Enrico Cialdini

primo duca di Gaeta, generale e politico italiano

Enrico Cialdini, duca di Gaeta (Castelvetro di Modena, 8 agosto 1811Livorno, 8 settembre 1892), è stato un generale, politico e diplomatico italiano. Fu una delle figure militari di maggior rilievo dell'esercito piemontese e successivamente del Regio Esercito italiano, in particolare durante la campagna piemontese in Italia centrale del 1860, l'assedio di Gaeta, la repressione del Brigantaggio postunitario italiano e la Terza guerra d'indipendenza italiana.

Enrico Cialdini
NascitaCastelvetro di Modena, 8 agosto 1811
MorteLivorno, 8 settembre 1892
Luogo di sepolturaCimitero suburbano di Pisa
Dati militari
Paese servitoSpagna (bandiera) Regno di Spagna
Italia (bandiera) Regno di Sardegna
Italia (bandiera) Regno d'Italia
Forza armata Esercito spagnolo
Regia Armata Sarda
Regio Esercito
GradoCapo di stato maggiore generale
Generale d'armata
FeriteAll’addome nella battaglia di Monte Berico
GuerreGuerre liberali portoghesi
Prima guerra carlista
Prima guerra d'indipenenza
Guerra di Crimea
Seconda guerra d'indipendenza
Terza guerra d'indipenenza
CampagneCampagna piemontese in Italia centrale
Campagna dell'Agro romano per la liberazione di Roma
Repressione del Brigantaggio
BattaglieBattaglia di Asseiceira (1834)
Battaglia di Xerta (1837)
Assedio di Cantavieja (1837)
Battaglia di Chiva (1838)
Assedio di Morella (1838)
Battaglia di Monte Berico
Battaglia di Novara
Battaglia di Palestro
Battaglia di Castelfidardo
Assedio di Ancona
Battaglia del Macerone
Battaglia di San Giuliano
Assedio di Gaeta
Assedio di Messina
Comandante diRegio Esercito
DecorazioniVedi sezione
Studi militariAccademia reale di Torino
Altre caricheDiplomatico
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Enrico Cialdini

Senatore del Regno d'Italia
Durata mandato13 marzo 1864 –
8 settembre 1892
Legislaturadalla VIII (nomina 13 marzo 1864) alla XVII
Tipo nominaCategorie: 3, 14, 20
Incarichi parlamentari
  • Membro della Commissione per l'esame del disegno di legge sui provvedimenti relativi all'esercito (8 giugno 1870)
Sito istituzionale

Deputato del Regno d'Italia
Durata mandato18 febbraio 1861 –
13 marzo 1864[N 1]
LegislaturaVIII
CollegioReggio Emilia
Sito istituzionale

Deputato del Regno di Sardegna
Durata mandato2 aprile 1860 –
6 ottobre 1860[N 2]
LegislaturaVII
CollegioReggio Emilia
Sito istituzionale

Dati generali
Prefisso onorificoDuca
Professione
  • Militare di carriera
  • Diplomatico
FirmaFirma di Enrico Cialdini

Biografia

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Famiglia e gioventù (fino al 1835)

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Nacque da Giuseppe e da Luigia Santyan y Velasco, di origine spagnola, nel Regno d’Italia napoleonico. La famiglia si trasferì nell’agosto 1811 a Reggio Emilia dove il padre lavorava come ingegnere e dove Enrico frequentò la scuola dei Gesuiti da cui fu espulso, pare, a causa di un gesto irriguardoso nei confronti di un docente[1]. Successivamente, Il padre lo iniziò allo studio della matematica e del disegno e il giovane Enrico mostrò grande interesse anche per la musica e la poesia. Partì per Parma e si iscrisse all’università dove studiò medicina[2][3].

Con la Restaurazione, intanto, Reggio Emilia era tornata al Ducato di Modena e Reggio e nel 1831 Cialdini si arruolò come volontario nelle file dei rivoltosi che, sull’onda della Rivoluzione di luglio scoppiata in Francia, portò in Italia ai moti del 1830-1831. Fallita la sommossa a Reggio Emilia, Cialdini decise di abbandonare il Ducato e partì con alcuni compagni per Bologna, dove seguì le orme e la figura di Carlo Zucchi. Con quest’ultimo combatté gli austriaci a Rimini, da dove riparò ad Ancona e da qui fu costretto ad imbarcarsi per Messina per poi proseguire per Marsiglia[3].

L’esilio in Francia lo portò a Parigi, dove tentò di continuare gli studi di medicina che aveva interrotto in Italia, conducendo tuttavia una vita "scioperatissima" per sua stessa ammissione[1]. Altri avvenimenti in Europa dovevano però coinvolgerlo. Nel 1828, infatti, erano scoppiate in Portogallo le Guerre Liberali che, per questioni dinastiche, vedevano schierati i liberali contro gli assolutisti miguelisti. I primi erano sostenuti dalla Gran Bretagna, dalla Francia e in un secondo tempo dalla Spagna, i secondi dallo Stato pontificio e in un primo momento dalla Spagna. Diversi furono i volontari che da tutta Europa affluirono per dare manforte ai liberali. Fra costoro, nel febbraio 1833, partì dalla Francia per il Portogallo anche Cialdini[3].

Giunto a Oporto, Cialdini entrò come granatiere volontario nel 2° Reggimento di fanteria della Regina, iniziando così la sua carriera militare. Si distinse in battaglia e in tre mesi divenne sergente. Alla sua compagnia fu assegnata la croce dell’Ordine della Torre e della spada, ma i suoi commilitoni decisero che l’onorificenza fosse conferita a lui. Il reparto di Cialdini si distinse oltre che ad Oporto, anche a Lisbona, a Santarém e, il 16 maggio 1834, alla battaglia di Asseiceira, che vide la vittoria definitiva dei liberali. A conclusione della guerra, il reggimento di Cialdini fu sciolto e lui fu promosso sottotenente[3].

La prima guerra carlista (1835-1840)

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Nella vicina Spagna, intanto, era esplosa un’altra crisi dinastica che, nel 1833, era sfociata nella prima guerra carlista. Dopo la morte di Ferdinando VII, la Spagna si era infatti divisa in due fazioni: da una parte i cosiddetti carlisti, sostenitori di Don Carlos che si era autoproclamato re, appoggiati dai monarchici legittimisti, dai cattolici tradizionalisti e dai reazionari antiliberali. Dall'altro lato c'erano gli Isabelinos, cioè i liberali, i massoni, i cattolici costituzionalisti e le frange più progressiste della società spagnola, che speravano di ottenere dalla reggente Maria Cristina di Borbone, che regnava per la piccola figlia Isabella, alcune riforme in cambio del loro appoggio.

Il governo spagnolo di Maria Cristina, non potendo da solo sostenere lo sforzo bellico contro i carlisti, chiese al Portogallo di riformare i reparti di volontari sciolti che così vennero ricostituiti. Nel suo reparto, che fu denominato “Cacciatori di Oporto”, Cialdini incontrò e conobbe altri italiani che avrebbero combattuto con lui in Italia nelle guerre d’indipendenza: Domenico Cucchiari, Giovanni Durando e Nicola Fabrizi. Cialdini iniziò la sua nuova esperienza militare il 22 ottobre 1835 con il grado di tenente. I “Cacciatori di Oporto” si distinsero a Xerta nel giugno del 1836 e nell’assedio vittorioso di Cantavieja, che si concluse il 24 aprile 1837. Per il suo valore a Xerta, Cialdini ottenne la croce dell’Ordine di San Ferdinando e per il suo portamento a Cantavieja, la medaglia di distinzione. Il 29 gennaio 1837 era stato, intanto, promosso capitano per meriti di guerra[4].

Ma il conflitto in Spagna era destinato a proseguire. Nel 1838, a Chiva[5], presso Valencia, i liberali attaccarono le forze carliste il 2 aprile e, nonostante fossero la metà delle forze nemiche, riuscirono a sconfiggerle. Alla battaglia, con l’armata costituzionale comandata dal generale Marcelino Oraá Lecumberri (1788-1851), avevano partecipato anche i “Cacciatori di Oporto” e a Cialdini fu conferito il titolo di Benemerito di Spagna, nonché il grado di secondo comandante. Nel giugno seguente le forze liberali decisero di assediare la città fortificata di Morella che i carlisti avevano occupato a gennaio. I liberali praticarono una breccia che però non fu decisiva per penetrare oltre le mura. Essi decisero quindi di ritirarsi a Valencia e a Cialdini, che aveva scalato fra i primi la breccia, fu dato il compito di coprire con i suoi uomini la ritirata[4].

Con Ramón Narváez (1840-1847)

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Cialdini nel periodo delle guerre liberali nella Penisola iberica

Cialdini continuò a combattere ancora un anno contro i carlisti, ma, nel marzo 1840 decise, assieme a Manfredo Fanti, di entrare nell’esercito regolare spagnolo. Fu costretto pertanto a convertire il suo grado di maggiore (che intanto aveva conseguito) con quello di sottotenente di fanteria. Lo stesso anno terminava la prima guerra carlista con la vittoria liberale e con la reggenza di Baldomero Espartero. L’anno dopo, nel 1841, Cialdini fu comunque confermato nel 18° Reggimento d’”Almanca” con il grado di capitano[4] e mantenne il grado nonostante che il suo comandante, il colonnello spagnolo di origini genovesi Gaetano Borso di Carminati (1799-1841), fosse condannato a morte per aver complottato contro Espartero. Anche Cialdini fu arrestato e confinato a Barcellona. Ma ottenne di potersi stabilire presso il fratello Guido a Valenza dove conobbe Maria Martinez de León che sposerà nel 1845[1].

Nel 1843 accettò l’incarico di aiutante di campo del generale Ramón María Narváez, antagonista di Espartero. Intanto, il compromesso che aveva visto, alla fine della prima guerra carlista, l’instaurazione della reggenza di Baldomero Espartero, comportò anche l’esilio per la ex reggente Maria Cristina di Borbone, la cui figlia Isabella di 13 anni, acquisì la maggiore età e divenne regina di Spagna. Il generale Narváez tramò allora con Maria Cristina per liberarsi di Espartero e prendere il potere. In quest’azione, a seguito della quale Narváez, il 3 maggio 1844 fu proclamato Primo ministro spagnolo, Cialdini si distinse ancora per coraggio, tanto che già il 6 agosto 1843 fu promosso comandante di battaglione, venti giorni dopo tenente colonnello e nell’agosto 1844 colonnello[4].

Inviato in Francia per studiare le strutture della gendarmerie, egli fu raggiunto all'inizio del '48 dalle notizie dei primi moti italiani[1].

La prima guerra d’indipendenza (1848-1849)

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Alla battaglia di Novara Cialdini ottenne la sua seconda medaglia d'argento al valor militare

Quando però, nel 1848, scoppiò la prima guerra d’indipendenza fra Regno di Sardegna e Impero austriaco, Cialdini diede le dimissioni e partì per Modena[4], dove però non riuscì a ottenere un comando. Arrivato a Milano ottenne un altro rifiuto[1]. Il 9 giugno, raggiunse allora il generale Giovanni Durando in marcia con le truppe dell’ex esercito pontificio verso Vicenza e qui fu coinvolto nella Battaglia di Monte Berico del giorno dopo, durante la quale fu colpito all’addome. Per la grave ferita rimase convalescente fino all’ottobre 1848. Durante questo periodo, grazie all'interessamento di Manfredo Fanti[1], gli fu confermato il grado di colonnello ottenuto in Spagna e, rimessosi, l’11 novembre fu destinato al comando del 23° Reggimento di fanteria, inquadrato nell’Esercito piemontese e formato da volontari ed ex soldati parmensi e modenesi[6]. Si trattava di una truppa con poca esperienza alla quale egli seppe imporre in breve una ferrea disciplina, ricorrendo anche a sistemi di estrema durezza[1].

Con la ripresa della guerra, nel marzo del 1849, il suo reggimento entrò a far parte della 2ª Divisione del generale Michele Bes che il 22 si trovò impegnata nella battaglia di Novara. Le preponderanti forze austriache costrinsero il 23° Reggimento a retrocedere, senza che la ritirata, però, si trasformasse in rotta. La strenua resistenza di Cialdini gli fece ottenere la medaglia d’argento al valor militare, che si aggiunse a quella ottenuta a Vicenza. Terminata la guerra, il 23° Reggimento di fanteria fu sciolto e a Cialdini fu assegnato il comando del 14° di fanteria[6].

La guerra di Crimea e la carriera (1850-1859)

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Cialdini mantenne la carica di comandante del 14° Reggimento di fanteria per cinque anni. Dopo i quali, una volta che il Regno di Sardegna decise di partecipare alla guerra di Crimea al fianco di Gran Bretagna, Francia e Impero ottomano contro la Russia, gli fu assegnato il comando della 3ª Brigata. Cialdini si imbarcò con le sue truppe per il Mar Nero nel maggio del 1855 e il 1° agosto fu promosso generale maggiore: grado consono al comando che aveva ottenuto. Durante la Campagna di Crimea l’esercito piemontese fu coinvolto in un’unica battaglia, quella della Cernaia, alla quale il reparto di Cialdini non partecipò. Cialdini si distinse tuttavia nell’attività di risollevare il morale delle truppe piemontesi, falcidiate dalle malattie che mietevano migliaia di vittime in tutti gli schieramenti[6].

Terminata la guerra di Crimea, Cialdini tornò a Torino e fu nominato aiutante di campo di re Vittorio Emanuele II. Successivamente ebbe la carica di ispettore dei bersaglieri; di ispettore della Scuola di Fanteria di Ivrea; di direttore generale del Campo di addestramento di San Maurizio, presso Torino; e, quando la seconda guerra d’indipendenza era alle porte, fu incaricato di organizzare i Corpi di fanteria leggera dei Cacciatori delle Alpi e dei Cacciatori degli Appennini[6].

La seconda guerra d’indipendenza (1859)

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La conquista di Palestro da parte della divisione di Cialdini[N 3]
 
Il generale Cialdini fu il protagonista della vittoria piemontese alla battaglia di Palestro

Scoppiata la seconda guerra d’indipendenza il 27 aprile 1859, tra piemontesi e francesi da un lato e austriaci dall’altro, a Cialdini fu affidata la 4ª Divisione, costituita dalle brigate “Regina” e “Savona”. Nei primi giorni i suoi reparti si batterono con il nemico a Frassineto, e presso il ponte sul Po di Casale Monferrato l’8 maggio; entrarono a Vercelli il 29 e il giorno dopo conquistavano Palestro[6]. Qui, Il 31 maggio, Cialdini ottenne una delle sue vittorie più significative, in una battaglia durante la quale la sua 4ª Divisione ottenne il disorientamento dell’esercito austriaco che non riuscì a contenere la manovra aggirante da nord di Napoleone III. Per questo successo Cialdini fu promosso tenente generale per meriti di guerra[7].

Dopo i fatti di Palestro egli si portò con i suoi uomini in Lombardia sino al fiume Chiese e si incontrò con Giuseppe Garibaldi il 15 giugno a Sant’Eufemia di Rezzate, presso Brescia, per dare manforte alle sue truppe. Successivamente, per difendere i passi alpini, fu inviato a prendere possesso della Valle Sabbia, della Val Trompia e della Val Camonica. Conclusasi la guerra con l’armistizio di Villafranca nel luglio 1859, Cialdini rimase a Brescia fino al marzo 1860, quando gli fu assegnato il comando del 4° Corpo d’armata[7].

La Campagna piemontese in Italia centrale (1860)

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Contro l’esercito pontificio

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La battaglia di Castelfidardo contro i pontifici fu tra i più grandi successi militari di Cialdini[N 4]
 
Il generale pontificio che si batté contro Cialdini nella battaglia di Castelfidardo fu Christophe Lamoricière[N 5]

Durante la Spedizione dei Mille di Garibaldi in Italia meridionale, il governo piemontese e Vittorio Emanuele II decisero di intervenire in Italia centrale. Così, il giorno dell’entrata di Garibaldi a Napoli, il 7 settembre 1860, Vittorio Emanuele II nominò Manfredo Fanti comandante dell’armata che avrebbe dovuto intervenire nello Stato Pontificio. Essa era composta dal 4° Corpo di Cialdini e dal 5° Corpo del generale Enrico Morozzo Della Rocca. L’11 settembre Fanti diede l’ordine di passare il confine. Iniziava la Campagna piemontese in Italia centrale. I reparti di Cialdini erano composti dalla 13ª Divisione del generale raffaele Cadorna, in marcia verso Urbino, e dalla 4ª e dalla 7ª Divisione, entrambe sotto il comando diretto di Cialdini, in marcia in direzione di Fano e Pesaro. Il 5° Corpo di Della Rocca, invece, seguendo la valle del Tevere, prese la strada per Perugia[7].

Nei primi giorni le truppe di Cialdini conquistarono Pesaro e Fano e il 13 settembre costrinsero i battaglioni del generale pontificio Raphael de Courten a ritirarsi verso Ancona, dove le forze pontificie cercarono di concentrarsi in attesa degli aiuti via mare dalle nazioni conservatrici. Per prevenire tale piano, Alle truppe del generale pontificio Christophe de Lamoricière venne sbarrato il passo il 16, con l’occupazione delle alture fra i fiumi Aspio e Musone, e delle strade che da Recanati e Loreto conducono ad Ancona. Ma Lamoricière, congiunte le sue forze con quelle del generale Georges de Pimodan, tentò di aprirsi un varco tra le fila del 4° Corpo piemontese e il giorno 18 fu sbaragliato nella battaglia di Castelfidardo, probabilmente il successo più notevole della carriera militare di Cialdini[7].

Per sfruttare la vittoria, Cialdini inviò truppe a occupare Recanati, onde evitare che i pontifici potessero ritirarsi verso sud, e a Loreto furono catturati 150 ufficiali, 4.000 fra soldati e sottufficiali e 11 cannoni pontifici. Altri 2.000 nemici, che erano riusciti a fuggire, incontrarono le forze di Della Rocca e di Cadorna e furono fatti prigionieri. Battuto l’esercito pontificio, il 4° e il 5° Corpo si unirono per mettere sotto assedio la città di Ancona che cedeva alle operazioni condotte dal generale Fanti il 29 settembre 1860[7].

Contro l’esercito borbonico

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Con la caduta di Ancona, l’Umbria e le Marche passavano nei domini di Vittorio Emanuele II che prese il comando delle forze dirette al confine del Regno delle Due Sicilie, nel quale risalivano verso nord le truppe di Giuseppe Garibaldi. Il 4° e il 5° Corpo piemontesi procedettero uniti fino a Pescara, per poi dividersi allo scopo di aggirare separatamente il massiccio della Maiella, e riunirsi a Isernia. L’esercito borbonico, disposto sul Volturno, cercò di contrastare l’avanzata piemontese con le truppe del generale Luigi Scotti Douglas, contro le quali convergevano quelle di Cialdini, appena nominato generale d’armata per la vittoria di Castelfidardo. Una prima avanguardia delle truppe di Cialdini occupò da Roccaraso il valico del Macerone, dove, la mattina del 20 ottobre 1860, nell’omonima battaglia, si ebbe la sconfitta e lo sbandamento delle truppe borboniche di Scotti Douglas. Cialdini fu anche il protagonista della seuccessiva vittoria piemontese nella battaglia di San Giuliano del giorno 26[8]. Così, l’esercito di re Francesco II preso da nord e da sud, fu costretto a ripiegare in parte su Gaeta, dove si approntò la fortezza per l’ultima resistenza[7].

Gli assedi di Gaeta e di Messina (1860-1861)

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Durante l’assedio piemontese di Gaeta, capeggiato da Cialdini, la regina di Napoli Maria Sofia di Baviera incitò i soldati borbonici alla resistenza[N 6]

Il 5 novembre 1860 Cialdini ricevette l’ordine di prendere il comando dell’assedio di Gaeta, residenza della corte e del governo borbonici. La piazzaforte, nella quale i difensori resistevano nella speranza di ricevere aiuti dal mare dalle potenze conservatrici, era munitissima di viveri, munizioni, di una guarnigione di 20.000 uomini e di 170 cannoni. Di questo assedio Cialdini ebbe il comando supremo. Diresse sia le operazioni di terra che quelle dal mare. Presente ai fatti di prima linea, era assiduamente in contatto con la truppa, con il governo di Torino, con il dipartimento di Napoli e con la flotta. L’assedio proseguiva fra sortite dei difensori e tregue organizzate dal capo del governo piemontese, Camillo Benso, conte di Cavour, per convincere con azioni diplomatiche la corte borbonica all’armistizio. Fu tuttavia dopo l’esplosione del 5 febbraio 1861 di una polveriera fra le più importanti della fortezza, che si cominciò a parlare di resa; finché, il 13 febbraio, nella villa di Caposele in Castellone, presso Formia, non fu firmata la capitolazione definitiva[7].

Dopo la vittoria Cialdini inviò alle sue truppe il seguente messaggio:

«[...] Soldati! Noi combattemmo contro Italiani, e fu questo necessario, ma doloroso ufficio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioja, non potrei invitarvi agli insultanti tripudj del vincitore.
Stimo più degno di voi e di me radunarvi quest’oggi sull’istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee quanto sui baluardi nemici.
La morte copre di un mesto velo le discordie umane e gli estinti son tutti eguali agli occhi dei generosi.
Le ire nostre d’altronde non sanno sopravvivere alla pugna.
Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona.
Enrico Cialdini, 17 febbraio 1861»

Alla notizia della resa di Gaeta il Parlamento piemontese votò un messaggio di plauso all’indirizzo di Cialdini, così come vive congratulazioni gli giunsero da Vittorio Emanuele II e dal governo che decretò a suo favore una pensione annua di 10.000 lire. Somma che Cialdini rifiutò, ottenendo da Cavour il ritiro del decreto legge[7].

Ma in Sicilia resisteva ancora la cittadella di Messina che, al comando del generale Gennaro Fergola, costituiva l’ultimo baluardo della presenza borbonica sull’isola[7]. Cavour vi volle inviare Cialdini, che vi sbarcò il 27 febbraio e che iniziò il bombardamento della piazzaforte il 4 marzo, ottenendone la resa il 12. Il 17 marzo 1861 nasceva il Regno d’Italia[9].

La repressione del brigantaggio (1861)

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Nel giugno del 1861 fu chiaro che la politica conciliatoria del luogotenente Gustavo Ponza di San Martino, nominato da Cavour, non aveva avuto successo. La ribellione antiunitaria dilagava in diverse contrade dell’Italia meridionale e l’esercito non riusciva a gestire la situazione. Il nuovo governo di Bettino Ricasoli decise quindi di inviare Cialdini per reprimere con la forza il fenomeno[9][10].

L’organizzazione

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I metodi cruenti adottati da Cialdini nel 1861 contro il brigantaggio non risolsero il problema[N 7]
 
Il capo del governo di Destra Bettino Ricasoli affidò a Cialdini il compito di reprimere il brigantaggio

Dopo un grave alterco con Garibaldi che aveva severamente criticato la decisione di Cavour di abolire l’Esercito meridionale, nel luglio del 1861, Cialdini arrivò a Napoli[9] con l’ordine di eliminare il brigantaggio e di convincere la popolazione locale che l’unità del Paese non era una situazione momentanea. Cialdini era coadiuvato da ufficiali e generali piemontesi che avevano combattuto nelle guerre d’indipendenza: Luigi Bianchis di Pomaretto, Gustavo Mazè de la Roche, Emilio Ferrero, Giacinto Avenati, Paolo Franzini Giuseppe Govone e Onorato Rey di Villarey; ma anche da generali che provenivano dal resto del Paese, come Ferdinando Pinelli, Raffaele Cadorna e Luigi Seismit Doda. Nell’entourage di Cialdini non mancavano neppure ex garibaldini, come il napoletano Enrico Cosenz e il palermitano Vincenzo Giordano Orsini, nonché ufficiali dell’ex esercito toscano, come Luigi Stefanelli (1803-1883) e dell’ex esercito pontificio come Pietro Quintini. A capo dei carabinieri figurava invece il piemontese Trofimo Arnulfi[11].

Cialdini accentrò su se stesso tutti i poteri. Ponza di San Martino, vistosi, di fatto, estromesso, si dimise e Cialdini, nominato luogotenente del Re, volle dare al mantenimento dell’ordine nella città di Napoli la prima priorità della sua missione. Diede alle comunicazioni la massima importanza, istituendo attivi uffici telegrafici e facendo di Palazzo Reale e della prefettura i centri di smistamento delle informazioni e degli ordini militari[12]. Pur mantenendo il comando generale, mise alla direzione dell’amministrazione civile Girolamo Cantelli, parmense e vicino a Ricasoli[13]. Annullando un ordine precedente, consentì ai briganti che volevano arrendersi di poterlo fare, e costituì un comando operativo formato dai napoletani Francesco Carrano (1815-1890), uomo di Cavour, nominato ispettore generale della guardia nazionale; ed Enrico Cosenz, esponente del mondo garibaldino; ai quali affiancò Nicola Fabrizi, mazziniano[14].

Non disponendo di truppe sufficienti per le operazioni di contenimento e repressione del fenomeno, Cialdini ordinò che ogni città fornisse due compagnie di guardie nazionali[9]. E, rifacendosi a un precedente storico che risaliva al periodo napoleonico, a fine luglio 1861 decise che le colonne mobili di soldati dovevano essere composte da due compagnie di fanteria regolari e due di guardie nazionali. Le formazioni di volontari meridionali arruolati nella guardia nazionale si formarono rapidamente e un loro contingente di 15.000 uomini fu posto al controllo di Napoli, così che l’esercito regolare potette essere impiegato nelle campagne. Cialdini, inoltre, mise a capo della questura di Napoli il pugliese Carlo Aveta e, soprattutto, il casertano Nicola Amore[15].

I risvolti politici

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Molti esponenti della Sinistra si schierarono con Cialdini. Uno di questi fu il calabrese Giovanni Nicotera
 
Cialdini chiamò a far parte del comando contro il brigantaggio l’ex ufficiale borbonico Enrico Cosenz

Forti si rivelarono le pressioni politiche su Cialdini. Soprattutto l’opposizione al governo Ricasoli si dimostrò particolarmente intransigente nei confronti dei briganti. La Sinistra lamentava il fatto che non si facesse abbastanza contro i borbonici e che li si tollerava. L’importante esponente di Sinistra Giovanni Nicotera, calabrese, protestò vivamente per il fatto che il brigantaggio avesse preso dimensioni “spaventevoli”. Così come il giornale napoletano e mazziniano Popolo d’Italia, che dalle proprie pagine invitò Cialdini ad annientare qualsiasi opposizione all’unità d’Italia e di confiscare i beni religiosi e quelli borbonici. Cialdini, allora, allo scopo di operare senza ostacoli contro i briganti e i borbonici, scavalcò le prerogative del governo nazionale e si accordò con le forze dell’opposizione. Gli furono favorevoli Garibaldi con i suoi seguaci Antonio Mordini, Francesco Crispi, Nicolò Mignogna e Nicotera, nonché il repubblicano Aurelio Saffi. L’accordo, accettato da Ricasoli, costituì, di fatto, un’intesa di unità nazionale contro i briganti e i borbonici. Ma Cantelli, che non condivideva questa politica, si dimise[16].

Conseguenza di questi riscontri politici fu, a fine luglio 1861, l’ordine di Cialdini di arrestare, imbarcare e condurre in esilio il cardinale di Napoli Sisto Riario Sforza, sospettato di essere uno dei sostenitori della rivolta antiunitaria[17]. Ciò avvenne in un contesto di lotta a una cospirazione borbonica che portò all’arresto di alcuni gregari e alla fuga dei capi del complotto, tra cui comparivano il napoletano Achille Caracciolo di Girifalco (1829-1863) e il francese Emile Theodule de Christen[18].

La questione del brigantaggio era anche all’attenzione delle potenze europee e il governo italiano doveva rispondere alle voci che si diffondevano all’estero di fucilazioni ingiustificate della popolazione civile. Ricasoli, allora, il 23 luglio 1861, dovette avvisare (in francese) Cialdini di «Sparare ampiamente al momento dell’azione, ma senza fare troppo clamore o troppi proclami»[19].

I combattimenti

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Cialdini beneficiò di una sostanziale alleanza fra Destra e Sinistra per eliminare con la forza il brigantaggio
 
Uno degli ufficiali più duri di Cialdini fu il colonnello piemontese Paolo Franzini

Se il brigantaggio divampò nel luglio 1861, soprattutto nelle zone interne, ad agosto ci furono i combattimenti più cruenti. L’azione frammentata degli insorti costringeva alla dispersione delle forze di repressione. Presso Benevento, a Pontelandolfo, si verificò l’episodio più emblematico quando, l’11 agosto, un reparto del 36° Reggimento di fanteria fu circondato e assalito dai briganti. I prigionieri furono mutilati e uccisi, così come diversi abitanti della zona che avevano dimostrato simpatie per la causa liberale e unitaria. Cialdini decise per una risposta energica. Inviati rinforzi, diede personalmente l’ordine di effettuare una rappresaglia che, nonostante i briganti fossero riusciti a ritirarsi, coinvolse gli abitanti di Pontelandolfo, parzialmente dato alle fiamme, e Casalduni. I gravi fatti di Pontelandolfo e Casalduni non costituirono un evento decisivo della guerra al brigantaggio. Divennero, tuttavia, un importante riferimento per la propaganda e la cultura legittimista[20].

Dopo questi avvenimenti, l’ex generale borbonico Tommaso Clary che guidava il comitato legittimista di Marsiglia, decise di voler riconquistare il Regno delle Due Sicilie approfittando dello stato di confusione dell'ordine pubblico. Il progetto fu di organizzare una spedizione militare a circa 60 anni da quella del cardinale Fabrizio Ruffo che, sbarcato in Calabria nel 1799 con pochi uomini, aveva riconquistato il Regno di Napoli sconfiggendo la Repubblica partenopea.

Avendo degli agenti negli ambienti dell’ex sovrano Francesco II, gli italiani seppero di questi progetti, e quando a metà settembre la spedizione borbonica capeggiata dal generale legittimista spagnolo José Borjes, sbarcò presso Reggio Calabria, Cialdini riuscì a fronteggiarla con decisione. Respinto da Platì, Borjes si ritirò e Cialdini lo inseguì con un gruppo d’assalto dei bersaglieri e con la Brigata “Pisa”. A queste forze si unirono i garibaldini calabresi con Agostino Plutino, nonché la milizia di Reggio Calabria. Intanto però Borjes era riuscito a scappare e a unirsi al capo briganti Carmine Crocco. Cialdini decise allora di sostituire il generale Ferdinando Pinelli con il colonnello Paolo Franzini, che si dimostrò ancora più duro del predecessore. Soprattutto nei pressi di Nola e in Irpinia il suo pugno di ferro fu spietato, fucilando i briganti catturati e coloro che li assistevano. Visti, però, i risultati di tali sistemi e l’avversione di Cialdini per le disposizioni del governo, Ricasoli decise di abolire l’istituto della Luogotenenza e di inviare nel novembre 1861 a Napoli Alfonso La Marmora[21].

Dall’Aspromonte al comando di Bologna (1862-1866)

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Cialdini ebbe il delicato incarico di fermare i garibaldini diretti alla volta di Roma. L’azione da lui guidata portò alla giornata dell'Aspromonte e al ferimento e all’arresto di Giuseppe Garibaldi[N 8]
 
Per fermare la marcia di Garibaldi il capo del governo Urbano Rattazzi inviò Cialdini in Sicilia[N 9]

Nel 1862 si cominciò a diffondere la notizia che Garibaldi aveva intenzione di partire dal suo ritiro di Caprera per capeggiare una spedizione con il presunto compito di puntare su Roma e liberarla dal giogo pontificio. Alle prime mosse concrete di Garibaldi che era partito da Catania ed era sbarcato con alcuni uomini a Melito, presso Reggio Calabria, il 24 agosto 1862, il nuovo capo del governo Urbano Rattazzi inviò Cialdini in Sicilia come Regio Commissario straordinario[9]. Il compito affidatogli era quello di fermare Garibaldi, la cui temuta azione su Roma avrebbe destabilizzato il Paese e, soprattutto, gravemente danneggiato le relazioni diplomatiche con la Francia che si riservava il diritto di difendere quello che rimaneva dello Stato Pontificio.

Cialdini sbarcò a Messina e ordinò al colonnello Emilio Pallavicini di intercettare e arrestare la colonna di Garibaldi formata da circa duemila uomini. Il 29, che sarà ricordato come la giornata dell'Aspromonte, in un breve scontro a fuoco presso il comune di Sant’Eufemia le truppe italiane, in maggioranza numerica, ebbero la meglio e Garibaldi, ferito, fu tratto in arresto[9].

Dopo questi fatti Cialdini tornò a Bologna dove rimase a capo del 4° Dipartimento militare fino al 1866. Su proposta di Marco Minghetti fu nominato senatore del Regno, il 13 marzo 1864[9].

La terza guerra d’indipendenza (1866)

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Alla vigilia della guerra contro l’Austria, l’esercito italiano fu diviso in due armate: una, capeggiata da Alfonso La Marmora che era, di fatto, anche il capo supremo, sul fiume Mincio, e l’altra, capeggiata da Cialdini, sul fiume Po. Ciò corrispondeva a due diverse concezioni della difesa nazionale.

L’equivoco con La Marmora

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I difficili rapporti di Cialdini con Alfonso La Marmora portarono nel 1866 a diverbi ed equivoci[N 10]
 
Dopo la sconfitta di La Marmora a Custoza, Cialdini fu nominato capo dell’esercito italiano

Il 16 giugno 1866 la Prussia aprì le ostilità contro l’Austria e i suoi alleati tedeschi. L’Italia, che con l’alleanza italo-prussiana si era impegnata a intervenire allo scoppio della guerra, rimase in attesa fino al 23. Il giorno dopo l'entrata in guerra della Prussia, Alfonso La Marmora lasciò, infatti, Firenze per recarsi a Cremona quale capo di stato maggiore, ma si fermò a Bologna per incontrare Cialdini. Le conclusioni del colloquio non sono note. Entrambi probabilmente furono d’accordo che, dato il terreno, l’ipotesi di un sincronismo delle due armate fosse da scartare. Di conseguenza, una delle due avrebbe fatto un'azione dimostrativa e l’altra un’azione risolutiva[22].

Ma i due generali non si chiarirono. Il 21 giugno Cialdini da Bologna telegrafò di aver bisogno per passare il Po di una «seria dimostrazione»; il che vuol dire che riservava a sé l'azione principale. La Marmora rispose che avrebbe agito energicamente per attrarre su di sé il nemico, senza parlare però di “dimostrazione”, e ciò significa che non si adattava a fare la parte secondaria. Cialdini annunciò pure che non avrebbe potuto iniziare il passaggio del Po che nella notte tra il 25 e il 26 giugno chiedendo che la vigorosa azione dimostrativa avesse luogo il 24. Solo il 23, quindi, l’armata del Mincio di La Marmora si mise in moto e iniziò a passare il fiume a Valeggio e Goito, iniziando così la terza guerra d’indipendenza[23].

La battaglia di Custoza

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Il 24 giugno l’armata di La Marmora fu sconfitta a Custoza. L’evento non fu di per sé grave, lo divenne per gli avvenimenti successivi. La Marmora, paventando l'ipotesi di una manovra aggirante degli austriaci da nord oltre il Mincio, fece saltare tutti i ponti sul fiume e ordinò per la sua armata un ripiegamento fino al basso Oglio. Vittorio Emanuele II, intanto, mentre ancora a Custoza si combatteva, aveva telegrafato a Cialdini di passare all’azione avanzando, ma questi gli rispose che l'avrebbe fatto l'indomani, secondo i piani prestabiliti[24].

Il 25 giugno Cialdini, ancora indeciso, ricevette nel pomeriggio un catastrofico telegramma di La Marmora e rinunciò a passare il Po, iniziando a sua volta la ritirata della sua armata sulla sponda sinistra del fiume Panaro. Il 26 mattina, La Marmora chiese a Cialdini di non abbandonare le sue posizioni, ricevendone un rifiuto. La Marmora diede allora le sue dimissioni di capo di stato maggiore, che sia il Re che il governo respinsero. Dopo un incontro fra i due generali, avvenuto il 29 giugno, Cialdini decise finalmente di passare il Po, non prima, tuttavia, di aver espugnato la testa di ponte austriaca di Borgoforte (sul fiume, 10 km a sud di Mantova). Il 5 luglio iniziò l’assedio della fortezza che, contrariamente alle previsioni, si protrasse fino al 18 luglio[25].

L’avanzata in Veneto

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L’Italia al tempo della terza guerra d’indipendenza

Durante l’assedio, tuttavia, le 7 divisioni del 4° Corpo di Cialdini si concentrarono il 7 luglio a Sermide e il giorno dopo passarono il Po su tre ponti. Gli austriaci, che il 3 erano stati sconfitti dai prussiani a Sadowa, non intervennero. Così, Cialdini l’11 entrò a Rovigo e poi arrivo all’Adige. Nel tentativo di evitare la ritirata degli austriaci dal Veneto fu deciso di indire un consiglio di guerra[9].

Il consiglio di guerra si riunì il 14 luglio a Ferrara. Fu presieduto da Vittorio Emanuele II, presenti il capo del governo Ricasoli, il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, il ministro della Guerra Ignazio Pettinengo, il ministro della Marina Agostino Depretis, il capo di stato maggiore La Marmora e Cialdini. Il consiglio decise che Cialdini avrebbe guidato autonomamente un’armata di 14 divisioni con l'incarico di procedere a marce forzate verso l’Isonzo e, nel caso, verso Vienna; mentre La Marmora, con 6 divisioni, avrebbe mantenuto il blocco delle fortezze del Quadrilatero operando l’assedio di Verona[26]. Lo stesso 14 luglio fu occupata Padova e il 15 luglio, da un'avanguardia, Vicenza[27][28].

Cialdini inviò inoltre a Mestre l’8ª Divisione per minacciare Venezia e a Bassano la 15ª, per chiudere lo sbocco della Valsugana e proteggere le operazioni di Garibaldi in attività nel Trentino. Successivamente, preceduto dal Corpo del generale Cadorna, si mise in marcia verso Udine. Ma il 24 ci fu una prima tregua e[29] il 29 luglio l’Italia aderiva all’armistizio.

Le vicende politiche (1866-1892)

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Da senatore del Regno Cialdini difese sempre le ragioni dell’esercito italiano
 
I funerali di Cialdini a Livorno

Terminata la guerra, Cialdini fu nominato capo di stato maggiore al posto di La Marmora che, dopo la battaglia di Custoza era caduto in disgrazia. Il 18 ottobre 1866 tornava a capo del Dipartimento militare di Bologna. La guerra franco-prussiana del 1870, intanto, evidenziava a tutti l’inadeguatezza dell’esercito italiano. Cialdini parò al Senato rimproverando al governo lo stato di abbandono delle forze armate[29]. Egli disse:

«Si cessi l’ignobile commedia di oltraggiare l’esercito quando si crede di non averne bisogno, e di fare il solito appello alla sua abnegazione e alla sua virtù, appena sorga una nube sull’orizzonte»

Il 18 dicembre 1870, Vittorio Emanuele II nominava Cialdini “Duca di Gaeta”. Nel frattempo, dopo un breve periodo in Spagna alla corte di Amedeo di Savoia, Cialdini, nel 1873, soggiornò prima a Pisa e poi a Livorno, senza alcun incarico. Finché nel 1876, decise di accettare la nomina ad ambasciatore a Parigi, ma dopo il Congresso di Berlino del 1878 (con il quale l’Italia non ottenne alcun compenso) e la disputa per Tunisi con la Francia, nel 1881 si dimise e lasciò Parigi[29].

Ritiratosi a vita privata e abbandonata la vita politica, sociale e militare, preferì non intervenire più su qualunque argomento. Fino a quando, ammalatosi di una patologia che lo costrinse a lunghe sofferenze, non si spense a 81 anni, l’8 settembre 1892. Conservò fino all’ultimo le sue facoltà mentali e chiese di essere sepolto nel cimitero di Pisa, accanto alla moglie[29].

Revisione storica della figura di Cialdini

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Cialdini seguito dalla fanteria alla battaglia di Castelfidardo nel monumento nazionale delle Marche
 
Monumento a Cialdini a Castelvetro di Modena
 
Cialdini fu tanto popolare che gli furono intitolate delle composizioni per pianoforte
 
La tomba monumentale di Cialdini al cimitero di Pisa

Onorato fino al giorno della morte, per i contemporanei fu figura eroica dell'epopea dell'Unità di Italia in quanto «vincitore di Palestro, Castelfidardo e di Gaeta» e «L'ultimo dei nostri eroi che se n'è ito; il più illustre rappresentante dell'esercito piemontese, poscia italiano, nelle campagne dell'indipendenza». Fu tuttavia figura non esente da critiche: già subito dopo la morte, nel 1892, di lui si scriveva che «l'uomo aveva dei difetti: vi sono dei punti neri nel quadro luminoso» ma era comunque descritto come «baldo, intelligente, arditissimo, un po' violento, un poco spagnuolo»[30].

In certa rilettura critica recente dei fatti del Risorgimento italiano Cialdini è stato, a partire dai primi anni del XXI secolo, al centro di critiche per i duri metodi adottati nelle fasi centrali della lotta al brigantaggio nel Mezzogiorno d'Italia, risultando uno dei militari più discussi del periodo.

La figura di Enrico Cialdini, lungamente considerata eroica dalla storiografia risorgimentale, è stata oggetto di un processo di revisione storica che lo ha fatto diventare il centro di numerose critiche e disconoscimenti. In particolare, il comune di Pontelandolfo, in provincia di Benevento, è stato riconosciuto come luogo della memoria per il massacro perpetrato ai danni di cittadini inermi[31], tanto che l'ex presidente del Consiglio Giuliano Amato ha chiesto ufficialmente scusa alla "città martire" nell'ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell'unificazione italiana[32]. Alle scuse di Amato sono seguite anche quelle di Graziano Delrio, nel 2011 sindaco di Reggio Emilia (città che, oltre ad avere intitolato al generale una strada e il palazzo della questura, ospita anche un busto del generale nel porticato centrale del municipio), pronunciate alla presenza del vicesindaco di Pontelandolfo proprio sotto il busto di Cialdini, non senza qualche imbarazzo dell'amministrazione comunale[33].

Negli anni seguenti l'unità nazionale, non poche città intitolarono piazze o strade a Cialdini, esposero suoi busti o gli concessero la cittadinanza onoraria. Tuttavia, a partire dai primi anni del XXI secolo, diverse città, come Venezia[34], Catania, Palermo[35], Casamassima[36], Barletta[37], Lamezia Terme e Trepuzzi[38] hanno rimosso il suo nome dalle strade precedentemente intitolategli. In quest'ultima città, via Cialdini è stata dedicata ad Angela Romano, una bambina di nove anni presa in ostaggio dai briganti e che sarebbe stata colpita erroneamente nella strage di Castellammare del Golfo[39], mentre Vicenza ha rinominato la piazza dedicata al vicentino Pier Eleonoro Negri, colonnello e luogotenente di Cialdini a Pontelandolfo[40].

Il 26 dicembre 2016 il consiglio comunale di Napoli ha deliberato all'unanimità la mozione indirizzata al sindaco De Magistris affinché sollecitasse la locale Camera di Commercio a rimuovere il busto di Cialdini dal salone delle contrattazioni[41] (busto tuttora nella sua posizione). Il 20 aprile 2017, inoltre, lo stesso comune di Napoli, «come atto di riconoscimento della memoria storica delle vittime delle stragi che il generale Cialdini ha perpetrato nel nostro territorio e nel Mezzogiorno d'Italia», ha ritirato la cittadinanza onoraria che era stata in passato concessa a Cialdini[42].

Eppure la deliberazione, votata all'unanimità dal Decurionato napoletano (antico organo deliberativo comunale) il 21 febbraio 1861[43], appena una settimana dopo la caduta della fortezza di Gaeta ad opera delle truppe comandate da Cialdini, era stata motivata come «testimonianza di riconoscenza» per «la generosità ed il patriottismo mostrato nel vietare ai suoi soldati di festeggiare una vittoria riportata sopra gl'Italiani». Una volta ricevuto l’assenso del Dicastero dell’interno, il 6 aprile il sindaco Giuseppe Colonna di Stigliano (1807-1876) avvisò il governatore della Provincia di Napoli di aver stanziato dieci ducati per spese impreviste, «per far in pergamena ed in ottima calligrafia la deliberazione con la quale questo Decurionato votò la Cittadinanza Napolitana al prode Generale Cialdini, nonché per un corrispondente astuccio in pelle onde inviarla all’illustre Generale, per seta moiré ed altri accessori»[44].

Va inoltre ricordato che la costruzione dell'edificio del palazzo della Borsa di Napoli, dove oggi ha sede la Camera di Commercio, venne avviata nel 1895 proprio grazie ai fondi donati dal generale Enrico Cialdini[45]. A Enrico Cialdini è dedicata una caserma, nel centro storico di Bologna, sede del comando militare della regione Emilia Romagna[46].

Onorificenze

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Enrico Cialdini
Duca di Gaeta
 
Stemma
In carica18 settembre 1870 –
8 settembre 1892
PredecessoreTitolo creato
SuccessoreTitolo estinto
TrattamentoSua Eccellenza
NascitaCastelvetro di Modena, 8 agosto 1811
MorteLivorno, 8 settembre 1892 (81 anni)
Luogo di sepolturaCimitero suburbano di Pisa
PadreGiuseppe Cialdini
MadreLuigia Santyan y Velasco

Enrico Cialdini fu insignito di numerose onorificenze, queste quelle di cui si ha notizia in fonti attendibili[47]:

Onorificenze Italiane

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— Per il comportamento alla battaglia di Monte Berico del 10 giugno 1848[6].
— Per il comportamento alla battaglia di Novara del 21 marzo 1849[6].

Onorificenze straniere

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Esplicative

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  1. ^ Mandato cessato dopo la nomina a senatore.
  2. ^ Cessazione dopo essere stato nominato generale d'armata.
  3. ^ Dipinto di Gerolamo Induno (Olio su tela, 1860).
  4. ^ Dipinto di Giovanni Gallucci.
  5. ^ Dipinto di Horace Vernet.
  6. ^ Dipinto di Karl Theodor von Piloty.
  7. ^ Dipinto di Carlo Arienti.
  8. ^ Dipinto di Gerolamo Induno.
  9. ^ Dipinto di Eliseo Sala.
  10. ^ Dipinto di Carlo Giulini (1826-1887) .

Bibliografiche

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  1. ^ a b c d e f g Giuseppe Monsagrati, CIALDINI, Enrico, Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25, 1981.
  2. ^ Manfredi, p. 5
  3. ^ a b c d Dizionario, p. 684.
  4. ^ a b c d e Dizionario, p. 685.
  5. ^ Una voce della battaglia, assente su es.wikpedia, è presente in quella in lingua catalana (ca:Batalla_de_Xiva_(1838)).
  6. ^ a b c d e f g Dizionario, p. 686.
  7. ^ a b c d e f g h i Dizionario, p. 687.
  8. ^ Carandini, p. 397
  9. ^ a b c d e f g h Dizionario, p. 688.
  10. ^ Pinto, pp. 124-125
  11. ^ Pinto, pp. 125-126
  12. ^ Pinto, p. 127
  13. ^ Pinto, p. 101
  14. ^ Pinto, pp. 127-128
  15. ^ Pinto, p. 130
  16. ^ Pinto, pp. 128-129
  17. ^ Pinto, p. 282
  18. ^ Pinto, p. 299
  19. ^ Pinto, p. 103
  20. ^ Pinto, pp. 132-133
  21. ^ Pinto, pp. 106, 134-135
  22. ^ Pieri, pp. 751-752.
  23. ^ Pieri, p. 752.
  24. ^ Pieri, p. 759.
  25. ^ Pieri, pp. 759-760.
  26. ^ Pieri, p. 763.
  27. ^ La guerra del 1866 pp.325-328
  28. ^ Storia militare del Veneto. (2015)
  29. ^ a b c d e Dizionario, p. 689.
  30. ^ Manfredi, p. 4.
  31. ^ Il massacro dimenticato di PontelandolfoQuando i bersaglieri fucilarono gli innocenti, su la Repubblica, 27 agosto 2010. URL consultato il 24 agosto 2025.
  32. ^ Pontelandolfo, scuse per un massacro - Corriere della Sera, su www.corriere.it. URL consultato il 24 agosto 2025.
  33. ^ Reggio Emilia: strada, caserma e un busto dedicati allo stragista Cialdini, su Gazzetta di Reggio. URL consultato il 24 agosto 2025.
  34. ^ Mestre, cambia il nome di piazzale Cialdini, su La Nuova Venezia, 4 gennaio 2014. URL consultato il 24 agosto 2025.
  35. ^ Antonella Sferrazza, Palermo si sveglia: sì alla mozione contro la via dedicata all'assassino Cialdini. Al suo posto, Giovanni Lo Porto, su I Nuovi Vespri, 23 febbraio 2016. URL consultato il 24 agosto 2025.
  36. ^ OCCHIO ALLE STRADE: VIA CIALDINI CAMBIA NOME. Casamassima Web, accesso il 21 aprile 2017, su casamassimaweb.it. URL consultato il 21 aprile 2017 (archiviato dall'url originale il 21 aprile 2017).
  37. ^ Seduta di Giunta del 31 agosto 2017 - Comune di Barletta - La Città della Disfida, su comune.barletta.bt.it. URL consultato il 18 settembre 2017 (archiviato dall'url originale il 20 settembre 2017).
  38. ^ Trepuzzi una via intestata a Teresa Russo
  39. ^ Saverio Paletta, Angelina Romano, dalla tragedia alla bufala, in indygesto.com, 27 maggio 2019.
  40. ^ A Vicenza adesso c’è «piazza Pontelandolfo» il mattino.it
  41. ^ Napoli, il Consiglio all’unanimità: «Rimuovere il busto di Cialdini», su Corriere della Sera, 26 dicembre 2016. URL consultato il 24 agosto 2025.
  42. ^ Al generale Enrico Cialdini revocata la cittadinanza onoraria di Napoli, su www.ilmattino.it, 20 aprile 2017. URL consultato il 24 agosto 2025.
  43. ^ Consultabile, in estratto conforme, nella busta 212, fascicolo 1, del fondo Prefettura presso l’Archivio di Stato di Napoli; il fascicolo comprende un incartamento intitolato «Cittadinanza offerta dal Decurionato di Napoli al Generale Cialdini ed al suo Corpo di esercito»
  44. ^ Lorenzo Terzi, Garibaldi e Cialdini napoletani onorari, in indygesto.com, 25 agosto 2020.
  45. ^ PALAZZO DELLA BORSA DI NAPOLI, in napoli-turistica.com, 6 febbraio 2019.
  46. ^ Bologna Online, su www.bibliotecasalaborsa.it. URL consultato il 21 marzo 2023.
  47. ^ Sito del Senato, su patrimonio.archivio.senato.it. URL consultato il 5 settembre 2025.

Bibliografia

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