Battaglia di Lepanto
Battaglia di Lepanto | |
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La battaglia di Lèpanto, detta anche delle Echinadi o delle Curzolari (chiamata Epaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e İnebahtı in turco), è uno storico scontro avvenuto il 7 ottobre 1571, nel contesto della guerra di Cipro, tra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa che riuniva le forze navali di Venezia, della Spagna (con Napoli e Sicilia), di Roma, di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Ducato d'Urbino e del Granducato di Toscana, federate sotto le insegne pontificie.
La battaglia, terza in ordine di tempo e la maggiore svoltasi a Lepanto, si concluse con una schiacciante ma marginale vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Mehmet Alì Pascià, che perse la vita nello scontro.
Prologo
La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta (o Famagusta; in greco Ammocosthos; in turco Gazimağusa), sull'isola di Cipro, assediata dai Turchi e strenuamente ma invano difesa dalla guarnigione locale.
L'occupazione ottomana dell'isola fu legittimata dalla necessità di bloccare gli scali portuali da cui i pirati cristiani erano soliti salpare per depredare le navi turche dirette alla capitale. L'isola inoltre fu in passato un possedimento mussulmano, solo di recente aggregata alla sfera d'influenza di Venezia, città peraltro assai distante a livello geografico. I sultani ottomani dunque si sentirono legittimati a rivendicare il controllo di Cipro, giovandosi, fra l'altro, del favore con cui sarebbe stata accolta la dominazione turca dalla popolazione locale, che rimproverava ai veneziani un'eccessiva ingerenza ed un troppo duro sfruttamento.
In realtà, comunque, il contesto più generale è quello di una lotta generalizzata per il controllo del Mediterraneo. Benché tra Oriente e Occidente gli scambi di persone, merci, denaro e tecniche non cessarono mai e anzi furono sempre intensissimi, il crescente espansionismo ottomano nel Mediterraneo in quegli anni preoccupava sempre più i governi: esso minacciava infatti non solo i possedimenti veneziani come Cipro, ma anche gli interessi spagnoli per via della pirateria. Consapevole di questa tensione crescente, Pio V ritenne allora che il momento fosse propizio per coalizzare in una Lega Santa le troppo divise forze della cristianità, alimentando lo spirito di Crociata per creare coesione intorno alla Chiesa.
Il vessillo, benedetto dal Papa, giunse a Napoli il 14 agosto 1571, dove venne consegnato solennemente a Don Giovanni d'Austria, nella basilica di Santa Chiara.
Come base di ricongiungimento dell'armata cristiana era stata scelta Messina, situata in posizione strategica rispetto al teatro d'operazioni. Qui, a partire dal luglio 1571, dopo mesi di difficoltose trattative, conversero le flotte alleate, giungendo dai rispettivi scali di partenza. Ai primi di settembre, la flotta della Lega era riunita al gran completo nel porto siciliano: al comando di Don Giovanni erano 209 galere (di cui 203 o 204 avrebbero effettivamente preso parte alla battaglia) e 6 galeazze, oltre ai trasporti e al naviglio minore. Le forze risultavano così composte: 12 galere del papa (armate dal granduca di Toscana), 10 galere di Sicilia, 30 galere di Napoli, 14 galere di Spagna, 3 galere di Savoia, 4 galere di Malta, 27 galere di Genova (di cui 11 appartenenti a Gianandrea Doria), 109 galere e 6 galeazze di Venezia (di cui 60 galere giunte da Candia).
Giungendo in cerca di riparo dalla nebbia e dal forte vento nel porto di Viscando, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, la flotta cristiana fu raggiunta dalla notizia della caduta di Famagosta e della fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza[1].
Il 1° agosto i veneziani si erano arresi e venne raggiunto rapidamente un accordo con Mustafà: sarebbero state messe a disposizione delle imbarcazioni per condurre i veneziani a Candia, inoltre la popolazione civile non avrebbe dovuto essere molestata. Nel documento di capitolazione il comandante turco si impegnava promettendo e giurando per Dio et sopra la testa del Gran Signore di mantenere quanto nei capitoli si conteneva.
Qualche giorno dopo però, alla consegna delle chiavi della città ai nuovi possessori, ci furono degli scontri tra Bragadin e il comandante turco, che irrimediabilmente portarono alla rottura dell'accordo. Sembra che Mustafà si sia inizialmente adirato con Bragadin e i suoi capitani dopo aver scoperto dell'uccisione durante la tregua di decine di soldati turchi prigionieri dei veneziani, vicenda testimoniata da alcuni fuggiaschi che avevano raccontato l'accaduto. Inoltre Bragadin si oppose alla volontà del Pascià di lasciare a Famagosta uno dei suoi capitani come garanzia del ritorno delle imbarcazioni turche al porto. La richiesta di trattenere un comandante italiano come ostaggio era ragionevole, ma viziata dall’errore di non essere stata inserita direttamente nel capitolato del 1° agosto.
Certamente l'ostinazione e l'insolenza di Bragadin scatenarono la rabbia di Mustafà[2], che a sua volta ebbe una reazione di eccessiva violenza, tanto da guadagnarsi una volta tornato in patria molta disapprovazione ed un aspro rimprovero da parte dello stesso sultano. Infatti Mustafà fece imprigionare i veneziani sulle galere turche, fece decapitare i capitani al seguito di Bragadin e infine quest'ultimo dopo una serie di torture venne scorticato vivo[3]. La sua pelle venne poi riempita di paglia e innalzata sulla galea del Pascià, che la condusse a Costantinopoli.
Nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare verso Cefalonia, sostandovi brevemente, e giungendo, il 6 ottobre davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la potente flotta che i cristiani sapevano essergli stata opposta dagli Ottomani. Si noti che tutti i principali Stati d'Italia e le più grandi potenze europee dell'epoca, come ad esempio la Spagna, dovevano coalizzarsi per poter sperare di battere l'Impero ottomano, sintomo questo della potenza della Sublime Porta. Tra l'altro i turchi non erano un popolo che vantava particolari attitudini alla vita marinara; la forza del loro esercito, più che per l'armamento o per la tecnica e strategia militari, in cui non superavano per qualità i contingenti occidentali, si manifestò tale soprattutto per il tenace spirito di coesione e solidarietà, che tradizionalmente contraddistingueva i corpi armati ottomani.
Il 7 ottobre 1571, domenica, Don Giovanni d'Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia: non più di 150 metri separavano le galee.
Descrizione della battaglia
Schieramento
Flotta della Lega
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3 maltesi, 1 sabauda, per un totale di 62 galee e 2 galeazze. Lo comandava Don Giovanni d'Austria Comandante Generale dell'imponente flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II aveva già dato ottima prova di sé nel 1568 contro i pirati barbareschi. Con lui a bordo Francesco Maria II della Rovere - figlio ed erede del Duca Guidobaldo II della Rovere - Capitano Generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato d'Urbino. Affiancavano per ragioni di prestigio la galea Real spagnola: la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano Generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la Capitana di Ettore Spinola, Capitano Generale genovese, la Capitana di Andrea Provana di Leinì, Capitano Generale piemontese, l'ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano Generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le insegne pontificie, e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano (da non confondere con l'omonimo doge veneziano morto nel 1501).
Il corno destro era invece composto di 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53 galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Alvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi. L'avanguardia, guidata da Juan de Cardona si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.
In totale, la Lega schierò in battaglia una flotta di 6 galeazze e circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di 36.000 combattenti, tra soldati (fanteria al soldo del re di Spagna, pontificia e veneziana), venturieri e marinai, verosimilmente tutti armati di archibugio. A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti sferrati, ovvero tutti i rematori, schiavi esclusi, cui venivano distribuite spade e corazze per prendere parte alla mischia sui ponti delle galere. Quanto all'artiglieria, la flotta cristiana schierava, approssimativamente, 350 pezzi di calibro medio-grande (da 14 a 120 libbre) e 2750 di piccolo calibro (da 12 libbre in giù).
Flotta ottomana
La flotta turca schierata a Lepanto, reduce dalla campagna navale che l'aveva impegnata durante l'estate, era verosimilmente forte di 170-180 galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari. La forza combattente, comprensiva di giannizzeri (in numero tra 2.500 e 4.500), sipahi e marinai, ammontava a circa 20-25.000 uomini. Di questi, sicuramente armata d'archibugio era la fanteria scelta dei giannizzeri, mentre la gran parte degli altri combattenti era armata di arco e frecce. La flotta ottomana, inoltre, era munita di minore artiglieria rispetto a quella cristiana: circa 180 pezzi di grosso e medio calibro e meno della metà degli oltre 2.700 pezzi di piccolo calibro imbarcati dal nemico.
I Turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco, all'ala destra, mentre il comandante supremo Mehmet Alì Pascià (detto il Sultano) al centro conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah. Infine l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì (Giovanni Dionigi Galeni), un apostata di origini calabresi convertito all'Islam (detto Ucciallì), presiedeva all'ala sinistra; le navi schierate nelle retrovie erano comandate da Amurat (Murad) Dragut (figlio dell'omonimo Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli che era stato uno dei più tristemente noti pirati barbareschi).
Esca
Don Giovanni decide di lasciare isolate in avanti, come esca, le 6 potentissime galeazze veneziane, che per prime aprono il fuoco. Essendo le galeazze inabbordabili per la loro notevole altezza, il comandante aveva inoltre deciso di togliervi un gran numero di spadaccini e sostituirli con archibugieri, i quali crearono subito gravi danni alla flotta turca. La potenza di fuoco della flotta cristiana era infatti più forte rispetto a quella nemica, grazie agli armamenti veneziani che negli anni precedenti erano divenuti sempre più poderosi, mentre i turchi non erano riusciti a tenere il passo con le innovazioni, ritrovandosi quindi con un'artiglieria da molti meno pezzi.
Alì non tenta l'abbordaggio delle galeazze, definite dei veri e propri castelli in mare da non essere da umana forza vinti[4], ma decide di superarle e di scagliare tutta la sua flotta in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della nave di Don Giovanni per provare ad ucciderlo demoralizzando così la flotta della Lega Cristiana. Ed essendo in superiorità numerica (167-235) tenta di circondarla, utilizzando la tattica navale classica.
Scontro
Per i cristiani gli scontri all'inizio coinvolgono pesantemente il veneziano Barbarigo, che è alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa; deve parare il colpo del comandante Scirocco, impedire che il nemico possa insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ha solo un parziale successo e lo scontro si accende subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventa teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente alla testa, Barbarigo muore e le retrovie devono correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz le sorti si riequilibrano e così Scirocco viene catturato, ucciso e immediatamente decapitato.
Al centro degli schieramenti Alì Pascià cerca e trova la galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura risolverebbe definitivamente lo scontro. Contemporaneamente altre galee impegnano Venier e Marcantonio Colonna. Molti sono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galea toscana Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano viene quasi interamente ucciso, eccetto il suo comandante Tommaso de' Medici con quindici uomini.
Sulla galea di Don Giovanni invece si ripete lo scontro a cui ha partecipato Barbarigo, e la battaglia frontale si fa cruenta. Con un rumore assordante i Turchi iniziano l'assalto alle navi di Don Giovanni suonando timpani, tamburi, flauti. Il vento è a loro favore. La flotta di Don Giovanni è nel più assoluto silenzio.
Improvvisamente il vento cambia direzione: le vele dei Turchi si afflosciano e quelle dei cristiani si gonfiano. Don Giovanni d'Austria perciò punta fulmineamente diritto contro la Sultana. Il reggimento di Sardegna dà per primo l'arrembaggio alla nave turca, che diviene il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a prua.
Al terzo assalto i sardi arrivano a poppa. Don Giovanni viene ferito ad una gamba. Più volte le navi avanzano e si ritirano, Venier e Colonna devono disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni che sembra avere la peggio assieme all'onnipresente Marchese di Santa Cruz.
Alla sinistra turca, al largo, la situazione è meno cruenta ma un po' più complicata. Giovanni Andrea Doria dispone di poco più di 50 galee, quasi quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto ma davanti a sé trova 90 galee, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani ed oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto; per questo pensa ad una soluzione diversa dallo, scontato negli esiti, scontro diretto. Giovanni Andrea Doria infatti, a un certo momento della battaglia, si sgancia con le sue navi genovesi facendo vela verso il mare aperto.
Eventi del corno destro
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è sempre stato oggetto di disputa da parte dei veneziani: gli antagonisti dei genovesi insinuarono che egli si fosse defilato o per preservare il proprio naviglio o perché obbediva ancora agli ordini di Filippo II o che si era messo d'accordo con Uluc Alì per la reciproca considerazione (anche il comandante barbaresco come il genovese affittava le galee al suo Signore), mentre gli storici genovesi e spagnoli lo difendono definendole di una grande rarità strategica: in realtà nonostante avesse avuto l'ordine, ugualmente al Barbarigo, di difendere e proteggere il fianco della flotta di Don Giovanni per impedire l'accerchiamento delle sue navi che si trovavano sotto un violento attacco frontale, inaspettatamente spaccò il lato destro dello schieramento cristiano, puntando verso il mare aperto e lasciando aperto un buco che una flottiglia di 16 galee cristiane non genovesi (staccatesi dalla flotta principale) vedendo e pensando che il Doria si accingesse ad un vero e proprio sganciamento, si diressero verso il fianco di Uluc Alì per tentare di coprire il fianco destro. A quel punto Uluc Ali si insinuò all'interno della flottiglia genovese, pensando fosse in fuga e attaccando il fianco destro dello schieramento di Don Giovanni, procurandogli forti perdite. Uluc Alì, con il vento in poppa, aggredì da dietro la Capitana, la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine. La Capitana viene circondata da sette galee. Uluc Alì cattura il vessillo dei Cavalieri di Malta, fa prigioniero Giustiniani, che era stato eroicamente ferito sette volte, e prende a rimorchio la Capitana.
Oltre la Capitana di Malta, pagarono cara la "strana" manovra di Gianandrea Doria, anche la Fiorenza e la San Giovanni galee toscane della flotta papale, e la Piemontesa della flotta sabauda, che circondate da un nugolo di galee di Uluc Alì, si votarono lottando, all'estremo sacrificio. Non è stato ancora chiarito il motivo di questa manovra del Doria: fatto sta che non appena visto che Uluc Alì si era impegnato in quella facile battaglia, si diresse immediatamente contro il comandante barbaresco, il quale, vedendolo arrivare, diede l'ordine di sganciare le navi catturate e di ritirarsi, il Doria ritornò nei pressi della battaglia dopo mezz'ora.
Il Papa in seguito minacciò di morte Doria se si fosse presentato a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a starsene lontano: le sue azioni erano, secondo il pontefice, più da corsaro musulmano che da comandante della cristianità; la sua galea e le navi genovesi avevano subito meno perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno generale che fu fatto, non a caso, proprio nella galea di Doria.
Epilogo
Al centro, il comandante in capo ottomano Alì Pascià, già ferito, cade combattendo. La nave ammiraglia ottomana è abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona[5][6]e, contro il volere di Don Giovanni, il cadavere dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià viene decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei Turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i Turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117 vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000 uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000 prigionieri. Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi.
Gli Ottomani avevano salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è dibattuta: secondo alcuni segnò l'inizio del declino della potenza navale ottomana nel Mediterraneo, altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente, riuscendo già l'anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di navi, grossomodo equivalente a quelle messe in campo dalla lega. Queste flotte erano però meno ben armate ed addestrate di quelle precedenti, e dopo Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grosse battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e alla distruzione dei traffici nemici.
Anche da parte cristiana si riaffermò una pirateria attiva. Dopo Lepanto gli occidentali ebbero a disposizione migliaia di prigionieri che furono messi ai remi assicurando, per diversi anni, un motore nuovo alle loro galere[7].
La guerra di Candia, entro cui si può inserire la battaglia di Lepanto, fu inoltre una vittoria ottomana. Solo con l'inizio di una lunga serie di guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta della sublime porta fu messa in parziale disarmo e ridotta. Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo.
I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa dell'Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei tedeschi del 13/09/1943 al cimitero cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei Vechi" e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù denominata fin da allora "Dei martiri". Molti prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente. Quindi le navi fecero rientro a Napoli.
La bandiera della nave ammiraglia turca di Mehmet Alì Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la "Capitana" e la "Grifona", si trova (e ognuno può vederla) a Pisa, nella chiesa dei Cavalieri dell'Ordine Cavalleresco Sacro Militare Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire, fondato da Cosimo I de' Medici granduca di Toscana.
Armamenti
Lo schieramento cristiano vinse grazie alla schiacciante superiorità numerica e alla superiorità dell’equipaggiamento, che compensarono la mancanza di esperienza delle truppe imbarcate, decisivo fu anche il vantaggio insito nella collocazione avanzata delle galeazze e l’enorme sproporzione nel numero dei pezzi d’artiglieria. Inoltre la fanteria era dotata di un superiore armamento individuale: infatti i suoi soldati potevano contare sugli archibugi, come la compagnia di tiratori scelti degli oltre 400 archibugieri di Sardegna, mentre quelli turchi erano ancora armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e giavellotti. la maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del tipo normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di modelli (molto diffusi tra i Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva poi nuotare, i soldati ottomani, e ancor di più quelli barbareschi, preferivano invece indossare armature leggerissime, spesso in cuoio, oppure non indossarle affatto, in modo che se fossero caduti in mare erano sicuri di non affogare.
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei rematori, parzialmente corazzata e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole confondere con vascelli da carico: cosa che tra l'altro capitò ai turchi. Solo sei di queste unità rinforzano lo schieramento cristiano ma saranno tanto devastanti sulle galee nemiche quanto sul morale dei loro equipaggi. Per assurdo, con la galeazza si raggiunge l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo essa ne rappresenta il canto del cigno. Le galee con la loro propulsione a remi verranno progressivamente sostituite da velieri a vela quadra e quindi progressivamente abbandonate.[8]
Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano un buon rapporto gittata-efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti. Naturalmente quel rapporto peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia", si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai vascelli coevi, questo pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo. Le galere grosse e le capitane talvolta avevano dei pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle galere ottomane, e ancor di più di quelle barbaresche, era complessivamente più leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento sulla velocità, sull'agilità e sulla possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non intendevano appesantire i loro scafi. Quindi spesso le loro galere avevano un singolo grosso cannone in caccia (di calibro e potenza superiore a quello delle galere della lega), e pochissimi pezzi d'accompagnamento. Sia la flotta cristiana che quella musulmana prediligevano le costose, ma leggere e sicure, artiglierie in bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa, per lo più fabbricati a Brescia e in Fiandra. I cannoni in ghisa turchi esplodevano ancora più frequentemente di quelli cristiani, e quindi i cannonieri stavano attenti a non riscaldarli troppo, raffreddandoli con pelli di pecora bagnate d'acqua tra un colpo e l'altro.
Per quel che riguarda le armi di piccolo calibro, all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato. Non bisogna sottovalutare l'arco composito (o arco turchesco appunto) che era l'arma più diffusa tra la fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata ed una precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una velocità di ricarica superiore; si trattava però di un'arma meno letale (moltissimi furono i soldati cristiani feriti, ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e non in grado di perforare le pesanti corazze spagnole. Per questo motivo molti giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti, di qualità leggermente inferiore però a quelli prodotti in Italia e in Spagna, e con polveri meno efficienti.
Significato religioso
La battaglia di Lepanto per i Cristiani ebbe un profondo significato religioso, tanto che Pio V concesse l'indulgenza ai combattenti in nome della Crociata contro i musulmani.
Prima della partenza lo stesso pontefice aveva benedetto lo Stendardo di Lepanto raffigurante il Redentore Crocifisso, issato poi sulla nave ammiraglia, la Real, a protezione della flotta.
La vittoria cristiana, accompagnata da solenni Te Deum di ringraziamento, venne quindi attribuita all'intercessione della Vergine Maria, tanto che Papa Pio V nel 1572 istituirà la festa di Santa Maria della Vittoria, successivamente trasformata nella festa del SS. Rosario, per celebrare l'anniversario della storica vittoria ottenuta per intercessione della augusta Madre del Salvatore, Maria.
Conseguenze
La battaglia di Lepanto fu la prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano. La sua importanza fu perlopiù psicologica, dato che fino a quel momento i Turchi erano da decenni in piena espansione territoriale e avevano precedentemente vinto tutte le 8 principali battaglie contro i cristiani d'oriente.[9]
La scarsa coesione tra i vincitori impedì però alle forze alleate di sfruttare appieno la loro vittoria ed ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani. Non solo: l'esercito cristiano non riconquistò neppure l'isola di Cipro, che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano. Questo a causa del volere di Filippo II, il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi vantaggi dalla vittoria, visto che questi ultimi erano i più strenui rivali del progetto politico spagnolo di dominio assoluto della penisola italiana. La Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli. I Veneziani infatti non avevano neanche allora dimenticato il comportamento della flotta spagnola durante la Battaglia di Prevesa, dopo che Carlo V aveva stipulato un trattato con Khayr al-Dīn Barbarossa per distruggere la Repubblica di Venezia. Doria si rifiutò di dar battaglia ai Turchi e si ritirò dopo che molte navi veneziane erano entrate nel vivo del combattimento, sotto l'esplicito ordine dell'imperatore. Il Gran Visir Sokollu disse ai Veneziani che si potevano fidare più del Sultano che degli altri Stati europei, bastava cedere al volere del Sultano.
Dal canto suo, l'Impero Ottomano, sempre nella persona del Gran Visir, esprimeva all’ambasciatore veneziano a Costantinopoli (presumibilmente un anno dopo Lepanto), le sensazioni della Porta sulla differenza tra la nostra e la vostra sconfitta: noi vi abbiamo privato del Regno di Cipro, tagliandovi un braccio. Voi sconfiggendo la nostra flotta, ci avete tagliato la barba. Il braccio non crescerà più, la barba crescerà più folta di prima[10].
Poco dopo Lepanto, la Porta iniziò un’opera di ricostruzione della flotta che si concluse l’anno successivo. A seguito di questo riarmo la marina turca riacquistò la superiorità numerica nei confronti delle potenze cristiane, ma non riuscì a conquistare una sostanziale supremazia nel Mediterraneo, soprattutto nella sua metà occidentale. Le nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname marcio e cannoni mal fusi.
La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Reggenze barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano ottomano, e sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna. Dopo questa battaglia fu chiaro che la flotta turca non era invincibile, mentre la Spagna, pur vittoriosa, era troppo impegnata a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, e quindi le Reggenze barbaresche "rialzarono la testa", guadagnando spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del Sultano.
Protagonisti
Partecipano alla storica battaglia tra gli altri anche: Pietro Lomellini, Antonio Canal, Giorgio Grimaldi e molti altri personaggi appartenenti alle più prestigiose famiglie nobili dell'epoca.
Uno dei più famosi partecipanti alla battaglia fu lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, che venne ferito e perse l'uso della mano sinistra; fu ricoverato a Messina, al ritorno dalla spedizione navale, presso il Grande Ospedale dello Stretto, e si dice che, durante la degenza iniziò il Don Chisciotte della Mancia.
Rappresentazioni artistiche della battaglia
Numerosissime furono, in tutta Europa, le rappresentazioni artistiche realizzate negli anni immediatamente successivi alla battaglia di Lepanto per celebrare la vittoria delle truppe cristiane. Solo per restare in Italia, a Venezia l'episodio fu dipinto da Andrea Vicentino nel Palazzo del Doge a Venezia, sulle pareti della Sala dello Scrutinio; la sua opera sostituiva la Vittoria di Lepanto di Tintoretto, distrutta da un incendio nel 1577. Sempre a Venezia, nelle Gallerie dell'Accademia è esposto il dipinto di Paolo Veronese Allegoria della battaglia di Lepanto. A Roma, Pio V commissionò numerosissime rappresentazioni della vittoria, tra cui quella realizzata dal Vasari ed esposta presso la Sala Regia dei Musei Vaticani.
Note
- ^ [Il supplizio e la morte di Bragadin vanno inquadrati nel solco di quei principi in materia penale che all'epoca, tanto in oriente quanto in occidente, contemplavano torture e sanzioni punitive particolarmente cruente e spietate.]
- ^ Alcuni tra gli storici cristiani che negli anni successivi raccontano l'accaduto sostengono che Mustafà avesse già intenzione di rompere gli accordi, a prescindere dall'atteggiamento di Bragadin. Cfr A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza 2010, pp. 461-472
- ^ Si racconta che durante il supplizio il veneziano continuò fino alla fine ad insultare ferocemente i turchi, a testimonianza del carattere violento e orgoglioso dello stesso Bragadin. ibidem.
- ^ Cfr. Barbero, Lepanto, pag 549
- ^ Marcella Aglietti, La partecipazione delle galere toscane alla battaglia di Lepanto (1571), in Toscana e Spagna nell’età moderna e contemporanea ETS, Pisa 1998, pp. 55-146
- ^ Il Mediterraneo diviso, Il Museo dei ragazzi di Palazzo Vecchio
- ^ FERNAND BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953, vol. II, p.1165
- ^ Non del tutto comunque, visto che nel regime incostante dei venti che caratterizza il Mediterraneo la galea ha il grande vantaggio quanto meno di poter procedere con velocità a remi nei momenti di bonaccia. In questi casi i velieri mostrano i loro limiti, restando forzatamente immobili e alla mercé di chiunque sappia arrivar loro addosso, prendendoli d'infilata con le proprie bordate. Non a caso, nell'Arsenale veneziano, le truppe francesi di Napoleone troveranno a fine XVIII secolo in fase di costruzione proprio una galea.
- ^ La vittoria dell'alleanza cristiana non segnò comunque una vera e propria svolta nel processo di regressione subito dall'espansionismo turco. Gli ottomani infatti riuscirono già nel periodo successivo ad incrementare i propri domini, strappando, fra l'altro, alcune isole, come Creta, ai veneziani. La parabola discendente che conobbe l'impero ottomano nel corso del Seicento, riflette semmai una fase di declino che coinvolse all'epoca tutti i Paesi affacciati sul bacino del Mediterraneo, scaturita, in particolare, a seguito dello spostamento verso le rotte oceaniche dei grandi traffici internazionali. In realtà più di un secolo dopo i Turchi erano ancora sotto le mura di Vienna, mentre Venezia dovette combattere altre lunghe guerre con l'Impero ottomano, perdendo infine il controllo su tutte le isole e i porti che possedeva in Egeo (come Creta) eccetto le isole Ionie. Inoltre la flotta ottomana riuscì a sconfiggere quella veneziana presso capo Matapan al principio del Settecento; segno che l'impero, pur in relativa decadenza, continuava ad essere una delle principali potenze europee.
- ^ Questa citazione viene dalla voce tedesca di Wikipedia sulla battaglia di Lepanto e vuole essere un riferimento al tipo di pubblicità data dall’Impero ottomano al mondo cristiano sulla propria sconfitta a Lepanto.
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