Alessandro Pavolini

giornalista, politico e scrittore italiano (1903-1945)
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Alessandro Pavolini (Firenze, 27 settembre 1903Dongo, 28 aprile 1945) è stato un giornalista, politico e scrittore italiano, ministro della Cultura popolare e segretario del Partito fascista repubblicano.

Ambito familiare e formazione

Figlio di Paolo Emilio, poeta e filologo (studioso di lingue nord orientali europee e professore di sanscrito), livornese originario dell'isola d'Elba, nacque nell'aristocratica ed antica residenza fiorentina occupata dalla famiglia in via San Gallo 57.

Secondo i biografi, il giovane Alessandro avrebbe mostrato una precocissima attitudine al giornalismo, redigendo nel 1911, a soli otto anni, con l'aiuto del fratello Corrado, un foglio ciclostilato dal titolo "La guerra" in appoggio alla campagna di Libia. Qualche anno più tardi sarebbe stata la volta di un'analoga iniziativa volta ad esaltare l'intervento italiano nella prima guerra mondiale su un foglio dal titolo "Il Buzzegolo", nome derivante da un soprannome familiare del giovane Alessandro.

Dal 1916 al 1920 frequentò il ginnasio ed il liceo classico presso l'istituto "Michelangelo". Si iscrisse quindi alla facoltà di Legge dell'Università di Firenze ed a quella di Scienze Sociali di Roma, mentre iniziava le prime esperienze letterarie ed alternava l'impegno culturale a quello politico.

 
"La Disperata", squadra d'azione di Firenze cui Ciano dedicherà il nome della sua squadriglia di bombardieri.

Nel 1920 aderì al Fascio di Firenze e partecipò a varie azioni nelle squadre d'azione del conte Dino Perrone Compagni, rimanendo allo stesso tempo amico di Carlo e Nello Rosselli[1].

Nel 1922, mentre si stava svolgendo la Marcia su Roma, si trovava nella Capitale per sostenere un esame universitario e colse l'occasione per unirsi al gruppo di fascisti proveniente da Firenze. Ciò gli permise di essere considerato come partecipante all'evento e quindi di ottenere il Brevetto della Marcia su Roma[2], requisito che tra l'altro concedeva una serie di preferenze e benefici durante il regime.[3]

Tra il 1923 ed il 1924 svolse il servizio militare come sottotenente dei Bersaglieri, ottenendo il grado di centurione della MVSN al suo congedo.

Nel 1927, durante le vacanze estive passate a Castiglioncello (passate dedicandosi spesso e con discreto successo al tennis), conobbe la futura moglie, Teresa Franzi, nipote di un senatore e figlia di un affermato ingegnere milanese. La sposò nel 1929 e la coppia ebbe tre figli, Ferruccio (1930), Maria Vittoria (1931) e Vanni (1938).

L'attività politica, culturale e giornalistica

Nel 1924 si laureò contemporaneamente in Legge a Firenze ed in Scienze Sociali a Roma. Nello stesso anno partecipò alla contestazione del docente antifascista Gaetano Salvemini, all'università di Firenze. Alla manifestazione assistette Piero Calamandrei, che in seguito prese parte all'attentato di via Rasella e che ricordò:

«Soprattutto mi restarono impressi, nei cento volti di quella canea urlante, gli occhi di Alessandro Pavolini, allora studente di legge, che capeggiava quell'impresa: egli mi guardava senza parlare con occhi così pieni di acuminato odio che quasi ne rimasi affascinato come se fossero occhi di un rettile: c'era già in quegli occhi la spietata crudeltà di colui al quale vent'anni dopo, alla vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le donne che uscivano durante l'emergenza a far provvista d'acqua.»

Successivamente ricoprì vari incarichi negli istituti di cultura e nei movimenti giovanili fascisti (fu ad esempio addetto stampa della Legione Ferrucci). Collaborò a Battaglie fasciste, Rivoluzione fascista e a Critica fascista. Pubblicò il romanzo Giro d'Italia e compose poesie di tema crepuscolare.

Nel maggio del 1927 fu nominato vice Federale di Firenze.

Nel 1929 successe, appena ventiseienne, al marchese Luigi Ridolfi alla carica di segretario della federazione provinciale[5] del PNF di Firenze. In questo ruolo promosse la realizzazione dell'autostrada Firenze-Mare e della centrale Stazione di Santa Maria Novella, ed istituì il Maggio Musicale Fiorentino.

Sempre nel 1929 fondò la rivista Il Bargello, organo della federazione e rivista letteraria. Tra il 1926 e il 1932 fece sporadici interventi su Solaria e collaborò saltuariamente a riviste letterarie.

Eletto deputato nel 1934, collaborò con Giuseppe Bottai all'ideazione dei Littoriali della cultura e dell'arte.

Dal 1934 al 1942 fu stabilmente al Corriere della sera come inviato speciale.

Dal 29 ottobre 1934 al 23 novembre 1939 fu presidente della Confederazione fascista dei professionisti e artisti e membro del Consiglio Nazionale delle Corporazioni.

Strinse amicizia con Galeazzo Ciano, con il quale condivideva il piacere per la bella vita ed un'idea del fascismo alquanto distante da quella propugnata da Starace.[senza fonte] Ciano lo protesse e lo difese a più riprese, più di quanto non avesse mai fatto per qualsiasi altro[6], una prima volta nel 1935 quando a Mussolini giunse una segnalazione nella quale, dopo essere stato ridicolizzato come combattente, veniva accusato di cumulare incarichi e prebende sino a mettere assieme stipendi da favola[7] ed in almeno un'altra occasione, nel novembre 1937, quando Mussolini espresse a Ciano dubbi sul "lealismo politico" di Pavolini.[8]

Almeno sino al 1939 Pavolini si mantenne, in pubblico, vicino al sentimento antitedesco di Ciano, tanto che in occasione dell'occupazione della Boemia esclamò:

«Ecco l'occasione buona per mettere a posto per sempre la Germania.[9]»

e l'eco di tale dichiarazione giunse sino a Berlino[senza fonte].

La guerra d'Abissinia e la relazione con Doris Duranti

Nello stesso periodo l'attrice Doris Duranti, diva del cinema dei "telefoni bianchi", divenne sua amante e lo resterà sino all'ultimo, quando Pavolini, alla vigilia della sua tragica fine, la fece rifugiare in Svizzera.

Iniziò a scrivere per il Corriere della sera. Da ricordare un articolo in cui si scagliò contro la stampa estera, affermando che gli stranieri fossero «lividi d'ira e d'invidia perché hanno la precisa coscienza del livello morale che passa tra i nostri giornali, araldi di un'idea, e quelli delle "grandi democrazie", asserviti alla massoneria e all'affarismo».

Partecipò alla guerra d'Etiopia come tenente osservatore nella 15a squadriglia da bombardamento comandata da Ciano, detta "la Disperata"[10], operandovi contemporaneamente quale inviato speciale del Corriere della Sera.

 
Pavolini appoggiato alla carlinga di uno dei velivoli della squadriglia di bombardieri "La Disperata"

Pavolini raccontò la sua esperienza bellica nel libro di memorie di guerra Disperata, pubblicato da Vallecchi a Firenze nel 1937. Il libro ha toni analoghi a quelli dei memoriali redatti da altri illustri reduci della conquista abissina[11].

Scrisse Pavolini nel suo Disperata, descrivendo l'assalto della squadriglia durante la ritirata etiopica seguita alla sconfitta subita nella battaglia dell'Amba Aradam:

«L'aviazione concepita come cavalleria d'inseguimento. Vere e proprie cariche di velivoli si avventarono lungo le carovaniere, incalzando i fuggiaschi ai guadi, dispersero le colonne, perseguitarono i dispersi con la mitragliatrice e la carabina.[12]»

Nella stessa operazione di persecuzione del nemico in fuga, che venne sottoposto al bombardamento con 60 tonnellate di iprite, un'arma chimica il cui impiego era vietato dalla Convenzione di Ginevra e di cui Pavolini non parla.[13]

Poco tempo dopo, Pavolini è di nuovo all'inseguimento dei nemici sconfitti:

«Quest'operazione finale, nelle selve, nelle forre e nelle caverne del Tembien, richiamava ancora una volta alla mente immagini di caccia grossa. Somigliò ad una gigantesca battuta.[14]»

E ancora:

«Infinite altre ecatombi. Ma di rado la strage si concentrò in un tempo e in uno spazio altrettanto ristretti. [...] Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell'altopiano.[15]»

Anche rime vergò, di lirismo bellico e di metro arrangiato:

«Vita, sei nostra amica. Morte, sei nostra amante.
Nella prima carlinga è Ciano comandante.
A chi ci seguirà, il varco si aprirà
Anche la geografia bombardando si rifarà»

Ministro del Minculpop

 
Pavolini in grande uniforme estiva del P.N.F., 1938

Nel 1938 Pavolini fu tra i firmatari del Manifesto della razza in appoggio alle leggi razziali fasciste.

Dal 31 ottobre 1939 fu ministro della Cultura Popolare, il Minculpop, in sostituzione di Alfieri, inviato a Berlino come ambasciatore. Per Montanelli, con la sua nomina "salì sul firmamento fascista una stella che avrebbe brillato di luce sanguigna durante il periodo repubblichino"[1].

Ad ispirare la nomina di Pavolini fu l'amico Ciano, che già la sera del 19 ottobre 1939 aveva annotato nel suo Diario: «...Il Duce si accinge a fare ministri tutti i miei amici, Muti, Pavolini, Riccardi, Ricci...». Tutti toscani, come lo stesso Ciano. Tale fu la percezione della sua influenza nel rimpasto ordinato da Mussolini, mentre la guerra europea divampava ormai da due mesi, che presso alcuni circoli il nuovo governo venne definito, seppure a mezza bocca, "il primo gabinetto Ciano".[senza fonte]

Le veline

Tra i principali compiti quotidiani del ministero assegnato a Pavolini v'era la redazione delle "note di servizio", le cosiddette "veline" del Minculpop, che imponevano ai media italiani cosa dire e come dirlo. L'arrivo di un uomo colto come Pavolini alla guida del dicastero, tuttavia, non portò alcun miglioramento - al contrario - nello stile e nella sostanza di tale attività, tesa a sostituire interamente la propaganda ai fatti ed alle notizie.

Già una settimana dopo l'inizio del mandato, la velina del giorno della gestione Pavolini assume toni perentori:

«Nelle cronache delle partite di calcio e negli articoli sul campionato non attaccare gli arbitri; ... Assoluto divieto di abbinare altri nomi alle acclamazioni all'indirizzo del Duce»

Nel febbraio del 1940 viene emessa una velina che rappresenta egregiamente il culto della personalità dedicato a Mussolini, cui Pavolini non cessa di dare impulso:

«Tenere sempre presente che tutto quanto si fa in Italia attualmente: lo sforzo produttivo del Paese, la preparazione militare, la preparazione spirituale, ecc., tutto promana dal Duce e porta la sua sigla inconfondibile»

La foga con la quale la propaganda promossa sotto la supervisione di Pavolini viene prodotta porta anche ad infortuni linguistici, che contribuiranno all'ironia che si va diffondendo in modo sotterraneo nel Paese all'indirizzo del "colto" ministro e del suo ministero[senza fonte]:

«È inutile continuamente parlare, in questa fase del conflitto, della non-belligeranza italiana: ma si può parlare invece che ci troviamo [sic!] in un periodo di intensissima preparazione, con le armi al fianco, e osserviamo con la più vigile attenzione gli avvenimenti che si svolgono intorno a noi.»

Con l'Italia ormai coinvolta nel conflitto mondiale, le veline aumentano il proprio distacco dalla realtà sino a specificarlo, a volte, esse stesse in modo esplicito,[senza fonte] come quando, nell'anniversario della Marcia su Roma, il Minculpop non esita ad emettere una nota tutt'altro che bellicosa ma alquanto surreale, destinata probabilmente a tacitare i pettegolezzi[senza fonte] che si vanno sempre più facendo intensi circa la relazione sentimentale tra Pavolini e Doris Duranti, che per questo viene popolarmente schernita come "l'artista per (sua) eccellenza"[senza fonte]:

«Tra i presenti alla "prima" del film "Bengasi" dare anche il ministro Pavolini (anche se non ci sarà).»

Allo scopo di stigmatizzare la rivista fascista "Il Primato", che aveva pubblicato in copertina un'illustrazione raffigurante alcuni soldati seduti in un bivacco, durante la guerra Pavolini emise un messaggio che recitava:

«In Italia i soldati devono stare sempre in piedi.»

Nel gennaio del 1941 fu inviato sul fronte greco, col grado di capitano, sempre al seguito di Ciano. La polizia politica registrò un'azione riservata di attacco compiuta con ardore, ma senza fortuna, dai due gerarchi: la "vittima" era un'attricetta di passaggio a Bari, che ne uscì indenne.[16]

Pavolini perse l'incarico di ministro a seguito di un rimpasto governativo voluto da Mussolini l'8 febbraio 1943, nel tentativo di controllare il fronte interno mentre la guerra appariva ormai perduta: i pesanti bombardamenti alleati sulle città italiane ed il diluvio di feriti e di caduti, che né la propaganda di Pavolini né la censura militare riuscivano più ad occultare, avevano ormai reso chiaro a tutti ciò che da tempo era chiaro anche ad alcuni membri della Casa Reale.[17]

Forse consapevole del fallimento di una propaganda à la Starace[18], Mussolini, secondo una interpretazione dei fatti, tentò di risalire la china con un cambio di ministri nell'ambito del quale la testa più illustre a cadere fu proprio quella del ministro della Cultura Popolare[19].[senza fonte]

Pavolini fu così privato del ministero (sostituito da Polverelli) e nominato direttore del quotidiano romano Il Messaggero.

Secondo altre interpretazioni[senza fonte] il rimpasto fu invece dovuto al conflitto sotterraneo tra le più alte cariche dello Stato, che andava aprendosi tra Monarchia e Fascismo. Mussolini intendeva sollevare dalle poltrone più delicate gli uomini sospetti di maggiore fedeltà alla monarchia che al fascismo, per rendere più difficili possibili iniziative politiche avverse al regime avallate da Casa Savoia.

Quello impostogli da Mussolini costituì un arretramento - seppure momentaneo, in quanto conservò la carica di consigliere nazionale del PNF - nel prestigio di Pavolini[20] e come un altrettanto momentaneo allontanamento dalla politica attiva di alto livello, sebbene a Pavolini fosse stata comunque offerta una tribuna, quella di direttore di un importante quotidiano, che gli consentiva inoltre di tornare a coltivare la sua vecchia passione per il giornalismo.

Continuò l'attività letteraria con la pubblicazione di memorie come Disperata (1937) e racconti o romanzi come Scomparsa d'Angela (1940).

1943-1945

La fine del fascismo-regime

«Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura»

Il 25 luglio 1943 Pavolini venne a conoscenza della destituzione e del conseguente arresto di Mussolini dal ministro Zenone Benini[21]. Pavolini, tornato a casa, mise al sicuro la famiglia facendola ospitare da uno zio, l'architetto Brogi, poi si rifugiò presso l'amico Pierfrancesco Nistri in via Tre Madonne, temendo di poter essere ucciso dalla polizia di Badoglio come era gia avvenuto con Ettore Muti[22]. Nel corso dei due giorni lì passati maturò la decisione di recarsi in Germania al fine di continuare a combattere al fianco dei tedeschi[23].

«Dal regime ho avuto tutto e intendo restituirgli tutto. Cè una sola strada possibile per salvare almeno il nostro onore di fascisti.»

Cinque minuti prima della mezzanotte del 27 luglio a bordo di un'auto munita di targa diplomatica giunse a Villa Wolkonsky, all'epoca sede dell'ambasciata tedesca a Roma e l'indomani mattina dallo scalo aereo di Ciampino, partì per Koenigsberg raggiungendo Vittorio Mussolini.

La ricostituzione del partito fascista

A seguito del tracollo del regime, Pavolini colse l'occasione per riconquistare posizioni tra i gerarchi che si erano rifugiati in Germania, presentandosi ai tedeschi come fedelissimo del Duce e fascista intransigente capofila dello squadrismo.

Ancor prima dell'armistizio dell'8 settembre, insieme a Vittorio Mussolini, da Koenisberg sviluppò i piani politici per la restaurazione del fascismo e pronunciò comunicati via radio in italiano che preannunciavano il ritorno del duce al governo. Quando questi fu liberato dalla prigionia sul Gran Sasso e condotto in Germania, Pavolini fu in prima fila a Monaco tra coloro che sostennero la necessità di dare al centro-nord Italia un "Governo Nazionale Fascista"[25] dopo la fuga da Roma del Re e di Badoglio, insistendo con Mussolini affinchè ne assumesse la guida.[26].

Così Pavolini si rivolse a Mussolini al loro primo incontro dopo la liberazione da Campo Imperatore:

«Il governo provvisorio nazionale fascista attende la ratifica dal suo capo naturale: solo così si potrà annunciare la composizione del governo.»

Dopo alcuni tentennamenti, Mussolini si risolse ad accettare la guida della nuova entità statale. La scelta di Mussolini, per la quale spingeva Hitler stesso che voleva nuovamente dare dignità al proprio maestro ed amico, indispettì parte dei gerachi nazisti che avrebbero preferito una figura più malleabile.[28].

La Repubblica Sociale

Costituita la Repubblica Sociale Italiana fu nominato segretario provvisorio del neonato Partito Fascista Repubblicano (PFR). Il 17 settembre si recò con Guido Buffarini Guidi a Roma, dove aprì la sede del Partito a palazzo Wedekind riorganizzandone la struttura e l'organizzazione.[29]

Il 23 settembre Pavolini convinse il maresciallo Rodolfo Graziani ad aderire al PFR dopo un burrascoso colloquio. Successivamente convocò gli ufficiali del Presidio Militare di Roma e, annunciato loro che "il partito che io guido sarà un partito totalitario", ordinò alla divisione Piave di deporre le armi, consegnarle ai tedeschi e mettersi in marcia verso il nord in attesa di ulteriori ordini.[senza fonte]

L'idea di Pavolini di creare un esercito per la Repubblica Sociale che fosse politicizzato lo portò a vari scontri con Graziani, che desiderava che il nascente Esercito Nazionale Repubblicano fosse apolitico, e con l'amico Ricci che era al comando della Guardia Nazionale Repubblicana. Pavolini riuscì poi a ottenere soddisfazione con la creazione delle Brigate Nere.

Fu aperta la campagna tesseramenti al nuovo Partito Fascista Repubblicano. Secondo le direttive di Pavolini si negò aprioristicamente la tessera a coloro che avevano appoggiato il Governo Badoglio ed ai fascisti pentiti che chiedevano la reintegrazione[30]. Il tesseramento fu poi chiuso per il sospetto che potessero giungere richieste strumentali da parte di "avventurieri ed opportunisti"[29]. Abolì inoltre l'uso del termine gerarca ed i fronzoli che adornavavo le divise militari, rendendole il più possibile spartane.

A fine ottobre erano già state raccolte circa 250.000 richieste di iscrizione al Partito Fascista Repubblicano.

Questo dato portò al congresso costituente di Verona (novembre 1943) [31] raccontando: «ci siamo impadroniti dei ministeri mandando un camerata accompagnato da due, massimo da quattro giovani fascisti armati di mitra[32]».

In realtà i due gerarchi erano nella capitale, seguendo un progetto discusso a Monaco con Mussolini, per riunire la Camera dei Fasci ed il Senato per far loro dichiarare decaduta la monarchia, ma si avvidero che era eccessivamente rischioso, avendo le Camere già votato in modo apertamente antifascista.[33]

Il 5 novembre, a seguito dell'omicidio di diversi fascisti nel corso di imboscate, Pavolini emanò la seguente ordinanza che comminava la pena di morte ai responsabili:

«Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico, il segretario del P.F.R. ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassini. Previo giudizio dei tribunali speciali, detti esecutori o mandanti siano passati per le armi. Per mandanti morali intendo i nemici dell'Italia e del fascismo, responsabili dell'avvelenamento delle anime.[34]»

Il Manifesto di Verona

  Lo stesso argomento in dettaglio: Manifesto di Verona.

Alessandro Pavolini partecipò con Benito Mussolini e Nicola Bombacci alla stesura del Manifesto di Verona, che fu poi posto ai voti ed approvato al Congresso del Partito Fascista Repubblicano del 14 e 15 novembre 1943.

L'assise di Verona

 
L'Assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano fu tenuta a Castelvecchio (Verona)
  Lo stesso argomento in dettaglio: Congresso di Verona (1943).

Pavolini, chiamato a presiedere il Congresso in qualità di segretario del Partito Fascista Repubblicano, aveva aperto la riunione leggendo un messaggio di Mussolini in cui si invitava ad adoperarsi per dare alla nuova repubblica un esercito. Pavolini poi proseguì la propria relazione paventando il pericolo costituito dagli attentati partigiani e richiamandosi al fascismo delle origini:

«Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno.... Lo squadrismo è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre.»

per poi concludere:

«E' l'antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemmi sulla sua parte bianca, là dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: Onore.[35]»

In seguito furono poi approvati i 18 punti del Manifesto di Verona. Mussolini descrisse a Dolfin il congresso come:

«E' stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti ha chiesto l'abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà.»

Sostanzialmente il Congresso di Verona segnò la vittoria dei fascisti più intransigenti a scapito della corrente moderata[37], come dimostrò anche l'avvenuta rappresaglia di Ferrara.

La rappresaglia di Ferrara

File:Igino Ghisellini, federale fascista repubblicano di Ferrara.jpg
Igino Ghisellini, commissario federale di Ferrara.

Mentre il congresso ero in corso, giunse a Verona la notizia dell'uccisione di Igino Ghisellini, pluridecorato[38] reggente la Federazione di Ferrara (Ghisellini dopo l'armistizio, aveva aperto trattative con gli antifascisti rifiutate però dal Partito comunista). Pavolini comunicò subito la notizia all'assemblea:

«Il commissario della federazione di Ferrara che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata ghisellini, è stato ucciso con sei colpi di pistola. Noi eleviamo a lui il nostro pensiero. Egli sarà vendicato!.»

Alla notizia i partecipanti all'assise cominciarono a gridare: "A Ferrara, a Ferrara". Pavolini, assecondando le richieste di rappresaglia disse: «lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile» e disponendo l'invio solo degli squadristi ferraresi e di Verona e Padova aggiunse:

«Non si può gridare in presenza del morto; si agisce in modo disciplinato. I lavori continuano. I rappresentanti di Ferrara raggiungano la loro città. Con essi vadano le formazioni della polizia federale di Verona e gli squadristi di Padova.»

In seguito alle disposizioni date da Pavolini, diverse squadre si recarono a Ferrara per eseguire la rappresaglia. L'omicidio di Ghisellini, compiuto dai GAP e rivendicato poco tempo dopo sul giornale del partito comunista L'Unità[41], fu attribuito agli stessi fascisti nell'immediato dopoguerra, con un processo celebrato nel 1948.[42]

Settantacinque antifascisti furono prelevati dalle loro abitazioni e dalle locali carceri, undici dei quali sommariamente fucilati la notte stessa del 15 novembre, mentre alcuni altri morirono successivamente in carcere (sotto i bombardamenti alleati o - come nel caso della maestra socialista Alda Costa - di morte naturale).

La rappresaglia di Ferrara fu criticata da Mussolini per la sua ferocia e la sua inopportunità politica: in quel momento egli cercava di riunire quel che restava del Paese sotto la RSI, non precipitarlo ulteriormente in una guerra fratricida.

«Un atto stupido e brutale.»

Tuttavia, da quel momento il dado fu definitivamente tratto. Roberto Farinacci commentò così l'episodio su "Il Regime Fascista"[44]: «La parola d'ordine è stata: occhio per occhio, dente per dente. Si è creduto forse che noi non avessimo la forza e il coraggio di reagire. I fatti ora hanno parlato».

Da quel momento la stampa di Salò prese ad impiegare largamente il neologismo "ferrarizzare" quale sinonimo di analoghe operazioni di liquidazione del nemico interno[45] reputate "esemplari".

D'altra parte la guerra civile non fu una scelta casuale, né essa ebbe un solo padre o fu imposta dai partigiani. Questi ultimi, all'epoca dell'assise di Verona, erano ancora assai meno numerosi dei fascisti di Salò in armi, per non parlare di quelli iscritti al PFR (circa 250mila), molti dei quali erano fascisti della prima e primissima ora, in gran numero marginalizzati se non epurati durante il regime.

Il fascismo, risorto dalle sue ceneri sotto la segreteria di Pavolini, era in effetti un vulcano in ebollizione pieno di contraddizioni e di rivalità intestine sviluppate dalle diverse personalità che lo animavano, da Guido Buffarini Guidi a Renato Ricci, da Rodolfo Graziani a Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi o Pavolini e che non si risparmiavano nel fomentare contrapposizioni anche feroci.

Il processo di Verona

 
Galeazzo Ciano al Processo di Verona
  Lo stesso argomento in dettaglio: Processo di Verona.

La vittoria dell'ala dura del fascismo repubblicano al congresso di Verona sancì un sentimento comune a tutte le federazioni del nord Italia, desiderose di vendetta su coloro che nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 avevano sfiduciato Mussolini apponendo la propria firma sull'Ordine del giorno Grandi. I membri del Gran Consiglio che vennero arrestati furono processati e cinque di essi condannati alla pena capitale, gli altri tredici condannati a morte in contumacia.

La questione delle domande di grazia

Prima ancora che fossero firmate le domande di grazia, Pavolini, accompagnato dal suo collaboratore e amico Puccio Pucci, si recò da Mussolini a riferire le conclusioni del processo. Puccio Pucci così rievocò gli avvenimenti:

«Appena terminato il processo di Verona, Pavolini ed io partimmo alla volta di Gargnano. Pavolini fu ricevuto dal Duce, al quale riferì esattamente le conclusioni processuali. Subito dopo questo colloquio, mentre ritornavamo a Verona (dove nel frattempo i cinque condannati avevano presentato domanda di grazia), Pavolini mi raccontò che Mussolini gli aveva detto -Ero sicuro che la decisione del tribunale straordinario sarebbe stata di condanna di morte. Con questa condanna si chiude un ciclo storico. Come capo dello stato e del fascismo, non dunque come parente di uno dei condannati, ritengo che i giudici di Verona abbiano fatto il loro dovere- Raggiunta Verona, Pavolini ed io ci recammo in prefettura, da Cosmin, capo della provincia, presso il quale si trovavano le domande di grazia. Era sopraggiunto anche Buffarini-Guidi, ministro degli Interni. Qui ebbe inizio il conflitto delle competenze per l'inoltro delle domande di grazia a Mussolini in una situazione di doloroso imbarazzo»

Pavolini si dichiarò immediatamente contrario all'inoltro delle domande di grazia. Il generale Renzo Montagna così rievocò il fatto:

«Pavolini entrò subito in argomento affermando che, essendo il Tribunale che aveva giudicato i 19 membri del Gran Consiglio, militare, spettava al comandante regionale militare inoltrare o respingere le domande di grazia presentate dal conte Ciano e dagli altri quattro condannati. Invitava pertanto il generale Piatti a respingerle. Il generale Piatti rispose che se il Tribunale fosse stato militare lo avrebbe dovuto nominare lui ed in tal caso ne avrebbe seguito le vicende per agire con competenza. Non avendolo nominato lui non poteva considerarlo suo dipendente e perciò si dichiarava incompetente in materia, rifiutando di entrare nel merito della questione. Precisò inoltre che detto tribunale egli lo considerava politico e non militare. Pavolini aggiunse allora che era d'accordo col ministro della Giustizia (in realtà Piero Pisenti non era stato ancora interpellato) e con altri di non far pervenire le domande di grazia al Capo del Governo, per non metterlo in una situazione dolorosa rispetto a Ciano, suo parente, e agli altri, suoi amici...»

Per ovviare il conflitto di competenze circa le domande di grazia si decise di coinvolgere direttamente il ministro della Giustizia Piero Pisenti. Nella ricostruzione di Vincenzo Cersozimo, giudice istruttore del processo:

«Pisenti, senza alcuna esitazione, disse: "Pisenti: Sono senz'altro pronto a ricevere le domande di grazia e ad assumermi le relative responsabilità". Pavolini: "E che ne farai?". Pisenti: "Le porterò immediatamente al Duce col mio parere come è dovere di un ministro della Giustizia". Pavolini si oppose recisamente sostenendo la necessità "di non provocare crisi nel Duce"; non si poteva far ritornare Mussolini su quell'argomento per lui tanto grave e doloroso e non lo si doveva mettere nella tragica situazione di prendere decisioni che avrebbero potuto avere, in un caso o nell'altro gravissime conseguenze e ripercussioni in Italia e all'estero. Pisenti ascoltò, profondamente assorto, Pavolini che parlava a scatti, con viva eccitazione, ripetendo più volte che "bisognava assolutamente lasciar fuori Mussolini"...; poi, con la sua abituale calma e serenità, disse: "Mi sembra che di tutta questa faccenda si sia occupato, sempre ed esclusivamente, il Partito: il Tribunale è stato istituito su proposta del segretario del Partito; i giudici sono stati nominati su proposta del segretario del Partito; al dibattimento sono stati presenti osservatori del Partito: da queste premesse deriva la conseguenza logica che spetterebbe proprio al segretario del Partito ricevere ed inoltrare le domande di grazia, corredte dalle prescritte informazioni. Datemi, vi ripeto, le domande, ed io le inoltro a Mussolini". Questa soluzione non fu accettata da Pavolini, tenace nel suo proposito che "bisognava lasciar fuori Mussolini"; si riservò di prendere una decisione e di parlarne con Buffarini. La seduta, veramente drammatica per le idee in conflitto, ebbe termine oltre la mezzanotte.»

La questione continuò all'albergo Milano in cui Pavolini si recò per parlare con il ministro Guido Buffarini Guidi:

«...insieme a Fortunato lo scongiurai, ricordandogli che egli era, come noi, uomo di legge, a dissuadere Pavolini dall'attuare la decisione presa che sarebbe stata, oltre che illegale, assurda. Buffarini, pur aderendo alla tesi più volte prospettata da Pavolini di non mettere Mussolini in condizione di ritornare su di una faccenda tanto dolorosa, si trovò d'accordo con noi: disse chiaramente che "quelle erano decisioni che non riguardavano il Partito e che i provvedimenti, qualsiasi fossero, dovevano essere presi dalle autorità competenti, militari o giudiziarie, mai dalla autorità politica".»

Si decise pertanto di dare mandato al console Italo Vianini, essendo l'ufficiale più alto in grado, di rigettare le domande di grazia. Vianini inizialmente si oppose, ma fatto oggetto di molte pressioni cedette quando gli fu presentato un ordine scritto firmato dal prefetto Cosmin e da Tullio Tamburini. Erano circa le ore 8 del mattino. Alle ore 9 i condannati furono trasferiti al poligono di tiro per l'esecuzione.

Fu in questo contesto che Pavolini si guadagnò la definizione di "irriducibile" ed a tal proposito lo si ricorda come "il Superfascista". Secondo Mack Smith, la sua prima fama sarebbe stata quella di un uomo "intelligente e sensibile", ma oramai "il fascismo ne aveva fatto un fanatico privo di scrupoli, un uomo spietato e vendicativo che credeva nella politica del terrore".[50] A Mezzasoma, suo "successore" al controllo della stampa, ordinò che i giornali evitassero appelli "per la pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani".[51].

Carolina Ciano, madre dell'ucciso, attribuì in un suo scritto la responsabilità della sua fucilazione a Pavolini insieme a Buffarini, Cosmin[52] e donna Rachele, la moglie di Mussolini.

I franchi tiratori di Firenze

Nel giugno 1944, alla caduta di Roma, Pavolini era a Firenze per organizzare meglio la resistenza della città. In una relazione a Mussolini scrisse:

«Particolare cura dedico all'organizzazione dei gruppi di attivisti da lasciare sul posto o eventualmente da irradiare al Sud. Iniziative ben consistenti sono state prese per Terni, Arezzo, Grosseto, Firenze, Livorno, Pisa: radio clandestine, tipografie, bande, movimenti politici.»

Nell'agosto 1944 partecipò ai primi combattimenti nella sua Firenze a capo dei fascisti, riuscendo a resistere in armi per molti giorni dopo l'arrivo degli Alleati, e ritardando la loro conquista di Firenze trasformandosi franchi tiratori (dei quali fecero parte anche donne e ragazzini).[54]

Le Brigate Nere

 
Pavolini al tempo della Repubblica Sociale
  Lo stesso argomento in dettaglio: Brigate Nere.

La costituzione delle Brigate Nere fu un disegno lungamente inseguito da Pavolini, sin da quando a Roma, nei primi giorni del suo lavoro di ricostituzione del partito fascista, aveva inteso farne un'organizzazione intransigente e totalitaria, esclusivista e combattente su ispirazione delle vecchie squadre d'azione dello squadrismo[55]. Il progetto vide l'opposizione di Rodolfo Graziani e Renato Ricci contrari alla creazione di un esercito politicizzato[56].

Scrisse a proposito Pavolini:

«Gli italiani non temono il combattimento e quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano però essere rinchiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati...Il movimento partigiano ha successo perchè il combattente nelle file partigiane ha l'impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato perchè agisce indipendentemente e sviluppa l'azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna quindi creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche.»

L'idea fu apprezzata dai tedeschi (in particolare da Wolff e da Rahn), quando ormai gli Alleati premevano verso la linea Gotica ancora in costruzione, facendo loro balenare la possibilità di creare, usando le strutture e gli uomini del partito, un nuovo corpo armato più efficiente, agile e deciso della GNR, in grado davvero di "distruggere la piaga del ribellismo" e di assicurare la tranquillità delle retrovie germaniche.

Il 22 giugno 1944 Pavolini consegnò le armi agli iscritti del PFR di Lucca costituendo di fatto quella che sarà la prima Brigata nera, denominata "Mussolini" il cui comando fu assegnato ad Idreno Utimpergher.

La nascita ufficiale delle Brigate Nere fu annunciata dallo stesso Pavolini alla radio il 25 luglio 1944, nel primo anniversario del "tradimento" del Gran Consiglio. Discorso che concluse con queste significative parole:

«[...]Forze della riscossa saranno le Brigate Nere in cui fiammeggierà, in una seconda primavera, il vecchio fuoco dello squadrismo. A noi, camerati! Nonostante ogni fallace apparenza l'avvenire ci appartiene, perchè noi apparteniamo ad una Europa eroica, le cui luci, necessarie al mondo, non possono spegnersi!»

Il 30 giugno 1944 completò la costituzione delle Brigate Nere. Esse furono costituite nel numero di 41 brigate, una per ogni provincia della RSI, ed intitolate ciascuna ad un caduto del fascismo. Ad esse si affiancavano sette brigate autonome e otto brigate mobili per un totale di 110.000 unità.

 
Alessandro Pavolini e Vincenzo Costa passano in rassegna gli squadristi della VIII Brigata Nera "Aldo Resega" (Milano), estate 1944

Nel contesto dello stesso annuncio, Pavolini rese noto che i brigatisti già "saldamente inquadrati" erano ventimila, una cifra destinata a crescere in numero[59], ma non in efficienza: questo sia per la mancanza di materiali sia in quanto i quadri del partito, spesso privi di esperienza ed istruzione militare, vennero trasformati istantaneamente in comandanti di formazioni militari.

Le Brigate Nere dovevano essere impiegate, secondo le parole pronunciate in giugno da Mussolini e riprese da Pavolini, per dare corpo alla "marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea", riferendosi al Piemonte, dove i partigiani erano particolarmente attivi sin dal settembre 1943 e, guidati da comandanti esperti (spesso ufficiali del Regio Esercito disertori dopo l'armistizio), erano riusciti a strappare ampie fasce di territorio alla RSI.[senza fonte]

Fu durante queste prime operazioni svolte dalle Brigate Nere in Piemonte che Pavolini il 12 agosto 1944 nella valle dell'Orco fu ferito dalla deflagrazione di una bomba[60] nel corso di un attacco partigiano della 77a brigata "Garibaldi". Pavolini fu ricoverato all'ospedale di Cuorgné, ove rimase ricoverato un mese prima di poter far ritorno, ancora aiutandosi con un bastone, a Maderno dove risiedeva.[senza fonte] A seguito del ferimento, su proposta di Wolff, Pavolini fu insignito da Hitler della Croce di Ferro per i suoi "meriti nella guerra antiribellistica".

Più tardi partecipò sempre in prima persona, alla guida delle Brigate nere, alle operazioni di sgombero della Repubblica partigiana dell'Ossola che avvennero tra il 10 e il 23 ottobre.

Il 16 dicembre Pavolini accompagnò Mussolini nell'auto scoperta che fece il giro di Milano prima del discorso del Teatro Lirico, di piazza San Sepolcro e del Castello Sforzesco, l'unica uscita pubblica del duce dopo il 25 luglio del 1943.

La missione in Venezia Giulia

A fine gennaio 1945 Pavolini fu inviato da Mussolini in Venezia Giulia per rimarcarne l'italianità. Nei territori orientali i tedeschi, fin dal 1943 avevano costituito la Adriatisches Kustenland, sottraendo di fatto quei territori al regno d'Italia e non restituendoli poi nemmeno all'autorità della Repubblica Sociale Italiana. Pavolini si recò a Udine, Gorizia , Fiume, Trieste intrattenendosi con i rappresentanti del Partito Fascista Repubblicano di cui raccolse le lamentele circa l'ingombrante alleato tedesco che favoriva l'elemento croato a discapito degli italiani. Pavolini, al Teatro Verdi di Trieste pronunciò poi un discorso che difese l'italianità della città che strappò l'applauso dei convenuti:

«Talvolta in questa vostra trincea avanzata che è Trieste, all'estremo di lunghe strade isolate dal bombardamento nemico, per le comunicazioni scarse e per altri motivi che conoscete, vi è accaduto di sentirvi lontani. Ebbene, io posso dirvi una cosa sola: nessuno più di voi triestini e gente della Venezia Giulia è vicino ogni ora al cuore di Mussolini.»

Le ultime giornate di Salò

«Un'Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana.»

[62] Fu uno dei protagonisti delle ultime convulse e tragiche giornate del fascismo di Salò. Nella vicenda della fuga e della cattura di Mussolini si innesta a latere quella di Pavolini che, in cerca della "bella morte", tranne che per l'estetica, fu accontentato.

Fu sostenitore o forse proprio ideatore[63] della proposta del Ridotto alpino repubblicano (RAR) che prevedeva di ritirare in Valtellina tutte le truppe ancora teoricamente disponibili (in particolare: le sue Brigate nere) onde poter opporre un'estrema resistenza contro gli Alleati. Sicuramente ne fu il principale organizzatore tant'è che alcuni mesi prima della fine fu costituita su iniziativa di Mussolini una commissione di cordinamento dei lavori del RAR e Pavolini ne fu nominato presidente[41]: ne aveva scelto il comandante (generale Onorio Onori), vi aveva destinato ed accasermato le truppe (squadristi toscani con rispettive famiglie) e programmava un concentramento di circa 50.000 uomini. Queste notizie diede a Mussolini durante la riunione del 14 aprile 1945 alla Villa Feltrinelli di Gargnano[64], alla presenza dei massimi esponenti della RSI[65], insieme a programmi come l'escavazione di caverne (bunker) e la traslazione nel ridotto delle ceneri di Dante.

Fra le altre idee di Pavolini, la costruzione di una stazione radio di propaganda e di una tipografia per la stampa di un giornale che avrebbe dovuto essere distribuito lanciandone le copie da un aereo in volo. Essendo tutti i convenuti, Pavolini compreso, già convinti dell'imminente fine, concluse gridando che "in Valtellina si consumeranno le Termopili del fascismo". La proposta, tuttavia, non ebbe concreto seguito.

 
Mussolini e Pavolini ripresi a Milano in occasione dell'ultima uscita pubblica del primo al Teatro Lirico, il 16 dicembre 1944; il secondo ripeteva spesso che loro due erano gli italiani più odiati in assoluto.

Per i fascisti che avevano seguito il loro Duce, Pavolini dispose però premi in denaro e la possibilità di optare fra il rifugiarsi in Germania oppure la "mimetizzazione", fruendo di documenti falsi e di tessere annonarie; con Mezzasoma, ministro del Minculpop, preordinò la distribuzione di fondi segreti fra quei fascisti che avessero voluto proseguire in clandestinità la lotta nell'Italia liberata e la disseminazione di "talpe" in organismi cruciali. Con una nota riservata, suggerì a Mussolini di organizzare in Svizzera una centrale fascista di una trentina di elementi fidati, costituendo in quello stato un fondo monetario speciale in valuta straniera per le occorrenze future.

Dopo il fallimento delle trattative di resa con il CLN[66], Mussolini, dopo una riunione al palazzo della Prefettura, decise di accettare la proposta di Pavolini ed impartì l'ordine di dirigersi verso il RAR, ordine mascherato nella formula "Precampo a Como", ma tuttavia ben chiaro. Pavolini ordinò alle Brigate Nere della Liguria e del Piemonte di muovere verso il RAR e stimò in circa 25.000 le unità in movimento. Prima di partire ebbe un violento scontro con Graziani, che lo accusò di mentire e di illudere il Duce[67], e poi con Junio Valerio Borghese il quale gli disse che la Xª Flottiglia MAS non sarebbe andata in Valtellina[68], ma che si sarebbero arresi, anche se "a modo nostro".

Alla partenza di Mussolini, Pavolini schiaffeggiò Carlo Borsani, cieco di guerra pluridecorato e Medaglia d'oro al valor militare, che aveva "osato" supplicare il Duce di trattare con i partigiani. Mussolini partì la sera del 25 aprile; il giorno dopo Pavolini insieme a Idreno Utimpergher, Comandante della Brigata Nera di Lucca, si mise alla testa di una colonna di 178 veicoli[69] che giunse a Como, ma non trovò Mussolini, il quale aveva proseguito sino a Menaggio, evidentemente non intenzionato a rifugiarsi nel Ridotto. Il 27 aprile da Menaggio proseguì verso Dongo, in direzione dell'Alto Adige.

Pavolini si unì quindi all'autocolonna di Mussolini, che a propria volta si unì ad un'autocolonna della FlaK (contraerei) tedesca in ritirata verso la Germania; Pavolini portava sul suo autoblindo[70], in testa al corteo[71], sia quello che diverrà noto come l'oro di Dongo che gli archivi documentari, forse contenenti anche il presunto carteggio Churchill-Mussolini[72]. Dopo circa un'ora di viaggio, Pavolini fermò la colonna, chiedendo a Mussolini (della cui sicurezza si autoproclamò responsabile) di scendere dalla sua auto per viaggiare sul suo autoblindo.

Poco più avanti incapparono nel posto di blocco improvvisato dalla 52° Brigata Garibaldi agli ordini del conte Pier Luigi Bellini delle Stelle. I partigiani, consultato il loro comando di zona, accettarono qualche ora dopo di far passare i tedeschi, a Mussolini furono fatti indossare un pastrano ed un elmetto da sottufficiale tedesco, nel tentativo di farlo in tal modo passare inosservato e consentirgli di superare il blocco partigiano. Pavolini lo scongiurò drammaticamente di non partire, di non abbandonare i suoi fedeli seguaci, ma Mussolini, lo spintonò, chiedendogli conto delle divisioni di Brigate Nere che gli aveva millantato, "Voi e le vostre fantomatiche Brigate Nere, dove sono finiti tutti gli uomini che mi avevate promesso?" Poi salì sull'autocarro tedesco lasciandosi dietro un Pavolini piangente. Questi, incitato da un giovane legionario della Ettore Muti, studiò la possibilità di attaccare i partigiani, ma Birzer, che della vita di Mussolini rispondeva direttamente a Hitler[73], riuscì a farlo desistere.

Raggiunto un accordo col conte Bellini, gli autocarri tedeschi, incluso quello sul quale era nascosto Mussolini, partirono e poterono proseguire (superando anche un'ispezione dello stesso Bellini). Gli italiani, dopo la partenza dei tedeschi, avrebbero dovuto invece tornare indietro; fu la volta dell'autocarro di Pavolini, che partì bruscamente e che per superare una cunetta avrebbe fatto una manovra scomposta, una repentina accelerata equivocata come un tentativo di forzare il blocco. Ne nacque una sparatoria. Mentre Barracu proponeva di arrendersi, Pavolini gridava "Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi": preso il mitra si lanciò quindi verso il lago, correndo e sparando. Inseguito dai partigiani e ferito, si nascose nella fitta vegetazione sulle rive del lago. A seguito di un'ampia battuta di ricerca fu catturato ch'era ormai notte, indebolito da una ferita da pallini da caccia e tutto bagnato. Fu quindi portato a Dongo, nella Sala d'Oro del palazzo comunale, dove poi fu condotto, brevemente, anche Mussolini anch'egli nel frattempo catturato. Insieme a Paolo Porta e Paolo Zerbino Pavolini fu processato per collaborazionismo con il nemico, passibile quindi di fucilazione immediata[74]. Furono fucilati anche gli altri 12 arrestati che erano con loro. Pavolini ebbe per ultimo vanto quello di guidare la fila indiana dei condannati che dall'edificio del comune si avviò verso il lungolago, ad una ringhiera del quale, dopo diversi incidenti procedurali, furono schierati di schiena per l'esecuzione.

Il cadavere di Pavolini fu esposto il giorno dopo a Milano, a Piazzale Loreto, appeso con quello di Mussolini.

Onoreficenze

File:Croce di Ferro.png Croce di Ferro

Note

  1. ^ a b Indro Montanelli, Mario Cervi, L'Italia dell'Asse, Rizzoli, 1980.
  2. ^ Legge N° 100 del 31 gennaio 1926
  3. ^ La Grande Storia, RAI, Alla corte di Mussolini, di Enzo Antonio Cicchino
  4. ^ Come riportato in Mimmo Franzinelli, Squadristi - Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1912-1922, Mondadori, 2003.
  5. ^ Carica più nota come "Federale".
  6. ^ Giordano Bruno Guerri, "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 620 ISBN 88-04-48657-0>
  7. ^ Si scrisse al Duce che Pavolini guadagnasse al mese 17.000 lire, al tempo una fortuna; Ciano lo aiutò a scrivere - diversi autori (tra i quali Giordano Bruno Guerri, "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 621 ISBN 88-04-48657-0) sottintendono in pratica sotto dettatura - una risposta nella quale dettagliava di percepirne "«solo 9950» (che non erano poco)". Così Giordano Bruno Guerri alle pagine citate: "Fra tutti gli uomini del fascismo Pavolini è quello più «costruito» da Ciano, senza il quale - a differenza per esempio di Alfieri - non sarebbe giunto oltre la carica di federale. [...] Fin dall'Etiopia lo difende e lo aiuta in tutti i modi, più di quanto abbia fatto con qualsiasi altro. Un episodio emblematico del 1935: a Mussolini era giunta un'«informazione» (delazione) dove Pavolini dopo essere stato ridicolizzato come combattente veniva accusato di cumulare cariche e prebende per 17.000 lire mensili, una cifra enorme. Ciano, saputa la cosa, fece stendere a Pavolini una dichiarazione secondo la quale guadagnava «solo 9950 lire» (che non era poco)..."
  8. ^ Galeazzo Ciano, Diari, nota 21 novembre 1937.
  9. ^ Come riportato in Giordano Bruno Guerri, "Galeazzo Ciano - una vita (1903-1944)", Mondadori, Milano, 2005, p. 446 ISBN 88-04-48657-0)
  10. ^ "La disperata" era il nome di una delle squadre d'azione di Firenze ed uno dei nomi più frequentemente utilizzati dallo squadrismo.
  11. ^
  12. ^ Alessandro Pavolini, Disperata, Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 243.
  13. ^ L'uso dei micidiali gas vescicanti e asfissianti fu tenuto segreto e poi negato per molti decenni nelle versioni ufficiali (ma anche da un testimone come Indro Montanelli) sin quasi alla fine del '900. Si dovette infatti attendere il 7 febbraio 1996 perché la verità venisse ufficialmente a galla quando l'allora Ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, ammise davanti al Parlamento l'uso delle armi chimiche da parte italiana durante la guerra d'Etiopia.
  14. ^ Alessandro Pavolini, Disperata, Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 254.
  15. ^ Alessandro Pavolini, Disperata, Vallecchi, Firenze, 1937, pag. 266.
  16. ^ All'Hotel Imperiale risiedeva infatti Sara Agrò, della compagnia Pica-Turco, la quale la sera del 5 febbraio e quella successiva - disse alla polizia politica - fu ripetutamente insidiata dai due, ma non cedette loro. Per questo fu espulsa dall'albergo e presentò un esposto in merito all'accaduto. Così in Antonio Spinosa, Edda, Mondadori 1993.
  17. ^ Maria Josè di Savoia, moglie del principe ereditario Umberto, già ai primi di settembre del 1942 - un anno prima dell'armistizio dell'8 settembre 1943 - aveva avviato, tramite Guido Gonella, contatti con il Vaticano, nella persona di Monsignor Giovanni Battista Montini, auspicando di potersi avvalere della diplomazia papale quale tramite per aprire un canale di comunicazione con gli Alleati (in particolare con l'ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Myron C. Taylor) al fine di far uscire l'Italia dalla seconda guerra mondiale.
  18. ^ Con riferimento alla figura di Achille Starace e cioè tanto distante dalla realtà e perciò grottesca al punto da essere ormai scaduta in oggetto di scherno popolare
  19. ^ Il cui ruolo sarebbe stato perciò visto come ormai inefficace, se non dannoso, ai fini della sopravvivenza del regime
  20. ^ Il direttore de Il Messaggero, come del resto la totalità dei media in Italia, dipendeva dalle veline prodotte quotidianamente dal Minculpop e doveva osservarle alla lettera.
  21. ^ Arrigo Petacco, Pavolini, L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 151-Zenone Benini riferì poi di averlo udito gridare "Mitra! Mitra! Alla macchia!" mentre si allontanava
  22. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 150:"E' noto, d'altra parte, che il suo nome, insieme a quello di Ettore Muti, figurava in testa alla lista dei fascisti da liquidare compilata dal maresciallo.
  23. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 152-154
  24. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 153
  25. ^ Ugoberto Alfassio Grimaldi, articolo Sotto la bandiera di Salò, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 23:"Il messaggio dei fedelissimi che parlano alla radio di Monaco di Baviera, nela notte tra l'8 e il 9, annuncia genericamente la costituzione di un Governo Nazionale Fascista
  26. ^ Così in Arrigo Petacco, La nostra guerra, 1940-1945, Mondadori, 1995
  27. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 160
  28. ^ Ugoberto Alfassio Grimaldi, articolo Sotto la bandiera di Salò, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 23:"Ma uno Stato fascista sarebbe nato anche in sua assenza (Mussolini): anzi alcuni gerarchi nazisti l'avrebbero preferito senza di lui, temendo che la figura carismatica del duce limiti la libertà d'azione della Germania, impedisca, come vorrebbe Goebbels, di "fare tabula rasa in Italia"
  29. ^ a b Arrigo Petacco, La nostra guerra, 1940-1945, Mondadori, 1995
  30. ^ Arrigo Petacco, Pavolini, L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 170
  31. ^ Il termine "Congresso costituente" è usato dagli storici per brevità: il nome ufficiale era "Rapporto nazionale".
  32. ^ Resoconto stenografico del Congresso di Verona.
  33. ^ Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Mondadori.
  34. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 172
  35. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 171
  36. ^ Giuseppe Mayda, articolo La lunga notte di Ferrara, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 33
  37. ^ Giuseppe Mayda, articolo La lunga notte di Ferrara, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34: In sostanza il congresso sancisce il trionfo delle teorie estremiste di Pavolini e Farinacci e l'approvazione del loro concetto del "fascismo delle squadre d'azione"
  38. ^ Tre medaglie d'argento e tre di bronzo.
  39. ^ Giuseppe Mayda, articolo La lunga notte di Ferrara, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34
  40. ^ Giuseppe Mayda, articolo La lunga notte di Ferrara, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 34-35
  41. ^ L'Unità, articolo "Traditori fascisti giustiziati", Anno XX, n°28- 15 dicembre 1943: a imola è stato giustiziato un console fascista; a Castel d'Argine (Bologna) ugual sorte è toccata al reggente federale fascista di Ferrara;...
  42. ^ Gianni Oliva in L'ombra nera - Le stragi nazifasciste che non ricordiamo più, Mondadori, Milano, 2007, ISBN 978-88-04-56778-4, pag. 49
  43. ^ Giuseppe Mayda, articolo La lunga notte di Ferrara, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 36
  44. ^ Quotidiano fondato nel 1929 dallo stesso Farinacci a Cremona.
  45. ^ Nemico interno (partigiani, badogliani, "traditori" in genere, giudicato distinto, ma oggettivamente estensione di quello "esterno", gli Alleati.
  46. ^ Arrigo Petacco, Pavolini, L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 183-184
  47. ^ Testimonianza di Renzo Montagna in Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile in Italia 1943-1945 - 3 vol. (quinta ed. Eco Edizioni, Melegnano, 1999 - prima ed. Edizioni FPE, Milano, 1965 pagg. 529
  48. ^ Vincenzo Cersozimo, Dall'istruttoria alla fucilazione ed. Garzanti, 1961
  49. ^ Vincenzo Cersozimo, Dall'istruttoria alla fucilazione ed. Garzanti, 1961
  50. ^ Denis Mack Smith, Mussolini, 1981 (trad. Giovanni Ferrara Degli Uberti, RCS 1997).
  51. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, L'Italia della guerra civile, Rizzoli, 1983.
  52. ^ Prefetto di Verona, noto per aver gridato durante il processo: "I difensori parlino a testa bassa sennò ci sarà piombo anche per loro".
  53. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 188
  54. ^ Luca Tadolini Storia dei franchi tiratori della RSI, edizioni all'insegna del Veltro, 1998
  55. ^ Giorgio Bocca, articolo Via libera alle brigate nere, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 76
  56. ^ Gianpaolo Pansa, Il gladio e l'alloro, Arnoldo Mondadori Le Scie, Marzo 1991, pag. 148
  57. ^ Giorgio Bocca, articolo Via libera alle brigate nere, su Storia illustrata, n°200, luglio 1974, pag. 76
  58. ^ Giorgio Pisanò, "Gli ultimi in grigioverde", CDL Edizioni, Milano, pag. 2300
  59. ^ Gianpaolo Pansa, Il gladio e l'alloro, Arnoldo Mondadori Le Scie, Marzo 1991, pag. 169: "Graziani e Canevari indicano in circa 30.000 uomini la forza delle Brigate nere. Questa cifra trova conferma nel rapporto tedesco che, alla data del 9 aprile 1945, assegna ai reparti del PFR 22.000 volontari."
  60. ^ Arrigo Petacco, Pavolini, L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pagg. 201-202
  61. ^ Arrigo Petacco, Pavolini,L'ultima raffica di Salò, Arnoldo Mondadori Le Scie, Ottobre 1982, pag. 209
  62. ^ Per questa sezione, buona parte dei dati sono stati estratti dalla ricostruzione di Arrigo Petacco, La nostra guerra, 1940-1945, Mondadori, 1995
  63. ^ Ideatore per Arrigo Petacco in L'archivio segreto di Mussolini, Mondadori, 1997.
  64. ^ Residenza di Mussolini.
  65. ^ Graziani, Filippo Anfuso (neoviceministro degli esteri), il generale delle SS Wolff, il ministro dell'interno Zerbino, il colonnello Dollmann e diversi altri generali (anche tedeschi).
  66. ^ Che gli aveva dato un ultimatum.
  67. ^ Mussolini, presente, chiese poi a Graziani se si trattasse forse di un nuovo 8 settembre e quegli rispose che era molto peggio: "siamo al si salvi chi può".
  68. ^ Borghese era l'unico comandante militare fascista che era stato informato dai tedeschi delle trattative segrete di resa frattanto condotte con gli Alleati dai comandanti nazisti in Italia.
  69. ^ 4.636 uomini e 346 ausiliarie.
  70. ^ Un Lancia 3 RO con targa di Lucca perché assegnato a Pavolini da Utimpergher; il veicolo era in realtà un autocarro di serie cui i brigatisti avevano applicato alcune lastre di protezione, 3 mitragliatrici ed un cannoncino da 20mm.
  71. ^ In tutto 174 italiani e 177 tedeschi distribuiti (oltre che sul mezzo di Pavolini) su 11 auto (Mussolini, i vertici della RSI ed alcuni familiari), 3 autocarri delle Brigate nere di Como, 2 autocarri delle SS del colonnello Birzer (caposcorta tedesco del Duce), 2 veicoli delle "Fiamme Bianche" e gli autocarri della Flak precedentemente incontrati.
  72. ^ Così in Petacco, op.cit.
  73. ^ Ignorando che questi era nel frattempo circondato dai sovietici a Berlino e sul punto di suicidarsi.
  74. ^ Secondo l'ordinanza del CLN del 12 aprile precedente.

Bibliografia

  • Arrigo Petacco: Il Superfascista. Vita e morte di Alessandro Pavolini, Mondadori, 1999.
  • L'ultimo poeta armato. Alessandro Pavolini segretario del PFR - Massimiliano Soldani, Barbarossa
  • Lorenzo Pavolini. Accanto alla tigre, Fandango, 2010.
  • Alessandro Pavolini, "Nuovo Baltico" a cura di Massimiliano Soldani, Società Editrice Barbarossa, 1998.

Opere

  • Giro d'Italia. Romanzo sportivo, Foligno, F. Campitelli, 1928.
  • L'indipendenza finlandese, Roma, Anonima Romana, 1928.
  • Nuovo Baltico. Viaggio, Firenze, Vallecchi, 1935.
  • Disperata, Firenze, Vallecchi, 1937.
  • Le arti in Italia. Vol. I, Milano, Domus, 1938.
  • I nuovi orientamenti costituzionali degli Stati, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1938.
  • Scomparsa d'Angela. Racconti, Milano-Verona, A. Mondadori, 1940.
  • Ogni soldato è fascista, ogni fascista è soldato. Discorso tenuto ai fascisti e al popolo di Firenze il 31 dicembre 1940, Roma, 1941.
  • Rapporto sull'attività dell'Istituto nel triennio 1939-1942, Roma, I.R.C.E., 1942.
  • Ritorno alle origini. 28 ottobre 1943, Milano, Edizioni erre, 1943.
  • Il figliuol prodigo dell'eroismo. Ettore Muti, Milano, Edizioni erre, 1944.
  • Nel 22. annuale della Marcia su Roma. Discorso pronunziato a piazza S. Sepolcro a Milano il 28 ottobre XXII E. F., Min. Cul. Pop., 1944.
  • Le tappe della rinascita, Milano, Edizioni erre, 1944.

Voci correlate

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