Mostro di Firenze
Mostro di Firenze è la denominazione sintetica utilizzata dai media italiani per riferirsi all'autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze.
L'inchiesta avviata dalla Procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di tre uomini identificati come autori materiali dei delitti, i cosiddetti compagni di merende: Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Le Procure di Firenze e Perugia sono tutt'ora impegnate in un'indagine volta a individuare i presunti mandanti dei duplici omicidi.
Le modalità dei duplici delitti
I reati del mostro di Firenze si sono sviluppati nell'arco di almeno un decennio (se si eccettua il delitto del 1968, già giudicato e non incluso dalla condanna a carico di Pietro
Pacciani), e hanno riguardato quasi sempre giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina in cerca di intimità.
Le costanti della vicenda non sono però limitate alla tipologia delle vittime, ma si estendono ai mezzi usati e al modus operandi dell'omicida; i delitti sono avvenuti nelle medesime circostanze, in luoghi appartati e nelle notti di novilunio, o comunque con cielo coperto, quasi sempre d'estate, nelle notti del fine settimana.
È sempre stata usata la stessa arma: una pistola Beretta serie 70, calibro 22 Long Rifle, probabilmente in commercio dagli anni '50, con la canna oblunga propria della armi per tiro a segno, caricata con proiettili Winchester serie H (proveniente da due scatole da 50 cartucce).
In quattro degli otto duplici delitti, l'assassino ha asportato il pube delle donne uccise, negli ultimi casi anche il seno sinistro delle malcapitate vittime.
I luoghi dei delitti (Vicchio, Calenzano, Scopeti, ecc.) erano per lo più stradine sterrate nascoste, frequentate da coppiette di giovanissimi. Ciò ha portato a pensare che l'assassino fosse una persona esperta dei luoghi e ad ipotizzare che seguisse le sue vittime a distanza.
La serie di delitti
21 agosto 1968: L'omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci
La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti, la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. La coppia aveva passato la sera al cinema di Signa dov'era in proiezione un film dal titolo inquietante "Nuda per un pugno di eroi". Si è ipotizzato che l'omicida avesse seguito le sue vittime già nel locale. Al momento dell'aggressione i due sono intenti in preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata, quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati otto bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester serie H (ad indicare la lettera punzonata sul fondo dei bossoli).
Natalino Mele si risveglia al primo colpo esploso, ma non sarà mai in grado di asserire con certezza di aver visto chi aveva in mano la pistola. Qualcuno lo caricherà in spalle subito dopo il delitto e lo condurrà attraverso la campagna, cantandogli "La tramontana", una canzone che aveva spopolato all'ultimo festival di Sanremo fino a lasciarlo in Via Vingone, a due chilometri di distanza, davanti ad un casolare nel comune di Campi Bisenzio . Il padrone di casa viene svegliato attorno alle due di notte dal bambino che gli dirà: "aprimi la porta che ho sonno e ho il babbo malato a letto. Dopo mi accompagni a casa, perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina". [1]
Le indagini conducono inesorabilmente al marito della donna, Stefano Mele, 49enne manovale originario di Fondorgianus in provincia di Cagliari, che si sospetta possa aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto implausibile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube, giungendo persino ad ospitare in casa sua per diverso tempo Salvatore Vinci, suo amico ed amante della moglie (i pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il caffé a letto agli amanti). Barbara Locci, peraltro, non era nuova a comportamenti promiscui, al punto di venir soprannominata in paese "l'ape regina". Inoltre una perizia psichiatrica accerterà che l'uomo è affetto da ritardo mentale, tanto che in sede processuale gli sarà riconosciuta la seminfermità di mente. In ogni modo Stefano Mele, dopo aver dapprima negato, poi coinvolto altre persone, tutti ex amanti della moglie, ammette e confessa di aver commesso il delitto, pur tra molte contraddizioni (non si sa come abbia raggiunto il luogo del delitto e l'uomo non sa neppur impugnare una pistola); viene condannato a 16 anni di carcere. Resta tuttavia il mistero della pistola, la Beretta calibro 22 Long Rifle che Stefano Mele dichiara di aver "gettato via" dopo aver commesso il delitto, ma che non viene trovata dai carabinieri nelle zone circostanti al luogo del delitto.
Durante il processo a Stefano Mele, un altro amante della Locci raccontò che la donna si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino [2].
15 settembre 1974: L'omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini
Il 15 settembre 1974 ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni e Stefania Pettini, segretaria, di 18 vengono uccisi in uno spiazzo presso il fiume Sieve a Sagginale di Borgo San Lorenzo. I due giovani avevano fatto tappa presso la discoteca "Teen Club" di Borgo San Lorenzo, dove avevano lasciato la sorella di Pasquale, con la promessa di tornare a riprenderla al più tardi verso mezzanotte e mezzo, per poi appartarsi a bordo della Fiat 127 blu del ragazzo in un campo in località Sagginale, una zona abitualmente frequentata da coppiette in cerca d'intimità. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro 22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall'auto ancora viva, e uccisa a coltellate (l'autopsia permetterà di contarne ben 97). Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico, ma che può anche essere interpretato come un segno di sfregio da parte dell'assassino; considerato che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è comunque possibile ipotizzare che il gesto non fosse premeditato. Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale. In occasione di questo delitto, scoperto la mattina seguente da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si rivelerà costante in tutti gli omicidi). La borsa verrà invece ritrovata in un luogo poco distante in seguito ad una telefonata anonima, mentre orologio e anelli della ragazza non verranno più trovati.
Pare che, il pomeriggio prima di essere uccisa, Stefania avesse confidato ad un'amica di aver fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole ma non ebbe tempo per approfondire il fatto. In ogni caso la ragazza non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad aver lamentato molestie da parte di qualcuno. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.
6 giugno 1981: L'omicidio di Giovanni Foggi e Carmela Di Nuccio
Il primo dei due duplici omicidi del 1981 viene commesso il 7 giugno nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30enne dipendente dell'Enel e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni. I due erano fidanzati da pochi mesi e programmavano di sposarsi nell'immediato futuro. La sera del delitto, un sabato, i due cenano a casa dei genitori di Carmela, poi escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata, sulle colline di Roveta, non lontano dalla discoteca "Anastasia", in una zona frequentata da coppiette e da guardoni. Giovanni viene raggiunto da cinque colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino anteriore sinistro della vettura. Altri tre proiettili colpiscono Carmela; i tre bossoli non verranno tuttavia rinvenuti dalle forze dell'ordine. La ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in un fosso poco distante, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo di tre precisi fendenti, le verrà asportato il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del ragazzo. I corpi dei due giovani saranno rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto del 1974. Anche in occasione di questo delitto le armi usate sono la Beretta 22 ed il coltello, ed anche in questa occasione si verifica accanimento sui cadaveri, soprattutto su quello della donna. Inoltre la borsetta della ragazza viene rinvenuta poco distante, rovesciata in terra, il contenuto sparso in giro (non risulta che sia stato sottratto nulla), come nel delitto avvenuto sette anni prima.
Vincenzo Spalletti
Nelle fasi successive al delitto del giugno 1981, entra in scena Vincenzo Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli. Spalletti era ai tempi un autista di autoambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino. Tuttavia era conosciuto in famiglia e presso la "Taverna del Diavolo" - un ristorante della zona - per essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi marcatamente diffuso nella provincia fiorentina. [3] La domenica mattina seguente al duplice delitto, Spalletti - rientrato all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone - racconterà alla moglie, e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto "due morti ammazzati"; racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la mutilazione inflitta alla ragazza) che non potevano essere già stati divulgati dagli organi di stampa e dai mass media. In seguito alle indagini, alcune persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del delitto, nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio afferma di aver letto la notizia sui giornali - cosa impossibile in quanto i giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì - e inoltre mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che l'assassino possa essere proprio lui.
Mentre Spalletti si trovava in carcere, sua moglie e suo fratello ricevettero diverse telefonate anonime in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe stato presto scagionato [4], cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno, con un altro duplice delitto.
22 ottobre 1981: L'omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi
Il 23 ottobre 1981, (giorno di sciopero generale) a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località "Le Bartoline", lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, operaio di 26 anni, operaio tessile di Calenzano e Susanna Cambi commessa di 24 anni. I due giovani, che avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano la sera prima, quindi erano usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera e non avevano più fatto ritorno. La ragazza viene raggiunta e uccisa da cinque colpi, il ragazzo viene invece colpito quattro volte. I proiettili sono marca Winchester serie H, sparati dalla stessa Beretta calibro 22. In seguito verrano repertati solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti rinvenire. In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza e compiere l'escissione del pube, è costretto ad estrarre dall'auto anche il corpo di Stefano. Il corpo della ragazza verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella borsetta della vittima femminile, sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Anche il corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro di cui tre alla schiena. Questo duplice omicidio è l'unico della serie a non essere stato commesso nel periodo estivo; molti hanno quindi avanzato l'ipotesi che sia stato commesso con la deliberata finalità di provocare la seguente scarcerazione di Vincenzo Spalletti, e nel contempo di comunicare che il colpevole era ancora libero.
Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la madre della giovane, che in effetti in quel periodo era ospite con le due figlie presso la sorella. A causa di un guasto sulla linea tuttavia, la comunicazione venne interrotta subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso, considerato che il numero di telefono, appartenente ad un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi nessuno avrebbe dovuto conoscerlo. Secondo quando sostenuto dall'avvocato Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna Cambi avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno.
19 giugno 1982: L'omicidio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini
La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. I due giovani - soprannominati dagli amici "Vinavil" perché inseparabili - erano appartati a bordo di una piccola Seat 127, in uno slargo presente sulla strada Virginio Nuova. L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto ed inserire la retromarcia. Probabilmente a causa della concitazione del momento, tuttavia, Paolo non è in grado di controllare l'auto che attraversa trasversalmente la strada e resta poi incastrata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio. Questo delitto si differenzia dai precedenti per almeno due motivi; innanzitutto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato; a pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del Santo patrono, ed il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma costante. In secondo luogo l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei feticci e non ha il tempo materiale per infierire sui cadaveri, probabilmente a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la macchina era visibilmente disposta in modo innaturale sulla strada. Il delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo da una vettura sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene immediatamente trasportato al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere coscienza. Sul luogo del delitto verranno repertati 9 nove bossoli di calibro 22 Winchester serie H.
In quest'occasione, il giudice Silvia della Monica, sperando di indurre il mostro a scoprirsi, convocò in Procura i cronisti che si occupavano del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identità dell'omicida.
Sarà inoltre a seguito di questo delitto, che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e permetterà la riapertura del fascicolo, in cui verranno ritrovati i bossoli repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo evento non è privo di dettagli inconsueti, in quando per legge gli elementi raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta. Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli repertati a Signa nel 1968.
Francesco Vinci
Successivamente al delitto del giugno 1982, che aveva portato gli inquirenti a collegare alla serie di delitti maniacali, anche quello avvenuto 14 anni prima a Signa, le indagini si rivolgeranno verso Francesco Vinci, già chiamato in causa anni prima da Stefano Mele, e residente a Montelupo Fiorentino. Vinci era stato a suo tempo amante fisso della Locci (come il fratello Salvatore) e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna, rimediando per questo una denuncia (da parte della moglie) per abbandono del tetto coniugale e concubinato (reato allora ancora punibile in Italia, così come del resto l'adulterio). Il Vinci viene pertanto posto in stato di fermo con l'imputazione-pretesto di maltrattamenti al coniuge, in modo da poter approfondire alcuni aspetti e raccogliere ulteriori prove per indiziarlo dei delitti del Mostro di Firenze. Tuttavia Francesco Vinci si trovava ancora in carcere al momento in cui si compie un nuovo duplice omicidio, quello del 1983. Considerata l'anomalia del delitto - apparentemente svolto in tutta fretta - molti hanno ipotizzato che questo delitto sia stato compiuto con la deliberata finalità di svincolare il Vinci dalle accuse di essere il "mostro di Firenze".
10 settembre 1983: L'omicidio di Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch
Il 10 settembre 1983 a Giogoli di Scandicci, in un furgone fermo per la notte in uno spiazzo, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, di Münster che al momento dell'aggressione si trovavano a bordo del loro furgone Volkswagen Samba, con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili sparati con estrema precisione attraverso la carrozzeria del furgone, di cui però saranno repertati solo 4 bossoli Winchester. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi sono stati sparati all'incirca da un'altezza di 1 metro e 30 centimetri da terra - il che fa supporre che l'assassino sia alto almeno 1 metro e 80 centimetri o anche di più. L'assassino fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima sequenza, mentre Rüsch tenta inutilmente la fuga ma viene colpito da quattro proiettili, di cui uno al cervello, e si accascia sul fondo dell'automezzo. L'omicida, dopo aver ucciso i due ragazzi si introduce nell'abitacolo del furgone e si rende conto di aver assassinato due persone di sesso maschile; probabilmente indotto in errore dall'oscurità, e dal fatto che Jens-Uwe Rüsch aveva una corporatura esile e lughi capelli biondi. Non si è mai accertato se i due giovani fossero amanti omosessuali, ma nei pressi del furgone vennero ritrovare delle riviste "a contenuto omosessuale" stracciate. I soldi e gli oggetti personali dei due sfortunati ragazzi non vengono presumibilmente sottratti.
29 luglio 1984: L'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini
Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni e Pia Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata come barista presso il bar della stazione di Vicchio nel Mugello. L'auto è parcheggiata in fondo ad una strada sterrata che si diparte dalla Strada Provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando vengono aggrediti i due ragazzi sono seminudi, sul sedile posteriore della Fiat Panda di proprietà del ragazzo. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra, colpendo Pia in pieno volto e uccidendola sul colpo. Viene colpito alla testa anche il fidanzato. In seguito l'assassino inferisce con diverse coltellate sui corpi dei due ragazzi - colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte Claudio. Pia viene trascinata, già morta, fuori dalla vettura, in un vicino campo di erba medica, dove le vengono asportati il pube e il seno sinistro. La ragazza verrà ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra. La catenina che la ragazza portava è stata strappata ed è stato rubato il pendente a forma di croce. I carabinieri verranno avvertiti da una telefonata anonima giunta prima dell'alba. Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di Pia, da questa conosciuta durante un soggiorno in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto dalla ragazza una lettera in cui Pia le parlava di un uomo che la infastidiva presso il bar in cui era assunta. Tale fatto sembra peraltro avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto; il gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve aveva dichiarato di riconoscere nei due fidanzatini uccisi, una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984, poche ore prima dell'omicidio, si era fermata presso il suo locale. Subito dopo di loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto", in giacca e cravatta, che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la birra e si era accodato a loro [5].
8 settembre 1985: L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot
L'ultimo duplice delitto (e quello su cui si hanno più particolari e riscontri [6]) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attorniata da cipressi, in cui erano solite appartarsi le giovani coppie. Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole, recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt. Le vittime sono accampate in una piccola tenda canadese a poca distanza dalla strada. L'omicidio è stato fatto risalire alla notte di domenica 8 settembre 1985, o quantomeno questa è la data ammessa al Processo a carico dei Compagni di Merende, e tutt'oggi considerata la data del delitto. Tuttavia i due turisti potrebbero essere stati uccisi precedentemente, nella notte tra sabato e domenica, come i rilievi tanatologici - fatti eseguire dall'avvocato Nino Filastò al professor Mauri, uno dei massimi esperti del campo - sembrano suggerire.
Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che in questo caso le vittime non si trovavano in auto: il mostro - dopo aver reciso con un coltello il telo esterno della tenda, sulla parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore all'istante, il giovane Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce a fuggire attraverso il bosco ma viene raggiunto dall'omicida, che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo cercando di nasconderlo in una pila di rifiuti poco distante dalla tenda. In seguito alle escissioni compiute sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche modo occultato; l'omicida infatti si cura di sistemarlo all'interno della tenda in modo che non sia visibile. In linea generale il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo delitto, lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare la scoperta dei corpi. Infatti un brandello del seno della ragazza viene spedito alla Procura della Repubblica di Firenze, in una busta con l'indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzato alla dottoressa Silvia Della Monica, PM incaricato delle indagini sul mostro. La scoperta dei corpi avverrà, per puro caso, poche ore prima che la lettera giunga in Procura, vanificando così il macabro piano dell'omicida.
La pista sarda
Successivamente al duplice delitto avvenuto a Baccaiano di Montespertoli nel giugno del 1982, e alla riapertura dei fascicoli inerenti il delitto dell'agosto 1968, gli inquirenti si convinsero che il colpevole della catena di omicidi maniacali dovesse essere in qualche modo collocato all'interno del gruppo di sardi che avevano orbitato attorno al primo evento delittuoso della serie. Questa deduzione fu incentivata e rinforzata dalla nuova evidenza che tutti i delitti erano stati commessi con la medesima arma, di cui vennero ipotizzati o un passaggio di mano dopo la commissione del delitto di Signa del 1968, o una responsabilita' marginale di Stefano Mele per quel delitto. Si pensava quindi che il mostro, non potendo essere Stefano Mele - che era detenuto nel periodo in cui il mostro aveva continuato a colpire - potesse invece essere un altro personaggio appartenente alla sua cerchia di frequentazioni e conoscenze, forse un uomo che era stato in grado di manipolarne il temperamento succube, un personaggio sfuggito alle indagini ed in grado successivamente di perpetrare la scia di sangue. Furono pertanto indiziati ed inquisiti, oltre che a Stefano Mele già giudicato colpevole, Francesco Vinci e suo fratello Salvatore, Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, cognato di Giovanni Mele.
Salvatore Vinci
Nel 1969 Stefano Mele, ritrattando le accuse contro Francesco Vinci, aveva detto: "Anche Salvatore era un poco di buono. In Sardegna la moglie gli morì con il gas, ma anche lì il bambino fu salvato. Lui aveva la macchina". Il particolare della disponibilità di una automobile apparve subito non da poco. Non si era mai capito infatti come Stefano potesse essere arrivato al cimitero di Signa sul luogo del delitto senza un'auto, che non possedeva. Salvatore Vinci era l'unico ad averne una. Così il giudice Rotella suppose che Stefano avesse indirizzato le accuse contro Francesco Vinci per allontanare i sospetti da Salvatore che pure in un primo momento aveva accusato. Perché Salvatore aveva tanto ascendente su Stefano?
Il motivo delle reticenze di Stefano Mele fu scoperto solo nel 1985 quando si fece luce sulla sconvolgente personalità di Salvatore Vinci: era la vergogna. Con difficoltà, Stefano Mele confessò a Rotella di avere avuto insieme a sua moglie Barbara rapporti etero, ma anche omosessuali con Salvatore Vinci. Non solo: aggiunse di essere stato con lui, con la moglie e con il figlio Natalino alle Cascine dove Salvatore faceva congiungere sua moglie con altri uomini.
Solo quando nel 1985 Stefano Mele ha il coraggio di confessare al giudice la verità dei rapporti sessuali suoi e della moglie e si libera di quel peso, ritorna 17 anni dopo a ripetere quella che, come uno sfogo, fu la prima versione dei fatti data la notte stessa del delitto: "Con me c'era Salvatore Vinci".
Rotella va a rivedere l'alibi di Salvatore Vinci per la notte del delitto del 68 e venne trovato debole. Un altro indizio, poi, cominciò a pesare su Salvatore: poco prima che lasciasse il suo paese di Villacidro in Sardegna, qualcuno aveva rubato a un suo anziano parente una Beretta calibro 22 comprata in Olanda. Il sospetto fu che tra i Mele e Salvatore Vinci, che doveva loro molti soldi, fosse nato un accordo: Salvatore li avrebbe liberati definitivamente di Barbara e loro avrebbero azzerato il suo debito. Salvatore avrebbe preteso la presenza del debole Stefano Mele per farlo poi passare come unico colpevole.
Nel giugno del 1985 Stefano Mele dichiaro' che era stato Salvatore Vinci a prospettare l'idea di uccidere la moglie Barbara Locci e il suo nuovo amante Lo Bianco. La donna, nauseata dai loro rapporti omosessuali, non si concedeva più ai due uomini. Salvatore Vinci viene anche arrestato per la vicenda della prima moglie, Barbarina Steri, morta asfissiata con il gas nel 1961 in Sardegna. Rotella era convinto che la giovane donna non si fosse suicidata, ma che fosse stata assassinata dal marito.
Nell'aprile del 1988, tre anni dopo, il processo per la morte di Barbarina si apre nell'aula della corte di assise di Cagliari, competente per territorio. Fu a tutti evidente che il fine reale dell'accusa non era tanto quello di far condannare Salvatore Vinci per la morte della moglie avvenuta 28 anni prima, quanto quello di dimostrare, attraverso una condanna, che l'uomo era in grado di uccidere e che, quindi, poteva essere teoricamente anche il "mostro di Firenze". Fu chiamato a testimoniare anche il figlio Antonio, ormai adulto, che rifiutò di rispondere. Per tutta la durata dell'udienza figlio e padre si fissarono con odio, ma nessuno dei due disse niente. Tuttavia, le prove portate dall'accusa per quel lontano omicidio erano estremamente deboli e il Vinci fu scagionato. Intanto, durante la detenzione cautelare di Salvatore Vinci nel 1985, si era consumato l'ultimo dei delitti del mostro, quello degli Scopeti, il che fu ovviamente interpretato come una prova scagionante.
È possibile osservare come l'elemento propulsore di questa pista investigativa fosse ancorato ai vecchi metodi d'indagine - la ricerca di presunti colpevoli nell'ambito di figure violente, poco istruite, pregiudicate - e piuttosto inadeguato invece a fronteggiare una situazione che in Italia, allora, non si era mai verificata prima; mancavano gli strumenti idonei per pianificare ed applicare un programma investigativo efficace, mancava infine la cultura del profilo psicologico e criminale. A partire dal 1989 il nuovo pool di magistrati che aveva preso in mano l'indagine abbandonò la "Pista Sarda", concordemente all'emergere di nuove piste investigative che inducevano a cercare altrove.
Precisamente, negli anni Novanta le indagini si concentrarono, dopo una segnalazione anonima, su Pietro Pacciani, un agricoltore di Mercatale. L'uomo fu poi condannato in primo grado e assolto in appello per i delitti del mostro. Il processo a suo carico però si estinse a causa della sua morte, avvenuta per infarto il 22 febbraio 1998 in circostanze non del tutto chiare.
Nato ad Ampinana il 7 gennaio 1925, soprannominato "il Vampa" per una bravata che gli aveva ustionato il viso, Pacciani era un uomo collerico e violento indipendentemente dal giudizio per i delitti del mostro. A ventisei anni Pacciani sorprende la sua vecchia fiamma con il nuovo compagno e uccide a coltellate il ragazzo, costringendo la ragazza ad avere un rapporto sessuale, proprio accanto al cadavere. Per questo fatto, Pietro Pacciani è condannato (e sconta) 13 anni di carcere. L'analogia di questo delitto con quelli del "mostro" sara' l'indizio che guidera' gli inquirenti sul Pacciani. La violenza dell'agricoltore si riversa sulla moglie Angiolina Manni (bastonata e costretta ai rapporti sessuali) e sulle due figlie Rosanna e Graziella, nutrite con cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine, costrette a visionare foto del padre in pose pornografiche.
Pacciani viene arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie di giovani il 17 gennaio 1993. Il 1 novembre 1994 inizia il processo che rivela le atroci violenze familiari e che si conclude con la condanna dell'imputato a quattordici ergastoli da parte del tribunale di Firenze. Il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni) è assolto della corte d'appello per non aver commesso il fatto ma il 12 dicembre la corte di Cassazione annulla l'assoluzione e dispone un nuovo processo, che Pacciani non vedrà mai. Il 22 febbraio 1998 viene trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati. Un esame tossicologico rivela nel sangue tracce di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui, affetto da una malattia cardiaca. Le circostanze sospette della morte provocano ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava essere giunta ad una conclusione. I compagni di merende Vanni e Lotti vengono condannati il 24 marzo 1998 mentre il Faggi è assolto.
Vanni, detto "Torsolo", di professione portalettere, è rimasto particolarmente famoso come "inventore" involontario della locuzione "compagni di merende", che i media ricavarono dalla caricatura di una sua espressione. Sentito infatti come testimone al processo contro Pacciani, il postino, alla domanda «Signor Vanni, che lavoro fa lei?» rispose in modo inatteso e illogico «Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani no?», suscitando l'ilarità generale e facendo supporre al pm che fosse stato istruito alle risposte. Il suo continuo, goffo e reticente riferimento a tali "merende", oltre a determinarne l'incriminazione, produsse l'ironico modo di dire, usato per indicare persone legate da un rapporto losco. Il Vanni ha dimostrato durante lo svolgimento del processo un atteggiamento ostile nei confronti dei giudici, dettato in maggior parte dall'ignoranza, dalla paura e dalla sua età avanzata che non gli permetteva forse di comprendere lucidamente lo svolgersi delle udienze. Viene allontanato dall'aula dopo aver lanciato una maledizione sul PM e aver dichiarato la sua fede per Mussolini. Dei "compagni di merende", Vanni fu condannato al carcere a vita. La condanna, per soli quattro degli otto duplici omicidi, è stata resa definitiva nel 2000 dalla Corte di Cassazione. Anziano e malato, Vanni è l'unico superstite dei tre.
Giancarlo Lotti, detto "Katanga", fu condannato a 26 anni di reclusione per i delitti del mostro. A differenza di Vanni e Pacciani, che protestarono sempre la loro innocenza, Lotti rese confessione.
La pista esoterica in sintesi
Le indagini sui delitti del mostro e sui compagni di merende hanno condotto recentemente gli inquirenti ad ipotizzare l'esistenza di una sorta di sovrastruttura mandante dei delitti, la cui presenza sarebbe stata desunta da alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale avrebbe dichiarato che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati comprati da personaggi ignoti ed altolocati, nonché da alcuni reperti rinvenuti sui luoghi dei delitti, come una piramide di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai corpi esangui di Giovanni Foggi e Carmela Di Nuccio in occasione del delitto del giugno 1981, piramide che secondo alcuni sarebbe un simbolo esoterico, secondo altri un comune fermaporte privo di rilevanza indiziaria.
Altri riscontri di supposta simbologia esoterica si sono avuti in occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985 a danno dei due turisti francesi; pochi giorni prima di essere assassinati infatti i due si erano accampati sopra Calenzano, ma erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio libero non era consentito in quella zona. In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante dal luogo in cui Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre, di cui due aperti ed uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e croci di legno. Secondo il parere di alcuni specialisti, tali cerchi di pietre potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo esoterico, da collegarsi con le fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia.
Ipotesi alternative e suggestive
Non tutti gli inquirenti e i giornalisti che si sono occupati del caso concordano sulla giustezza della sentenza di condanna a carico dei compagni di merende, né sull'ipotesi della pista esoterica oggi considerata dagli inquirenti la via per i mandanti degli omicidi. Per esempio, lo stesso profilo del killer tracciato dagli esperti dell'FBI indicava che il "mostro" agì con ogni probabilita' da solo, quindi senza il coinvolgimento di mandanti.
Le ipotesi alternative tendono a mettere in luce le ampie e reiterate contraddizioni e inesattezze intrinseche alle dichiarazioni del principale collaboratore Giancarlo Lotti, nonché ad altre incongruenze evidenti relative all'ipotesi della setta satanica.
Tutte le testimonianze di Lotti sono state sottoposte a revisione critica da parte di chi avversa la tesi ufficiale dei compagni di merende e della pista esoterica: il Lotti non sarebbe stato giudicato un teste attendibile sia a fronte delle sue ridotte facoltà mentali [senza fonte]che a fronte dei benefici di cui avrebbe goduto in quanto "pentito", sia in termini di sostentamento che in termini di (ancorché paradossale) ritorno di immagine, considerando il fatto che, in ultima analisi, il supertestimone era una sorta di disadattato deriso e bistrattato da tutti, ben felice di godere di un quarto d'ora di celebrità che lo poneva improvvisamente al centro di un'attenzione mai avuta prima.
A riprova della inattendibilità di Lotti, si è segnalato, ad esempio, come in occasione del delitto dei due turisti tedeschi del 1983 Lotti avrebbe testimoniato di essere stato costretto dal Pacciani a esplodere i sette colpi. Risulta che i sette proiettili calibro 22 (di cui furono repertati solo quattro bossoli Winchester serie H) hanno centrato con estrema precisione i corpi dei due giovani (uno dei quali, peraltro, si muoveva all'interno del veicolo), in contrasto con il fatto che Lotti non aveva mai usato un'arma da fuoco prima di quell'occasione. Un'altra palese - e vistosa - contraddizione si ebbe quando Lotti, a proposito del delitto di Vicchio, dichiarò che Pia Rontini, mentre Vanni e Pacciani la estraevano dall'auto, era ancora viva e "strillava", il che è impossibile dal momento che la ragazza, attinta da un proiettile al cervello e da almeno due coltellate era morta praticamente all'istante.
Più in generale, la pista ufficiale dei compagni di merende e della connessa pista esoterica evidenzia queste "debolezze", messe in luce anche nei processi a Pacciani, Lotti, Vanni:
- assoluta anomalia criminologica di delitti seriali commessi da un gruppo di persone;
- scarsa o nulla aderenza della tipologia dei presunti autori al profilo criminale degli omicidi seriali analoghi a quelli commessi dal mostro;
- base indiziaria dei processi piuttosto labile nel ricondurre alla figura Pacciani l'autore materiale dei delitti mediante ritrovo di reperti nell'abitazione del contadino di Mercatale (bossolo serie H, blocco da disegno simile a quelli abitualmente usati da Horst Meyer ucciso a Giogoli, nonché di un portasapone che la sorella del giovane - con molte incertezze e a dieci anni dal delitto - riconobbero come forse appartenuto al fratello);
- scarsa affidabilità di Pacciani, Vanni e Lotti come ipotetici complici di una setta segreta;
- scarsa attitudine fisica di Pacciani e Vanni a commettere gli omicidi contestati, specie quello del 1985 in cui una delle vittime (Jean-Michel Kravechvilij, che in passato era stato atleta) fu seguita - probabilmente correndo - per diverse decine di metri prima di essere finita;
- incompatibilità dell'omicidio di coppia o di gruppo con le modalità di aggressione tipiche del mostro: il fatto che questi sparasse alle vittime prima di mutilarle con il coltello indica la necessità di neutralizzare possibili reazioni o fughe, tanto più indispensabile se si ammette che il killer agisse da solo, e non con la complicità di terzi che agevolmente potevano immobilizzare le vittime o impedire la loro fuga;
- coinvolgimento di un eccessivo numero di soggetti in vicende criminose rispetto alle quali, per lunghi anni, non vi furono minimi indizi o fughe di notizie utili. Si osservi come in tutti i crimini in cui vi è alto numero di soggetti coinvolti vi è esponenziale aumento di immediati fenomeni di pentimento, fuga di notizie, indiscrezioni, illazioni, soffiate etc. che rendono altamente instabile il sodalizio criminale;
- estrema difficoltà a collegare tutti i delitti alle esigenze della ipotetica setta. Infatti questa tesi non spiega il delitto del 1968 ed il suo collegamento con gli altri (Pacciani non fu coerentemente condannato per il duplice omicidio); non spiega in fondo nemmeno il delitto del 1974, che anticipa di ben sette anni la serie vera e propria (1981-1985) costituendone la prova generale, e, soprattutto, non chiarisce il perché del "silenzio" del mostro e della setta in tutta la seconda metà degli anni '70. Il movente del mostro appare, inoltre, del tutto incongruo rispetto all'esigenza di utilizzare i feticci delle vittime per esigenze rituali: solo i due delitti del 1981, quello del 1984 e quello del 1985 servirono allo scopo, in altri casi lo scopo non fu intenzionalmente perseguito (1974 e, ammettendo sia opera del mostro, 1968), fu impedito da circostanze obiettive (1982 e 1983). A fronte dei fallimenti, il mostro e l'ipotetica setta non cercarono tempestivamente di rimediare agli "errori", il che fa dubitare della stretta necessità dei feticci, e, a monte, della stessa fondatezza della tesi maggioritaria;
Sviluppi ulteriori della "pista sarda"
Una tesi seguita negli ultimi anni, e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella per cui il mostro sarebbe un individuo legato al "clan dei sardi", già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali. Per la documentazione, si veda ad esempio la seguente nota [7].
La tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968, ritenendo che l'omicidio di Lastra a Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali e d'onore da parte di soggetti legati alle famiglie Mele e Vinci, con la Beretta ed i proiettili utilizzati successivamente dal mostro.
Rispetto a tale vicenda, tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo, essendosi appropriato solo successivamente della pistola e dei proiettili per avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi.
Secondo Spezi, solo un componente delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi di pistola e proiettili, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da parte del detentore, di un'arma e di una scatola di proiettili gia' utilizzati in un omicidio (quello del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore) Soprattutto e' da escludere una cessione volontaria a soggetti estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo rinvenimento, da parte di terzi, di pistola e proiettili.
Il giornalista ritiene che il passaggio di arma e munizioni dall'omicida del 1968 (o comunque dal detentore di tali oggetti) al vero mostro sia da legarsi ad una denuncia di smarrimento effettuata nell'aprile 1974 (pochi mesi prima del secondo delitto) da Salvatore Vinci, cioe' uno dei membri del c.d. "clan dei sardi" a seguito di un furto nel suo appartamento di Via Cironi a Firenze. Nella denuncia, rinvenuta in un archivio di PS di Firenze, si indica il nome stesso del probabile autore del presunto furto: un membro della sua stessa famiglia solo marginalmente coinvolto nelle indagini dei primi anni '80 e che lascio' misteriosamente l'Italia dopo il 1985, anno che coincise con la definitiva scarcerazione degli ultimi esponenti del "clan dei Sardi" ancora sospettati sulla base di contiguita' col delitto del 1968.
La tesi di Spezi è indubbiamente suggestiva, ben argomentata e provata, oltre che estremamente lineare, spiegando molto bene il collegamento fra i delitti del 1968 e del 1974, come pure le possibili ragioni del "silenzio" del mostro fra il primo effettivo delitto seriale del 1974 e la vera e propria serie del periodo 1981-1985, oltre che le ragioni per le quali l'assassino avrebbe improvvisamente cessato di delinquere dopo il delitto degli Scopeti.
La teoria si basa sulla petizione di principio per cui il delitto del 1968 fu compiuto con la stessa arma e gli stessi proitettili poi riutilizzati a partire dal 1974, senza verificare se i bossoli ritrovati nel fascicolo relativo al delitto del 1968 fossero effettivamente quelli utilizzati nell'omicidio Locci - Lo Bianco, come invece la teoria "cospirazionista" vorrebbe escludere. Va comunque rilevato che, sulla base di intercettazioni telefoniche [8], e' assodato che le famiglie sospettate del delitto del 1968 seguirono con grande apprensione e paura il collegamento di quel delitto con quelli del mostro, nonostante che tale collegamento avrebbe significato il quasi sicuro scagionamento di un loro congiunto, Stefano Mele, dalla condanna di omicidio per la quale era in carcere da oltre 10 anni. Inoltre la teoria profila un certo accanimento giudiziario ai danni di Pacciani e dei compagni di merende all'epoca delle indagini dei primi anni '90, contestando l'attività della Procura della Repubblica di Firenze e della squadra antimostro, oltre che di Perugini e Giuttari.
L'ipotesi "cospirazionista" e i sospetti di inquinamento delle indagini
Una suggestiva ipotesi alternativa è quella di Nino Filastò, esposta nel libro Storia delle merende infami (2005).
Secondo l'avvocato fiorentino il mostro di Firenze sarebbe una persona rimasta costantemente a contatto diretto con le autorità giudiziarie, probabilmente un poliziotto o un ex tutore dell'ordine, o, in ogni caso, un soggetto che agiva in "divisa" (es. guardiacaccia).
Secondo l'autore la tesi si fonda sull'anomalia delle scoperte relative ai collegamenti e reperti che riguardavano la serie omicidiaria vera e propria (delitti 1981-1985) alle uccisioni più remote del 1968 e del 1974. Secondo l'autore certi dettagli sarebbero conoscibili solamente da un soggetto con facile accesso a documenti ed archivi riservati delle forze dell'ordine. Tali collegamenti sarebbero stati suggeriti da fonti anonime le quali, oltre ovviamente a conoscere le circostanze più recondite dei singoli delitti, avrebbero in qualche modo "eterodiretto" le forze dell'ordine a ricostruire le loro serialità formando gli stessi reperti dei delitti. Tuttavia va rilevato, ad esempio, che la conservazione dei bossoli del delitto del 1968 nel relativo fascicolo non puo' essere presa ad esempio, come vorrebbe l'autore, in quanto e' prassi consolidata evitare la distruzione di tali reperti fintantoche' l'arma del delitto non e' stata ritrovata. Inoltre non si comprende come mai, se il mostro (o chi per lui) fosse stato cosi' addentro all'andamento delle indagini degli anni '80, non sapesse anche dello stratagemma escogitato dal giudice Silvia della Monica nel caso dell'omicidio Migliorini-Mainardi: chiedere ai cronisti di scrivere sui giornali che il Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni. Molto significativamente gli addetti all'ambulanza che recuperarono il corpo di Mainardi ricevettero a piu' riprese telefonate da un anonimo che si spaccio' inizialmente per un addetto alle indagini, il quale voleva sapere che cosa Mainardi avesse rivelato. Secondo Filastò, il mostro non avrebbe colto di sorpresa le vittime aggredendole d'improvviso, ma si sarebbe avvicinato alle vetture dal lato del conducente, chiedendo informazioni o, più probabilmente, l'esibizione di documenti di indentità. Nel momento in cui il guidatore (sempre il maschio) abbassava le proprie difese mettendosi alla ricerca dei documenti o estraendo il portafoglio, scattava l'aggressione del mostro. Inoltre una testimonianza indicava la presenza di un auto della polizia in un luogo dove poco dopo sarebbe avvenuto uno dei delitti, insolitamente con un solo poliziotto a bordo.
In senso critico si osserva come la tesi presenti qualche punto debole e si basi su congetture: il fatto che qualcuno abbia guidato o agevolato le indagini fino a scoprire collegamenti con omicidi non collegati alla serie 1981-1985 non significa che questo qualcuno fosse necessariamente il mostro, nè che il mostro fosse un soggetto con agevole accesso ad archivi riservati; la tecnica omicidiaria mediante esibizione di documenti non si attaglia solo a circa meta' dei delitti, essendo esclusa ad esempio nel delitto del 1983 ed in quello del 1985, avvenuti in circostanze differenti e in quello del 1984, quando il "mostro" si avvicino' alla coppia da parte della donna.
Possibili collegamenti con il caso Narducci
Ulteriore tesi è quella che vede nel responsabile dei delitti, o in uno dei capi della misteriosa setta che avrebbe commissionato gli omicidi seriali, il dottor Francesco Narducci, medico e professore universitario perugino morto nel Lago Trasimeno a trentasei anni nel 1985, a poche settimane dall'ultimo degli omicidi del mostro. La morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza procedere ad autopsia, la causa di morte (annegamento) apparento abbastanza chiara.
La tesi è prospettata dallo scrittore e giornalista Diego Cugia nel libro Un'amore all'inferno (2005), sulla base di una serie di presunti riscontri sulla vita e sulle attività del medico umbro.
Già nei primi anni '80 si era sostenuto che il mostro fosse un medico, a causa della asserita precisione delle escissioni effettuate nei cadaveri e sulla scorta di suggestioni legate al fatto che l'assassino potesse essere un insospettabile membro dell'alta borghesia toscana o umbra, come un medico cattedratico. Suggestioni analoghe si erano verificate anche nel caso di Jack lo squartatore, come ben evidenziato nel film La vera storia di Jack lo squartatore del 2001.
Il coinvolgimento di Narducci si fonda sull'intercettazione telefonica di un balordo umbro che avrebbe minacciato una persona di fargli fare la stessa fine del "medico ucciso sul Trasimeno", velato riferimento alla morte dello stesso Narducci, rinvenuto cadavere al largo dell'isola Polvese.
Di qui, una serie di illazioni relative al fatto che il Narducci sia stato assassinato dagli stessi membri della setta, in quando oramai ritenuto un pericolo per la sua sopravvivenza, a fronte della sua volontà di rivelare la matrice dei delitti o di dissociarsi dalla stessa.
Altri sostengono invece che Narducci possa essere stato il mostro, colpendo individualmente le vittime, correlando la sua presenza a Firenze nei periodi in cui avvenivano i delitti ad una presunta responsabilità degli omicidi, o, ancora, soffermandosi sulla personalità complessa e per certi versi misteriosa del medico umbro, messa in evidenza dallo stesso Cugia dopo una serie di interviste alla vedova di Narducci.
Proprio il presunto omicidio del medico umbro, legato alla possibile sostituzione del suo cadavere con quello di uno sconosciuto in maniera tale da insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte di Narducci nell'autunno del 1985, ha dato luogo all'avvio di una inchiesta giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Perugia, profilando il coinvolgimento di una loggia massonica, alla quale apparteneva il padre di Narducci, sia nella copertura degli omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere.
A fronte delle indagini in corso non è possibile esprimere un giudizio completo su tale ulteriore tesi - la quale peraltro non sconfessa integralmente la tesi ufficiale circa la colpevolezza dei "compagni di merende" -, dovendosi tuttavia osservare come la medesima vada incontro alle obiezioni precedentemente segnalate circa la sussistenza di delitti di gruppo o su commissione di una setta o organizzazione analoga.
Allo stesso modo, obiezioni possono formularsi circa la responsabilità diretta del solo Narducci, posto che un suo coinvolgimento nei delitti del mostro potrebbe tutt'al più profilarsi per gli omicidi seriali commessi fra il 1981 ed il 1985 (come sembra affermare lo stesso Cugia), mentre rimarrebbero slegati i delitti del 1974 e del 1968, la cui responsabilità andrebbe dunque ascritta a terzi e non al mostro.
Il che obbliga a ritenere che, almeno dalla prima metà degli anni '80, vi sia stato un inquinamento delle prove e dei reperti omicidiari tale da retrodatare l'azione del mostro alla fine degli anni '60, mentre la vera serie omicidiaria si avvia con i duplici delitti del 1981, anno del matrimonio di Narducci.
Va altresì rilevato un certo "deficit" d'esperienza negli inquirenti dell'epoca (si trattava comunque del primo caso di omicidi seriali in Italia) che ha forse pregiudicato le indagini. Molti dei bossoli sparati dalla Beretta risultano mancanti o non repertati; alcune prove materiali (tra cui la piramide di pietra rinvenuta sulla scena del delitto del giugno 1981) sono state smarrite o non adeguatamente analizzate (si pensi solo al valore probatorio rappresentato dal ciuffo di capelli trovato tra le dita di Susanna Cambi, uccisa a Calenzano: un semplice esame del DNA avrebbe permesso di escludere molti sospettati). Sicuramente l'assenza di mezzi moderni come il computer (all'epoca di recentissima invenzione e di costo inaccessibile spesso anche per le forze dell'ordine) ha avuto il suo peso. Pare inoltre che, in sede di autopsia, non si sia provveduto a conservare campioni di tessuti delle vittime (rendendo così, di fatto, impossibile un confronto con eventuali resti umani trovati in possesso di sospettati). Le indagini si volsero fin dall'inizio contro persone sicuramente "sospettabili" e con un passato discutibile (pregiudicati per reati sessuali etc.) , ma con poco o nessun punto in comune con il profilo psicologico del "mostro" tracciato dall'FBI, che, da solo, avrebbe permesso di escludere dal novero dei sospetti personaggi come i compagni di merende.
Note
- ^ Il mostro di Firenze, Alessandro Cecioni e Gianluca Monastri, ed. Nutrimenti, 2000
- ^ Storia delle merende infami, Nino Filastò, ed. Maschietto
- ^ Storia delle merende infami, Nino Filastò, ed. Maschietto
- ^ Storia delle merende infami, Nino Filastò, ed. Maschietto
- ^ Nino Filastò, Storia delle merende infami, ed. Maschietto
- ^ Michele Giuttari, Il mostro. Anatomia di un'indagine, 2006, Rizzoli, Milano, pag. 44
- ^ http://www.chilhavisto.rai.it/clv/misteri/2001-2002/IlMostroDiFirenze10.htm
- ^ http://www.chilhavisto.rai.it/clv/misteri/2001-2002/IlMostroDiFirenze11.htm
Bibliografia
- Michele Giuttari, Il mostro, Milano, Rizzoli, 2006.
- Nino Filastò, Storia delle merende infami, Firenze, Maschietto Editore, 2005.
- Douglas Preston, Mario Spezi, Dolci colline di sangue, Milano, Sonzogno Editore, 2006.
- Alessando Cecioni, Gianluca Monastra, Il mostro di Firenze, Roma, Nutrimenti.
- Ruggero Perugini, Un uomo abbastanza normale, Mondadori.
Voci correlate
Collegamenti esterni
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