. Miniatura di Reza Abbasi dallo Shāh-Nāmeh di Shah Abbas. Qazvin, c. 1590-1600. Chester Beatty Library
Lee Lawrie, Tahmuras (1939). Biblioteca del Congresso, John Adams Building, Washington, DC

Tahmuras nello Shāh-Nāmeh

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Tahmures era figlio di Hushang. Ai suoi tempi il mondo era scosso dai Div (demoni) di Ahriman. Su consiglio del suo visir Shahrasp, Tahmures usò la magia per sottomettere Ahriman e lo rese suo schiavo, arrivando persino a cavalcarlo come fosse un cavallo. I demoni si ribellarono a Tahmuras, che mosse guerra contro di loro sia con la magia che con la forza. Con la magia legò due terzi dei demoni; il terzo rimanente lo schiacciò con la sua mazza. I Div divennero ora schiavi di Tahmuras e gli insegnarono l'arte della scrittura in trenta lingue diverse.

Come suo padre, Tahmuras fu un grande inventore di arti volte a migliorare la condizione umana. Inventò la filatura e la tessitura della lana, imparò ad addomesticare i polli, a conservare il foraggio per il bestiame invece di limitarsi a farlo pascolare, e ad addestrare animali come cani e falchi a cacciare per gli esseri umani.

Tahmures regnò per trent'anni e gli successe il figlio Jamshid.

La morte di Taxmoras raccontata nel Rivayāt parsi

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Georges Dumézil fornisce un riassunto di un resoconto osceno e scatologico, ma comunque istruttivo, della morte di Taxmoruw (Tahmures) conservato in un revayat parsi tradotto dall'orientalista e storico danese Arthur Christensen e pubblicato da Friedrich von Spiegel.[1] Questo testo (certamente tardo) fornisce materiale che Dumézil ritiene preservi temi proto-indoeuropei arcaici con un'influenza su ciò che ha definito il problema di le borgne e le manchot, cioè del "dio con un occhio solo" e del "dio con una mano sola" - relativo, in questo caso, specificamente al motivo mitico dell'essere monomanuale.

La scena di questo episodio scurrile è ambientata nel racconto dell'Avestā del regno di Taxma Urupi, che narra come questo sovrano del mondo sottomise non solo demoni e stregoni, ma anche lo stesso arcidiavolo Angra Mainyu, grazie all'aiuto del dio del vento Vayu e al possesso (di Taxma Urupi) della khvarenah, o mistica "gloria regale". Così potenziato, il valoroso re è in grado di cavalcare Angra Mainyu, come un cavallo, "da un capo all'altro della terra", ogni giorno per trent'anni. (A questo punto l'Avesta tace e il rivayât Parsi riprende la storia). Ahriman (Angra Mainyu), esasperato dalla sua indegna schiavitù come bestia da soma, riesce finalmente a conquistare (grazie al dono di gioielli) la fiducia della moglie di Taxmoruw, dalla quale apprende che c'è un punto della cavalcata quotidiana - un tratto particolarmente insidioso di un sentiero di montagna - in cui Taxmoruw prova un momento di vertiginoso terrore. Il giorno seguente Ahriman attende il momento opportuno finché "cavallo" e cavaliere non raggiungono il punto critico - a quel punto coglie l'occasione, impennandosi, scaraventando Taxmoruw a terra e inghiottendo l'infelice re. Il tempo passa, ma il cadavere di Taxmoruw non viene trovato, rimanendo nel ventre di Ahriman.

Nel frattempo, Jamshid, il devoto fratello di Taxmoruw (non figlio, come nello Shahnameh), perlustra il mondo alla ricerca del suo corpo finché non apprende da Srosh, il confidente pressoché onnisciente di Ahura Mazda, che è nascosto nelle viscere di Ahriman. Jamshid implora Srosh di rivelargli un trucco magico per recuperare il corpo dal suo disgustoso luogo di riposo, al che Srosh rivela che Ahriman ama due cose più di ogni altra: la musica e il sesso anale. Seguendo il consiglio di Srosh, Jamshid si reca quindi nella zona in cui vive Ahriman e inizia a cantare. Attratto dalla musica, il demone appare puntualmente e inizia a saltellare e masturbarsi.

Jamshid accetta di penetrare analmente Ahriman a condizione che prima gli sia permesso di estrarre il corpo di Taxmoruw dalle viscere del demone. Ahriman, eccitato, accetta prontamente l'accordo e si china, presentando l'ano, dopodiché Jamshid immerge la mano nel retto del demone, in profondità nel suo ventre, estrae rapidamente il cadavere del fratello, lo depone a terra e fugge. Ahriman lo insegue, ma Jamshid continua a correre, facendo attenzione (come precedentemente istruito da Srosh) a non voltarsi verso il suo inseguitore e, soprattutto, a non guardarlo in faccia. Ahriman si stanca e, privato sia del piacere che della preda, fa ritorno ancora una volta all'inferno.

Jamshid torna quindi nel luogo in cui ha lasciato il corpo di Taxmoruw, costruisce il prototipo della Torre del Silenzio e vi depone il corpo affinché venga scarnificato dagli uccelli rapaci, secondo un metodo ancora oggi considerato ritualmente corretto dagli zoroastriani. Grato di aver finalmente potuto dare al fratello un funerale degno, Jamshid può finalmente prendersi il tempo di dare un'occhiata alla mano che è stata nell'ano di Ahriman e vede, con orrore, che è pallida e puzzolente, e inizia a consumarsi a causa di una malattia orribile simile alla lebbra. La malattia peggiora costantemente, la mano si secca e diventa sempre più dolorosa, e Jamshid si rattrista per la sua deformità, rifuggendo la società umana e infestando, come un eremita, le montagne e i deserti più solitari. Tutto, tuttavia, finisce felicemente, perché una notte, mentre il miserabile giace addormentato, un bue urina sulla sua mano malata, guarendola. Si giunge così alla scoperta del gōmēz, l'urina di mucca, considerata il liquido purificatore per eccellenza nello Zoroastrismo e utilizzata come tale nel rituale di nove notti di Barashnûm (come descritto nel nono capitolo della Vendidad).[2]

Takhmurup e i tre fuochi sacri nel Bundahishn

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Secondo i versetti 8-9 del diciottesimo capitolo del trattato cosmologico noto come Bundahishn, i tre preminenti Ātar (Grandi Fuochi) dell'antico Iran – Farnbag, Gushnasp e Burzin Mihr – furono portati lì sul dorso del bue Srishok da un luogo chiamato Khwaniratha, durante il regno del sovrano primordiale Takhmurup – presumibilmente con la sua conoscenza e forse al suo comando. Il testo del Bundahishn non è di facile interpretazione a questo punto, ma sembra significare che un gruppo di uomini cavalcava lungo le rive del Mar Caspio sul dorso del bue, trasportando con sé un altare del fuoco, sul quale ardevano i tre atar (fuochi sacri). Si scatenò quindi una tempesta e il vento strappò l'altare del fuoco dal dorso di Srishok e lo trascinò in mare. I tre fuochi sacri, tuttavia, non si spensero ma miracolosamente rimasero accesi sulle acque, illuminando gli uomini verso la loro destinazione (non specificata).[3][4] L'insolito concetto di fuoco che arde in mezzo all'acqua si ritrova anche in relazione all'antica divinità indo-iraniana Apam Napat ed entrambe le occorrenze del motivo mitologico potrebbero dover qualcosa all'osservazione precoce di fiamme (derivate dalla fuoriuscita di idrocarburi naturali) che aleggiavano vicino alla superficie del Mar Caspio, più specificamente la parte sud-occidentale, attualmente sfruttata dal giacimento di gas Absheron vicino a Baku in Azerbaigian.

Costruzione di Shiraz

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Secondo alcune tradizioni iraniane, la città di Shiraz fu originariamente costruita da Tahmures.[5] Alcuni scrittori nativi hanno affermato che il nome Shiraz deriva da quello del figlio di Tahmuras.[5]

Vedi anche

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  1. ^ Les types du premier homme et du premier roi dans l'histoire légendaire des Iraniens Part I (1917) by Christensen, Arthur pps. 184-189.
  2. ^ Myth in Indo-European Antiquity ed. Larson, Gerald James and coedited by Littleton, C. Scott and Puhvel, Jan (pps. 17-28 : Le Borgne and Le Manchot : The State of the Problem, essay by Dumézil, Georges - Professor Emeritus, Collège de France) pub. University of California Press 1974 as one of the series Publications of The UCSB Institute of Religious Studies ISBN 0-520-02378-1
  3. ^ Greater Bundahishn (chapters 12–26), su avesta.org.
  4. ^ Persian Mythology, by Hinnells, John R., volume in the series Library of the World's Myths and Legends. Newnes Books, 1985.
  5. ^ a b Josiah Conder, Persia and China, Printed for J. Duncan, 1827., p. 339

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