Utente:Claudio Gioseffi/Sandbox 1
Vicenza nel XV e XVI secolo
Il contesto, politico ed economico
Nel 1404, per difendersi dai Carraresi di Padova, la città si era data alla Serenissima Repubblica di Venezia, accettando le condizioni di questa dedizione[1]. L'aristocrazia cittadina era riuscita a mantenere e anzi a rafforzare il proprio potere nei confronti del contado, dal quale traeva le risorse che le servivano per alimentare il proprio alto tenore di vita[2].
Essa però non aveva alcun ruolo nel governo della Repubblica, completamente in mano alle famiglie patrizie veneziane dopo la Serrata del Maggior Consiglio, avvenuta nel 1297. I poteri del'aristocrazia vicentina erano limitati anche in città, il cui governo era affidato a un podestà, a un capitano, tre giudici, due cancellieri e alcuni conestabili designati da Venezia, tutti funzionari il cui costo era a carico della città[3].
Fino alla fine del Quattrocento la dedizione a Venezia risparmiò Vicenza dall'essere coinvolta in guerre, il che determinò un grande sviluppo economico che continuò per tutto il Cinquecento. Le attività produttive più rilevanti, oltre alle estese colture agricole nelle campagne, risultavano essere quelle cittadine legate alla lavorazione delle pelli, delle lane e dei metalli preziosi; la produzione era così fiorente da attirare manodopera dalla Lombardia e persino dalla Germania.
Questo periodo di grande vitalità produttiva ebbe come conseguenza anche un notevole sviluppo delle lettere e delle arti, della costruzione di lussuosi palazzi, dapprima in stile gotico veneziano, poi in stile rinascimentale e neoclassico. Il tutto favoriva la cultura cittadina, aperta alla circolazione delle idee e alle posizioni politiche e intellettuali, sia quelle del mondo antico greco romano, sia quelle provenienti dai Paesi d'Oltralpe; alla fine del XV secolo e agli inizi del XVI particolarmente attraenti e suggestive erano le idee di Erasmo da Rotterdam[4].
Nella prima metà del Cinquecento Vicenza dovette muoversi all'interno di un contesto politico piuttosto difficile da gestire.
- L'ambizione del papato con l'impero e gli stati
- Lo scontro politico tra venezia e il papato.
- La guerra della lega di Cambrai. Le simpatie per l'imperatore
Il contesto religioso
A differenza del periodo medievale, con la dedizione a Venezia si era creata un'alleanza tra l'apparato politico e quello religioso che aveva favorito la stabilità di governo sia della città che della diocesi. Il Senato veneziano si faceva carico di segnalare alla Curia romana i candidati a benefici ecclesiastici, tanto che per quattro secoli quasi tutti i vescovi furono scelti tra i membri delle famiglie patrizie della Dominante.
Vi era anche l'accordo che il vescovo fosse tenuto a risiedere sempre in città ma questo avvenne, nel XV secolo, solo per un decennio o poco più sotto l'episcopato di Francesco Malipero); la designazione di un vescovo di famiglia patrizia era soltanto un modo di fargli fare carriera e ottenere privilegi. Per quasi tutti i quattro secoli del dominio veneziano la maggior parte dei vescovi visse fuori Vicenza e il governo della diocesi fu affidato ad un vicario generale[5].
Per quanto riguarda la vita della Chiesa, nella prima metà del XV secolo un qualche rinnovamento della vita religiosa ci fu, anche se non a tutti i livelli.
La pietà popolare fu alimentata da alcuni eventi particolari durante l'episcopato di Pietro Emiliani: l'apparizione di Maria a Vincenza Pasini, che venne percepita come una particolare protezione della Madonna sulla città, il ritrovamento dei corpi dei Santi Felice e Fortunato e la predicazione di Bernardino da Siena.
Il suo successore Francesco Malipiero si impegnò nella riforma del clero regolare - che era ridotto ai minimi termini sia per la scarsità di vocazioni che per la rilassatezza dei costumi - favorendo l'insediamento di religiosi e religiose provenienti dall'esterno e imponendo la regola dell'osservanza ai monasteri e ai conventi esistenti[6].
I due vescovi non cambiarono invece il sistema parrocchiale ed anzi continuarono a distribuire benefici a sacerdoti per lo più provenienti da fuori diocesi[7]. Spesso più benefici attinenti a parrocchie e a chiese anche distanti tra loro venivano assegnati alla stessa persona che, naturalmente, non esercitava la cura d'anime sul posto[8].
L'esercizio delle funzioni liturgiche e dell'attività pastorale era affidato a un clero secolare di bassissimo livello culturale e di conoscenza dottrinale[9]. Quanto allo stile di vita, nulla era cambiato rispetto al degrado dei costumi osservato nel Trecento; il clero partecipava - fatte salve alcune significative eccezioni di sacerdoti integerrimi - alle condizioni di abbrutimento in cui viveva la popolazione: rissosità, violenza, pratica della convivenza e del concubinato[10][11].
Gli elementi che costituiscono la vita religiosa di quel periodo - cioè dall'inizio del Quattrocento all'attuazione dei decreti del Concilio di Trento nella seconda metà del Cinquecento - possono quindi essere così sintetizzati:
- una concezione del mondo di stampo medievale che non veniva messa in discussione: l'ordine del mondo viene da Dio, le autorità sia laiche che ecclesiastiche hanno il compito di attuarlo. La simbiosi e la complementarità tra i due poteri non vengono messe in discussione, a Vicenza come in tutta la Repubblica
- l'espressione della fede era esteriore e collettiva: autorità, aristocrazia e popolo partecipavano in massa alle cerimonie religiose ed anche le cerimonie civili avevano sempre un sigillo religioso. Era invece scarsa nei fedeli come nel basso clero la conoscenza dei contenuti della fede, così come è scarsa la conoscenza delle Scritture[12]
- era diffusa una pietas popolare basata sul culto dei santi, visti come patroni intercessori e taumaturghi per la salvezza individuale e collettiva dell'anima e del corpo. Nelle campagne la religiosità è molto legata ai cicli naturali e alla produzione agricola
- il controllo sul comportamento dei fedeli era molto stretto: le relazioni dei parroci dovevano citare il numero di quanti si confessavano, si comunicavano o erano concubini. Viceversa il controllo sui comportamenti dell'alto e del basso clero era quasi inesistente
- i monaci e i frati erano, ben più del clero parrocchiale, i punti di riferimento della religiosità popolare i soli che conoscevano le Scritture ed erano in grado di predicare. Alcuni episodi di rinnovamento a parte, anche monasteri e conventi soffrivano del clima generale di rilassatezza dei costumi e tendevano a svuotarsi
- dopo la distruzione della Chiesa catara agli inizi del Trecento e fino alla riforma protestante non si conoscono a Vicenza movimenti di dissenso religioso e neppure di concreta contestazione alla Chiesa.
Il Cinquecento si aprì con una lunga serie di amministratori apostolici nominati direttamente dalla Santa Sede, in genere membri di potenti famiglie romane come i Della Rovere, che avevano iniziato la loro ascesa con l'elezione di Sisto IV nel 1471[13]. Era il tempo del conflitto tra il papato e la Serenissima, quando papa Giulio II Della Rovere guidava contro Venezia la Lega di Cambrai. Questo sistema durò fino al 1565, quando si cominciò a dare applicazione ai decreti tridentini, che stabilivano l'obbligo della residenza.
L'arrivo e il radicamento della Riforma a Vicenza
La diffusione di idee religiose fu inizialmente - nel secondo decennio del Cinquecento - sporadica e disorganizzata, ma si rinvigorì progressivamente attraverso la formazione di conventicole, circoli e comunità.
L'ampiezza e la rapidità di questa diffusione a Vicenza si può spiegare con:
- l'appassionato interesse per il pensiero di Erasmo da Rotterdam - che compressiva anche la polemica contro gli ordini monastici e critiche costruttive rivolte alla Chiesa - che influenzò un robusto nucleo di aristocratici che frequentavano le Accademie della città (l'Accademia Olimpica, l'Accademia dei Costanti, l'Accademia dei Secreti)[14]
- i fermenti presenti nella predicazione di religiosi come Pietro Speciale da Cittadella o Francesco Negri da Bassano
- le prime notizie della "riforma" invocata da Lutero, giunte a Vicenza già nel 1518, portate dai mercanti tedeschi provenienti da Augusta e Norimberga[15]. Dopo questa data si instaurò a Vicenza un ampio circuito intellettuale attorno ai temi delle indulgenze e del peccato, del perdono e della grazia. Il clima religioso cittadino ne venne profondamente influenzato, e la figura di Lutero fu sempre più presente nella società vicentina
- la presenza di un ceto imprenditoriale - sia di nobili che di agiati borghesi - che venivano influenzati dal pensiero calvinista
- l'insofferenza che da tempo le persone manifestavano verso i privilegi e il malcostume del clero[16] che, anche a Vicenza, versava in uno stato di corruzione; i conventi versavano nel disordine, le parrocchie erano abbandonate[17]. Eppure si manteneva e si ravvivava l'entusiasmo devozionale provocato dalle prediche quaresimali di frati, come furono quelle di Bernardino da Siena o nel 1499 di Timoteo da Lucca che aveva osato non solo biasimare l'indegnità di tanta parte del clero secolare, ma anche del papa Alessandro VI, dichiarandosi disposto e addirittura desideroso di essere deferito a Roma per subirvi il martirio sull'esempio del Savonarola
- il malessere della popolazione rurale - anche quella di origine tedesca nella fascia pedemontana - in condizioni di povertà e di ignoranza, sulla quale facevano presa le idee anabattiste, fortemente contestatrici del potere ecclesiastico e di quello politico.
Gian Giorgio Trissino e Villa Cricoli
Agli inizi del Cinquecento le famiglie dell'aristocrazia vicentina - tra le più prestigiose quelle dei Trissino e dei Da Porto - si incontravano nelle loro case e nei loro giardini, talvolta si riunivano in cenacoli aperti alla cultura italiana ed europea[18]. Lì si discuteva di retorica, oratoria, filosofia neoplatonica, del mondo turco, di medicina; in quest'atmosfera era naturale parlare e discutere anche di religione, delle sue origini e della vita della Chiesa. Erano luoghi di incontro e di confronto, in cui si riunivano gli intellettuali innovatori di Vicenza e si respirava un'attesa di renovatio[19].
Uno di questi era Gian Giorgio Trissino, uomo di grande cultura umanistica, poeta, autore di opere teatrali, grammatico, architetto, con un'esperienza politica di funzionario a seguito dell'imperatore Massimiliano I e di ambasciatore a Venezia per conto del papa. Per lui innovare significava fare esperienza, conoscere e non era insensibile alle proposte di riforma provenienti dalla Germania; rifiutava la corruzione ed era interessato alla ricerca delle fonti del cristianesimo. Fra il 1519 e il 1522, interessato a conoscere quanto proponeva Lutero, frequentò le riunioni presso la casa dei Verlato e dei Chiericati.
Dopo il 1520 villa Trissino ai Cricoli, che Gian Giorgio aveva ereditato dal padre, divenne uno dei motori propulsivi della cultura vicentina. Centro ideologico del circolo di Cricoli era l'insegnamento di Erasmo da Rotterdam. Animatori di questo circolo erano Gian Giorgio Trissino e Roberto Verlato: il Trissino entrò nell'arena del dibattito teologico con lo sguardo rivolto alla Chiesa delle origini, che egli identificava con la Chiesa romana, discostandosi in questo da quanto pensava Erasmo. Se Villa ai Cricoli non divenne un luogo in cui si sviluppò la Riforma, nel vero senso della parola, fu tuttavia in cui venivano trattati problemi teologici e dottrinali fondamentali[20]. Dopo il 1539 la villa divenne sede di Accademia.
Per Gian Giorgio, peraltro, la fonte della verità rimaneva la Chiesa romana: difficile individuare quanto per vera convinzione e quanto per tutelare la propria posizione e i propri privilegi a Vicenza.
La corrispondenza di Gian Giorgio al figlio permette di comprendere, perlomeno in parte, quello che in seguito diverrà il fenomeno del nicodemismo. Nel 1542 egli scrisse a Giulio non con l'intento di farlo riflettere sulla erroneità della sua interpretazione dottrinale in relazione al suo ministero (era canonico e arciprete della Cattedrale), quanto, invece, sui danni che dalla sua condotta sarebbero derivati alla loro casa e a lui stesso se persisteva nelle sue idee: avrebbero perso le decime, le possessioni e i fitti della Val di Trissino; Giulio avrebbe perso il Bevadoro e la residenza del presbiterato, non sarebbe più stato cameriere del papa, incarico che gli fruttava ben 1000 ducati di entrata. In chiusura gli ricordava che dai maledetti luterani non avrà ne roba né onori. Giulio, comunque, vi scorse solo hypocrisia e corruzione; i luterani possono essere maledetti, fastosi saranno sicuramente i benefici che la corte di Roma offre, tuttavia il nuovo Vangelo apre altre vie, altri rinnovamenti[21].
La diffusione delle idee di Lutero e di Zwingli negli anni venti
Nel corso degli anni venti Vicenza divenne una delle principali città italiane - assieme a Siena e a Lucca - in cui trovarono accoglienza e diffusione le idee di Lutero. In breve tempo nacque una rete culturale di piccoli circoli, incentrati attorno ad aristocratici sensibili alla cultura umanistica ed economicamente agiati, pertanto vicini alla nobiltà germanica.
Tra i più importanti vi era quello che faceva riferimento alla famiglia da Porto, in cui erano presenti prestigiosi giuristi[22], che fu definito "l'antico e solido circolo riformatore"[23]. Altri si trovavano nelle case dei Capra e dei Thiene, proprio all'interno del centro storico, nelle quali si costituirono circoli in cui si commentavano le epistole di San Paolo e si discuteva sul comportamento della Chiesa, come contestato da Lutero. Questo fervore religioso inaugurato da Lutero, si accentuò a Vicenza fra il 1520 e il 1530 con l'introduzione delle lezioni di Martin Bucer e Zwingli.
Una rilevante influenza in questa fase iniziale sembra possa essere attribuita anche all'azione dell'ex-monaco benedettino Francesco Negri da Bassano, discepolo e portavoce di Zwingli[24]. Nella primavera del 1530 egli ritornò in terra veneta per compiere un'azione di diffusione delle nuove dottrine; egli andava "occulto in diversi lochi ..." per visitare "diversi anche fratelli" (se parlava di "fratelli" questo significa che un forte legame associativo era già esistente).
Il Negri non desistette dal guidare i confratelli zwingliani vicentini, anche dopo che ebbe fissato la residenza a Chiavenna, ma la sua ecclesiologia si mantenne riservata a un ceto colto e piuttosto nell'ambito della borghesia. Il suo indirizzo dottrinario procedette verso il radicalismo razionalistico, tuttavia rifiutando le contaminazioni platonizzanti e, d'altra parte, il soggettivismo religioso, il Negri si professava "contrario a tutte le eresie di qualunque sorte si siano, e particolarmente a quella degli anabattisti"[25].
I circoli calvinisti
Successivamente, alla propaganda luterana e zwingliana s'intrecciò e subentrò in modo sempre più incisivo, nei ceti borghesi e fra gli aristocratici colti, quella calvinista, anche se l'emergere e il progressivo distinguersi dei calvinisti vicentini non fu precoce e neppure evidente, tanto che ancora nel 1551 il "delatore" Pietro Manelfi, nelle sue confessioni, li classificava tutti come luterani e li contrapponeva agli anabattisti[26].
Secondo Stella, le divergenze dottrinarie, che in seguito andarono approfondendosi, comportarono la separazione delle diverse tendenze confessionali sulla base discriminante delle aree sociali, e quindi venne meno la fraterna solidarietà cristiana al di fuori del proprio ceto; parve che si ridestassero antichi rancori o simpatie e propensioni politiche, non certo filoveneziane `. Luterani filoimperiali si mantennero i vicentini di estrazione nobiliare, mentre quanti appartenevano alla borghesia cittadina divennero fautori dell'indirizzo riformatore svizzero zwingliano o calvinista. Tuttavia, nonostante il progressivo divario confessionale, almeno formalmente una qualche tolleranza pratica continuò nei rapporti fra luterani e calvinisti vicentini, forse perché dovevano conciliare i loro interessi nel commercio della seta e anche per motivi culturali abbastanza convergenti. Partecipavano a compagnie (o accademie private, sull'esempio dei "ridotti" veneziani) organizzate dagli uni o dagli altri, che si radunavano più spesso in casa Pigafetta a Vicenza o nella villa dei Trissino a Cricoli oppure in una villa pedemontana a Lonedo[27].
Comunque, dalla farmacia detta del "Colombina" posta vicino al Duonio, alle case di Roberto Verlato a San Lorenzo e di Battista Linarollo a Porta Nova, ovvero nel centro della città, si estendevano congregazioni di riformati. Come accadeva anche in altre cittadine, la Bibbia si leggeva e si discuteva nelle piazze e nelle botteghe, nelle raffinate e ricche dimore dei patrizi e dei mercanti, ma anche nelle umili dimore degli artigiani. I "fratelli" si riunivano per commentare insieme i passi della Scrittura e i testi d'oltralpe, oppure, nel caso fossero analfabeti, per ascoltarne la lettura fatta dai membri colti. Di fatto, stava prendendo forma, mediante la lettura e l'ascolto della Bibbia, una nuova comunità in grado di ridurre le diversità sociali e che consentiva la circolazione delle idee forgiando così le coscienze individuali e l'identità religiosa del gruppo[28].
Rapporto tra capitalismo e calvinismo
È diventato comune l'associare il calvinismo alla nascita del capitalismo, a causa della sua dottrina sulla vocazione, sulla sua insistenza sulla necessità di lavorare in modo duro e diligente, come pure la moderazione in ogni cosa ed il risparmio. Max Weber, sociologo tedesco, seguito da Richard Henry Tawney, Ernst Troeltsch e molti altri, hanno proposto questa particolare interpretazione. C'è senza dubbio una certa misura di verità in questo (lavorare diligentemente, vivere in modo moderato e risparmiare, il tutto per la gloria di Dio, è indubbiamente una prospettiva biblica sul lavoro). L'insistenza però sul fatto che il calvinismo ponga troppo l'accento sulla proprietà privata, la pratica dell'interesse bancario e l'approccio razionale all'attività economica che conduce allo sfruttamento del lavoratore, mettendo così le basi per un capitalismo senz'anima, manca del tutto di evidenze storiche ed è ancora da comprovare. Alcuni hanno osservato come, di fatto, sono stati gli avversari del calvinismo a favorire e sviluppare il capitalismo.
v. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Il radicamento del protestantesimo negli anni trenta
Nel secondo quarto del XVI secolo le idee della riforma protestante - provenienti soprattutto dall'area tedesca e svizzera - si diffusero abbastanza rapidamente anche a Vicenza, dove trovarono molti disposti ad accoglierle, insofferenti dei comportamenti ecclesiastici e sinceramente desiderosi di una riforma in senso evangelico. La diffusione di queste idee interessò strati sociali diversi a seconda dei canali che seguì e delle diverse sensibilità che incontrò.
Così sulla famiglie nobili filotedesche ebbe maggior presa la confessione luterana, mentre la borghesia cittadina fu più sensibile al calvinismo zwingliano. Per un certo tempo però queste due componenti si ritrovarono assieme, partecipando a compagnie - o accademie private - che si riunivano spesso in casa Pigafetta o nella villa dei Trissino a Cricoli[29]. Più volte venne segnalato a Venezia e a Roma che le adesioni al protestantesimo erano in continua crescita - si parlava di centinaia di aderenti - durante l'episcopato di Niccolò Ridolfi, peraltro sempre assente dalla città.
Fra le varie congregazioni che si erano venute a formare alla fine degli anni venti, una delle più importanti fu quella guidata da Giulio Thiene nel 1530. Essa riuniva Giulio Trissino, Davide Loschi, Giulio Capra, Federico Valmarana, Piero e Pasqualin Tornieri, Giovanni Battista Tinto¬re, Antonio da Finale, Paolo Gorgo e molti altri. La stessa era in collegamento con i Da Porto e riuniva non solo nobili, ma pure commercianti, tintori, taiacalce, caligher, lavoratori del cuoio. Di tutti questi si raccontava che «sono luterani el se ne parla pubblicamente per la terra, che non vanno a ressa, né si confessano, né si comunicano (...)"[30]}.
Le congregazioni si espansero a partire dal 1535; nel 1548 la diffusione era tale che, dal processo contro di lui, il Colombina dichiarò: "ognuno dei capi deli altri riunisce circa sessanta persone, le quali leggono i salmi, la Bibbia, discutono sul purgatorio e la grazia. I più preparati nell'interpretazione dell'Evangelo crearono altre congregazioni aprendole non solo ai zentilhomini quanto et poveri hominii"[31].
Vicenza, forse perché era un importante centro produttivo da cui arrivavano e partivano merci e persone, venne a trovarsi sulla rotta di un circuito europeo del libro che diffondeva nella Penisola libri, manifesti e spezzoni di propaganda contro il papato. Dalla Germania, da Lione, da Ginevra e da Basilea, giungevano a centinaia i libri del "nuovo Evangelo". Iniziarono a comparire scritti in volgare in piccolo formato, in rodo da poter essere nascosti nelle botti, nei bagagli dei mercanti e nelle balle di seta. Balle e casse che si riunivano a Como prima di essere trasportate a Vicenza. Prese così consistenza un esteso commercio dei libri la cui vendita avveniva, in questo periodo, in piazza o nelle diverse vie di Vicenza. Dal 1538 in poi le librerie si organizzarono maggiormente, e restavano aperte nei giorni di mercato oppure il Sabato e la Domenica.
Detto diversamente, tutto un mondo di mercanti, di case nobiliari e di apoteche, ruotava attorno a questa immensa diffusione, che alimentava il dibattito sulla necessità di "innovare", giungendo ad influenzare pure gli artigiani, i venditori ambulanti, e le persone di condizioni più umili. Contemporaneamente, aumentarono le crisi interiori che portavano ad un Vangelo riscoperto e rinnovato. L'unica vera fede era quella che riposava sulla crocifissione di Gesù Cristo, ripetevano Loschi, Giulio Trissino e il Colombina[32]}.
La diffusione del calvinismo: Fulvio Pellegrino Morato e Francesco Malchiavelli
Anche se, per la scarsità di documentazione, è difficile seguire la diffusione delle idee protestanti a Vicenza[33], sembra che le origini del calvinismo vicentina siano dovute principalmente all'opera di Fulvio Pellegrino Morato, un umanista proveniente dalla corte ferrarese degli estensi di Renata di Francia - in seguito un luogo di raccolta e di appoggio per coloro che avevano aderito alla Riforma - che risedette a Vicenza tra il 1532 e il 1539.
Gian Giorgio Trissino, che controllava le nomine alla funzione di "lettore pubblico" della città, - problema importante in quel momento, perché la funzione avere conseguenze sulla stabilità religiosa ed istituzionale di Vicenza[34] - indicò Morato che si insediò in città nel 1532.
Ben presto la sua casa, dopo le letture pubbliche, divenne un "cenacolo" che attraeva i giovani aristocratici e gli umanisti che soggiornavano a Vicenza. Le sue lezioni trovarono terreno fertile in particolare nelle casate dei Da Porto, dei Verlato, dei Thiene e dei Trissino, senza creare, inizialmente, particolari dissensi, anche in virtù della tolleranza che consentiva al movimento riformato di agire allo scoperto. Alla sua scuola furono formati alcuni giovani che poi avrebbero aderito alla Riforma come Giulio Trissino, Marco e Nicolò Thiene. Luogo di communibus studiis la sua casa giunse ad avere un'importanza pari al cenacolo di Gian Giorgio Trissino. Da Vicenza, l'influenza del suo circolo raggiungeva le città di Mantova e di Ferrara.
Da quando, nel 1536, a Basilea usci l'edizione latina dell'Institutio christianae religionis, il pensiero di Calvino entrò nel cenacolo del Morato costituendo la base delle aspirazioni degli intellettuali vicentini e Fulvio Pellegrino Morato divenne un protagonista nella diffusione del pensiero di Calvino a Vicenza.
Nel 1539, mentre a Vicenza si imponeva il leder Calvino grazie all'impulso di Morato, egli perse il ruolo di lector publicus, a causa delle pressioni della curia e dell'aperta ostilità di Gian Giorgio Trissino, che crearono un clima di opposizione, al punto che Morato fu costretto a lasciare la città[35].
Dopo l'insegnamento di Morato furono determinanti per Vicenza, dal 1545 al 1548, le lezioni di Francesco Malchiavelli. Grammatico e amico della famiglia Roncale di Rovigo, anch'essa affascinata da Calvino e in relazione con i fratelli Pellizzari di Vicenza, Malchiavelli soleva lezer l'opera tanto ampliata di Calvino[36].
Le lezioni pubbliche del Malchiavelli fecero ancor più apprezzare e radicare il pensiero calvinista; tra i suoi allievi furono Alessandro Trissino, Giovanni Battista Trento ed Elio Belli[37].
Gli anabattisti
Essendo l'anabattismo un movimento non strutturato, come invece lo furono le chiese riformate, storicamente è stato difficile individuare e interpretare le fonti che riportano luoghi, persone e fatti ad esso relativi. Inoltre i documenti sono in numero limitato e spesso inquinati dalla storiografia di parte, poiché il movimento incontrò feroci resistenze e persecuzioni violente in tutta Europa. Solo dalla prima metà del Novecento l'impegno di studiosi, soprattutto mennoniti, ha permesso il ritrovamento o l'analisi di documenti che hanno gettato nuova luce e comprensione sull'anabattismo.
Nel Cinquecento il movimento anabattista si radicò a Vicenza e in varie località del territorio vicentino e anche nel padovano e nel trevigiano fino ad Asolo. Fu portato dai contadini trentino-tirolesi ribelli che, sconfitti e scacciati dalla Germania nel decennio 1525-35, si erano rifugiati soprattutto nella zona di Bassano e di Cittadella; si ispiravano alle dottrine di Conrad Grebel, Simon Stumpf e Felix Manz, quindi ad una linea di anabattismo moderato.
L'anabattismo si diffuse prevalentemente in ambito rurale, ma anche tra gli artigiani della città[38]. Nelle comunità si traducevano nel vernacolo veneto locale e si diffondevano manifesti della cosiddetta "riforma radicale", per promuovere l'avvento di una società veramente cristiana, libera e giusta.
Uno dei più attivi e influenti anabattisti a Vicenza fu "maestro Mattheo d'Alemanna tintore", insieme con "Zuan da Poschiavo", identificabile con il denunciato e inquisito "maestro Giovanni de Dolthiani callegaro"[39]. Vi furono anche preti tedeschi accusati e arrestati per propaganda religiosa eterodossa, come un certo "Enrico di Alemagna", cappellano nella chiesa di Recoaro, denunciato nel 1533 dagli stessi parrocchiani e arrestato nel 1535.
Il movimento aveva connotazioni sociali e comunitarie, sul modello dei fratelli Hutteriti, che in Moravia praticavano su base volontaria la comunione dei beni sia di produzione sia di consumo. Gli anabattisti erano organizzati in gruppi di studio o cenacoli, che però spesso vennero turbati da divergenze dottrinali: l'indirizzo prevalente, concordato nel Sinodo di Venezia del 1550, arrivò a conclusioni antitrinitarie, con la negazione della divinità di Cristo. Questa impostazione aprì la porta alla negazione di ogni dogma e persino delle regole comunitarie sino ad allora accettate.
Nel 1550 ebbe luogo, a Venezia, un Sinodo anabattista con sessanta delegati[40].
La Repubblica di Venezia e la Riforma
La circolazione delle idee
Nonostante le difficoltà provocate dalla guerra della Lega di Cambrai, le alleanze e le ostilità determinate sotto gli aspetti politico ed economico dai rapporti con gli Stati italiani ed europei, agli inizi del Cinquecento, Venezia e i suoi domini di Terraferma furono un terreno particolarmente favorevole alla diffusione delle idee provenienti da Oltralpe, dapprima quelle di Erasmo da Rotterdam, poi quelle di Lutero, di Calvino, dell'anabattismo.
I fattori che favorirono questa diffusione furono:
- la circolazione delle persone e delle merci, sia al porto di Venezia - dov'era cospicua la presenza di mercanti tedeschi presso i loro fondaci - che nelle città di Terraferma
- la circolazione della cultura nella città universitaria di Padova
- la grande quantità di stamperie e di case editrici presenti sia a Venezia - dov'erano oltre 500 - che a Vicenza; un'industria e un mercato librario che facilitavano la divulgazione delle nuove idee provenienti d'oltralpe.
Il territorio della Serenissima divenne un crocevia di uomini e d'informazioni che attecchirono rapidamente e diffusamente in un ambiente già ricco di istanze di rinnovamento; una delle città più sensibili a questa penetrazione era Vicenza che, per ragioni commerciali e pure geografiche, manteneva rapporti molto stretti con il mondo germanico.
La tolleranza della Serenissima
Durante la prima metà del secolo Venezia ebbe, nei confronti di queste idee, una politica di notevole tolleranza e di freno nei confronti degli organi ecclesiastici quando intendevano controllare l'ortodossia cattolica. Questa tolleranza rese facile la diffusione di materiale propagandistico e i movimenti di persone ritenute, dalla Chiesa, dottrinalmente sospette.
La Serenissima difese questa sua politica in materia anche con l'Imperatore Carlo V nel 1529, rispondendogli che non in tendeva perseguitare: "... quanto alli luterani et heretici, el Stato et Dominio nostro è libero et non potemo devedarli".
1 veneziani erano infatti tutt'altro che chiusi nei riguardi dei dissenzienti ed erano aperti al cambiamento: "li quali, perché Lutero ha detto cose diverse de gratia Dei et libero arbitrio, si hanno … della gratia et la infirmità humana; et credendo questi tali contradire a Lutero contradicono a santo Augustino, Ambrosio, Bernardo, san Thomaso; et breviter, mossi da buon zelo ma cum qualche vehementia et ardore di animo non se ne acorgendo, in queste contradictioni loro deviano dalla verità catholica et si acostano alla heresia pelagiana e pongono tumulti nel popolo".
Una tale apertura e tolleranza ingenerò in molti, in Italia e in Europa, la speranza che le autorità veneziane si facessero promotrici di una riforma della chiesa nel segno dell'Evangelo nella penisola. Tra questi, ad esempio, vi era Bernardino Ochino che dichiarò nel 1542 alla Signoria di Firenze: "Già Cristo ha incominciato (a) penetrare in Italia, ma vorrei che v'intrasse glorioso, a la scoperta, e credo che Venezia sarà la porta". Non sorprende, pertanto, che Venezia venisse presto considerata dalle autorità politiche e religiose cattoliche una "città infetta".
Le dottrine protestanti riscuotevano un consenso sempre più ampio nella Repubblica". Vi aderirono nobili, esponenti del ceto
La tolleranza della chiesa vicentina
Una tale libertà di movimento all'interno della città fu resa possibile dalla tolleranza della Serenissima e dall'assenza del Vescovo incaricato.
Il cardinale Niccolò Ridolfi, che fu vescovo di Vicenza dal 1524 al 1550, rimase assente dalla sede episcopale. Solo nel 1543, indotto dallo zelo controriformista, si decise a raggiungere la città di Vicenza. In realtà il suo comportamento era una consuetudine. Infatti, in quell'epoca i vescovi ormai da decenni non risiedevano in città, considerando la designazione alla sede berica come una tappa transitoria del loro cursus honoris, e preferivano coltivare le prospettive della loro carriera tra Venezia e Roma, delegando il compito a dei Vicari. A gestire la diocesi era così il potente capitolo della cattedrale, i cui componenti provenivano dalle principali famiglie aristocratiche cittadine'.
Ridolfi, ad ogni modo, era «imbevuto di cultura erasmiana» e non contrastò la diffusione dei libri e delle idee che arrivavano d'oltralpe". Anche con il suo consenso, le accuse per eresia venivano minimizzate in favore di una società aperta alle istanze del rinnovamento. Dionisio Zanettini, che ne faceva le funzioni durante le prolungate assenze, scrisse al Cardinale Famose: «Che dirò de Vicenza? Che Ridolfi coli li sol inali ministri che tien, ha facto lutherana quella città-, et perché io era contrario a' lutherana mi levò di quel loco, aciò potessero fare peto che mai»[41]. Di fatto, Ridolfi era parte di un circolo di nobili e borghesi immerso nei movimenti di riforma.
La repressione
La tolleranza della Serenissima si ridusse di molto verso la metà del secolo.
Nel 1542 la Chiesa romana aveva istituito la Congregazione del Sant'Uffizio (il Sant'Uffizio), che pretendeva di esercitare un'autorità esclusiva in fatto di valutazione e persecuzione dell'eresia, richiedendo la collaborazione e la sottomissione delle autorità civili.
Questo non era facilmente accettabile dalla Dominante dove, a differenza dal resto degli Stati occidentali, vi era una tradizione di identità tra Stato e Chiesa, "giustizia dello Stato e giustizia di Dio", vicina alla tradizione bizantina. Questa tradizione influenzò l'istituzione nel 1547 della magistratura veneziana dei "Tre Savi sopra l'eresia", una "inquisizione laica", composta da prestigiosi membri del patriziato, con cui il governo della Repubblica rivendicava una certa giurisdizione sugli eretici[42].
I Tre Savi avevano il mandato di affiancare il nunzio apostolico, il patriarca di Venezia e l'inquisitore di nomina papale nella persecuzione dell'eresia.I membri della magistratura venivano scelti con estrema cura tra i patrizi più anziani e con più esperienza; molto spesso erano eletti ex ambasciatori presso la Santa Sede, ed erano esclusi dall'elezione patrizi provenienti da famiglie di tendenze papaliste. [43].
Di fatto con questa soluzione, quando venivano accusati di eresia sudditi di una certa rilevanza, la Serenissima li proteggeva, controllando in modo stringente le indagini inquisitoriali.
La tollerante politica veneziana verso gli accusati di eresia ebbe una brusca virata in seguito alla denuncia di Pietro Manelfi presso il Sant'Uffizio di Bologna nel 1551. Manelfi, un vescovo anabattista, dichiarò all'inquisitore di essere stato luterano prima e anabattista poi, di essersi pentito, e di voler rivelare i nomi e i luoghi di tutti gli eretici che aveva conosciuto in dieci anni di viaggi nelle varie regioni d'Italia. In seguito abiurò e fu riabilitato. Egli denunciò centinaia di persone gettandole "in pasto allo zelo tremendo del tribunale" dell'Inquisizione[44].
A partire dai primi anni 60 del 500 l'inquisizione iniziò ad essere molto attiva a Vicenza e nelle altre città venete. Il governo veneziano, preoccupato nel preservare la propria neutralità, specie dopo la sconfitta della Lega di Smalcalda, cambiò politica assecondando l'azione degli inquisitori[45]. Infatti, una delibera del 12 aprile 1568 vietava ad ogni indiziato di eresia, citato ed inquisito, di stabilirsi entro i confini della Repubblica, imponendo a coloro che si trovavano in tale condizione e che avessero preso dimora, di andarsene nello spazio di 15 giorni[46].
Dopo questo cambiamento della politica veneziana, anche i Rettori di Vicenza iniziarono a promuovere un'azione contro i calvinisti vicentini che sfociò in processi e in una serie di arresti, determinando pure la fuga di alcuni.
Nonostante le denunce, il procedimento di inquisizione fu tardivo e la repressione molto blanda, cosicché praticamente tutti gli appartenenti ai ceti superiori poterono allontanarsi portandosi dietro i capitali. Venezia, che aveva notevoli interessi commerciali con la Germania, non voleva scontentare troppo i principi d'oltralpe, ferendoli nei sentimenti religiosi.
Tra i fuorusciti, i calvinisti Giovan Battista Trento che si stabilì a Ginevra, Alessandro Trissino e Odoardo Thiene.
Il movimento calvinista vicentino, sia degli esuli sia di quelli che erano rimasti in patria, si esaurì abbastanza presto nell'indifferentismo o nel conformismo religioso[47].
Nel 1563 iniziò il processo contro i fratelli Pellizzari, e quello di Nicolò si estese addirittura fino al 1565. Seguì a ruota il procedimento giudiziario di Alessandro Trissino, il quale il 31 maggio 1563 fuggì da Vicenza verso Chiavenna transitando per Mantova. Anche Odoardo Thiene fu chiamato a difendersi dall'accusa di eresia, e si rifugiò ad Heidelberg dove instaurò rapporti con Angelica Pigafetta e Nicolò Pavia.
Il nuovo clima instauratosi nella Repubblica fece sì che le personalità più incisive del movimento riformatore venissero a mancare. Ciò ebbe un doppio contraccolpo: Vicenza fu privata degli stessi organizzatori delle congregazioni; all'estero, ad esempio agli «Ugonotti di Lione», cessarono di pervenire le ingenti somme raccolte dalle collette effettuate a Vicenza, ingenerando una fragilità economica del movimento che incise sulla loro influenza politica[48]. Tuttavia, sostiene Olivieri, non venne meno l'ascendente intellettuale che aveva tentato di creare una teoria della libertà diversa da quella di Ginevra[49]. Ad ogni modo, Alessandro Trissino pur da Chiavenna e fino al 1576, continuerà a stimolare ed a incoraggiare gli italiani ad una scelta decisa e risoluta, mediante lettere private e circolari e con il suo R(Wionanicnto, una breve opera apologetica dedicata al suo antico Odoardo Thiene.
Dopo il 1570 la storia del movimento riformatore vicentino e italiano mutò radicalmente. Dalla matrice calvinista-zwingliana il movimento assunse un carattere multiforme in cui si svilupparono dottrine nuove, svincolate da qualsiasi chiesa o dogma; studiosi, filosofi e letterati imbevuti di cultura umanistica, col desiderio di svincolarsi da quelle che ritenevano "pastoie dottrinali", presero a ruminare una critica verso il movimento riformato stesso, spingendolo verso una frantumazione dottrinale.
Si aggregarono in piccoli gruppi libertini, anabattisti e sociniani, i quali andavano per il territorio della Serenissima divulgando le loro idee e introducendo ovunque dubbi e malessere. Gli animi erano modificati, dall'ardore religioso e dalle conquiste brucianti della prima generazione si era passati all'irresolutezza, al dubbio metodico vissuto, della seconda.
Il "nicodemismo" era divenuto il criterio di vita dei riformati italiani, il loro abito mentale. Purtroppo le conquiste effettuate dagli innovatori vicentini sembrò disperdersi.
Le condanne che gli inquisitori imputarono, seppur in effige con i roghi delle maschere di Alessandro Trissino o di Odoardo Thiene, chiusero un periodo di profonda trasformazione. Una grande opportunità di cambiamento e di trasformazione della fede e della società sfumò miseramente.
E pur vero che per alcuni studiosi le parole chiave della storia vicentina e dell'opera di Alessandro - tolleranza, carità, amicizia - ritorneranno nella cultura successiva dei lumi, arricchendo il dibattito politico e religioso.
Ad ogni modo, un certo patrimonio di intelligenza, di operosità e di fervore religioso vissuto e sincero, con la repressione inquisitoriale nei confronti dei riformati era andato perduto. Secondo Trevor Roper la perdita fu di portata incalcolabile. «La sua dissipazione segna la data esatta in cui le classi dirigenti locali persero l'occasione per acquistare un più moderno abito mentale di laicità, d'intraprendenza e persino di vera fede e per sospingere Vicenza sulla via di uno sviluppo economico di stampo capitalistico che si sarebbe verificato solo alcuni secoli più tardi. Nel 1630 la Repubblica s'indebolì, la Controriforma prese il sopravvento e la vita commerciale appassì»[50].
La repressione della comunità anabattista
Come molte altre in Italia, anche la comunità vicentina fu tradita nel 1551 da Pietro Manelfi, presbitero cattolico passato all’anabattismo che - per cogliere l'opportunità del condono promesso da una bolla pontificia - decise di costituirsi, di riconvertirsi e di rivelare i nomi e l'organizzazione dei confratelli, provocando così la completa repressione del movimento anabattista esistente nei vari Stati italiani.
Alcuni degli anabattisti vicentini furono catturati, altri si costituirono spontaneamente, altri ancora fuggirono oltralpe e poi in Moravia, dove ricostituirono le comunità. Su richiesta dell'Inquisizione veneziana al Consiglio dei Dieci, nel 1565, due di essi che si erano ostinatamente rifiutati di abiurare furono condannati a morte per annegamento in laguna.
La comunità anabattista vicentina non fu completamente distrutta, ma continuò per alcuni anni nella clandestinità, con un indirizzo vicino all'illuminismo religioso di Lelio Sozzini e di Matteo Gribaldi[51].
Nicodemismo e dissimulazione
Il fenomeno della simulazione è alquanto articolato. In estrema sintesi e per quanto ci riguarda, per simulazione intendiamo una forma di religione privata. Nello specifico, persone che erano state influenzate dal pensiero della Riforma e che vi avevano aderito, per la paura del martirio o dell'esilio che sarebbero seguiti alla manifestazione pubblica della fede, l'occultavano. In pratica mostravano esteriormente di partecipare alla fede romana, mentre nell'intimo mantenevano le proprie convinzioni religiose[52].
Da qui la formula "simulazione e dissimulazione"[53].
Alcune persone e famiglie
Alcuni personaggi ed alcune famiglie coinvolti in vario modo nella Riforma della città.[54].
Giulio Trissino
Giulio Trissino, primo figlio maschio di Giangiorgio e di Giovanna Trislaig, nacque a Vicenza nel 1504. Cagionevole di salute, venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica, visse a Roma presso la corte di papa Clemente VII tra il 1523 e il 1525, periodo nel quale maturò una grande avversità verso i valori classici del padre e la stessa Chiesa.
Dopo che fu nominato canonico e arciprete della cattedrale di Vicenza si avvicinò alla Riforma Protestante.
Durante il suo periodo di insegnamento a Vicenza, il Morato riceveva attraverso Giulio libri della biblioteca paterna in prestito e otteneva protezione nel suo lavoro di organizzazione della nuova cultura riformata. Divenuti sodali, Giulio accompagnò il Morato nei suoi viaggi, avendo così modo di allacciare rapporti con la corte di Ferrara e Renata di Francia, con Zwingli e con il mondo culturale francese.
Queste relazioni furono fondamentali nel preparare l'approccio di Morato e dello stesso Giulio a Calvino. Nel frattempo, il cenacolo vicentino da loro costituito veniva affidato alla conduzione di Marco Thiene. Dopo le uscite di scena del Morato e del Malchiavelli, Giulio fu uno dei principali riferimenti del movimento calvinista[55].
La sua scelta di abbracciare apertamente la Riforma protestante risale attorno al 1538, anno in cui il padre gli rivolse delle accuse esplicite: «intesi questa pasqua che voi eravate diventato luterano e che avevate fatto un rabbuffo a fra Bonaventura da Catanzaro, perché egli aveva predicato che l'uomo ha il libero arbitrio; la quale opinione è tanto contraria a quella di Martin Lutero "de serbo arbitrio". Laonde ho avuto tanto dispiacere di questa cosa ... considerando che quel ribaldo di Peregrino Morato abbia avuto tanta autorità appresso di voi, che via abbia fatto ribellare non solo a vostro padre e indurvi a fare che voi gli vendeste fittamente e per niente i libri, ch'egli aveva rubati; tua ancora vi abbia fatto ribellare alla Chiesa Romana»[56].
Aiutò il cugino Alessandro e l'amico Nicolò Pellizzari, calvinisti, a riparare fuori dalla città.
Combatté aspramente e per lungo tempo il padre e il fratellastro Ciro (1524 – 1576) per l'eredità[57].
Nel 1573 finì sotto indagine da parte dell'Inquisizione; condannato e bruciato in effige a Roma, rimase tuttavia libero avvalendosi di fortissime protezioni. Nel 1577, tre anni più tardi, morì a Vicenza, abbandonato dalla famiglia[58]. [59].
Iseppo Da Porto
Con tutta probabilità l'adesione della famiglia Da Porto alla riforma, come del resto accadde per molte delle casate nobiliari vicentine, si situa nel periodo 1535-45. Fu fra le prime ad aderire alla fede riformata, assieme a quelle dei Verlato, dei Thiene e dei Trissino, nei cui palazzi si tenevano le prime riunioni evangeliche.
Da quanto emerse dalla confessione processuale dell'anabattista di Arzignano, Bartolomeo Del Bello, tra coloro che vennero dapprima imprigionati vi fu anche Iseppo da Porto, assieme ad altri gentiluomini, e cioè Manfredo Da Porto, Ottavio e Adriano Thiene, Iseppo Marigo, Giulio da Colzedo ed altre cinque o sei persone non identificate.
Gli esiti di questo processo del 1547 non sono chiari; tuttavia, negli anni seguenti il calvinismo riusciva a diffondersi senza incontrare particolari ostacoli e a dotarsi di una vera e propria struttura organizzativa. Ad ogni modo Da Porto e gli altri nobili con lui furono scagionati dalle accuse. Lo prova il fatto che negli anni dopo il 1550 Iseppo fu membro attivo della vita politica e culturale cittadina, ricoprendo le principali magistrature.
Durante questi anni di intenso impegno civile Iseppo sembra estraneo ai "fermenti protestanti". Tuttavia i suoi legami con i fuorusciti r(,1iCioiiis causa non possono non denunciarlo come un seguace segreto del calvinisino. Un nicodemita, appunto. Nel 1545 aveva sposato Livia Thiene, figlia eli Giovanni Galeazzo e Margherita Avogadro di Alvise, la quale era la sorella eli Adriano Thiene, implicato assieme a Da Porto nel processo del 1547 per «sospetto di eresia».
98. Tale carica gli venne riconfermata nel 1557 e ancora diversi anni successi¬vi (1559, 1561, 1565, 1567, 1509, 1572, 1574, 1576). 99. Ricoprì tale mandato per svariati inni (156 1, 1505, 1567, 1573, 1575, 1577). 100. Il —pallazo- è oggi conosciuto come la "basilica palladiana". 101. Nel 1552 infatti diede commissione A Palladio di dirigere la costruzione del suo palazzo in Vicenza, opera che fo ornata a sua volta con pitture di Pao¬lo Veronese. Intorno A 1550 quest'ultimo eseguì anche il ritratto dello stesso 11a l'orto raffigurato assieme A figlio Adriano. Unitamente a questo esiste anche il ritratto, sempre dello stesso periodo, della moglie Livia 1 Mene raffi¬gurata assieme 1111 figlia Porzia. 47 In seguito, nel processo contro Odoardo Thiene nel 1571, venne chiamato a testimoniare lo stesso Leonida Da Porto al quale furono chiesti quali rapporti fossero intercorsi tra suo padre e Odoardo Thiene, nonché informazioni circa la copiosa corrispondenza epistolare tra i due, dalla quale si potessero trarre elementi sulla colpevolezza di Odoardo".
L'interrogatorio di Leonida non sembra comunque aver procurato fastidi al padre. Del resto alcuni anni prima, e precisamente nel 1568, il nome di Da Porto appariva tra gli eretici denunciati da Francesco Burroni, procuratore dell'esule Giulio Thiene, inquisito a sua volta per eresia. Burroni, infatti, aveva nominato all'inquisitore alcuni vicentini noti per le loro simpatie ereticali e tra questi anche Da Porto e i suoi famigliari. «Io lui ricordo di haver sentito a dir già pur assai, che l'era sta accusato il Conte Battista, et il Conte Iseppo di Portj». Comunque, nonostante i vari riscontri derivanti da testimonianze rese in processi, legami personali e corrispondenze, i Da Porto nella veste di aderenti alla riforma rimasero nell'ombra"".
102. Da Porto aveva anche acquistato parte dei beni che Odoardo vendette a seguito della sua fuga da Vicenza in terra ritornata, come appare da un atto notarile rogato in data 27 maggio 1572. 103. Come è stato abbozzato, sui Da l'orto <mon mancano importanti nessi che tracciano una genealogia ereticale». Intatti nel 1568 Fabio Da porto veniva denunciato per eresia e lo stesso accadeva a Leonida nel 1579. A. 0livieri, Palladio Le (orti e le Famiglie, pag. 60, nota 3.
La famiglia Pigafetta
Secondo Mantese la famiglia Pigafetta era, con quella dei Thiene, quella che dava la testimonianza più chiara alla «dilagante nuova ideologia religiosa»[60].
Matteo Pigafetta apparteneva ad una famiglia che appare implicata, assieme alle famiglie Trissino e Thiene in particolare, alla diffusione del movimento riformatore vicentino e veneziano. Il padre, Camillo Pigafetta, era un frequentatore del cenacolo veneziano di Girolamo Donzellini, medico che aveva aderito al protestantesimo e poi subì diversi processi per eresia, finché nel 1587 fu condannato dall'Inquisizione veneziana alla morte mediante affogamento.
Molto probabilmente apparteneva alla stessa famiglia anche Antonio Francesco Pigafetta, immatricolatosi presso l'Università di Basilea nel 1552¬155Y[61].
Matteo sembra partecipasse allo studio ed alle discussioni che si tenevano già negli anni quaranta nella villa della sua famiglia a Vicenza[62]. Durante le riunioni si leggevano e commentavano pagine della Bibbia, di autori classici, dei Padri della Chiesa come Sant'Agostino, di umanisti come Erasmo da Rotterdam, ma anche l'Institutio christianae religionis di Giovanni Calvino[63].
Queste esperienze portarono Matteo a incontrare Girolamo Cato, un giovane e dotto maestro di Ferrara, che nel 1547 tradusse due opere di Cipriano - vescovo di Cartagine e Padre della chiesa - apponendovi una dedica all'amico Matteo. Due anni dopo Girolamo fu processato a Pesaro come eretico e condannato alla galera per tutto il resto della sua vita[64].
Della famiglia Pigafetta si ricorda anche Angelica, nata Piovene, che era entrata nella famiglia Pigafetta sposando Alessandro.
Da un atto pubblico del 5 giugno 1534, risulta che i due fratelli Girolamo ed Alessandro del fu Giovanni Alberto Pigafetta abitavano in una casa situata «super platheola Bericorum» (l'attuale piazzetta Gualdi) in uno dei tanti fabbricati cinquecenteschi dell'isolotto delle "bericae" (prigioni di Berga) sorte sull'area dell'omonimo teatro romano[65].
Angelica non visse a lungo con il marito in quanto la morte lo colse nel 1557, cioè una decina di anni prima che la vedova Angelica mettesse in atto la sua fuga. In seguito ad una rottura con i fratelli Piovene e abbandonata o quasi dalla famiglia del defunto marito Alessandro, Angelica trovò accoglienza nella famiglia della madre Caterina, i Marana, i quali avevano una ricca possessione ad Asigliano nel basso vicentino. Con Asigliano deve essere ricordato anche Orgiano, dove Angelica Pigafetta trovò un «maestro nelle novità religiose», Iseppo Moscaia[66]. Risulta che questo Iseppo si era recato da Angelica portandole una copia della Institutio di Calvino per leggerla e discuterla insieme.
La lettura di Lutero e di Calvino e l'esposizione all'Evangelo, portò progressivamente Angelica ad allontanarsi dalla religione cattolica. Nell'aprile del 1568 fu infatti citata dall'Inquisizione di Vicenza mentre si trovava ad Asigliano. Dopo la prima comparsa in tribunale tornò ad Asigliano dove «cadde ammalata né volle più riprendersi». Fu perciò arrestata come renitente e venne relegata nel monastero delle Convertite in Pusterla insieme con il figlio Leonardo, natole dal matrimonio con Alessandro.
L'agosto dello stesso anno, Angelica con il piccolo Leonardo e insieme a Nicolò da Pavia «partì per le terre franche, prima in terra detta Tirreno et ivi restassemo per due dì»`. Arrivati in Valtellina, si ritrovarono soli e privi di tutto e fu per questo motivo che iniziarono a pensare ai beni che Angelica aveva lasciato in pericolo di essere sequestrati e confiscati dal Tribunale dell'Inquisizione.
Diretti a Chiavenna per raggiungere l'amico Alessandro Trissino, s'imbatterono a Sondrio in un certo Annibale Marangon, suo familiare, che la consigliò di non andare a Chiavenna e tanto meno farsi vedere in relazione con il Trissino.
Angelica e Nicolò attesero quindi presso la casa di Marangon che Alessandro Trissino venisse ad ascoltarli. Trissino insisteva che i due lasciassero l'Italia e si recassero da lui a Chiaven¬na dove sarebbero stati aiutati e sostenuti con i mezzi della comunità che lui stesso si avviava a condurre[67].
Non persuasi, Angelica e Nicolò si rivolsero allora ad un certo Nicolò D'Aviano il quale avrebbe dovuto trattare a Vicenza i problemi relativi al loro sostentamento e, sembra, anche del loro rientro nella fede cattolica. Nel frattempo Angelica cadde ammalata per ben 45 giorni, periodo nel quale Alessandro Trissino continuava a sollecitarli perché si recassero a Chiavenna.
Decisi a seguire il suo consiglio, arrivati a Marbengo, furono ospiti di Carlo Moscon`. Alessandro continuava ad insistere e con una lettera di Odoardo Thiene «et la promission de mess. Pietro Martire che li prestò la stia casa, andasseino a Chiavenna ove io stesi due giorni o tre et poi partii per Vicenza (...)»"[68].
Giunto a Chiavenna trovò la povera Angelica in fin di vita. Sembra che Nicolò da Pavia, dopo la morte di Angelica si sia rivolto a Giovanni Battista d'Aviano e gli abbia affidato le sue sorti e quelle del figlio di Angelica, Leonardo Pigafetta. Il Tribunale in data 19 ottobre 1570 stava indagando dove si trovasse il figlio di Angelica; il martedì 24 ottobre Leonardo Pigafetta venne accompagnato da Giovanni Battista D'Aviano in Tribunale per l'interrogatorio sulla circostanza di due lettere a firma sua, e scritte una a Chiavenna in data 28 aprile e l'altra a Lovadina (Treviso) in data 10 ottobre dello stesso 1570. Per quanto concerne l'ultima lettera, Leonardo si attribuì l'intera responsabilità, mentre per la prima rispose che il contenuto gli era stato dettato da Alessandro Trissino. Il Tribunale, non credendo alla sua deposizione, non insistette per avere risposte più chiare e stabilì di farlo rinchiudere "in casonum S. Johannis in bragora", vietandogli ogni visita senza licenza del S. Officio. .
[69].
I fratelli Pellizzari
Il commercio e la diffusione dei libri riformati provenienti da oltralpe era controllato e guidato dalla compagnia dei fratelli Pellizzari. I grandi mercanti di seta di Vicenza costituiscono la nervatura del commercio dei libri. La loro casa, come amavano definirla, era situata a Vicenza, probabilmente in Borgo Pusterla: «un piccolo punto ricco di capitali e di idee che si espande, secondo molteplici raggi, nelle città europee dei commerci della seta e del calvinismo, Chiavenna, Ginevra, Parigi, Lione»[70].
Ricchi commercianti, la loro rete di relazioni era europea e connetteva l'Italia, la Francia, la Germania e le Fiandre. 1 fratelli Pellizzari possedevano telai e investivano capitali; per certi versi si muovevano come i grandi mercanti di Venezia: commerciavano, prestavano denaro, partecipavano agli andamenti del mercato[71].
Inoltre, erano acuti osservatori politici e religiosi ed erano animatí, in particolare Nicolò, da un profondo desiderio di vivere una nuova dimensione religiosa che permeasse tutta l'esistenza, mostrando di avere abbracciato senza riserve l'impianto calviniano.
E questa peculiarità che generò l'incontro, prima, e l'amicizia con Alessandro Trissino, poi. I fratelli Pellizzari possedevano due sensibilità diverse: Nicolò, dotato di un'ampia cultura umanistica, aveva la capacità di organizzare l'azienda, e risiedeva molto spesso a Vicenza nella sua abitazione a San Girolamo[72]. Bernardino, invece, amava viaggiare e più volte si recò a Parigi e a Lione ove pure risedette fra il 1558 e il 1563.
Il clima del gruppo che ruotava attorno ai Pellizzari era diverso da quello del Colombina; le situazioni si erano evolute ed erano gli anni in cui Vicenza sembrava trovare un ruolo come «una importante città del pensiero calvinista»[73].
I Pellizzari, insieme ad Alessandro Trissino, furono tra gli attori principali di questo nuovo ruolo: i primi organizzavano la dimensione economica del movimento, il secondo diffondeva i contenuti della nuova fede.
Il 1561 segnò drammaticamente la storia personale dei Pellizzari. L'inquisizione li scrutava, ne investigava ogni spostamento.
La svolta avvenne a Como il 1° gennaio 1563. Durante un'inchiesta fra gli abitanti di Como, città ricolma di luterani, vennero trovate delle lettere che rivelavano il loro ruolo centrale all'interno di una fitta rete di riformati. Dinanzi alla violenza del papato e delle sue oscure prigioni, tentarono insieme di rivelare la propria identità e creatività; molti saranno coloro che deporranno contro di loro, tuttavia restarono «operosi custodi ed alimentatori della libertà di coscientia»[74].
Nicolò in questo contesto usò il termine «battagliare per la fede», una battaglia che non li fermò neppure dinanzi all'oppressione violenta degli inquisitori.
Giovan Battista Trento
Anche Giovan Battista Trento era un mercante di pelli, di casa tanto a Venezia, al Fondaco vicino a Rialto dove incontrava i mercanti tedeschi, quanto a Ginevra, in cui divenne un abile organizzatore del gruppo di Alessandro Trissino. Fu anche attraverso la sua azione, di concerto con quella di Malchiavelli, che l'Institutio si radicò nella società di Vicenza dopo il 1540. La riforma ginevrina si diffuse suo tramite lungo i rami familiari raggiungendo anche Ludovico Trento, nobile e mercante di pelli, ed i suoi familiari.
Si consolidò, dunque, attorno ad Alessandro un gruppo di mercanti vicentini animati dalla diffusione del rinnovamento cristiano che proveniva da Ginevra. «11 commercio delle pelli oltre che delle sete ne identifica l'anima profonda... Si sente il profumo delle pelli, delle balle ricolme di sete, accanto alle parole di Calvino»[75].
Questi mercanti nascondevano agli inquisitori la rivoluzione religiosa che stava animando le loro abitazioni private. Tutta la famiglia era coinvolta, dai più grandi ai più piccoli. E come i mercanti vicentini e veneziani accompagnavano i figli maschi per mano nell'esperienza della mercatura, così nel gruppo di A. Trissino, i figli erano guidati ad apprendere un'altra forma di esperienza: «la diffusione del vero sermone di Cristo e di Davide, steso da Calvino, da Zwingli, da Beze».
Giovan Battista Trento fu autore di alcune opere satiriche. Le armi affilate della satira, del resto, venivano utilizzate per combattere l'Anticristo e celebrare la Nuova Sion. Giovanni Battista diede alle stampe a Ginevra nel 1566 l'edizione del Mappe-Monde nouvelle papistique assieme all'Histoire de la Mappe-Monde papistique. Quest'opera, che è stata definita un «mirabile esempio di cartografia iconoclasta»[76], presentava una grande mappa allegorica dell'universo valoriale cattolico, in cui si visualizzava l'antitesi irriducibile con l'universo dottrinale riformato.
L'Histoire, in parallelo, spiegava questa contrapposizione tramite doppi sensi e con pezzi pungenti di satira anticlericale. Ad esempio, Roma è raffigurata come il «Regno delle Buone Opere», diviso in province quali «Servizio dei Santi, Fabbrica dei luoghi devoti, Sacramentaria», ecc.; questo Regno, tuttavia, risultava popolato da animali mostruosi, da uomini dai costumi stravaganti e da ecclesiastici dediti ad ogni sorta di commercio, dalla magia nera, agli incantesimi ed all'alchimia; fra le altre attività del clero vi era la caccia ai fedeli dell'Evangelo e la pratica del cannibalismo, celebrato nella provincia più cara al papa, quella della messa. Insomma, il messaggio era alquanto sapido e tagliente e, soprattutto, sottolineava che «il mondo papistico» mostrava dei chiari segni di una sconfitta finale causata dalla cupidigia del clero e dal dispotismo del pontefice. Del resto, il «regno delle buone opere» veniva rappresentato come serrato nella bocca di Satana e assalito dall'esterno con la Bibbia di Zwingli, Bucero, Viret ecc., con la spada di Calvino e di Beze e, dall'interno, dai fedeli che demolivano i simboli dell'idolatria pagana[77]. [78].
Odoardo Thiene e la Confessio Fidei
Odoardo Thiene era figlio primogenito di Francesco Thiene, già simpatizzante dei Riformatori. Francesco, fu Bartolomeo, aveva sposato Margherita, figlia di Antonio, figlio a sua volta di Leonardo Thiene"[79].
Le abitazioni della famiglia Thiene, facente capo a Bartolomeo, si trovavano in Contrà Santa Lucia[80]. In questa casa, ogni sabato sera, molti si riunivano per discutere di "religione": «era usanza di far redur la compagnia in casa di Francesco Thiene a Vicenza ... vi era la fazione guelfa e la fazione ghibellina o la parte nobile e la parte ugonota». Alla morte di Francesco Thiene, avvenuta il 19 dicembre 1556, la moglie Margherita affidò al figlio maggiore Odoardo (in quanto l'altro figlio Teodoro era ancora minorenne) la facoltà di amministrare i beni della famiglia.
Le tendenze calviniste di Odoardo iniziarono a manifestarsi da subito; sembra che all'interno della stia famiglia, Giulio[81] e Brunoro Thiene, spingessero verso un rinnovamento della società che aveva risvolti spirituali"[82]. La lettura della Bibbia e delle opere di Aurelio Agostino erano di casa. In linea con queste aperture, nel sopra citato atto pubblico del 26 agosto 1557, le "spese di forestieri» dimostrano il suo impegno per la causa religiosa. Le vertenze con la madre incominciarono nel 1559, anche se, a parte certe questioni giudiziarie in materia amministrativa, le relazioni tra Odoardo e la madre sembrano essere state ancora buone nel 1560[83]. Alla morte della madre, il patrimonio venne diviso in due parti. Ad Odoardo toccò Cicogna, da cui il titolo di conte di Cicogna e la casa della madre"[84].
A Vicenza, Odoardo Thiene, assieme ai fratelli Pellizzari ed Alessandro Trissino, fu uno dei principali animatori della diffusione delle novità della Riforma introdotte da Pellegrino Morato e reiterate da Malchiavelli. Già nel 1556 era impegnato nelle riunioni calviniste a casa di Angelica Pigafetta[85] mentre nel 1567, assieme ad altri vicentini, si recò a Chiavenna dove rimase abbagliato dal «bon vivere et la quietezza de quelli luoghi per fuggir dai tumulti, scandali, inimicizia di Vicenza». Le fonti confermano che Odoardo fece parte sia della "Nova Compagnia", sia della "Academia dei Secreti"; quest'ultima, poi, nel 1565 si adunava "in monto ma.C.ci d. Odoardi de Thienis polita in contratta Castri Veteri.
Odoardo mise a disposizione per gli incontri un nuovo palazzo in Contrà Castello[86]. Questa, che era la dimora abituale di Odoardo Thiene, era divenuta luogo di ritrovo e vi si tenevano riunioni evangeliche considerate successivamente dall'Inquisizione «in odor di eresia». Non si esitava di criticare duramente la Chiesa di Roma e il papato, con la speranza oramai sfumata di un cambiamento radicale della Chiesa romana.
L'adesione di Odoardo al Protestantesimo, ovvero al cristianesimo privo di tradizioni e di idolatrie, fu autentica e senza mezze misure. Al punto che decise di emigrare all'estero per professare liberamente la propria fede. Rese partecipi dei suoi intenti alcuni amici, non mancando di affermare che «il credeva ch'el dovesse menare via de qua gran moltitudine de luterani, et massime de poveri, che non haveano modo».
Alla fine, nonostante alcuni politici veneziani lo avessero diffidato, dopo aver venduto i suoi beni, fuggì ad Heidelberg. «Essendo pervenuto a notizia del Santo Officio della Sacra Inquisitione di questa inclita città di Venetia con l'assistentia del Cl.mo ms. Pietro Venier deputato nel detto Santo Officio per Ill.mo Dorimio contra la heretica pravità, qualmente Odoardo de Thiene Conte da Vicenza dubitano ch'el prefato Santo Officio contra di lui dovesse procedere in materia di heresia, se n'è partito, et fuggito di essa città di Vicenza et è andato nelli Paesi di heretici ad habitare ove anche al presente si ritrova, vivendo ereticamente, et dando aiuto, albergo, et favore alli altri heretici in contemplo della sante fede catholica et apostolica Romana ...»[87].
Sembra che la fuga di Odoardo abbia dato inizio ad un "clamoroso esodo" di nobili verso la Svizzera[88]. Le fonti sono concordi nello stabilire la data della fuga di Odoardo dopo il 19 settembre 1567. Inizialmente lasciò la città senza portare con sé la moglie Diamante Pepoli che si trovava ancora a Vicenza il 21 maggio 1568. Molto probabilmente Odoardo era ancora in territorio italiano ma fuori dal territorio della Repubblica. Nel giugno del 1570, invece, Odoardo era sicuramente fuori dei confini italiani, come sembrano documentare le relazioni mandate al Consiglio dei Dieci dall'ambasciatore veneto a Roma, Michele Soriano.
Sempre nel luglio 1570 Alessandro Trissino scriveva da Chiavenna una lettera, allegando una copia del suo Ragionamento, al caro amico e fratello in Cristo Odoardo ad Heidelberg. Finalmente, afferma Odoardo, si trovava in quella terra «dove non si cacciava mano a spada, et senza tante superstizion si attendeva al vero culto di Dio»[89]. Perché è da Heildeberg, «la terra santa, la nova Hierusalem», che Odoardo realizza la vita dell'huomo nuovo. Ai mercanti vicentini e veneziani che incontrava, sembrava un uomo diverso, rinnovato. Dicevano: «ch'è qua in Italia l'era superbo, altiero, et là el sta retirato, basso, humile«[90]. Anche a coloro che lo circondavano testimoniava la grandezza della maestà di Dio. Insomma, era una persona diversa.
Ad ogni modo, dalla città tedesca mantenne le relazioni epistolari con gli amici italiani. Partito per l'esilio, la sorte del nobile ramo famigliare dei Thiene a Vicenza passava nelle mani del fratello Teodoro. Odoardo fece testamento a Ginevra il 17 settembre 1576 nominando erede universale il fratello Teodoro di tutti i suoi beni ancora in Italia, con l'obbligo di pagare 500 scudi alla comune sorella minore Attilia, sposata a Leonida figlio di Giuseppe da porto. Dalla lettura di tale testamento possiamo rilevare alcune espressioni che ci permettono di osservare quale era il suo stato d'animo nel momento in cui si trovò a concludere la sua esistenza in terra straniera. In particolare «ringraziava Dio per averlo condotto nella Chiesa del Suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore ed unico Salvatore, e fattogli conoscere in lui il solo rimedio della sua salute»[91]. Dopo aver ordinato di essere sepolto secondo gli usi locali, donava alla comunità calvinista della città di Ginevra la somma di 1000 fiorini, che sarebbe stata pagata dopo la sua morte dalla moglie Diamante Pepoli. Dal testamento possiamo inoltre conoscere che a Ginevra si era costituita la «Lega dei poveri stranieri della chiesa italiana» alla quale Odoardo assegnava la somma di 1000 fiorini e uguale somma ordinava fosse pagata all'Ospedale di Ginevra. A ciascuno dei nipoti Scipione e Valerio Chiericati, riservò 1000 fiorini nel caso si fossero ritirati dal papismo per vivere secondo la Riforma del Santo Evangelo. Raccomandò alla moglie Diamante che lo aveva seguito nell'esilio, di continuare le più pressanti esortazioni per attirare tutti i membri della famiglia Thiene, a vivere secondo i principi della Riforma[92]
Dalle lettere di Odoardo Thiene e dalla documentazione relativa al processo a suo carico, si può notare il notevole ruolo che ebbe nella storia vicentina. L'importanza della sua opera Confessio fidei, accanto a quella di Alessandro Trissino Il Ragionamento, inseriscono la sua figura nella linea dei Pellizzari, del circolo di Lanzè, di Ginevra e di Lione.
Purtroppo la sua Confessio fidei rimane oggi un documento introvabile e l'unica fonte resta l'esame fatto dall'Inquisitore di Venezia. L'opera di chiara matrice calvinista, venne portata a compimento nel 1571, ai primi di aprile. La sua diffusione sembra sia stata notevole, non solo nella Penisola, ma in tutta Europa. Per quanto concerne Vicenza, tre copie vennero inviate a Leonida Da Porto` ed un'altra ad uno dei due figli di Andrea Palladio, Orazio, che dovette poi risponderne davanti all'Inquisizione veneziana il maggio 1571; sei copie furono inviate a Gaetano Thiene, altre sei a Ercole Fortezza` e cinque al conte Francesco Bissari[93]. Nella lettera accompagnatoria ad Ercole scriveva Odoardo: « ... havendo inteso che mi sono date alcune falsissime imputationi da certi ... ho voluto mandare in luce la mia confessione di fede ... cioè ch'el messia Gesù Cristo, nostro Signore, vero Dio et vero homo, con la sua morte ci ha liberati dalla tirannide del diavolo, et con la sua resurretione ci ha acquistata vita eterna... La prego a farmi raccomandato al cl. mo Ferramosca, facendoli parte di detta mia confessione ...» Risulta evidente come tutti costoro agirono da distributori in circoli ben definiti. Questa Confessio non era stata pensata solo per gli amici e i conoscenti, ma sarebbe dovuta giungere addirittura al Papa.
L'analisi della Confessio per il tribunale inquisitoriale fu compiuta da fra Gabriele Veneto. Il tema centrale è Cristo, la sua morte, il suo sacrificio sulla croce e quindi la storia della salvezza dell'uomo. Emerge con forza la giustificazione operata da Cristo e, contestualmente, il ridimensionamento dei "sacramenti". Le note scritte a margine da Gabriele Veneto, precisano che la successione degli argomenti richiama Lutero, mentre il quadro generale rimanda a Calvino. Egli osserva che Odoardo insisteva sui temi della fede e della gratuità della salvezza, nonché sull'unico fondamento costituito da Cristo. Gabriele, ancora, scrisse che questo testo affascinante e pericoloso, al cui centro sta la «fides Christi et nominis Christi invocatio», andava contrastato per riaffermare il ruolo della chiesa romana. Insomma, l'analisi di Gabriele Veneto ci permette di cogliere come Odoardo contrapponesse in modo radicale Cristo e la salvezza per grazia mediante la fede con la chiesa romana e le sue tradizioni e sacramenti.
L'opera di Odoardo sembra significativa non solo per lo spessore teologico, ma perché alla pari del Beneficio di Cristo di Benedetto da Mantova e del Ragionamento di Alessandro Trissino, si inseriva nel vivo della sensibilità religiosa del periodo, con l'ambizione di raggiungere i ceti dirigenti, e pure le masse urbane della Terraferma; Odoardo ambiva che le Corti si congiungessero con le botteghe dei mercanti e con le farmacie, nella riscoperta dell'unicità di Cristo «salutis nostrae auctorem». [94].
Alessandro Trissino
Alessandro Trissino è probabilmente la figura dì maggior rilievo intellettuale della Riforma Protestante a Vicenza[95].
Nacque a Vicenza nel 1523, figlio naturale di Giovanni Trissino e cugino di Giulio Trissino. Grazie a quest'ultimo Alessandro frequentò l'Accademia di Vicenza, assistendo alle lezioni di Fulvio Pellegrino Morato prima e di Francesco Malchiavelli poi. Durante l'Accademia si orientò ben presto verso la riforma protestante.
Nel 1545, a soli ventidue anni, sembra essere già uno degli artefici intellettuali delle congregazioni di orientamento calvinista di Vicenza. Con Giovanni Battista Trento, che divenne in seguito suo amico e confratello in fede, ed i grandi mercanti di Vicenza, tra cui i Pellizzari ed in particolare Nicolò, diede vita ad un circolo per diffondere la Institutio e il catechismo di Calvino. Divulgare l'approccio alla Sacra Scrittura di Calvino divenne la sua missione, e la 'Institutio costituiva lo strumento basilare per apprendere e diffondere la dottrina cristiana, in grado di "comparire" pressoché in tutte le sue corrispondenze e in tutte le riunioni a cui prendeva parte.
Dopo l'Accademia si trasferì all'Università di Padova dove studiò legge, frequentando clandestinamente i gruppi riformati che gravitavano attorno all'ambiente universitario. Senza motivi particolari lasciò gli studi ed entrò in carriera diplomatica diventando Nunzio di Vicenza a Venezia, dove promosse l'opera di propaganda religiosa sia presso i ceti nobili sia presso i ceti più umili.
Simili attività procedevano in parallelo anche a Vicenza, in particolare nella villa di Lanzè, dove Alessandro ospitava spesso l'amico Trento. Insieme condussero anche un "traffico" di Bibbie protestanti utilizzando i canali del commercio delle pelli, con l'aiuto dei fratelli Pellizzari ed altri. Alessandro, in questo periodo, era ancora intriso di una tradizione irenica che aveva in Erasmo e Juan de Valdes dei modelli. Credeva ad un'autentica riforma della chiesa e sperava che il Concilio di Trento fosse lo strumento di chiarimento teologico-dottrinale[96].
In seguito, Alessandro subì il fascino di Calvino e ne ripropose le tematiche. Attraverso la sua intensa azione di diffusione della Riforma, consolidò l'immagine della «nuova croce di messier Gesù Christo». L'esaltazione della croce che libera dalla morte e dalla spada crudele, ad esempio, proviene dal libro terzo dell'Institutio (Cap. IX): «Per concludere in una parola, affermo che la croce di Cristo trionfa in modo definitivo nel cuore dei credenti sul diavolo, la carne, il peccato, la morte e gli iniqui, quando essi volgono gli occhi a guardare la potenza della sua resurrezione».
Allo stesso tempo, tuttavia, sempre seguendo Calvino, Alessandro insegnava ai mercanti di Vicenza che la croce di Cristo non allontana il credente dai "piaceri" della vita[97]. La Scrittura, dunque, insegnava anche sul retto uso dei beni terreni. Infatti, dovendo vivere, continuava Trissino, «dobbiamo anche servirci degli aiuti necessari alla vita. Né ci possiamo privare di quelle cose che paiono rispondere più al piacere che alla necessità. Bisogna dunque avere un criterio per servirsi di queste cose con pura e sana coscienza, sia per la nostra necessità, sia per il nostro piacere».`
Nessuno avrebbe immaginato che il 14 marzo 1563 ad Alessandro Trissino, discendente da una delle famiglie più importanti di Vicenza e uomo politico di primo piano, fosse intimato dal Sant'Uffizio di presentarsi per un esame della sua vita religiosa. Il processo aperto nel gennaio contro i Pellizzari, del resto, aveva rivelato l'appartenenza di Alessandro ad una rete calvinista, in stretta comunicazione con le chiese di Ginevra e di Chiavenna. La notizia giunse subito a Roma dove si decise che il fatto «esigesse un rigido processo e una punizione adeguata». Alessandro, pertanto, il 15 marzo fu costretto a presentarsi davanti agli inquisitori, tra i quali aveva molti amici.
Il procedimento nei suoi confronti si svolse lentamente e gli inquisitori non lo incalzarono. Le domande erano generiche e non crearono nessuna pressione all'imputato. Addirittura il 2 aprile il processo fu sospeso, recando conce giustificazione una forte emicrania di Alessandro che fu affidato agli arresti domiciliare presso la casa di Francesco Trissino[98], dietro malleveria di mille ducati.
Il trattamento inusitato riservato ad Alessandro sollevò malumori. Alla notizia la Curia Romana si irrigidì e scrisse al nunzio di manifestare un aperto dissenso al Doge circa lo svolgimento del processo. In effetti a Roma la scoperta che molti, fra la stessa aristocrazia veneziana e vicentina, fossero coinvolti nella Riforma calvinista, produsse un profondo disagio. Le proteste romane fecero riprendere il processo il 20 aprile[99].
La situazione era mutata: fra i giudici era stato fatto un rimpasto e furono scelti personaggi di maggiore intransigenza; le accuse divennero circostanziate e alle smentite venivano opposte prove concrete, quali le lettere rinvenute a Como. Le domande diventarono pressanti, e miravano ad ottenere una confessione totale. A tale scopo Alessandro fu sottoposto a tortura, dandogli ripetuti tratti di corda. Tuttavia egli rimase fermo, e non confessò nulla.
Compreso che le opzioni disponibili erano ristrette, ovvero la confessione e l'abiura, oppure l'arresto, progettò la fuga. Febbrilmente e in pieno travaglio scrisse una lettera all'amico Prassildo Volpe, a Venezia, invitandolo a presentarla al Thomasino per organizzarne la fuga. Il 31 maggio «alle hore cinque in circa », Alessandro fuggiva col proposito di rifugiarsi a Chiavenna[100].
Con l'amico Giovan Battista Trento intraprese un commercio clandestino di bibbie riformate, scoperto nel 1563. Alessandro venne arrestato e torturato, ma con l'aiuto dell'avvocato Giovanni Domenico Roncalli e del cugino Giulio, primogenito di Giangiorgio, riuscì a fuggire.
Nel 1564 venne condannato in contumacia e la sua effigie fu bruciata sul rogo a Vicenza. Emigrò a Chiavenna, dove guidò i protestanti locali[101].
Alla notizia della sua fuga i rettori di Vicenza e gli inquisitori istituirono immediatamente un processo «contra li suoi parenti et amici», ma l'indagine non diede alcun risultato. Il fatto ebbe profonde ripercussioni a Roma e a Trento, dove stava chiudendo il Concilio. Lo stesso vescovo di Vicenza, Giulio Della Rovere, fu messo in causa e invitato ad intensificare le visite pastorali. L'atmosfera si infuocò ancora più alla notizia della fuga di tredici monache vicentine «le quali hanno fatta questa scappata per non voler vivere nella riforma che il cardinale le aveva poste»[102].
I fatti occorsi determinarono un irrigidimento dell'Inquisizione veneziana, e i Pellizzari, che erano stati la via attraverso la quale i gruppi di Alessandro avevano potuto mantenere i contatti con le comunità riformate della Svizzera e della Germania, ne fecero le spese. Il 19 agosto dello stesso anno l'Inquisizione emanava un bando, in cui si invitava Alessandro a presentarsi entro quindici giorni per essere interrogato «de Fide catholica ac de aliis rebus ad eandem fidem et religionem pertinentibus».
Francesco Trissino cercò più volte di persuadere Alessandro a desistere dal suo comportamento e a presentarsi al Sant'Uffizio. Ma Alessandro era ormai giunto a Chiavenna, dove respirava quella libertà di azione e di pensiero tanto agognata e a cui non voleva più rinunciare. Preferì l'esilio e la perdita di tutti i beni, ad una vita nascosta e trascorsa tra mille difficoltà in patria. Comunicò che non gli interessava l'honor di casa sua ed era pronto anche ad una rottura definitiva con la famiglia. La sua fede era ormai maturata, e l'adesione alla dottrina calvinista divenne completa, senza reticenze; «le inquietudini di un tempo furono completamente cancellate, superate[103].
Nel frattempo in Italia il 7 marzo Alessandro fu condannato in contumacia conce eretico con l'aggravante della fuga e bruciato in effige sul rogo scomunicato «publice». L'inquisizione ordinò che la maschera di Alessandro venisse bruciata per ben due volte sulla Piazza di Vicenza, adiacente al Duomo, luogo in cui qualche anno prima, con la collaborazione del Colombina, si era tentato di diffondere la Riforma in città.
Da Chiavenna continuò l'attività di organizzatore del movimento riformato vicentino. Provocava e sollecitava le fughe, mantenendo i rapporti con gli amici vicentini. La corrispondenza era guardinga e occultata, e per far perdere le tracce, qualora qualche lettera fosse stata trovata, usava fare «la manzion a huomini morti, et sottoscrive de altro nome, et con altro sigillo.
Acquisita una posizione di prestigio nella comunità di Chiavenna, verso il 1570 venne eletto pastore della Chiesa. In questa veste rivolse i suoi interventi all'interno delle correnti Riforniate d'Italia con sempre maggior insistenza.
Le notizie, infatti, che gli giungevano attraverso gli amici veneti o gli esuli rifugiatisi da poco a Chiavenna, dipingevano un quadro della situazione italiana che egli percepiva come disastroso e preoccupante. Queste notizie circa l'involuzione del movimento turbarono enormemente la sua sensibilità. Deluso e preoccupato, nel 1570 scrisse il Ragionamento' indirizzato «ai fratelli d'Italia»` , con il quale rivolgeva un rimprovero ed un ammaestramento, con il proposito di sollecitare delle azioni. Molte copie del Ragionamento vennero inviate in Italia: alla famiglia Pagello, alla famiglia Da Porto, alla famiglia Loschi, a Francesco e Claudio Pellizzari.
Alessandro aveva compreso che la spinta «rivoluzionaria iniziale» si era trasformata in forme di compromesso e debolezza. In breve tempo, infatti, le abiure abbondarono e le riconversioni al cattolicesimo aumentarono a ritmo accelerato. L'Inquisizione, da parte sua, stringeva le maglie attorno alle poche chiese soffocandole e disperdendone i membri, impedendo di fatto la libera circolazione delle idee. Fu proprio contro questa realtà segnata dall'oppressione, e allo stesso tempo dalla stagnazione, che Alessandro lanciava le sue accuse e le sue esortazioni.
La sua analisi era autentica ed arguta ma il rimedio proposto si rivelerà inadeguato. L'invito al martirio attraverso la fuga non trovò, infatti, alcuna risonanza in un mondo che preferiva «l'organizzazione segreta e la simulazione». Da questo momento in poi mancano le notizie a suo riguardo. Probabilmente morì nel 1609 (Olivieri 76).
Il Ragionamento di A. Trissino (1570)
Il Ra~1*011(7111C1lt016') è una sorta di apologia della fede che denuncia copia manoscritta del suo R(lyi(wamclit0. Il R,ltii0mmlcll(i) è stato pubblicato da A. Olivieri, in «Rivista di storia della chiesa in Italia, XXI/1», pp. 77-117. 107. Il titolo completo dell'opera è: Ratiouaineato(1c11,1 di ritirarsi a rirc- w nella Chiesa risibiledi Gesù Cristo, lasciando il d',1lcssall(/lo Trissino ai fratelli d'Italia. 108. A. Olivieri, .Alessandro Trissino c il movimento calvinista vi( clitillo del Cinque¬cento, cit., pag. 76. 169. Purtroppo non ci sono pervenute copie originali dell'opera. A. Olivicri, lo studioso che ha prestato maggiore attenzione all'impatto della Riforma a Vicenza, afferma di avere ricercato gli originali nelle biblioteche e negli archi
Stella
204 LE MINORANZE RELIGIOSE Il comune substrato dottrinario luterano, almeno inizialmente, venne riconosciuto dagli stessi anabattisti, che confessarono agli inquisitori di aver così proceduto all'iniziazione dei nuovi compagni di fede: Se li diceva che advertissano che intrando in questa dottrina, che se li diceva christiana, seriano perseguitati fin alla morte per el nome de Christo et che li persecutori erano antichri¬sti, intendendo de la santità del papa et suoi ministri, né altramente accadeva amaistrarli perché ciascheduno de quelli che intravano in detta setta erano chiari de eucharistia e delli sacramenti della giesia perché erano già luterani.
Le divergenze dottrinarie, che in seguito andarono approfondendosi, comportarono la separazione delle diverse tendenze confessionali sulla base discriminante delle aree sociali, e quindi venne meno la fraterna solidarietà cristiana al di fuori del proprio cetò. Parve infine che, per quasi risorgente nemesi storica, si ridestassero antichi rancori o simpatie e propensioni politiche, non certo filoveneziane `. Come, al tempo di Francesco Novello da Carrara, quando (piuttosto che sottomettersi al signore di Padova) «chi haveva openione che si dovesse far Vicenza un canton de' Svizzeri, et altri [ ... ] molti l'invocar l'armi tedesche» `, luterani filotedeschi si mantennero gli eterodossi vicentini di estrazione nobi¬liare, mentre quanti appartenevano alla borghesia cittadina divennero fautori dell'indirizzo riffirmatore svizzero zwingliano o calvinista.
Pur tuttavia, nonostante il progressivo divario confessionale, almeno formalmente una qualche tolleranza pratica continuò nei rapporti fra luterani e calvinisti vicentini, forse per~ ché dovevano conciliare i loro interessi nel commercio della seta e anche per motivi cultura¬li abbastanza convergenti. Sta di fatto che partecipavano a «compagnie» (o accademie pri¬vate, sull'esempio dei «ridotti» veneziani) organizzate dagli uni o dagli altri, che si raduna¬vano più spesso in casa Pigafetta a Vicenza o nella villa dei Trissino a Cricoli oppure in una villa pedemontana a Lonedo ".
La preoccupazione di evitare incresciosi contrasti religiosi tra le due componenti luterana e calvinista, ovvero filoprotestante ed evangelica, si rivela perfino nelle rigorose disposizioni o clausole aggiunte agli statuti interni. Lo statuto, per esempio, cui dovevano conformarsi gli ospiti dei fratelli Francesco, Prospero e Ortensio Campiglia, nell'omonima villa dei Berici, che erano tutti «gentilhomeni ricchi et comodi» (i conti Francesco Thiene e Girolamo Schio, Piero Pasini, Galeazzo Seda, il cavalier Nicola Repeta ed altri), imponeva inequivocabilmente: «[... ] niuno della Compagnia ardisca nomi-nar la parte Nobile, né la parte Ugonota» 31.
Emarginata (ma non senza singoli casi di comportamento diverso) e settariamente chiusa, invece, sisviluppò la comunità degli anabattisti vicentini e ancor più quella di Citta disocdel- 1 d calzolai, falegnami, tessitori - la. Erano, per la maggior parte, modesti artigiani s 1, C olai falegnami tessito cupati per la crisi del lanificio e poi anche del setificio) o venditori ambulanti, spretati ovvero sfratati e umili maestri di scuola. 205 3. L'emergere e il progressivo distinguersi dei calvinisti vicentini dall'eterogeneo indirizzo protestante non fu precoce, tanto che ancora verso la fine del 1551 il ben informato delatore Pietro Manelfi ` li annoverava tutti come luterani e li contrapponeva indifferentemente agli anabattisti. Le origini della minoranza religiosa calvinista vicentina sono incerte e rimangono insuf¬ficientemente documentate le diverse ipotesi (o indebite illazioni) interpretative. Così vien fatta risalire al pubblico insegnamento di Fulvio Pellegrino Morato, dal 1532 al 1539, la genesi del calvinismo a Vicenza, perché alla sua scuola si educarono alcuni poi famosi eterodossi come Giulio Trissino, Marco e Nicolò Thiene ". Ma è improbabile un influsso già decisamente calvinista, se si considera che la prima edizione della Christianae religionis Institutio di Calvino nel 1536 si riduceva a pochi enunciati della sua ecclesiologia, mentre solo la successiva di tre anni dopo riuscì a incidere notevolmente e quindi a imporsi fra le chiese riformate. Si potrebbe, dunque, dedurne piuttosto che siano state le pubbliche lezioni di Francesco Malchiavelli dal 1545 al 1548 (quando appunto «soleva lezer» l'opera tanto ampliata di Calvino) a indirizzare, secondo la nuova tendenza riformatrice, i giovani allievi che non tardarono a manifestarsi calvinisti: Alessandro Trissino, Giovanni Battista Trento 14 ed Elio Belli . V9scovo di Vicenza era allora il cardinale Niccolò Ridolfi, eletto fin dal 1524 e tuttavia rimasto assente dalla residenza; soltanto nel settembre 1543, indotto dallo zelo controrifor¬mistico di un suo suffraganeo, si decise a raggiungere la sede episcopale per una breve visita. Quel suffraganeo (Dionisio Zanettini, detto il Grechetto perché vescovo di Milopota¬mos) più tardi scrisse al cardinale Alessandro Famese `: «Che dirò de Vicenza? che Ridolfi con li soi mali ministri che tien ha facto lutherana quella città; et perché io era contrario a' lutherana mi levò di quel loco, aciò potessero fare peto che mai. Poi andò la persona sua et potius sono agumentate tal heresie et pigliato fomento grandissimo che diminuite». Nel frattempo, il pontefice Paolo III aveva invano sollecitato il nuovo doge Francesco Donà, che veniva ritenuto incline a un moderato riformismo religioso, ad arrestare («capiendis vulpeculis») il diffondersi dei movimenti eterodossi. Ancora il 4 marzo 1546 erano stati informati, dal cardinale Farnese, i legati pontifici al concilio di Trento sulle gravi infiltra¬zioni ereticali riscontrate a Vicenza; e 1'8 maggio il nunzio Giovanni Della Casa ribadiva allo stesso cardinale Famese che non desisteva dal raccomandare la ricerca e la repressione delle conventicole, sennonché i patrizi veneti continuavano a non preoccuparsene, come se egli «magnificasse più il pericolo et la moltitudine di questa perfida setta, che essi non credevano che fusi in effetto». Il nunzio pontificio presentò, infine, al Consiglio dei Dieci un francescano spagnolo che aveva predicato a Vicenza, il quale fornì «tanti particolari di quei scelerati» che tutti si convinsero della gravità del pericolo, con minaccia perfino di sedizione politica, oltre allo «scandalo della religione» `. In realtà, fra gli indiziati vi erano parecchi aristocratici: i conti Giuseppe e Manfredo Porto, Adriano e Ottavio Thiene, Giulio Capra, Alessandro e Giulio Trissino, e altri delle famiglie pure nobili Pigafetta, Pasini e Pagello. Ovviamente questa presunta partecipazione della nobiltà vicentina, che non godeva simpatie a Venezia per l'insofferenza (più volte manifestata, specialmente nelle vicissitudi 206 ni della Lega di Cambrai) al dominio della Serenissima, ridestò sospetti di eventuali approc¬ci con il ribelle conte veronese Bernardo Sambonifacio o anche direttamente con emissari asburgici sempre interessati a turbare l'ordine pubblico nelle città venete di terraferma. Dalle prime inchieste, che si fecero nel tardo autunno del 1546 e agli inizi del 1547, risultò che conventicole si facevano in «diversi luoghi publici et privati» e che la propagan- da filoprotestante'éra assai diffusa 37. Lo confermarono i rettori di Vicenza, che così scrisse¬ro il 10 maggio 1547 al Consiglio dei Dieci: «Noi vedemo questa città molto infetta di queste nove opinioni contra l'honor de Dio, contra la fede et religione christiana»; anzi si ragionava «publicamente per le piazze di tal materie con non picciolo scandalo del populo, dicendo che non bisogna creder che '1 corpo di Christo sia nella eucharistia [...]» (quindi ormai secondo la dottrina calvinista che riduceva i sacramenti a una funzione commemorati¬va). Dopo aver soggiunto che «spesse volte si sogliono redurre in loco secreto ove legono libri di heretici», si conclude che dal processo a carico del filocalvinista Giandonato Castal¬di, gestore della farmacia della Colombina, risultavano «cose diaboliche andar avanti, di modo che, non gli provedendo, un giorno in questa città per simil setta potrebbe nascer qualche scandalo et disordine non solamente di parole, ma anche di armi, sì come dominica passata hanno cominciato». Lo stesso Castaldi aveva fatto allusioni preoccupanti: «Gli eretici sono più di duecento et forse di cinquecento, e vi hanno anche de' capi grossi». Parve che finalmente i rettori di Vicenza fossero decisi a «formar inquisitione circa tal materia colla presentii sempre del reverendo vicario del vescovato di questa città»; ma non se ne ricavò niente o ben poco, perché oltre venticinque indiziati (probabilmente compresi alcuni dei dotti forestieri parteci¬panti ai collegio Vicentina, secondo la tradizione sociniana) poterono allontanarsi per tempo e «li conti de Vicenza» vennero inquisiti molto blandamente, appena si accertò che i loro atteggiamenti filoprotestanti non camuffavano istanze di sospetta natura politica`. Per di più, concorse a far del tutto insabbiare l'inchiesta giudiziaria nei confronti di quegli etero- dossi (trattati con ogni riguardo anche al fine di non offendere i loro correligionari transalpi¬ni, e quindi per non turbare i rapporti e interessi commerciali), la denuncia grave e inconfu¬tabilmente documentata del diffondersi massiccio degli anabattisti, che si diceva: «[... oltra le altre cose, levano le authorità di ogni Signoria et predicano una libertà christiana che non dobbiamo essere soggetti ad alcuno, dirittamente contra et a distruttione di tutti gli Stati». La propaganda calvinista divenne molto e sempre più circospetta, cosicché fino al gen- naio 1563 non traspare che qualche indizio indiretto e piuttosto nell'ambito dei «redutti» accademici, come quello che si teneva nel palazzo Thiene di borgo S. Lucia dove «ogni sabato sera — rivelò al tribunale del Sant'Uffizio il dottore in filosofia Leonzio Caliaro —era usanza di far redur la compagnia [. .. ]; vi era la fazione guelfa e la fazione ghibellina o la parte nobile e la parte lugonota» `. La riservatezza era tanto strettamente mantenuta che il pur informato Pietro Manelfi non poté riferire alcuna notizia su quell'élite di eterodossi vicentini che, ormai staccatisi dal protestantesimo luterano, senz'altro si consideravano già calvinisti. Le ricerche storiche sull'evolversi delle accademie, in particolare della Nova Compagnia e dell'Accademia dei Secreti, appaiono consigliabili a chi volesse proseguire lo studio delle minoranze religiose vicentine. Certo è che non solo ad entrambe le accademie partecipò il più autorevole calvinista vicentino, Odoardo Thiene figlio primogenito di quel Francesco che precedentemente aveva ospitato i filoprotestanti, ma per promuoverne l' indi 207 rizzo secondo le proprie convinzioni, davvero religiose, mise a disposizione degli accade¬mici un nuovo palazzo in contrà Castello: 4 in domo magnifici Odoardi de Thienis polita in contratta Castri Veteris» 40. La casuale scoperta, che si fece a Milano in balle di seta spedite a Lione dal mercante-banchiere vicentino Nicolò Pellizzari, della compromettente corrispondenza di (ancora inno- spettati) calvinisti vicentini con Giovanni Battista Trento ~<eretico pertinacissimo» rifugiato¬si da alcuni anni trai correligionari svizzeri e francesi ugonotti, rivelò nel gennaio 1563 un esteso e influente mondo clandestino 'l. Oltre a chi come Alessandro Trissino aveva scritto qií7e11èAetière, e conseguentemente ai destinatari, dai Capi del Consiglio dei Dieci venne ordinata un'inchiesta che coinvolse mercanti di seta e chiunque fosse ritenuto simpatizzante per le novità religiose. L'atteggiamento di fronte al pericolo di subire un processo nel tribunale del Sant'Uffizio, con l'eventuale confisca dei beni, fu nel complesso deludente poiché la maggior parte dei filocalvinisti (o anche dichiaratamente calvinisti finché si erano mantenuti clandestini) preferì non più compromettersi e quindi ritrarsi nell'ambiguità del cosiddetto nicodemismo, come Calvino ` aveva definito e biasimato l'incoerenza di quanti, pur consenzienti in cuor loro alle nuove dottrine, non intendevano rischiare la perdita delle fortune patrimoniali e tanto meno affrontare le incognite dell'esilio. Pochi, ma del tutto costanti e anzi intrepidi nel continuare e incoraggiare il proselitismo, si mostrarono «gli uomini a cui la fama aveva dato prestigio ed autorevolezza di capi». In realtà, se ancora il 9 agosto 1557 aveva ottenuto la cittadinanza ginevrina quel Giovan Battista Trento, ben pre¬sto il suo corrispondente Alessandro Trissino fu sollecito a seguirne l'esempio e così pure Odoardo Thiene che, fuggito da Vicenza —nel 1567, si stabilì in Heidelberg e con i capitali ricavati dàlla-veridita del patrimonio ereditato vi acquistò un castello. Poteva certamente disporre di notevoli ricchezze: donò mille fiorini d'oro alla comunità calvinista di Ginevra e dispose nel suo testamento altri cento fiorini a favore della «Lega dei poveri stranieri della chiesa italiana» costituita in Ginevra; per ciascuno dei nipoti Scipione e Valerio Chiericati riservò mille fiorini «nel caso che si ritirassero dal papismo per vivere secondo la riforma del santo Vangelo». Raccomandò infine alla moglie Diamante, della nobile famiglia Pepoli di Bologna, che lo aveva seguito nell'esilio «purioris religionis causa», di continuare le più pressanti esortazioni «per attirare» tutti i membri della famiglia Thiene «a vivere secondo la riforma del santo Vangelo». Fervente calvinista, Odoardo Thiene, non desistette dal ringra¬ziare «Dio per averlo condotto nella chiesa di suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore unico Salvatore, e fattogli conoscere in lui il solo rimedio della sua salvezza» 208 208 LE MINORANZE RELIGIOSE È, dunque, ben comprensibile come Alessandro Trissino, che era altrettanto fermo e tenace nella conversione calvinista, scrivesse da Chiavenna il 20 luglio 1570 a Odoardo Thiene lamentando amaramente la defezione di tanti compagni di fede vicentini e dedican¬dogli le sdegnate riflessioni del suo Ragionamento 44: Sono molti, illustrissimo signor conte, gli quali, quantunque abbiano fatta professione d'aver la cognizione dell'evangelo, sono però stati in diversi modi talmente dal diavolo ingan¬nati che a questa ora, per quanto intendo, non si trovano né caldi né freddi ma tiepidi e di una tepidezza tale che io grandemente dubito, se essi non sono tosto sollevati dalla mano del Signore, che quella luce, della quale si vantano, non sia per convertirsi, non dirò in tenebre d'ignoranza ma, quello che è peggio, a poco a poco, in uno bestiale ateismo ed alla fine in orrenda rabbia di perseguitare Gesù Cristo ne' suoi membri. Al di là della tendenza, che si manifesterà sempre più anche fra gli esuli religionis causa, verso l'indiffe~rentismo o soggettivismo religioso ('ateis mo') vanno rilevati due coefficienti che interagiscono nel mutamento di mentalità e di atteggiamenti fra la minoran¬za religiosa calvinista. L'inasprirsi della persecuzione controriformistica separa, drastica- mente gli eterodossi rimasti in patria, e tronca ogni collegamento e influsso dei capi ri ugia- tisi in paesi stranieri; conseguentemente gli esuli finiscono nel farsi integrare dalle comunità ecclesiali ultramontane e, d'altra parte, la fragilità nicodemitica dalla fase velleitaria scade e si esaurisce nell'opportunismo e nel confórmismo. Il séèóricro motivo, che caratterizza il mutamento intervenuto, è riscontrabile nel ruolo preminente ormai dei banchieri-mercanti Pellizzari e di qualche altro ricco borghese vicentino, che si avvalgono piuttosto dell'appog¬gio solidale dei correligionari francesi e svizzeri, tedeschi e inglesi, per incrementare e rafforzare i loro interessi commerciali nell'ambito europeo `. -lk 4. Mentre il movimento calvinista si era affermato nei ceti superiori della società vicentina, e quindi l'esodo di «gentilhomeni ricchi et comodi» comportò spesso l'esodo pure d'ingenti capitali, molto diverso fu quello dei poveri e indifesi anabattisti. Lo sviluppo dell'anabatti¬smo veneto, e particolarmente vicentino, nell'ecclesiologia come per gli aspetti etico- tuttavia più origina e; inoltre, sácíali, riuscì tutt: la loro comunità, anche se perseguitata e co stretta a disperdersi, sopravvisse nell'esilio. L'originalità dottrinale derivò dalla confluenza e dalla reciproca intesa, che si raggiunse nel sinodo veneziano dell'autunno 1550, tra la componente popolare che cercava d'interpretare le ancora inconscia aspirazioni sociali del proletariato cittadino e suburbano, basandosi sul raziocinio elementare, e la componente invece dotta che, richiamandosi, sulle orme di Erasmo, alla più eccellente facoltà dell'uma¬na ragionevolezza (vera Dei filia), formulò la dottrina cosiddetta antitrinitaria insieme con il postulato della libertà religiosa. 209 Dapprima gli anabattisti vicentini, compresi quelli numerosi di Cittadella guidati dal a «openioni anti T `, professavano soltanto le openioni - maestro della scuola pubblica Agostino Tealdo professav qqe de anabattisti, come è che li christiani non possono esercitare magistrati et signorie, dominii et regni»; ma poi quasi tutti accolsero " - con entusiasmo l'aggiunta, in chiave sociale comunitaria, propagandata da un personaggio affascinante venuto d'oltralpe e, perfino, si diffuse la notizia che «Idio havea mandato un angelo de Alemagna, el qual diceva cose grande». Si conosceva solo il suo nome, o piuttosto pseudonimo, Tiziano; insisteva soprat tutto sulla necessità che Ai beni fusseno comuni, persuadeva che chi haveva facultà et robba glìé-ne- desse a - chi non ghe' ne haveva et per questo dichiarò il sarto vicentino Giuseppe Cingano — io poveromo, che havevo uno pocho de botega et de cavedal, inamo¬rato de l'amor de Jesu Christo ho dispensato el mio a parte a parte non solamente a quelli della nostra oppinion, ma anchora ad altri bisognosi» ". Le comunità anabattistiche venete si erano così già indirizzate verso il modello della Gútergemei . nschaft («congregation dél ben comun»), realizzato dai Fratelli Hutt riti in Mo ravia ", quando furono turbate dalla propaganda di nuove e del tutto insieme con altri -studen ti napoletani, frequentava l'università di Padova "; ma non è da escludere che precedente¬mente fossero circolate, per quanto astruse e misticheggianti, le tesi antitrinitarie del medi¬co spagnolo Michele Serveto, come appunto denunciò al senato veneziano la lettera pseudo¬melantoniana del 1539 `. Senza dubbio la «nozione panteistica della divinità, che costituiva il fondo del sistema» teologico del Serveto, non si riscontra nell'antitrinitarismo del Busale e dei suoi compagni di fede. Costoro, autonomamente, dal radicalismo spiritualistico valde¬siano erano passati alla confutazione dell'autenticità di una parte delle sacre Scritture. In realtà, l'illuminismo religioso di Juan de Valdés attribuiva ai testi biblici un'importanza inferiore all'intima e diretta ispirazione dello Spiritus Sanctus internus, tanto che l'eletto può far a meno di quella luce riflessa che «da se stessa si diparte, siccome si diparte la luce della candela entrando li raggi del sole, e così come si diparte Mosè per la presenza di Cristo e la legge per la presenza dell'Evangelio» `. Ben diversamente da questo illumini¬smo, ancora oscillante fra il misticismo alumbrade spagnolo e l'estremismo dei fanatici e «fantastiques» combattuti da Lutero e da Calvino, si era andata evolvendo (con il metodo filologico-critico del Valla, applicato ai testi sacri, e anche per influsso della tradizione razionalistica patavina) la nuova dottrina antitrinitaria, che considerava la luce della ragione quasi tutt'uno con l'ispirazione divina. Si rifuggiva, perciò, dal pessimismo antropologico
La Controriforma a Vicenza
L'esilio degli imprenditori aristocratici e la repressione del popolo ebbe notevoli effetti sull'economia vicentina.
Se il Cinquecento aveva rappresentto per la città un periodo di grande vitalità produttiva, l'involuzione seicentesca consegnò la città ad una regressione tecnologica ed econornica. Il dinamismo del secolo "del trionfo delle arti e delle lettere", venne sepolto dalle "misure precauzionali e limitative adottate dalla reazione controriformistica della chiesa rornana"[105].
I vescovi Priuli
Il 22 luglio 1564 furono inviati a Vicenza i decreti tridentini, con l'ordine di dare loro immediata esecuzione, e contemporaneamente fu nominato vescovo di Vicenza Matteo Priuli, che aveva partecipato dal 1562 alle sessioni del Concilio.
Egli affrontò con grande energia la riforma della Chiesa e, in primo luogo, l'obbligo per coloro che godevano di benefici ecclesiastici di risiedere nel luogo di titolarità e il divieto di cumulare più benefici. La sua azione però, che minacciava forti e consolidati interessi - in particolare quelli dei canonici della cattedrale, capitanati dall'arcidiacono Simone da Porto, e quelli dei monasteri - jncontrò una strenua resistenza e addirittura una ribellione; canonici e religiosi[71] fecero ricorso alla Santa sede, sfruttando i loro appoggi presso la curia romana, cosicché i decreti vescovili non trovarono attuazione[72].
Nel 1579 Matteo Priuli, deluso, rinunciò alla diocesi per ritirarsi a vita privata nella natale Venezia e gli succedette nella carica il nipote Michele. Questi, più duttile e capace di mediazioni rispetto allo zio, proseguì nell'impegno di attuazione della riforma, celebrando ben cinque sinodi ed emanando numerosi decreti; seppe circondarsi di validi collaboratori - come Antonio Pagani e le Compagnie di San Girolamo, dei Fratelli della Santa Croce e delle Dimesse - soprattutto per promuovere l'insegnamento del catechismo e dell'istruzione religiosa al popolo[73].
Religiosità e cultura
Uno dei maggiori problemi cui i vescovi dovevano far fronte era infatti l'abissale carenza di cultura religiosa. Affidata alle cure pastorali di un basso clero povero e ignorante, la popolazione viveva una fede superficiale, infarcita di superstizione, alimentata dalle pratiche esteriori di devozione ai santi patroni, solo occasionalmente rinvigorita da qualche bravo predicatore proveniente dall'esterno.
Matteo Priuli, in attuazione dei decreti tridentini, costituì presso la cattedrale un gruppo di 50 ragazzi di buona famiglia e di chiara attitudine allo stato ecclesiastico che, appena accettati, avrebbero dovuto subito vestire l'abito clericale; una metà di questi avrebbe dovuto pagarsi il mantenimento agli studi, l'altra metà avrebbe ricevuto un modesto contributo. A questo seminarium venne assegnata la chiesa di San Francesco (vecchio) e la casa annessa (oggi la Casa del clero), nella quale avrebbero dovuto abitare i due maestri della scuola, un grammatico e un musico. Al mantenimento del seminario avrebbero dovuto contribuire con una parte delle proprie rendite tutte le istituzioni religiose, compreso il capitolo della cattedrale e i monasteri, esclusi solo quelli dei mendicanti: e furono proprio queste disposizioni che suscitarono un ulteriore, accanita opposizione da parte dei canonici e dei monaci[74].
Il successore di Matteo, Michele Priuli, tra i tanti problemi diede la precedenza al seminario eretto dallo zio, cercando sia di aumentare convenientemente le entrate della scuola che di trasformarla da aperta a chiusa: per la carenza di finanziamenti, però, questo poter avvenire soltanto per 16 dei chierici seminaristi. Alla fine di dare loro una formazione più qualificata, il vescovo chiamò a Vicenza i padri somaschi[75].
I vescovi vicentini del XVII secolo
Ai due Priuli, riformatori della seconda metà del Cinquecento, successe una serie di vescovi - quasi tutti appartenenti a famiglie patrizie veneziane e ben forniti di protezione a Roma - molto più interessati alla carriera diplomatica e di governo nell'ambito dello Stato Pontificio che non alle cure pastorali della diocesi loro affidata[76]. A parte qualche breve periodo, risiedettero ben poco a Vicenza. La città rimase, quindi, saldamente in mano all'oligarchia locale le cui famiglie si spartivano tutte le cariche civili e religiose[77].
Nuovi ordini religiosi
Un'importante collaborazione all'attuazione della riforma fu data da alcuni ordini religiosi, che furono chiamati a Vicenza dai vescovi, soprattutto per esercitare funzioni educative e formative, sia del popolo che del clero.
L'ingresso in città dei Chierici regolari detti Teatini, un ordine fondato dal vicentino San Gaetano Thiene insieme con il cardinale Carafa, fu preparato dal parroco di Santo Stefano, Don Girolamo Pisani, che nel 1595 cedette loro la parrocchia quando essi furono chiamati a Vicenza dal vescovo Michele Priuli. Il loro insediamento divenne un centro di rinnovamento religioso tridentino e intorno al 1667-1668 si costruirono il loro convento. Due anni dopo fu canonizzato il loro fondatore, San Gaetano, e questo attirò notevoli donazioni e contribuzioni sia da parte del Comune che da privati. Quando però, negli ultimi anni del secolo, e si intrapresero la completa ricostruzione della chiesa parrocchiale di Santo Stefano e però si videro negare il cambio della intitolazione in favore del loro patrono, abbandonarono la parrocchia e in pochissimo tempo riuscirono a costruirsi la nuova chiesa dell'ordine, con la facciata sul corso principale della città[78].
I Padri Somaschi si erano già insediati negli anni 1558-1563 alla Misericordia nella direzione dell'orfanotrofio. Vent'anni dopo, nonostante le proteste del capitolo della cattedrale che vedeva intaccato il proprio diritto alle prebende, il vescovo Michele Priuli li insediò nella parrocchia dei santi Filippo e Giacomo. Già ben noti come predicatori della riforma, furono incaricati dell'istruzione della gioventù e del clero, in particolare nel nuovo seminario. Durante la seconda metà del seicento, si impegnarono nel rifacimento della chiesa e nella costruzione di un imponente convento[79][80].
I Gesuiti - che avevano già tra le loro file un certo numero di aristocratici vicentini - vennero in città intorno al 1600, richiamati dal forte interesse della classe dirigente per il restauro e l'incremento delle scuole pubbliche, di cui si sentiva vivamente il bisogno. La Repubblica di Venezia, però, gli espulsi del 1606 al momento dell'interdetto di papa Paolo V e, a differenza di altri ordini, non rientrarono più in città fino al 1657[81].
Filippini
Opere di carità
- Antonio Pagani
Confraternite e oratori
Facciata dell'Oratorio del Gonfalone in piazza Duomo Prima del Concilio di Trento la gerarchia ecclesiastica sembrava poco interessata all'associazionismo laico, che si esprimeva attraverso le fraglie devozionali e le confraternite, tanto che esse venivano formalmente istituite o tacitamente riconosciute senza una particolare approvazione da parte dell'autorità ecclesiastica. La Controriforma, invece, ne rilevò l'importanza, le favorì, le controllò e le utilizzò come argine contro il protestantesimo. Esse rappresentavano un mezzo tradizionale per rinfocolare il fervore religioso e la pratica cristiana: celebravano solennemente le feste, veneravano la Madonna e i santi, costruivano altari, celebravano con sfarzo e concorso di popolo le processioni, si occupavano della raccolta di fondi e praticavano opere di carità nei confronti dei bisognosi.
Portatrici di una religiosità che nasceva dalla fede popolare e, allo stesso tempo, degli interessi delle famiglie nobili cittadine, esse non si lasciarono facilmente sottomettere dalla pur riconosciuta giurisdizione del vescovo. In un periodo - che durò fino alla prima metà dell'Ottocento - di crisi della parrocchia che non riusciva ad attirare i fedeli, le confraternite cercarono di creare degli spazi religiosi, in cui le differenze di riti e di celebrazioni non favorivano certo la coesione sociale - al loro interno erano rigidamente divise in nobili, mercanti e artigiani, secondo la mentalità del tempo - ma aiutavano la maturazione di una spiritualità più profonda e di una devozione più sentita. Rapidamente la città si arricchì di oratori, vere chiese private delle confraternite in cui ricevere i sacramenti, celebrare la messa, assistere alle funzioni[82].
Le confraternite più importanti a Vicenza furono quelle:
- della Misericordia, detta anche dei Turchini dal colore del mantello indossato dai suoi membri, che aveva una cappella nella chiesa di Santa Corona
- del Santissimo Sacramento, con sede in cattedrale
- del Gonfalone, che fece costruire l'omonimo oratorio
- del Rosario, che dopo la battaglia di Lepanto fece costruire la grande cappella anch'essa nella chiesa di Santa Corona
- del Crocifisso, con l'oratorio dietro alla chiesa di Santa Maria in Foro, detta dei Servi
- di San Nicola da Tolentino, con l'oratorio omonimo annesso alla chiesa di San Michele[83].
Attuazione della Riforma con l’arrivo dei Francesi
- Riforma dell’organizzazione della diocesi e delle parrocchie
- Scioglimento degli ordini religiosi e dei conventi
- Inglobamento delle proprietà ecclesiastiche
Le Chiese protestanti in età contemporanea
Il codice dell'osservanza parrocchiale, imposto dal Concilio di Trento, determinò un rigido controllo della vita religiosa. Il parroco aveva il compito di annotare su registro, insieme con i battesimi, i matrimoni, i decessi, anche gli inconfessi, i concubinari ed altre forme di irregolarità[106].
Tramite i registri parrocchiali risulta che a Vicenza nel Seicento e Settecento non vi furono presenze protestanti manifeste[107]. Anche se "c'è da supporre che nel dilagante conformismo degli intellettuali, alcune idee sopravvivessero ... Si ha notizia di un solo processo dell'Inquisizione di Vicenza nel 1745 a carico di un certo Stefano Lorenzoni, essendo egli "recidivo ed autore di 116 proposizioni ereticali[108].
Di una consolidata presenza protestante a Vicenza si ha conoscenza soltanto dopo l'annessione al Regno d'Italia, che comportò una reale separazione tra Stato e Chiesa. Nel 1869 il pastore metodista Arrigo Bossi registrava una "sessantina di membri comunicanti"; nel 1875 fu aperto il locale di culto in contrà San Faustino, tuttora attivo[109]. Un'altra comunità esiste a Bassano del Grappa in via SS. Trinità.
Nei primi anni del Novecento l'emigrante Massimiliano Tosetto, di ritorno dagli Stati Uniti, creò a Campiglia dei Berici una piccola comunità evangelica; con l'appoggio finanziario della Chiesa Metodista di Padova, in breve tempo riuscì a far costruire un edificio di culto, che venne frequentato nonostante le resistenze delle autorità religiose locali. Ritornato il Tosetto negli Stati Uniti, la piccola Chiesa venne affidata alla cure del pastore Giordano Giordani che però morì poco tempo dopo, così che nel 1915 la sede della comunità fu chiusa[110].
Occorre attendere il secondo dopoguerra, e più precisamente gli anni sessanta per ritrovare testimonianze protestanti, ora denominate "evangeliche", a Vicenza[111]. In quegli anni in rapida successione furono inaugurate la Chiesa di Cristo e la Chiesa Cristiana Biblica.
La prima deve la suo origine vicentina all'intensa l'attività evangelica di Fausto Salvoni, un ex prete convertitosi all'evangelica ..., che favorì la conversione di svariate persone .... Dopo alcuni trsferimenti di sede in città, dal 1962 la Chiesa di Cristo si è stabilizzata in Levà degli Angeli, dove è tutt'ora presente[112].
La Chiesa Cristiana Biblica nacque nel 1966 in via Firenze, a Vicenza, per l'azione combinata della libreria evangelica di Ponte Pusterla[113] e la testimonianza di alcune famiglie[114]. Alcune di esse frequentavano la Chiesa Metodista cittadina, ma a motivo dell'apertura alla teologia liberale di quest'ultima, decisero di fondare una nuova comunità in linea con il deposito dottrinale del cristianesimo classico. Il periodo di consolidamento durò una decina d'anni, durante i quali si aggiunsero svariate persone. Dal 2004 la comunità, ora denominata Chiesa Evangelica di Vicenza, ha il locale di culto in via Della Scola, nel quartiere di San Pio X[115].
A metà degli anni sessanta giunse a Vicenza anche il missionario italo americano Angelo Nesta, che qualche anno dopo aprì un locale di culto in città; nel 1975 il ministero passò al pastore Enzo Specchi, che diede un notevole impulso alla crescita delle comunità ADI ("Assemblee di Dio in Italia") sia in città che in provincia.
Nel 1993 su iniziativa della Chiesa Evangelica di Padova, nacque a Vicenza la Chiesa Cristiana Evangelica Battista successivaniente denominata Chiesa Evangelica Riformata Battista...., i cui locali di culto sono ora in Borgo Casale. Oltre allo studio della Bibbia e alla preghiera, la Chiesa si interessa di temi sociali come l'immigrazione, la corruzione.
A partire dagli anni ottanta in seguito ai notevoli flussi migratori si sono sviluppate in tutto il territorio svariate decine di chiese evangeliche etniche, soprattutto africane, che vivono la fede in modo fortemente comunitario.
Note
- ^ L'insieme dei vantaggi fu ratificato nel Privilegium civitatis Vicentiae del 1404 e rinnovato nel 1406
- ^ Menniti, 1988, pp. 34-43
- ^ Grubb, 1989, pp. 45-46
- ^ Franzina, 1980, pp. 460-61
- ^ Zironda, 1988, pp. 157, 164
- ^ Zironda, 1988, pp. 159-62
- ^ Secondo Domenico Bortolan, Il Seminario vescovile di Vicenza, Vicenza, 1893, p. 26, su 500 preti che a quel tempo governavano le parrocchie appena un settimo erano vicentini, mentre un buon quinto proveniva dalla Germania
- ^ Zironda, 1988, p. 180
- ^ Nelle relazioni redatte a seguito delle visite pastorali dei vicari generalii nella seconda metà del XV secolo, si legge che pochi sacerdoti erano in grado di leggere, pochi conoscevano le formule della consacrazione della messa, pochissimi sapevano recitare le preghiere più semplici come il Pater noster o avevano idee chiare sulla confessione e sul concetto di peccato
- ^ Franzina, 1980, pp. 345-48
- ^ Zironda, 1988, pp. 165-173
- ^ Scremin, 1988, p. 182
- ^ In tutti gli Stati italiani le sedi episcopali furono appannaggio di cardinali risiedenti a Roma
- ^ Franzina, 1980, p. 462-63
- ^ Olivieri, 1992, p. 211
- ^ M. Firpo, Riforma Protestante ed eresie nell'Italia del Cinquecento, Ed. Latenza, Bari, 1993, pp. 3-10;
- ^ Scremin, 1988, p. 181
- ^ Olivieri, 1992, p. 195
- ^ Dalla Pozza, 2017, p. 20
- ^ Dalla Pozza, 2017, pp. 21-22
- ^ Lettera inviata da Murano il 10 marzo 1542. Neri Pozza, Vicenza Illustrata, pp. 246-247
- ^ Questo fa ricordare l'affermazione di Lutero che, nei "Discorsi a tavola" del 1532 disse: "Sono sempre i giuristi a scavare nel fondo dell'anima umana e della religione per estrarre il possibile della verità", Dalla Pozza, 2017, p. 41
- ^ Olivieri, 1992, p. 234
- ^ Stella, 1988, p. 203. Il legame con Zwingli era tale che il Negri lo accompagnò nel 1529 al convegno di Marburg, in cui fu avviato il confronto con Lutero e Melantone
- ^ Stella, Gli eretici a Vicenza, in Vicenza Illustrata, p. 254. Così anche Franzina, 1980, pp. 403-04
- ^ Dalla Pozza, 2017, p. 23
- ^ Stella, 1988, p. 204
- ^ Lucia Felici, Giovanni Calvino e l'Italia, Ed. Claudiana, Torino, 2010, p. 15
- ^ Stella, 1988, p. 204
- ^ {{Cita|Dalla Pozza, 2017|pp. 29-30}
- ^ Olivieri, 1992, p. 297
- ^ Dalla Pozza, 2017, Olivieri, 1992
- ^ Trevor Roper, cit., 1970, pp. 68-69. Franzina, 1980, pp. 476-477
- ^ Stella, 1988, pp. 208-219
- ^ Dalla Pozza, 2017 p. 41, nota 88
- ^ CC. P. Bolognesi - A. Olivieri, Calvino. Ieri e Oggi in Italia, pp. 74-95. Per altro approccio cf. A. Olivieri, Le corti e lefi¬miOie. Sinm1a~ion(, e morte nella mItura architettonica del 500, Istituto per le Ricerche di Storia Sociale e di Storia Religiosa, Vicenza, 1981
- ^ Come precisa Scremin, la lista dei simpatizzanti delle dottrine riformate non è stata esaurita dalla ricerca: Scremin, 1988, p. 128, nota 58
- ^ Franzina, 1980, p. 466
- ^ Franzina, 1980, p. 466
- ^ Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1878, pp. 302 e segg.
- ^ Lucien Faggion, Les femmes, la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles, 2006, pag 3
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 43-44
- ^ 104. Cf. G. Mantese- M. Nardello, íbc Processi per Eresia, Vicenza, 1974. Tra le altre osservazioni, lo storico cattolico suggerisce che la futura ricerca archivistica spiegherà perché non ci sono notizie di Antonio Pigafetta, il famoso ...
- ^ Antonio Francesco Pigafetta, in Dizionario Biografico Treccani
- ^ 107. Nei libri degli Estimi risulta che i Pigafetta nell'anno 1520 abitavano in Borgo Berga e in quell'anno pagavano al fisco due libre e dieci soldi
- ^ Olivieri, 1992, pp. 326-327
- ^ Salvatore Caponetto, Il Calvinismo nel Mediterraneo, Claudiana, Torino, 2002, pp. 65-66, che ricorda come la traduzione di Cato, un secolo più tardi, sia stata iscritta nell'Indice dei libri proibiti
- ^ G. Mantese — M. Nardello, cit., pag. 55.
- ^ Dalle deposizione del vicentino Nicolò di Girolamo da Pavia — processo per eresia in data 10 ottobre 1570, si viene a conoscenza che Iseppo era stato in «prigione per heresia...,. In G. Mantese—M. Nardello, cit., pag. 03
- ^ Il chiaro intento di Alessandro Trissino era quello di evitare che Angeli¬ca e Nicolò, ritornati in Italia e sotto la rigida pressione dell'Inquisizione, abiurassero o vivessero da nicodemiti. Sono quindi del tutto infondate e tendenziose le considerazioni di Mantese (vedi pp. 66 — 67) circa Alessandro Trissino, presentato come un «fanatico anticattolico» e come persona disinteressata della vicenda personale di Angelica Pigatetta
- ^ Dalla deposizione di Nicolò, cfr. G. Mantese—M. Nardello, cit., pag. 67
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 47-51
- ^ Olivieri, 1992, p. 380
- ^ Ruggero Prandin, La Magnifica Città e la mercatura della seta. Ascesa economica, grandezza e stagnazione di Vicenza nei secoli XVI e XVII, Cierre, Verona, 2013, pp. 413-21
- ^ Olivieri, 1992, p. 417
- ^ Olivieri, 1992, p. 383
- ^ Olivieri, 1992, p. 413
- ^ Olivieri, 1992, p. 333
- ^ Lucia Felici, Giovanni Calvino e l'Italia, Ed. Claudiana, Torino, 2010, p. 30
- ^ Lucia Felici, Giovanni Calvino e l'Italia, Ed. Claudiana, Torino, 2010, p. 31
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 52-55
- ^ G. Mantese, La famiglia Thiene e la Riforma Protestante a Vicenza nella seconda metà del secolo XVI, p. 6. Dal matrimonio di Francesco nacquero due figli. Odoardo e Teodoro e tre figlie, Dorotea, andata sposa a Valerio Chiericati, Olimpia, sposata con Girolamo di Francesco Capra e Attilia, sposata a Leonida di Iseppo da Porto. In data 21 febbraio 1528, dopo la morte del padre, ebbero luogo le divisioni dell'eredità; la casa Thiene, in contracta Castelli, si trovava presso l'attuale chiesa dei Padri Filippini
- ^ Dell'antica residenza signorile rimare oggi solo il portale. Qui, affermano le fonti, si riunirono Francesco. Girolamo e Marco per le divisioni testamentarie
- ^ Giulio Thiene si rifugiò presso il duca di Wurttemberg di cui divenne in seguito consigliere. Anche Marc'Antonio Thiene andò esule. Nel 1561 era a Strasburgo insieme a Pierpaolo Vergerio e Girolamo Zanchi. Cf. A. Olivieri, Palladio le Corti e le Famiglie, p. 43
- ^ A. Olivieri, Palladio le Corti e le Famiglie, p. 36
- ^ Così sembra da una corrispondenza dello stesso Odoardo il 5 agosto 1500 al notaio Pietro Cogollo con la quale chiedeva di interessarsi a fare venire il medico Elio Belli per visitare la madre inferma. Margherita morì dopo pochi mesi e sembra che il testamento sia stato punitivo nei confronti del figlio Odoardo, probabilmente per i suoi orientamenti religiosi. Dopo il 1560 quest'ultimo si stabilì nella casa della madre Margherita o comunque tic ereditò lo stabile che si trovava nei pressi dell'attuale Chiesa dei Filippini. In data 19 settembre 1567 i due fratelli Odoardo e Teodoro procedettero alla divisione dei beni alla presenza di Giacomo Antonio di Barbarano del fii Cristoforo medico e di Orazio, figlio di Andrea Palladio. Arc. Notarile, Pietro Cogollo, alla data, in Odeo Olimpico VIII
- ^ La tradizione sembra attribuire il disegno del palazzo Thiene ora Bollili Longare in Piazza Castello ai due fratelli Odoardo e Teodoro (il Magrini contesta la tradizione). E tuttavia certo che in una casa vicina al palazzo, Mar¬gherita Thiene, rimasta vedova di Francesco, visse gli ultimi anni e morì li) contracta castri veteris. Poteva trattarsi di una casa allora situata sull'arca adi-bita alla costruzione dell'attuale palazzo Bonin Longare, ma poteva anche essere che Francesco Thiene ex-marito di Margherita, su disegno del Palladio, avesse costruito parte di detto palazzo. Probabilmente Francesco, prima di iliorire, aveva iniziato, su disegno del Palladio, la costruzione dei due palazzi di Cicogna, poi continuati dal figlio Odoardo
- ^ A. Olivieri, Palladio le corti e le famiglie, p. 43
- ^ G. Mantese, La Famiglia Thiene e la Riforma, pag. 87. A Stella, 207
- ^ 143 ASV, Sànt'Ufflzio, Processi. b. 30, c. 4r-v.
- ^ G. Mantese, Memorie Storiche, cit., pag. 25
- ^ A. 01ivien, Palladio Le Corti c 14, 1`ami,E1ie, cit., pag. 44
- ^ Idem, pag. 44
- ^ G. Mantese, La famiglia Thiene (, la Riforma I)rotC51'111W, cit., pag. 97 Stella, Le , Le Minoranze Religiose,, cit., pag. 207
- ^ Stella, Le Minoranze Religiose, pp. 202-213
- ^ Olivieri presenta elenchi dettagliati dei destinatari p. 59-61
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 55-62
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 62-63
- ^ 156. A. Olivieri, A. Trissino e il movimento calvinista i,iccwipio, cit. pag. 63. 157.A. Olivieri, Riforma ed eresia a Vicena nel (Júìqacwwo, cit., pag. 391, cita ASV. Sant'Uffizio, Processi, b. 30, cfr. in Appendice II: Processo di Odoardo Thiene.
- ^ 158. In A. Olivieri, Riforma ed eresia a Vi(ciiza nel (Jiiiqne(cwo, cit., pp. 391-2
- ^ 159. Mantese - Nardello, Due processi per eresia, cit., nota ta n. 102, pag. 65. Alessandro sembra essere evaso dalla prigione, ripreso e confinato agli arresti domiciliari nella casa di Francesco Trissino presso l'attuale municipio di Vicenza, o presso la casa Trissino in contrà Riale.
- ^ 160. A. Olivieri, A. Dissffio e il movimento Calvinista ri(elitilio, «Rivista di storia della chiesa in Italia», XXI/I, pag. 65.
- ^ Olivieri nota 160, p 66
- ^ Achille Olivieri, Alessandro Trissino e il movimento calvinista vicentino del Cinquecento, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, XXI (1967), pagg 54-117
- ^ Olivieri nota 160, p 67
- ^ Olivieri nota 160, p 68
- ^ Dalla Pozza, 2017 pp. 63-68
- ^ Franzina, p. 460 o 432
- ^ "Una tale sorveglianza, di fatto, sfociò in una sorveglianza poliziesco-burocratica delle comunità locali" Franzina 491-62)
- ^ La dichiarazione tipica dei parroci, a fine Settecento, era "Non vi sono sospetti di eresia, né che abbiano libri proibiti", riportata da M. Scremin, p. 197
- ^ Franzina, 1980, pp. 491-92
- ^ Chiesa Evangelica Metodista di Vicenza
- ^ Dalla Pozza, 2017, pp. 84-89
- ^ Un elenco delle Chiese Evangeliche in Provincia di Vicenza si trova nel sito Chiese Evangeliche
- ^ Chiesa di Cristo di Vicenza
- ^ Casa Biblica
- ^ La coppia Bill e Harriet Gust, missionari provenienti dalla Florida, un'altra coppia di missionari, anch'essi provenienti dagli Stati Uniti, e la famiglia Sinigaglia di Vicenza
- ^ Chiesa Evangelica di Vicenza
Bibliografia
- AA.VV., Ven. Antonio Pagani O. F. M: riformatore - fondatore - maestro di spirito in Vita Minorum, 2, Montegrotto Terme, 1989.
- Giorgio Cracco, Tra Venezia e Terraferma, Roma, Viella editore, 2009, ISBN 978-88-8334-396-4
- Luigi Dalla Pozza, La Riforma Protestante nella Vicenza del Cinquecento, Caselle di Sommacampagna, Cierre Grafica, 2017.
- Andrea Del Col, L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori editore, 2006. ISBN 978-88-04-53433-4
- Emilio Franzina, Vicenza, Storia di una città, Vicenza, Neri Pozza editore, 1980.
- Giovanni Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, III/2, Dal 1404 al 1563, Vicenza, Accademia Olimpica, 1964.
- Giovanni Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, IV/1, Dal 1563 al 1700, Vicenza, Accademia Olimpica, 1974.
- Giovanni Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, IV/2, Dal 1563 al 1700, Vicenza, Accademia Olimpica, 1974.
- Achille Olivieri, Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento, Roma, Herder Libreria Editrice, 1992.
- Mauro Scremin, Per una storia della pietà popolare tra osservanza e trasgressione, in Storia di Vicenza, III, L'Età della Repubblica Veneta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1988.
- Aldo Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto, Padova, 1967.
- Aldo Stella, Le minoranze religiose, in Storia di Vicenza, III, L'Età della Repubblica Veneta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1988.
- Renato Zironda, Aspetti del clero secolare e regolare della Chiesa vicentina. Dal 1404 al 1563, in Storia di Vicenza, III, L'Età della Repubblica Veneta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1988
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