Revisionismo del Risorgimento

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Il Revisionismo sul Risorgimento è il riesame dei fatti storici riguardanti il processo di unificazione nazionale italiano e le sue immediate conseguenze. L'approccio revisionista verte sull'assunto che la storiografia non considera correttamente le ragioni dei vinti, omettendo alcuni aspetti degli accadimenti storici. Il periodo storico su cui si concentrano le argomentazioni dei revisionisti corrisponde alla seconda metà dell'XIX secolo.

Taluni revisionisti tendono a valutare in chiave negativa rispetto alla storiografia più diffusa personaggi-chiave dell'unità nazionale italiana, quali Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Essi, innestandosi in tal modo nel dibattito sulle cause della cosiddetta questione meridionale, sostengono che il Risorgimento sarebbe stato una vera e propria opera di colonizzazione, seguita da una politica di conquista centralizzatrice, a causa della quale il Mezzogiorno italiano sarebbe caduto in uno stato d'arretratezza tuttora manifesto.

Contesto e premesse storiche del revisionismo sul Risorgimento

Ancor prima del sorgere di un dibattito storiografico sugli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi Regno d'Italia, fu lo stesso Giuseppe Mazzini, uno dei teorici e fautori dell'unificazione italiana, a sollevare obiezioni sulle politica estera di Casa Savoia. Secondo le dichiarazioni di Mazzini, riportate sul suo giornale "Italia del popolo", il governo di Cavour non era interessato al principio di un'Italia unita, ma semplicemente ad allargare i confini dello stato sabaudo.[1] Una volta unificata l'Italia, Mazzini tornò ad attaccare il nuovo governo della nazione:

«Non c'è chi possa comprendere quanto mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell'Unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l'avvenire dell'Italia, tutta l'Italia ideale.»

Dopo le annessioni dei regni preunitari al neonato stato Italiano, una disputa sul processo di unificazione ebbe inizio già nel corso del Novecento, come continuazione del dibattito polemico tra i partiti risorgimentali moderato e democratico. Le prime critiche contro le ricostruzioni agiografiche provennero dagli stessi esponenti liberali, i quali avevano promosso con entusiasmo ogni attività politica utile alla causa nazionale. Tra i principali bersagli polemici vi furono la politica accentratrice del nuovo Stato unitario, definita negativamente con il neologismo di "piemontesizzazione".

 
La penisola italiana prima dell'unificazione

I primi contributi storiografici distanti dalla principale corrente storiografica sul Risorgimento italiano, hanno dato il via allo sviluppo delle teorie successive. A fine Ottocento lo scrittore Alfredo Oriani pose in discussione l'esito delle vicende risorgimentali nella sua opera La lotta politica in Italia, pubblicata nel 1892, citando il contrasto tra federalismo e unitarismo. Tale opera è considerata il prototipo di un primo revisionismo storiografico sull'Italia moderna, con i rischi che questo comportava di sconvolgere i piani della storiografia apologetica sabauda[senza fonte]. La critica di Oriani era rivolta alla “conquista regia”, vista come un'azione unilaterale di creazione di un nuovo Stato che, senza il necessario appoggio di un saldo movimento democratico, si sarebbe rivelato debole nelle fondamenta.

Critiche agli eventi risorgimentali vennero mosse anche da Francesco Saverio Nitti che, con le sue opere Nord e Sud (1900) e L'Italia all'alba del secolo XX (1901), offre un'analisi delle conseguenze dell'Unità nazionale e tende a creare un quadro illustrativo sulla situazione politico-economica negli stati preunitari. Per Nitti, il processo di unificazione nazionale, oltre a non distribuire benefici in maniera equa in tutto il paese, favorì maggiormente lo sviluppo dell'Italia settentrionale, dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno.[3]

Le idee di Oriani influirono sul pensiero del socialista Piero Gobetti che, nel 1926, con la raccolta di saggi Risorgimento senza eroi, critica la classe dirigente liberale. Secondo Gobetti, il Risorgimento fu opera di una minoranza che rinunciò ad attuare una profonda rivoluzione sociale e culturale. Da questa “rivoluzione fallita” nacque uno Stato incapace di venire incontro alle esigenze delle masse. È evidente nel suo pensiero l'influenza del pensiero socialista gramsciano[senza fonte].

L'analisi di Antonio Gramsci nella sua opera Quaderni del carcere, pubblicata postuma solo dopo il 1947, descrive il Risorgimento come una “rivoluzione passiva”,[4] subita dalla classe sociale più povera della popolazione: i contadini. La questione meridionale, il giacobinismo, la costruzione del processo rivoluzionario nel nostro paese sono temi centrali della sua riflessione, ispirata al marxismo. Gramsci ha interpretato il Risorgimento italiano come un processo di trasformazione politico-sociale iniziato con la Rivoluzione Francese nel 1789, che si è trasposto passivamente in Italia portando al crollo dell'antico Regime. L'opera di Antonio Gramsci è un esempio di interpretazione revisionista del Risorgimento alterata da convinzioni politiche che si contrappone alla visione apologetica che era fino ad allora prevalsa.

Protagonisti del revisionismo sul Risorgimento

La reintrepretazione degli eventi del Risorgimento italiano non ha un'unica origine. La polemica contro la storiografia ufficiale proviene sia da una parte ristretta del mondo accademico sia da soggetti lontani dall'universo accademico, spesso estranei al lavoro degli storici. L'acuirsi del tono polemico di questo movimento culturale si è verificato in misura particolare negli ultimi cinquant'anni, da quando è progressivamente emersa una letteratura critica nei confronti della storiografia, nei cui confronti si è talvolta attuata una profonda opera di screditamento. Di seguito sono riportati i contributi al revisionismi, divisi a seconda dell'ambito di provenienza.

Gli ambienti religiosi

Altri tentativi di fornire una base storiografica alla tesi secondo cui lo Stato unitario era il frutto di una sopraffazione di una minoranza contro la maggioranza degli italiani, furono opera del gruppo di ispirazione clericale, pesantemente danneggiato dalla politica liberale attuata dai piemontesi. Il pontefice Pio IX scomunicò il governo liberale di Cavour per la violazione dei territori pontifici e per il severo trattamento riservato a tutto ciò che era riconducibile alla Chiesa cattolica. La protesta degli ambienti clericali non riuscì ad affermarsi di fronte al dirompente potere del neonato Stato e finì per essere relegata in una stretta cerchia di cattolici intransigenti. La polemica causata dallo scontro tra la Chiesa e il Regno d'Italia, a causa dell'invasione dello Stato Pontificio del 1870, sarà identificata in seguito come Questione romana.[5][6]

La scuola revisionista

 
Giacinto de' Sivo

Subito dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie, iniziarono a essere stampate le prime opere di revisionismo risorgimentale. Il primo scrittore ad elaborare questo nuovo approccio storiografico fu, probabilmente, Giacinto de' Sivo. De' Sivo, fedele alla monarchia borbonica, arrivando ad essere arrestato il 14 Settembre 1860 per essersi rifiutato di rendere omaggio a Garibaldi, compose il suo primo saggio storico L'Italia e il suo dramma politico nel 1861 (1861), in cui denunciò l’unificazione nazionale, a suo giudizio attuata con la violenza delle armi, con la diffusione di menzogne e lontana dagli interessi dei popoli. In seguito, lo scrittore elaborò la sua opera più rappresentativa, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, pubblicata in diversi volumi tra il 1862 e il 1867, nonostante i rischi di persecuzioni e le difficoltà di trovare tipografi disposti a stampare la sua testimonianza.[7]

Un altro scrittore che fornì strumenti per una rilettura sulle vicende dell'annessione del regno borbonico fu il presbitero Giuseppe Buttà con Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta (1875), ove narra le vicende della spedizione dei Mille, come le visse dalla parte degli sconfitti nella sua posizione di cappellano militare del 9° Battaglione Cacciatori dell'Esercito borbonico dallo sbarco di Marsala fino all'assedio di Gaeta. Mentre de' Sivo utilizza una narrativa più austera e graffiante, Buttà ricorre anche ad un linguaggio tagliente ma con un tono più sarcastico,[7] senza lesinare critiche anche nei confronti di ufficiali borbonici, che furono da lui accusati di viltà o tradimento della corona.[8]

Caduto prima il fascismo e poi la monarchia sabauda, a metà del Novecento, l'approccio verso il revisionismo risorgimentale subisce una evidente radicalizzazione e ripresa. È cresciuto col tempo un gruppo di revisionisti che iniziarono a ridimensionare il valore dell'operato di casa Savoia, attribuendogli giudizi sostanzialmente negativi. A circa cent'anni di distanza da de' Sivo, esprimono anch'essi tutto il loro malcontento addebitando la causa di gran parte dei problemi del Mezzogiorno al processo di unificazione nazionale considerato come un "atto di forza" nei confronti di uno stato indipendente (il Regno delle Due Sicilie).

 
Carlo Alianello

Probabilmente, il primo scrittore del novecento a narrare i fatti risorgimentali in chiave revisionista fu Carlo Alianello, che nel 1942 con il suo primo romanzo L'Alfiere, iniziò ad esprimere un duro atto di accusa verso gli ideatori dell'unificazione e le politiche del regno di Sardegna, in un periodo (il ventennio fascista) in cui il Risorgimento era considerato un mito "intangibile", tanto da rischiare il confino, il quale fu scongiurato dalla caduta del regime.[9] La denuncia di Alianello prosegue con L'eredità della Priora (1963), da alcuni considerata la sua opera massima,[9] e La Conquista del Sud (1972). Come i suoi precursori ottocenteschi, Alianello ritiene che le scelte di creare lo stato italiano, oltre ad essere totalmente estranee alle necessità del Mezzogiorno, sarebbero state architettate dai piemontesi in combutta con il governo britannico e le massonerie straniere a scopo di mera occupazione.[10]

Nella linea di discendenza culturale, a Carlo Alianello succede Michele Topa che, con le sue opere Così finirono i Borboni di Napoli (1959) e I Briganti di Sua Maestà (1967), contribuì a delineare una nuova concezione storiografica sul Risorgimento, vista dalla parte dei vinti.

Un altro personaggio di spicco del revisionismo più intransigente fu Nicola Zitara. Sulla stessa linea di Alianello e Topa, lo scrittore calabrese considera l'Italia il frutto di un'operazione di conquista militare ed economica in danno del Sud, nei confronti del quale si è messo in atto un macchinoso complotto. Zitara, attraverso le sue opere, sarà l'artefice di un'analisi economica condotta secondo i canoni di un'ideologia di influenza marxista.

Con il passare degli anni, il revisionismo risorgimentale ha trovato altri sostenitori, sia meridionali che settentrionali, che hanno ulteriormente approfondito la ricerca sugli eventi controversi del processo di unificazione. Tra questi sono da menzionare Lorenzo Del Boca,[11] Gigi Di Fiore,[12] Angela Pellicciari,[13] Francesco Mario Agnoli,[14] Pino Aprile,[15] Fulvio Izzo,[16] Massimo Viglione,[17] Antonio Ciano,[18] Aldo Servidio,[19] Roberto Martucci[20] e Luciano Salera.[21]

Gli accademici in controtendenza

Il revisionismo è coltivato, pur se in modalità differenti, anche da alcuni personaggi del mondo accademico, nella maggior parte dei casi di provenienza estera. Primo fra tutti lo storico inglese Denis Mack Smith, la cui attività si concentra dal Risorgimento ai giorni nostri. Analisi rigorose del Risorgimento sono condotte anche da Martin Clark, docente di storia politica all'università di Edimburgo;[22] Gilles Pécout, esperto di storia d'Italia contemporanea, nonché direttore dell'École pratique des hautes études e docente presso l'École Normale Supérieure di Parigi;[23] Christopher Duggan, allievo di Mack Smith e direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society dell’Università di Reading;[24] Lucy Riall, professoressa di storia presso il Birkbeck College dell'Università di Londra.[25]

Il revisionismo di natura politica

A livello politico il Risorgimento è stato attaccato, di recente, dal versante politico da parte del partito Lega Nord, che in versione diametralmente opposta a quella dei meridionalisti, sostiene la linea della delegittimazione del processo unitario. Vedasi le dichiarazioni del leader Umberto Bossi, che a Montecitorio si espresse negativamente sulle vicende risorgimentali:

«Il Nord non voleva l'unità d'Italia, volevano la libertà dall'Austria ma avevano mille dubbi sull'unità. Nel 1859 cantavano la canzone La bella Gigogin nella quale ci sono tutti i dubbi della Lombardia.»

Ne è nata la cosiddetta "polemica dei libri di testo", nata dal pensiero secondo il quale nelle scuole italiane la storia risorgimentale sia alterata da deformazioni culturali. Nonostante la totale estraneità del mondo politico al dibattito storiografico, si va affermando un certo tipo di volontà politica che ha intenzione di inserirsi a pieno titolo nel merito della questione revisionista, mostrando serie intenzioni di modificare la fonte primaria della conoscenza storica all'interno delle scuole: i libri di testo. A conferma di ciò il 28 gennaio 1999, il deputato Mario Borghezio (Lega Nord) dichiarò:

«Non si può tacere delle deformazioni che nelle scuole dello Stato italiano si compiono a danno della nostra storia risorgimentale»

Argomentazioni del revisionismo sul Risorgimento

Gli argomenti trattati dai revisionisti sono inquadrabili in una lista piuttosto delineata, tra cui troviamo ricorrenti le tematiche di seguito affrontate.

Violazione del diritto internazionale

La violazione del diritto internazionale avvenuta durante gli eventi immediatamente antecedenti l'unificazione con particolare riferimento all'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. L'invasione di uno stato sovrano senza dichiarazione di guerra è uno degli aspetti su cui si focalizza l'analisi revisionista[28][29][30]. I revisionisti riportano che un comportamento simile a quello tenuto in occasione dell'invasione delle Due Sicilie fu tenuto anche in occasione di quelle del Granducato di Toscana e del Ducato di Modena, nessuno dei quali beneficiò di una dichiarazione di apertura delle ostilità.[31]

Situazione economica e primati delle Due Sicilie

  Lo stesso argomento in dettaglio: Regno delle Due Sicilie § Economia.
 
Inaugurazione della linea ferroviaria Napoli-Portici

Le argomentazioni riguardanti una rivisitazione del Regno delle Due Sicilie, generalmente descritto come uno stato povero e oppresso.[32][33] I revisionisti tendono a smentire quanto detto, descrivendolo come un regno in cui si viveva un certo benessere[10] e che stava attraversando una fase di sviluppo crescente, bruscamente fermata dalle modifiche indotte dalla piemontesizzazione.[34]

Già agli inizi del novecento, il meridionalista lucano Francesco Saverio Nitti fece approfonditi studi sulla situazione economica del regno duosiciliano e degli altri stati che comporrano in seguito l'Italia unita. Si evince dalla sua ricerca che il regno delle Due Sicilie era lo stato che portava minori debiti e più ricchezza pubblica sotto tutte le forme,[35] sebbene un altro meridionalista come Giustino Fortunato non condivise quanto riportato da Nitti.[36] Inoltre il banco del regno possedeva un capitale di 443,3 milioni di lire oro, equivalente a più della metà del patrimonio di tutti gli altri stati preunitari della penisola, mentre il Regno di Sardegna ne aveva 27,1 milioni[37]. Nel 1859 la Sicilia presentò un bilancio finanziario con un utile di 35 milioni, mentre il Piemonte non arrivava a 7 milioni.[38]

Anche l'entità del risparmio pubblico e privato nelle Due Sicilie era di notevoli dimensioni. Nel periodo immediatamente precedente alla spedizione dei Mille, il solo Banco di Napoli (fondato nel 1584) gestiva una somma pari a 33 milioni di ducati tra depositi pubblici e privati, equivalenti a circa 165 milioni di lire piemontesi (il tasso di cambio tra le due monete era infatti pari ad un rapporto di cinque a uno in favore di quella duosiciliana). A tale somma andavano aggiunti due milioni di sterline, pari a circa 60 milioni di ducati (e quindi a quasi 350 milioni di lire piemontesi) di proprietà personale di Francesco II. Altri 30 milioni di ducati (equivalenti ad altri 160 milioni di lire piemontesi) erano invece custoditi dalle banche siciliane. [39]

Il reame aveva, inoltre, diversi primati in campo scientifico e tecnologico; ad esempio la prima nave a vapore nel Mediterraneo (1818)[40] la prima linea ferroviaria italiana: Napoli-Portici (1839), la prima illuminazione a gas in Italia (1839), il primo osservatorio vulcanico del mondo: l'Osservatorio Vesuviano (1841);[41] oltreché impianti industriali come la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa (la più grande di tutta la penisola),[42] il Cantiere navale di Castellammare di Stabia e il Polo siderurgico di Mongiana.

Napoli tra i numerosi primati aveva quelli di prima città d'Italia (e la terza d'Europa) per numero di abitanti. Era, inoltre, la prima città d'Italia per numero di tipografie, 113, per pubblicazioni di giornali e riviste, e prima per numero di conservatori musicali e di teatri, fra cui il famoso San Carlo, il più antico teatro d'opera europeo tuttora attivo. A Napoli vi era inoltre la prima cattedra di economia politica a livello mondiale, fondata da Antonio Genovesi nel 1754[43] nell'ambito dell'università Federico II (prima università laica d'Europa, nata nel 1224).

La crisi economica del Regno di Sardegna

I revisionisti sostengono che il motivo della conquista degli stati preunitari (ed in particolare del Regno delle Due Sicilie) sarebbe dovuto alla crisi economica del regno sardo[44][45] il quale, tra il 1848 e il 1859, avrebbe accumulato un debito di circa 910 milioni di lire.[46] Essi ritengono che il bilancio passivo dello stato sabaudo sia imputabile alle diverse guerre espansionistiche, volute per inserirsi nel gioco diplomatico internazionale.

Diverse fonti confermano lo stato di forte crisi finanziaria del Regno di Sardegna, riportando invece una situazione opposta per il Regno delle Due Sicilie. Secondo queste ultime, infatti, il debito pubblico delle Due Sicilie era un terzo di quello piemontese (26 milioni di lire vs. 64), ma all’unificazione il secondo fu accollato anche ai territori degli altri stati preunitari. In uno studio del 1862, il barone Giacomo Savarese mise a confronto i bilanci e le leggi allegate delle Due Sicilie e del Piemonte nel decennio 1848-1859, deducendone che quest’ultimo aveva avuto per il periodo in esame un disavanzo maggiore del primo di 234.966.907,40 lire. Nello stesso periodo, il Piemonte aveva introdotto 22 nuove tasse (contro nessuna delle Due Sicilie), essendo inoltre costretto a vendere una serie di beni pubblici per colmare il disavanzo. [47]

La solidità finanziaria delle Due Sicilie e la contemporanea situazione opposta a carico del Piemonte, è stata esemplificata in questo modo dall'economista Francesco Saverio Nitti:

«Ciò che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1857 non solo il più reputato d’Italia per la sua solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita – ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito, le imposte non gravose e bene ammortizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e della tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi, dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte senza criterio; con un debito pubblico enorme, su cui pendeva lo spettro del fallimento.»

Anche la storica revisionista di scuola cattolica Angela Pellicciari conferma sostanzialmente quanto sopra, prendendo come esempio una citazione di Pier Carlo Boggio, deputato del Regno di Sardegna.[49] Nel 1859, il sopra citato Boggio scrisse nella sua opera Fra un mese! che «la pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta»[50] affermando che i debiti del Regno erano conseguenza delle ingenti spese derivanti dalla causa nazionale:

«Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico: il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo; il Piemonte spostò la propria azione dal suo centro primitivo; il Piemonte impresse a sé medesimo un impulso estraneo alla sua orbita naturale; il Piemonte arrischiò a più riprese le sue istituzioni; il Piemonte sacrificò le vite di numerosi suoi figli, sempre in vista della gloriosa meta che si è proposto: il Riscatto d’Italia.»

Il complotto internazionale contro il Regno delle Due Sicilie

Il ruolo delle potenze straniere, in particolar modo della Gran Bretagna, nel processo di unificazione, rivalutato sostanzialmente dalla controstoria risorgimentale come una pianificata operazione di complotto in danno del Regno delle Due Sicilie.[51] Secondo quanto affermato da fonti revisioniste, il contrasto diretto tra la Gran Bretagna ed il Regno delle Due Sicilie avrebbe avuto radici nella progressiva affermazione di quest'ultimo quale potenza marinara posta al centro del Mediterraneo, e, quindi, in diretto contrasto con gli interessi inglesi[52][53]. A tal proposito, diverse fonti riportano come, in particolare sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, la marina mercantile napoletana fosse progressivamente cresciuta dalle 5.328 unità (102.112 tonnellate) del 1834 alle 9.847 unità (259.917 tonnellate) del 1860, e come, soprattutto, fosse mutata la tipologia del naviglio a favore di unità a più elevato tonnellaggio, che consentivano, quindi, di condurre traffici commerciali su lunghe distanze[54][55]. Il proposito del sovrano duosiciliano di migliorare progressivamente l'influenza commerciale della propria Marina nel Mediterraneo era in netto contrasto con la strategia inglese di dominio dei traffici sui mari; tanto più che i lavori per l'apertura del canale di Suez erano in stato avanzato e dunque le Due Sicilie avrebbero potuto interferire negli interessi inglesi di traffico tra la madrepatria e le Indie.[56]

La contesa dell'Isola Ferdinandea, emersa entro le acque territoriali siciliane nel luglio del 1831, viene considerata come un'altra causa di contrasto tra la Gran Bretagna e le Due Sicilie. La disputa sull'isolotto cominciò con la Gran Bretagna, che, per prima, si affrettò a piantarvi la propria bandiera il 10 agosto, battezzandola come isola di Graham, e proseguì con lo Stato borbonico che, il 17 agosto, ne rivendicò l'appartenenza dandole il nome del proprio sovrano. Questa disputa, risolta velocemente con la scomparsa dell'isola a fine dicembre[57], è interpretata come indice della volontà di Ferdinando II di affermare le Due Sicilie come potenza marinara tesa al controllo del Mediterraneo centro-meridionale[53].

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il Regno duosiciliano era caduto in una situazione di isolamento diplomatico[58], finendo per dover contare solamente sulle proprie forze. L'isolamento, secondo le teorie revisioniste, fu dovuto sostanzialmente alla scelta di Ferdinando II di restare neutrale nella guerra di Crimea, non concedendo l'uso dei suoi porti alle flotte inglesi e francesi.[senza fonte] Viceversa, in tutto il decennio precedente Cavour fu molto attivo nella diplomazia europea per assicurare allo stato sabaudo la simpatia, se non l'alleanza, di Inghilterra e Francia, arrivando ad inviare, nel 1855, un contingente di truppe, a fianco di quelle inglesi, nella Guerra di Crimea, guadagnandosi, così, un seggio alla successiva conferenza di pace, dove riuscì far prendere ai rappresentanti inglesi e francesi una posizione sulla questione italiana. L'amicizia piemontese con la Gran Bretagna venne confermata dalla visita di stato che re Vittorio Emanuele II fece alla Regina Vittoria[59] al termine della guerra di Crimea, e quella francese dagli accordi di Plombières con Napoleone III, quest'ultimi permisero l'annessione della Lombardia al regno sabaudo a seguito della Seconda guerra di indipendenza italiana che vide le truppe francesi combattere assieme a quelle piemontesi contro gli austriaci.

La questione dello zolfo siciliano

Secondo la critica revisionista, il comportamento degli inglesi sembrerebbe correlato anche con la questione dello zolfo siciliano. Tale preziosa materia prima era gestita, in virtù di una concessione fatta nel 1816 da Ferdinando I, dalla Gran Bretagna in regime di monopolio. A quei tempi, lo zolfo siciliano era una risorsa molto ricercata per la produzione di polvere da sparo, coprendo l'80% della domanda mondiale[60]. Nel 1836, Ferdinando II ritenne svantaggiose per le casse dello stato le condizioni economiche della concessione assegnata agli inglesi, che traevano profitto dal minerale comprandolo a un costo molto basso e rivendendolo a prezzi elevati, senza garantire un buon introito al suo regno.[10] Il sovrano duosiciliano, che nel frattempo aveva rimosso la tassa sul macinato, si trovava costretto a cercare altri mezzi con cui incamerare contributi per le casse del regno. La soluzione sembrò arrivare dalla Francia nel tentativo di modificare la partnership commerciale con gli inglesi. La gestione dello zolfo venne così affidata ad una ditta francese, la Taix Aycard di Marsiglia, che lo avrebbe pagato almeno il doppio rispetto agli inglesi.[10]

Tutto ciò provocò una forte reazione della Gran Bretagna che, oltre a preannunciare il sequestro delle navi siciliane,[61] mandò nel 1836 una flotta navale nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti. Ferdinando II non si fece intimorire e ordinò al suo esercito di proteggere le coste del regno.[10] Il tutto sarebbe sfociato in una vera e propria guerra se il sovrano francese Luigi Filippo non fosse riuscito a fare da arbitro tra i due stati. La contesa venne conclusa con l'annullamento da parte dello stato borbonico del contratto stipulato con la Taix Aycard,[62][63] l'obbligo di rifondere agli inglesi le perdite che sostenevano di avuto causa la rescissione del contratto e ai francesi rimborsare il guadagno mancato per l'annullamento del contratto.[10]

Le dichiarazioni di Gladstone

 
William Gladstone

Il politico inglese William Gladstone, dopo aver visitato lo stato borbonico tra il 1850 e il 1851, scrisse due lettere al Parlamento inglese, in cui sostenne che il regno fosse in una terribile situazione sociale. Gladstone si soffermò in particolare sulla visita di alcune carceri borboniche e sostenne di esser rimasto scioccato per le condizioni, a suo dire disumane, con cui venivano trattati i prigionieri.[64] Una parte della sua dichiarazione recitò così:

«Non descrivo severità accidentali, ma la violazione incessante, sistematica, premeditata delle leggi umane e divine; la persecuzione della virtù, quand'è congiunta a intelligenza, la profanazione della religione, la violazione di ogni morale, sospinte da paure e vendette, la prostituzione della magistratura per condannare uomini i più virtuosi ed elevati e intelligenti e distinti e culti; un vile selvaggio sistema di torture fisiche e morali. Effetto di tutto questo è il rovesciamento di ogni idea sociale, è la negazione di Dio eretta a sistema di governo.»

Le accuse di Gladstone suscitarono dubbi. Il conte Walewski, ambasciatore francese che soggiornò a Napoli per quasi due anni, scrisse una lettera a Lord Palmerston, in cui gli disse che «i fatti narrati nelle lettere, sulle quali vi puntellate per assalire il Re di Napoli, sono in parte falsi ed in parte esagerati.»[66]. Il conte sostenne che il re duosiciliano dovette usare la forza su uomini che cospiravano contro di lui, aggiungendo che «qualsivoglia altro Governo in simili condizioni avrebbe fatto lo stesso, e ve ne ha non pochi ch'ebbero assai meno umanità.»[66].

Domenico Razzano, nell'opera La Biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II sostenne invece che Gladstone, tornato a Napoli tra il 1888 e il 1889, avrebbe confessato di non essere stato in nessun carcere, basandosi sulle dichiarazioni di rivoluzionari antiborbonici.[67]. Ad ogni modo, gli antirisorgimentali ritengono che le sue denunce sul presunto malgoverno dei Borbone, diffusesi in tutta Europa ed accreditate come vere, fossero un chiaro appoggio ai liberali italiani e permisero a piemontesi e inglesi di indebolire la posizione delle Due Sicilie nello scacchiere della diplomazia internazionale[10]. Questa fuga di notizie costò le dimissioni del primo ministro Giustino Fortunato, per non essere stato in grado di impedire tale divulgazione[68]. Ferdinando Petruccelli della Gattina, in un articolo pubblicato sul giornale "Unione" di Milano il 22 gennaio 1861, parlò di Carlo Poerio, che scontò la sua pena sotto il governo duosiciliano, e di Gladstone:

«Poerio è un'invenzione convenzionale della stampa anglofrancese. Quando noi agitavamo l'Europa, e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai creduli leggitori dell'Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, cui quell'orco di Ferdinando divorava cruda ad ogni pasto. Inventammo allora Poerio. Poerio era un uomo d'ingegno, un galantuomo, un barone; portava un nome illustre, era stato ministro di Ferdinando e complice suo in talune gherminelle del 1848! Ci sembrò dunque l'uomo opportuno per farne l'antitesi di Ferdinando - ed il miracolo fu fatto. E Gladstone fece come noi, magnificò la vittima onde rendere più odioso l'oppressore; esagerò il supplizio, onde commuovere a maggior ira la pubblica opinione.»

Anche secondo Harold Acton, il Poerio sarebbe stato una creazione mediatica, costruita ad hoc per incarnare la figura del "tipico" rivoluzionario liberale da contrapporre ad un'altra creazione mediatica, il "mostro Bomba", frutto di una stampa, da un lato, suggestionata dal "giocoliere" Gladstone e, dall'altro, disprezzata dallo stesso Ferdinando II[70].

I rapporti tra Regno di Sardegna e Inghilterra

Secondo la critica antirisorgimentale, una macchinazione contro il Regno delle Due Sicilie sarebbe stata ordita dal Regno di Sardegna e l'Inghilterra, con lo scopo di trarre entrambi profitto dal colasso dello stato borbonico[10]. Carlo Alianello sostenne che, oltre al regno sardo, anche la Gran Bretagna, una delle maggiori potenze mondiali, aveva i suoi punti deboli (come la Grande carestia in Irlanda, a quel tempo parte del Regno Unito, che, oltre a provocare migliaia di morti, portò un elevato tasso di emigrazione verso le Americhe).[10]

Tuttavia non vi è ancora molta chiarezza sul ruolo di Cavour nell'annessione del regno delle Due Sicilie. Secondo Arrigo Petacco, il primo ministro piemontese disapprovava la conquista del regno borbonico e cercò persino di stipulare un accordo con Francesco II per una formazione di un stato federale, ma il sovrano duosiciliano si sarebbe rifiutato.[71]

Altri scrittori come Lorenzo Del Boca[72] e Aldo Servidio[73] riportano invece che nel 1856, quattro anni prima della Spedizione dei Mille, Cavour e il conte di Clarendon, emissario di Lord Palmerston nonché ministro degli esteri inglese, ebbero contatti per organizzare rivolte antiborboniche nelle Due Sicilie, aneddoto sostenuto anche dallo storico inglese George Macaulay Trevelyan, autore di diverse opere su Garibaldi.[73] Cavour avrebbe ordinato a Carlo Pellion di Persano di prendere contatti a Napoli con l'avvocato Edwin James, uomo di fiducia del governo inglese.[72][73]

Il conte di Clarendon si scagliò contro Ferdinando II, al quale, a suo dire, le potenze progredite dovevano imporre di ascoltare la voce della giustizia e dell'umanità.[74]

Gli aiuti stranieri ai Mille

 
Lo sbarco dei Mille a Marsala da un disegno di un ufficiale osservatore, a bordo di una nave inglese.

Il governo inglese rivestì un ruolo importante nella spedizione dei Mille, avendo finanziato la campagna militare di Garibaldi con 3 milioni di franchi francesi,[75] forniti anche con il contributo della massoneria statunitense e canadese.[76] Prima che i Mille giungessero in Sicilia, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti duosiciliani, oltre che a scopo intimidatorio[77] e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica[78].

Al momento dello sbarco a Marsala, erano già presenti alcune navi da guerra britanniche nei pressi della costa. L’Argus e l’Intrepid, i due vascelli inglesi, giunsero circa tre ore prima della comparsa delle navi Piemonte (a bordo della quale si trovava Garibaldi) e Lombardo[79]. Non è ancora chiaro il motivo della presenza delle imbarcazioni inglesi a Marsala, anche se alcuni autori danno per certo che essa fosse diretta ad appoggiare lo sbarco dei garibaldini[80]. E' tuttavia assodato che vi fu a tal proposito un dibattito nel parlamento della Gran Bretagna, durante il quale il deputato Sir Osborne accusò le imbarcazioni britanniche di aver favorito l'approdo di Garibaldi a Marsala[81] mentre Lord Russell rispose che il motivo del loro intervento sulle coste siciliane era dovuto alla protezione delle piccole imprese inglesi ivi residenti, come i magazzini vinicoli di Woodhouse e Ingham.[81]

Ciononostante lo stesso Garibaldi, in un incontro pubblico a Londra, riconobbe il sostegno di Palmerston durante la spedizione dichiarando: «Se non fosse stato per il governo inglese, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina».[82] L'inventore statunitense Samuel Colt, affiliato alla loggia massonica "St John's" del Connecticut,[75] offrì all'esercito garibaldino 100 armi da fuoco che comprendevano rivoltelle e carabine, approfittando di poter pubblicizzare i suoi prodotti.[83] Dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi sembrò soddisfatto delle armi fornite ed acquistò da Colt 23.500 moschetti al costo di circa 160.000 dollari.[83] Garibaldi inviò poi una lettera di ringraziamento all'inventore americano e Vittorio Emanuele II gli donò una medaglia d'oro.[83]

Il tradimento degli ufficiali borbonici

In aggiunta del supporto britannico e americano, i Mille ebbero dalla loro parte il rinnegamento di numerosi ufficiali delle Due Sicilie, reso possibile soprattutto dalle sovvenzioni finanziarie dell'Inghilterra. I franchi forniti dai britannici furono convertiti in piastre turche (la moneta usata a quel tempo nel commercio internazionale) e vennero sfruttati in gran parte per garantire ai traditori il reclutamento nell'esercito del nuovo Stato, conservando il grado, le qualifiche, i comandi e lo stipendio. La formula andò a buon fine e i garibaldini ebbero dalla loro parte circa 2300 ufficiali[84][85].

Un esempio è quello di Tommaso Clary, comandante del forte di Milazzo, che, secondo Giuseppe Buttà, "fu vile o traditore".[8]

Un'altro ufficiale accusato di essersi rinnegato fu Guglielmo Acton, nipote di John e cugino di secondo grado di Lord Acton. Con il grado di capitano di fregata, Acton era comandante della corvetta Stromboli[86], una delle navi della flotta borbonica che, nella mattinata dell'11 maggio 1860, avevano l'incarico di dare la caccia ai due vapori piemontesi che i servizi borbonici avevano indicato trovarsi nel tratto di mare compreso tra Trapani e Sciacca e che non contrastarono, se non con forte ritardo[87], lo sbarco dei Mille a Marsala. L'Acton fu sottoposto ad inchiesta per il suo comportamento durante lo sbarco; il giudizio della commissione della marina duosiciliana sulla sua condotta fu che essa era stata «irreprensibile»; comunque fu sospeso per due mesi finché venne assegnato al Monarca in armamento presso il cantiere navale di Castellammare di Stabia.[88] Dopo l'Unità, Guglielmo Acton fu nominato ammiraglio del Regno d'Italia divenendone, in seguito, anche senatore e Ministro della Marina del Governo Lanza (14 dicembre 1869 - 10 luglio 1873) dal 15 gennaio 1870 al 5 agosto 1872.

La battaglia di Calatafimi, dipinta sovente dalla storiografia come un'eroica impresa garibaldina, secondo i revisionisti fu solamente una farsa. Il generale borbonico Francesco Landi fu colpevole, secondo Buttà, di una vergognosa condotta dopo il fatto d'armi di Calatafimi che, "segno' la caduta della Dinastia delle Due Sicilie".[8] Nonostante la netta superiorità numerica del suo esercito, Landi ritirò le proprie truppe dal campo di battaglia, permettendo ai Mille di poter avanzare senza troppi disagi a Palermo.[89] Accusato di tradimento, fu destituito e confinato ad Ischia per ordine di Francesco II. Landi morì il 2 febbraio 1861, si sostiene di crepacuore per essere stato ingannato dai garibaldini, i quali gli avrebbero promesso una somma di 14.000 ducati depositata al Banco di Napoli ma, in realtà, ne avrebbe trovati solo 14.[90]

Liborio Romano, un ex carbonaro che ricoprì la carica di ministro dell'Interno sotto Francesco II, iniziò a trattare segretamente con Cavour e Garibaldi. Intraprese rapporti con la Camorra, assegnandole il compito di mantenere l'ordine all'arrivo di Garibaldi a Napoli, oltre a far scarcerare i camorristi detenuti per un maggior appoggio.[91] Garibaldi entrò nella città partenopea senza problemi[92] e, come ricompensa, confermò Romano ministro dell'Interno.[93] A sua volta Romano ricambiò la Camorra e inserì diversi membri dell'organizzazione nelle istituzioni[94], affidando loro incarichi di polizia e facendo loro amministrare l'erogazione in tre anni di 75.000 ducati al popolo, secondo un decreto di Garibaldi emanato nell'ottobre 1860.[95][96]

Le concessioni ferroviarie

Il governo dittatoriale di Garibaldi concesse alla ditta Adami e Lemmi l'esclusiva delle ferrovie per il sud Italia.[97] Il governo piemontese, però non convalidò questa concessione[98]. La successiva proposta di mediazione che riservava a capitali francesi le linee adriatiche[99] non trovò attuazione.

Mancata riforma agraria

  Lo stesso argomento in dettaglio: Spedizione dei Mille (la mancata riforma agraria).

La mancata riforma della suddivisione delle grandi proprietà terriere in Sicilia fu all'origine della conflittualità tra Garibaldi e le masse contadine[100]. Infatti, erano stati numerosi contadini che, spinti dal malcontento verso lo stato borbonico dovuto alle cattive condizioni dei lavoratori agricoli, si erano uniti ai Garibaldini. Tuttavia le loro speranze di mutazione della situazione esistente erano andate deluse. Inoltre la mancata attuazione dei decreti che Garibaldi, una volta assunta la dittatura sull'isola in nome del re Vittorio Emanuele II, emanò circa l'abolizione sia di diverse tasse su prodotti agricoli[101], sia dei canoni sulle terre demaniali[101] generò ulteriore malcontento[102]. Il primo a sollevare questo dibattito fu Antonio Gramsci.

La questione meridionale

  Lo stesso argomento in dettaglio: Questione meridionale.

Nonostante la storiografia più diffusa sostenga che il Mezzogiorno possedesse già un problema di ritardato sviluppo prima dell'Unità, i revisionisti sostengono che il degrado economico del Sud abbia avuto inizio dopo il Risorgimento a causa delle politiche del governo unitario poco attente alle necessità meridionali.[34]

Secondo gli elaborati di Francesco Saverio Nitti, l'origine della questione meridionale ebbe inizio quando il capitale appartenuto alle Due Sicilie, oltre a contribuire maggiormente alla formazione dell'erario nazionale, fu destinato in prevalenza al risanamento delle finanze settentrionali, nella fattispecie in Lombardia, Piemonte e Liguria.[103] Nitti inoltre enunciò, attraverso la sua ricerca statistica, che i fondi di sviluppo furono stanziati maggiormente nelle zone settentrionali, fu istituito un regime doganale che trasformò il Sud in un mercato coloniale dell'industria del Nord Italia[104] e la pressione tributaria del meridione risultò maggiore rispetto al settentrione[105]. L'economia del Mezzogiorno, infatti, fu sfavorita da un sistema doganale di stampo protezionistico, il quale favoriva soprattutto le industrie del nord Italia, permettendo ad esse di non soccombere di fronte alla concorrenza straniera.

Giustino Fortunato, accusando un'indebitamento del Banco di Napoli di un milione di lire in tre anni, coniò il termine "carnevale bancario"[106] per indicare il trasferimento di capitali del sud destinati alle industrie e agli istituti di credito del nord. Il revisionista Nicola Zitara mosse denunce nei confronti degli industriali Carlo Bombrini, Pietro Bastogi e Giuseppe Balduino, indicandoli tra i maggiori responsabili del crollo economico del meridione dopo l'unità.[107]

Secondo un recente studio effettuato dagli economisti Vittorio Daniele dell'Università di Catanzaro e Paolo Malanima dell'"Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche" (ISSM - CNR) di Napoli, al momento dell'annessione non esisteva alcun reale divario economico tra nord e sud ed esso iniziò a manifestarsi nell'ultimo ventennio dell'800.[108]

Nel 1954, l'economista piemontese Luigi Einaudi, nella sua opera Il buongoverno disse:

«Sì è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano dopo la conquista dell'unità e dell'indipendenza nazionale. Peccammo, è vero di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale. Noi riuscimmo così a far affluire dal Sud al Nord una enorme quantità di ricchezza.»

La piemontesizzazione

  Lo stesso argomento in dettaglio: Piemontesizzazione.

Con il termine piemontesizzazione, utilizzato già nel 1861 in chiave critica nel neonato Parlamento del Regno d'Italia[110], si indica l'estensione ai territori del nuovo Regno d'Italia dell'organizzazione politica ed amministrativa dello Stato sabaudo nonché, in buona parte, delle sue leggi. Secondo le tesi revisioniste tale estensione normativa non avrebbe tenuto in considerazione le differenze tra i diversi stati pre-unitari. Nell'ambito delle stesse critiche si fa notare come le principali cariche burocratiche e militari siano state quasi esclusivamente riservate ad appartenenti della classe politica del Regno sabaudo.[111] La prima legislatura del Regno d'Italia fu l'VIII, come da numerazione dello Stato piemontese. Il primo re d'Italia conservò la sua precedente successione dinastica di secondo, come se fosse ancora sovrano di Sardegna.

Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandò al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di avere una rappresentanza napoletana ridotta:

«Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un'opposizione formidabile»

Il 20 novembre 1861, in una interpellanza al Parlamento Italiano, così si esprimeva il deputato di Casoria, Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni:

«La loro smania di subito impiantare nelle provincie Napoletane quanto più si poteva delle istituzioni di Piemonte, senza neppur discutere se fossero o no opportune, fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce piemontizzare..»

I plebisciti

  Lo stesso argomento in dettaglio: Plebisciti del Regno d'Italia.

Le annessioni territoriali al Regno di Sardegna (e al successivo Regno d'Italia), vennero ratificate mediante i cosiddetti plebisciti d'annessione[114]. Il concetto di plebiscito, come consultazione elettorale per ratificare il traferimento di territori tra stati, si era affermato già con la rivoluzione francese e l'originarsi del principio di autodeterminazione dei popoli. Questo tipo di votazione, infatti, non era infrequente: basti pensare ai plebisciti svoltisi nel 1852 e nel 1870 che ratificarono per due volte la monarchia di Napoleone III di Francia. Tali consultazioni prevedevano sostanzialmente le medesime modalità di svolgimento: erano votazioni a suffragio censitario, ovvero limitate a coloro che possedevano un certo censo, svolte per convalidare de iure situazioni di fatto. Ai plebisciti risorgimentali risultò aver preso parte la maggioranza degli aventi diritto: in particolare il numero di astenuti e di contrari alle annessioni risultò essere irrisorio.

Lo Stato sabaudo utilizzò le consultazioni plebiscitarie per dimostrare la diffusa volontà degli Italiani di riunirsi in un unico stato e per legittimare, quindi, la politica espansionistica attuata dal Piemonte[115]. Giuseppe La Farina, in alcune epistole indirizzate all'abate Filippo Bartolomeo, sottolineò come, per evitare la disapprovazione delle potenze europee, fosse indispensabile, per Vittorio Emanuele II, ottenere un qualche riconoscimento popolare per giustificare le annessioni territoriali e per impedire che si parlasse di "conquista"[115]. Il re sabaudo era consapevole di non poter estendere la propria sovranità a popoli che non avessero invocato il suo intervento; era consapevole che solo il consenso popolare avrebbe dato pretesto alla diplomazia di affermare che gli italiani approvavano il nuovo Stato unitario[115].

Sin dall'epoca dello svolgimento dei plebisciti d'annessione, infatti, non mancò qualche voce critica sul senso di tale suffragio, come quella dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna, il torinese Massimo D'Azeglio:

«A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.»

Una critica simile fu mossa dal liberale britannico Lord Russell, in un dispaccio inviato a Torino il 31 gennaio 1861:

«I voti del suffragio universale in quei regni non han gran valore; sono mere formalità dopo una rivoltura ed una ben riuscita invasione; nè implicano in sé lo esercizio indipendente della volontà delle nazioni, nel cui nome si son dati.»

Sullo stesso tema si espresse, il 30 aprile 1860, il quotidiano inglese The Times commentando il plebiscito per l'annessione della Savoia alla Francia:

«La più feroce beffa mai perpetrata ai danni del suffragio popolare: l'urna del voto in mano alle stesse autorità che avevano emesso il proclama; ogni opposizione stroncata con l'intimidazione.[118]»

Critiche alle modalità di svolgimento dei plebisciti sono state oggetto di trattazione da parte di accademici come Denis Mack Smith e Martin Clark, che ha citato il predetto brano del Times, e di alcuni altri autori, che hanno, come nel caso di Angela Pellicciari, sottolineato come le consultazioni si fossero svolte senza tutela della segretezza del voto e, talvolta, perfino, in un clima di intimidazione, dato che, i plebisciti avevano il mero scopo di dare una parvenza di legittimazione popolare ad una decisione già presa[119]. La Pelicciari, addirittura, definisce i plebisciti come una truffa colossale considerandoli una consultazione truccata[119].

In particolare, la storica marchigiana cita aneddoti riguardanti le consultazioni plebiscitarie per l'annessione del Ducato di Modena e del Granducato di Toscana. Filippo Curletti, stretto collaboratore di Cavour e capo della polizia politica sabauda, affermò, nel suo memoriale, che ai plebisciti modenesi, partecipò un modesto numero di aventi diritto e, alla chiusura delle urne, furono distrutte le schede degli astenuti. Dato l'elevato numero di assenti, inoltre, una pratica diffusa fu quella di "completare la votazione" con l'introduzione nelle urne di schede dove la preferenza era stata espressa dai sabaudi al fine di compensare le assenze[119]. Tale pratica fu messa in atto in modo così grossolano che, in alcuni collegi, al momento dello spoglio, il numero dei votanti risultava maggiore di quello degli aventi diritto[119]. In Toscana, secondo quanto riportato da La Civiltà Cattolica, le consultazioni furono precedute da una incalzante campagna stampa dove si definiva nemico della patria e reo di morte chiunque non avesse votato per l'annessione[119]. Alle tipografie toscane, poi, fu commissionata la stampa di un gran quantitativo di bollettini pro annessione, mentre fu scoraggiata la stampa di bollettini contrari all'unificazione. Sempre la rivista gesuita affermò che si sarebbe abusato dell'ingenuità delle popolazioni delle aree rurali spingendole a recarsi alle urne poiché, in caso contrario, sarebbero incorse in sanzioni[119].

Altri autori, come Roberto Martucci, corroborano le loro critiche ai plebisciti sottolineando, oltre l'esiguo numero degli astenuti, anche il numero irrisorio dei "no" all'annessione: tali dati consentono al Martucci di definire il voto politicamente ininfluente[120]. Al riguardo, l'autore si sofferma ad analizzare le modalità di voto ed i risultati plebiscitari delle province siciliane, citando i casi di Palermo (36.000 favorevoli e 20 contrari), dove furono autorizzati a votare anche i cittadini sprovvisti di certificato, poiché "smarrito"; Messina (24.000 contro 8); Alcamo (3.000 vontro 14); Girgenti (2.500 contro 70); Siracusa, dove si votò senza che fossero state redatte le liste elettorali; e Caltanissetta, dove il governatore proibì qualsiasi propaganda in senso autonomista[121]. Tomasi di Lampedusa, nelle pagine de "Il Gattopardo", affrontò, sebbene nell'ambito del romanzo, le problematiche connesse ai plebisciti siciliani.

A Venosa, comune in provincia di Potenza, riporta Antonio Vaccaro, su 1.448 preferenze, solamente una risultò contraria all'unificazione[122].

Altri autori riportano infine come il plebiscito che determinò l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia fu accompagnato da eventi di particolare gravità ed illegalità. Le operazioni di voto avvennero nel centralissimo Largo di Palazzo a Napoli (l'attuale Piazza del Plebiscito). Le urne, su cui vi era chiaramente indicato il "sì" o il "no", erano palesi e venivano sorvegliate a vista da numerosi camorristi, che Liborio Romano aveva arruolato come poliziotti, esautorando gli agenti fedeli ai Borbone.[123][124]

Reinterpretazione del brigantaggio

  Lo stesso argomento in dettaglio: Brigantaggio postunitario e Legge Pica.
 
Briganti lucani della banda Volonnino, fucilati dall'esercito sabaudo.

La reinterpretazione del brigantaggio postunitario come rivolta legittima, nonché l'eccessiva repressione messa in atto dallo Stato unitario. Il brigantaggio viene rivalutato dalla scuola revisionista come un movimento di resistenza,[125] alcuni ritengono persino in analogia a quello che avrebbe coinvolto, in seguito, i partigiani italiani contro le truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale.[126] Il deputato Giuseppe Ferrari, durante un dibattito parlamentare, disse:

«I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli ed ogni qual volta la Dinastia legittima è stata colla violenza cacciata, il Napoletano ha dato tanti briganti, da stancare l’usurpatore e farlo convincere che, nel Regno delle Due Sicilie, l’unico Sovrano che possa governare, dev'essere della Dinastia borbonica.»

La repressione del brigantaggio, ottenuta con successo (e con molta difficoltà) in circa dieci anni dal governo unitario, viene aspramente criticata dai revisionisti a causa della violenza con cui il Regio Esercito italiano (soprattutto dopo la promulgazione della legge Pica) applicava sommarie condanne a morte senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari,[128] il più delle volte giustiziando anche coloro che venivano solamente sospettati di connivenze o adesioni alle bande brigantesche.[129]

La violenza degli scontri è testimoniata dal fatto che non meno di 14.000 briganti o presunti tali furono fucilati, uccisi in combattimento o arrestati nel periodo di applicazione della legge[130]. Nel maggio 2010, durante la trasmissione Porta a Porta, Anita Garibaldi, pronipote del condottiero, sostenne che suo nonno Ricciotti, deluso dagli eventi risorgimentali e indignato dallo sfruttamento del Meridione, sarebbe sceso nel sud per combattere a fianco dei briganti. Sebbene si tratti di un'opinione personale, la signora Anita ha dichiarato di possedere documentazioni di quanto affermato.[131]

Eccidi

  Lo stesso argomento in dettaglio: Massacro di Pontelandolfo e Casalduni.

Gli episodi di violenza contro le popolazioni centro-meridionali, che si verificarono soprattutto durante il brigantaggio. Si consumarono diversi eccidi nei territori dell'ormai decaduto regno duosiciliano, di cui i più noti furono quelli di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi del Beneventano. In data agosto 1861, il generale Enrico Cialdini ordinò una feroce rappresaglia contro i due comuni, ove i briganti di Cosimo Giordano uccisero 45 soldati sabaudi che vi erano appena giunti. Cialdini inviò un battaglione di cinquecento bersaglieri a Pontelandolfo, capeggiato dal colonnello Pier Eleonoro Negri, mentre a Casalduni mandò altri soldati capitanati dal maggiore Melegari. I due piccoli centri vennero quasi rasi al suolo, lasciando circa 3.000 persone senza dimora,[132] e il numero ufficiale delle vittime non è stato ancora reso noto; le cifre vanno da un centinaio a più di un migliaio di morti.[133]

Altri militari che si distinsero per i loro discutibili provvedimenti contro il brigantaggio furono Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna, Enrico Morozzo Della Rocca e Ferdinando Pinelli. Altre città che subirono una sorte simile furono Montefalcione, Campolattaro e Auletta (Campania), Rignano Garganico (Puglia), Campochiaro e Guardiaregia (Molise), Barile e Lavello (Basilicata), Cotronei (Calabria).[134] Tali provvedimenti suscitarono polemiche, anche da parte della classe liberale. Giovanni Nicotera, intervenne in Parlamento dicendo:

«I Proclami di Cialdini e degli altri Capi sono degni di Tamerlano, di Gengis Khan, o piuttosto di Attila

Lo stesso Nino Bixio (che partecipò alla spedizione dei Mille e fu protagonista del discusso episodio della strage di Bronte) denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 aprile 1863:

«Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema»

I metodi violenti delle truppe sabaude furono infine applicati anche per la repressione dei moti di protesta operaia per la chiusura progressiva di impianti industriali, ad esempio dello stabilimento siderurgico di Pietrarsa (attualmente sede del Museo Nazionale Ferroviario), dove il 6 Agosto 1863, per reprimere le proteste degli operai, intervennero Guardia Nazionale, Bersaglieri e Carabinieri, lasciando sul terreno tra quattro e sette morti e una ventina di feriti. Al comando delle truppe c'era il Questore Nicola Amore, successivamente divenuto sindaco di Napoli, che nella sua relazione al Prefetto parla di fatali e irresistibili circostanze.[137][138]

L'emigrazione

  Lo stesso argomento in dettaglio: Emigrazione italiana.

Dopo l'unificazione della penisola, oltre ad un aggravamento della situazione economica del Mezzogiorno, si ebbe un vertiginoso fenomeno migratorio, quasi inesistente nel Sud prima del Risorgimento.[139] Le statistiche sull'emigrazione mostrano un numero notevole di partenze dal Mezzogiorno verso l'estero dopo l'Unità, per l'aggravarsi della situazione contadina.[140] L'emigrazione post-unitaria interessò anche il settentrione, in cui l'ondata migratoria fu maggiore rispetto al meridione nei primi anni di unificazione ma a partire dal '900 i flussi si intensificarono esponenzialmente anche nel sud. Il Veneto (tra gli ultimi territori annessi), risultò la regione con il più alto tasso di espatri tra il 1876 ed il 1900.[141] Nel 1901, l'allora presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli, in visita in diverse città del meridione, giunse a Moliterno (Potenza) e fu accolto dal sindaco che lo salutò "a nome degli ottomila abitanti di questo comune, tremila dei quali sono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli".[142]

Critiche alle teorie lombrosiane

Denunce sono state rivolte agli studi di Cesare Lombroso,[143][144][145] tra i pionieri dell'antropologia criminale[146]. Egli, basandosi sui principi della fisiognomica e della frenologia, discipline pseudoscientifiche che pretendono di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona, la prima, dal suo aspetto fisico e, la seconda, dalla morfologia del cranio, studiò salme di briganti (ma anche di comuni delinquenti), introducendo il concetto di criminale atavico. Effettuando un'autopsia sul cadavere di un brigante calabrese, Giuseppe Villella, Lombroso rilevò nella struttura cranica una cavità nella zona dell'occipite, da lui chiamata "fossetta occipitale interna". Il criminologo si convinse che codesta fossetta fosse caratteristica delle persone tendenti a delinquere. Altri tratti fisiognomici che per lui portavano un soggetto alla criminalità erano testa piccola, fronte bassa, zigomi pronunciati, sopracciglia folte. Spesso, però, in mancanza di questi, anche una minore sensibilità al dolore, una più rapida guaribilità, una maggiore accuratezza visiva o addirittura la presenza di tatuaggi permettevano al Lombroso di sentenziare la naturale predisposizione al crimine di un individuo.

Per quanto le salme studiate non provenissero unicamente dal sud e i tratti fisiognomici giudicati sintomatici della delinquenza non fossero da lui riscontrati unicamente in meridionali, Lombroso arrivò a sostenere che «la ragione dell'inferiorità meridionale risiedeva in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale».[147][148] Alfredo Niceforo, criminologo di scuola lombrosiana, dichiarò:

«La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il Mezzogiorno d'Italia, che è tanto affine per la sua criminalità, per le origini e pei suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco e dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia ecc...»

Le teorie di Lombroso (in seguito smentite dalla scienza ufficiale)[150] sono viste dagli antirisorgimentali come razzismo contro i meridionali,[151] nonché un pretesto per etichettare i briganti come criminali insani di mente e per dare una giustificazione al loro annichilimento.[152] Nel 1898, fu allestito a Torino un museo che comprendeva scheletri e teste dei vari briganti che Lombroso analizzò per i suoi studi. Chiuso nel 1948, venne riaperto nel novembre 2009, suscitando forti polemiche da parte di movimenti politici e non[153], i quali lo hanno definito un "museo degli orrori" e ne hanno chiesto la chiusura.[151]

Deportazioni

  Lo stesso argomento in dettaglio: Forte di Fenestrelle.
 
Lapide in onore dei soldati Duosiciliani all'interno del forte di Fenestrelle

I militari borbonici, che rifiutarono di prestare giuramento al nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, vennero reclusi in presidi militari del settentrione italiano, quali Alessandria, San Maurizio Canavese e Fenestrelle, considerati dai revisionisti veri e propri campi di concentramento.[154][155][156][157] I soldati fedeli al loro vecchio sovrano furono visti con scarsa considerazione e disprezzo, tanto che il generale La Marmora li definì "un branco di carogne".[158] Lo stesso Cavour, in una lettera indirizzata a Vittorio Emanuele II, scrisse: «I vecchi soldati borbonici appesterebbero l'esercito».[159]

Non esistono ancora stime ufficiali sul numero dei detenuti e delle vittime. Nel forte di San Maurizio Canavese il numero degli imprigionati sarebbe ammontato a 3000 al settembre 1861, quando gli allora ministri Bettino Ricasoli e Pietro Bastogi vi fecero visita.[160]Nel forte di Fenestrelle si sostiene, invece, che furono deportati circa 20.000 soldati duosiciliani (per lo più provenienti dalla resa della fortezza di Capua)[161] e papalini.[162]

Per via delle condizioni malsane e delle temperature molto rigide, gran parte dei detenuti perì per fame, stenti e malattie.[162][163] Per evitare epidemie ed essendovi difficoltà nel seppellire i cadaveri, i corpi dei reclusi venivano disciolti nella calce viva.[164] Anche alcuni briganti vennero relegati al forte, un esempio fu la calabrese Maria Oliverio. Nel 2008 venne posta all'interno della fortezza una lapide commemorativa che rende omaggio ai deportati duosiciliani.[165]

Nei luoghi di prigionia sabaudi furono rinchiusi anche alcuni garibaldini fermati sull'Aspromonte nel 1862, mentre tentavano una spedizione verso lo stato Pontificio.[166]

Critiche al revisionismo sul Risorgimento

Il revisionismo sul Risorgimento è oggetto di critiche da parte di alcune personalità del mondo accademico e giornalistico. Uno dei più noti detrattori è lo storico Ernesto Galli della Loggia, che controbatte su diverse asserzioni esposte dai revisionisti. Galli della Loggia nega il depauperamento del Sud dopo l’Unità e sostiene che il divario tra settentrione e meridione, al 1860, era già esistente.[167] Egli ha contestato una scarsa presenza di vie di comunicazione nel regno borbonico e ha definito la ferrovia Napoli-Portici "un giocattolo del re", giudicandola inferiore alla Torino-Genova o alle ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia.[167] Egli giustifica questo suo giudizio affermando che collegare Napoli con Portici non avrebbe potuto in alcun modo favorire l'economia, non solo per l'estrema brevità della ferrovia in sè, lunga pochi chilometri, ma soprattutto perché Portici non era una zona produttiva, ma solo una zona residenziale. Si è espresso negativamente sulla politica economica adottata dai Borbone in Sicilia, da lui giudicata "coloniale".[167] Lo storico ha inoltre smentito una componente anticattolica nel Risorgimento, considerandola invece "laicista, più o meno massonica".[167]

Francesco Perfetti, professore di storia contemporanea presso la LUISS di Roma, ha dichiarato che la parola revisionismo dovrebbe essere eliminata perché si sarebbe caricata di una valenza politica e ideologica, suggerendo ai revisionisti cattolici di valutare il risorgimento con i criteri dello storicismo critico nel quadro europeo.[168]. Tra gli oppositori della tesi revisionista vi è anche il giornalista Giorgio Bocca, che ha definito "una balla" l'immagine di un Mezzogiorno fiorente depredato dal Nord e che la sua povertà risale a secoli prima dell'unità.[169] Bocca ha inoltre considerato "insensati" i movimenti meridionali, analogamente a quello leghista.[169]

Il giornalista Sergio Romano parla di un "travisamento nazionale". Egli ha dichiarato:

«Per unanime consenso dell'Europa d'allora il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta. La «guerra del brigantaggio» non fu il fenomeno criminale descritto dal governo di Torino, ma neppure una guerra di secessione come quella che si combatteva negli Stati Uniti in quegli stessi anni. Fu una disordinata combinazione di rivolte plebee e moti legittimisti conditi da molto fanatismo religioso e ferocia individuale. La classe dirigente unitaria fece una politica che favoriva le iniziative industriali del Nord perché erano allora le più promettenti, e non fece molto, almeno sino al secondo dopoguerra, per promuovere lo sviluppo delle regioni meridionali. Ma il Sud si lasciò rappresentare da una classe dirigente di notabili, proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, più interessati a conservare il loro potere che a migliorare la sorte dei loro concittadini.»

Critiche sono state mosse anche da Sergio Boschiero, segretario dell'Unione Monarchica Italiana, che ha denunciato il pericolo di un "revisionismo senza storici", mirante a demolire il mito risorgimentale. Secondo il movimento monarchico, sono stati analizzati alcuni testi di sedicenti storici che, attraverso la stampa, spargono odio in funzione antinazionale.[170]

Note

  1. ^ "Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l’Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l’unità nazionale, voi l’ingrandimento territoriale (Giuseppe Mazzini)". Citato in Alberto Cappa, Cavour, G. Laterza & figli, 1932, p. 249.
  2. ^ Denis Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, 1993, p. 286.
  3. ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.108
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  6. ^ (Nell'occasione della celebrazione del 150esimo della unificazione dell'Italia, la posizione degli ambienti di cultura cattolica sembra essere questa: "Nel 1861 non è nata l'Italia, più semplicemente è stato istituito sul territorio italiano uno "Stato Unitario". L'Italia, da un punto di vista culturale, artistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli. Letta come evento "politico", l'Unità d'Italia merita tutte le celebrazioni. Questo non significa, però, la pretesa di qualificare la proclamazione del Regno d'Italia (e gli ulterioni eventi del 1866 e del 1870, senza voler arrivare al 1918, come pur sarebbe ragionevole fare) come un evento di rilevanza "nazionale": si è trattato, invece, di un evento "politicamente" di grande rilievo. La nazione italiana non ha avuto alcun bisogno di aspettare il trionfo dei movimenti risorgimentali per riconoscersi ed eseere riconosciuta come tale da tutte le nazioni. Tutte le difficoltà nascono dal fatto che oggi la nozione di Stato viene confusa con quella di Nazione..." (Francesco d'Agostino, Avvenire del 5 maggio 2010, Milano)
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