Revisionismo del Risorgimento
Il revisionismo del Risorgimento è il riesame, attuato attraverso un approccio critico, di quel periodo della storia d'Italia noto come Risorgimento. L'analisi posta in essere dai vari autori non è univoca, poiché diverse sono le "anime" rintracciabili nell'ampio panorama dell'interpretazione o reinterpretazione del Risorgimento e, in particolare, degli eventi che condussero all'unificazione politica dell'Italia peninsulare e insulare in una sola entità statuale, delle istanze e dei presupposti alla base di tali eventi, delle condizioni economiche e sociali degli stati preunitari, degli interventi legislativi e militari attuati dal neonato Regno d'Italia per mantenere il nuovo assetto istituzionale, delle politiche economiche, fiscali, daziarie e sociali realizzate dai diversi governi unitari nelle province meridionali e degli effetti di queste stesse politiche.
Contesto e premesse storiche del revisionismo del Risorgimento
Le idee alla base del movimento revisionista cominciarono a sorgere e consolidarsi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d'Italia, ancor prima della nascita di un dibattito storiografico in materia. I primi dubbi sulle ragioni alla base della politica estera di Casa Savoia furono sollevate da Giuseppe Mazzini, uno dei teorici e fautori dell'unificazione italiana. A tal proposito Mazzini ipotizzò sul suo giornale "Italia del popolo", che il governo di Cavour non fosse stato interessato al principio di un'Italia unita, ma semplicemente ad allargare i confini dello Stato sabaudo.[1] Anche una volta unificata l'Italia, Mazzini tornò ad attaccare in proposito il governo della nuova nazione:
Le dichiarazioni di Mazzini sono antesignane della disputa ideale sul processo di unificazione, che iniziò già nel corso del Novecento, come continuazione del dibattito polemico tra i partiti risorgimentali moderato e democratico. Le prime critiche contro le ricostruzioni agiografiche provennero dagli stessi esponenti liberali, i quali avevano promosso con entusiasmo ogni attività politica utile alla causa nazionale. Tra i principali bersagli polemici vi fu la politica accentratrice del nuovo Stato unitario, definita negativamente con il neologismo di "piemontesizzazione".
Il revisionismo di natura storica
Le reinterpretazioni degli eventi del Risorgimento italiano non hanno un'unica origine e si muovono lungo diversi filoni di ricerca. La messa in discussione degli assunti della storiografia ufficiale proviene sia da una parte ristretta del mondo accademico, che da diversi studiosi indipendenti, tra cui numerosi saggisti. Il crescere di tale movimento culturale, in misura particolare negli ultimi cinquant'anni, ha generato l'emersione di una crescente letteratura critica nei confronti della storiografia più diffusa, la quale è stata progressivamente oggetto di contestazioni sempre più polemiche ed acute. Di seguito sono riportati i contributi al revisionismo storico, suddivisi a seconda dell'ambito di provenienza.
Le origini dell'approccio critico al Risorgimento
Negli anni immediatamente successivi all'annessione del Regno delle Due Sicilie al neonato Stato italiano alcuni testimoni dell'epoca diedero alle stampe le prime opere che proponevano un'analisi critica del processo di unificazione politica della penisola. In quest’ambito è innanzitutto riconoscibile il fiorire di una letteratura memorialistica, in cui soprattutto ex-appartenenti al disciolto Esercito delle Due Sicilie riportarono la propria interpretazione dei fatti. Tra i numerosi esempi possono essere citati i fratelli Pietro[3] e Ludovico Quandel[4] e Giuseppe Buttà. Cappellano militare del 9º Battaglione Cacciatori dell'Esercito borbonico, ed esule a Roma presso la corte di Francesco II, quest'ultimo fu autore di ’’’Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta’’’ (1875), opera autobiografica in cui si narrano le vicende della spedizione dei Mille dallo sbarco di Marsala fino all'assedio di Gaeta viste dalla parte degli sconfitti. Buttà descrisse gli eventi facendo ricorso ad un linguaggio tagliente e sarcastico[5], senza lesinare critiche nei confronti di alcuni ufficiali borbonici, da lui accusati di viltà o tradimento nei confronti della corona[6]. Pur con i limiti derivanti dall'essere trasposizioni di punti di vista individuali, queste opere memorialistiche vengono citate da numerosi revisionisti, i quali attribuiscono loro valore di documento storico.
Giacinto de’ Sivo
Il primo storico ad elaborare una visione storiografica alternativa a quella della vulgata fu probabilmente Giacinto de' Sivo, membro della Commissione per l’istruzione pubblica e consigliere d’Intendenza della provincia di Terra di Lavoro del Regno delle Due Sicilie. De’ Sivo proveniva da una famiglia di lunga fedeltà alla dinastia borbonica, in cui il nonno, omonimo, aveva provveduto ad armare a proprie spese truppe per contrastare l’aggressione giacobina e francese; lo zio Antonio aveva partecipato come ufficiale alla spedizione sanfedista del cardinale Ruffo; e il padre Aniello era un valoroso ufficiale dell’Esercito delle Due Sicilie[7]. Allievo di Basilio Puoti, da cui derivò il bello stile riconoscibile in tutte le sue opere, De' Sivo fu certamente un legittimista convinto e fervente cattolico, coerentemente con le tradizioni di famiglia. All’entrata di Garibaldi a Napoli, fu destituito dall’incarico di Intendente e arrestato una prima volta il 14 settembre 1860 per aver rifiutato di rendergli omaggio. Di questo primo episodio di prigionia dirà anni dopo, descrivendo il clima che si respirava nella capitale nelle settimane successive all’invasione:
Rilasciato dopo alcune settimane, venne nuovamente arrestato il 1 gennaio 1861. Ancora rilasciato, fondò un giornale legittimista, La Tragicommedia, sulle pagine del quale egli si proponeva di ricordar la patria quando più non v’è patria, ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute, fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati[9]. Il giornale fece in tempo ad uscire con soli tre numeri, prima di essere soppresso. A tal proposito, De’ Sivo, arrestato per la terza volta, lamentò "a me fanno un processo per cospirazione contro l’Italia. Nessuna libertà d’opinione, fuorché pe’ rivoluzionarii"[10].
Scelta finalmente la via dell’esilio presso la corte di Francesco II a Roma, de' Sivo divenne uno dei punti di riferimento culturale del movimento legittimista, ed iniziò una lunga opera di analisi storiografica. Nelle sue opere, dedicate alla cronaca ed all’analisi degli eventi che portarono all’unificazione, de' Sivo giudicò tale processo come un'aggressione nei confronti di due stati sovrani (Due Sicilie e Chiesa), in violazione del diritto internazionale ed in particolare dei valori spirituali e civili della nazione napoletana.
Nel 1861 pubblicò il suo primo saggio storico L'Italia e il suo dramma politico nel 1861, nel quale giudicò l’unificazione un processo elitario e lontano dagli interessi dei popoli, condotto attraverso violenza delle armi e la diffusione di menzogne[11].
I temi di cui sopra furono approfonditi nel suo volume successivo I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. In quest’opera egli non si limitò a rimpiangere la dinastia borbonica, ma identificò la causa fondante degli accadimenti del 1860/61 in un disegno più ampio, diretto a mutare non solo la natura del governo del Regno delle Due Sicilie, ma quella dei suoi abitanti, con particolare riferimento alle convinzioni morali e religiose. Secondo tale tesi, tali accadimenti sarebbero infatti inquadrabili in un più vasto movimento, ideologicamente ostile all’influenza della religione sulla cultura e sulle tradizioni dei popoli. Egli lamentò inoltre la confusione tra unità politica e unità morale, contrapponendo i concetti di stato e nazione, ed affermando che per sua natura ed evoluzione storica l’Italia non fosse destinata ad essere unita, in quanto coacervo di nazioni distinte riunite sullo stesso territorio:
A suo giudizio, questo processo violento, estraneo alla natura dei popoli coinvolti, compromise ogni possibilità di unione effettiva, in quanto originato dalla guerra di Italiani contro Italiani, e fu causa della dispersione della parte migliore della società, a tutto vantaggio delle nazioni straniere[13]. Nel suo atto di accusa contro gli avvenimenti in corso, egli tracciò le conseguenze dell’annessione, gettando le basi per gli argomenti di critica di una parte degli storici meridionalisti successivi, quali la riduzione dei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie in condizione di minorità, la spoliazione del tesoro statale per ripagare i debiti del Piemonte e la corruzione precedente all’invasione:
.
Prima di concludere il suo scritto con un appello alle nazioni europee perché intervengano per dirimere una questione che si svolge in spregio alle norme del diritto internazionale[15], egli identificò come movimento di resistenza legittima del popolo delle Due Sicilie ciò che veniva chiamato brigantaggio:
.
Negli anni successivi, nonostante i rischi di persecuzioni[17] e le difficoltà di trovare tipografi disposti a stampare la sua testimonianza, lo storico elaborò la sua opera più rappresentativa, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, pubblicata a Roma e a Trieste in diversi volumi tra il 1862 e il 1867.[5].
In essa egli riprese ad approfondì molti dei temi che erano stati abbozzati ne’ “I Napolitani al cospetto delle nazioni civili”. Quando comparve, l’opera fu recensita sulle pagine della Civiltà Cattolica da parte di uno dei suoi autorevoli fondatori, il gesuita Carlo Maria Curci, come lavoro di “altissimo pregio”[18] per quanto atteneva “[...] a sanità di principii, a nobili sentimenti di onestà e di religione, a coraggiosa franchezza nel qualificare le cose e le persone coi proprii loro nomi, e, per ciò che noi possiamo giudicarne, eziandio quanto a veracità di fatti narrati[19]. Successivamente, Francesco Berardinelli, dantista e direttore della Civiltà Cattolica, lodò l’opera affermando “i pregi singolari del primo libro [...] ritornano a far mostra di sé nel presente volume [...] e il loro valore è tanto maggiore [...] quanto maggiore è la copia e l’importanza de’ fatti.[20].
La “Storia”, che costituisce il punto più alto della produzione storiografica di De’ Sivo[21], descrive in forma di cronaca, interpreta e giudica le vicende relative all’unificazione come inscritte all’interno delle leggi della storia, che egli ritiene non poter essere distinte dal progresso civile e dal destino morale dei popoli. In particolare, egli scrive che tale progresso debba essere “legale, conservatore, definito. Legale, perché non sorga l’arbitrio; conservatore, perché non distrugga gli ordini compositori dello Stato; definito, perché finito è l’uomo, né può aspirare a beni infiniti in terra”[22]. In questo senso, le rivoluzioni, e in particolare quella in atto, hanno il solo fine di rovesciare il patrimonio culturale delle nazioni attraverso la manipolazione degli accadimenti passati e la costruzione di un futuro non coerente con il destino morale e storico di un popolo: “Narrando il passato a rovescio, congiuravano a rovesciare l’avvenire”[23]. L’analisi storiografica di De’ Sivo non è scevra di critiche verso la monarchia borbonica, la quale, suo giudizio, si sarebbe macchiata di eccessiva tolleranza nei confronti dei movimenti succedutisi a partire dal 1799[24], la quale avrebbe fatto in modo la rivoluzione continuasse a diffondersi fino a quando, “diventata Governo costituzionale in Piemonte, e confortata di poderosi aiuti stranieri, intese alla distruzione di tutti i troni italiani a proprio profitto, cominciando dal sabaudo, il più dominato di tutti da lei: anzi il solo tra tutti, perché portosi ad essere suo docile ed inerte strumento”[25].
In quest’ambito egli individua nella propaganda liberale il substrato preparatorio all’invasione. La mistificazione dei fatti è iniziata a suo parere ai tempi della fallita rivoluzione del 1848, a seguito della quale la stampa liberale deformò gli accadimenti a proprio uso e consumo: “Intanto si stampano storie dove i fatti s’aggiustano alle idee; pinti eroi i ribelli, tristi i fedeli, scambiate all’incontrario le idee semplici di vizio e di virtù”[26]. Tale mistificazione continuò con le famose lettere di lord Gladstone, che etichettarono il Regno delle Due Sicilie come “la negazione di Dio eretta a sistema di governo’”[27], le quali fecero in modo che “Napoli, le Sicilie, il re, la magistratura, l’amministrazione, l’esercito, il clero, la nobiltà e gl’ingegni nostri furono immorali ed atei giudicati. Nove milioni d’abitanti vivean col pensiero negativo della Divinità”[28]. Le fallite rivoluzioni, avendo avuto tra i promotori una parte degli intellettuali, condussero secondo De’ Sivo alla diffidenza verso tale classe da parte di Ferdinando II, ed all’accentramento del potere nella sua persona, cosa che determinò, una volta mancato lui, l’incapacità del regno di resistere agli avvenimenti[29].
Nelle pagine conclusive della sua opera, e coerentemente con la propria natura e filosofia di fervente cattolico, e della propria visione morale e finalistica della storia, De’ Sivo individuò nella progressiva azione di allontanamento del Regno delle Due Sicilie dallo stato di vassallaggio nei confronti della Chiesa, messa in atto dalla dinastia Borbone, la causa ultima del disfacimento. Tale allontanamento fu, secondo lo storico, determinato ad arte da parte degli elementi massonici presenti all’interno dell’amministrazione e della corte del regno delle Due Sicilie[30]. Al fine di recuperare la propria identità, quindi, secondo De’ Sivo il popolo napoletano deve procedere ad un recupero delle proprie radici storiche e spirituali.
Il revisionismo fra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento
Alla fine dell'Ottocento iniziarono a comparire i primi contributi alternativi rispetto alla corrente storiografica più diffusa sul Risorgimento italiano. Tali opere fornirono il substrato di base su cui vennero edificate le teorie revisioniste successive.
Un primo esempio fu lo scrittore Alfredo Oriani, il quale pose in discussione l'esito delle vicende risorgimentali nella sua opera La lotta politica in Italia (1892), nella quale esaminò il contrasto tra federalismo e unitarismo. Oriani criticò la "conquista regia" come un'azione unilaterale di creazione di un nuovo Stato, ipotizzando che senza l'appoggio di un saldo movimento democratico, quest'ultimo si sarebbe rivelato debole nelle fondamenta. Tale opera è considerata il prototipo di un primo revisionismo storiografico sull'Italia moderna, alternativo alla storiografia apologetica sabauda.
Francesco Saverio Nitti
Un'altra tesi originale per l'epoca fu avanzata da Francesco Saverio Nitti. Nitti si distanziò dalla storiografia del suo tempo, ritenendo il Risorgimento la conseguenza di una grande tradizione artistica e letteraria. Egli escluse che i moti liberali furono scaturiti da una volontà popolare, ritenendo che essi siano stati animati dalle classi più colte.[31] Infatti lo studioso lucano disse che in ogni fermento avvenuto nel regno borbonico le masse meridionali, «anche se mal guidate o fatte servire a scopi nefandi», furono sempre dalla parte dei sovrani napoletani.[32] Nei suoi saggi Nord e Sud (1900) e L'Italia all'alba del secolo XX (1901), analizzò le conseguenze dell'Unità nazionale a partire da un quadro illustrativo della situazione politico-economica negli stati preunitari.
Ritenne che il Regno di Sardegna, sconvolto da una grave depressione economica per via di numerosi lavori pubblici improduttivi, fu costretto ad evitare il fallimento solo fondendo la propria finanza con quella di un altro «stato più grande»[33] ma escluse negli intenti di Cavour una mera occupazione, poichè lo statista voleva «fare di Napoli a ogni costo e con ogni sacrifizio una grande città industriale: e sviluppare nello stesso tempo le risorse agrarie del Mezzogiorno»,[34] considerando gli «uomini che vennero dopo di lui, o forse le circostanze inevitabili, o forse la stessa azione dei meridionali» le principali cause della tribolazione del sud.[35]
Secondo la tesi nittiana, il Regno delle Due Sicilie, con la sua politica «gretta e quasi patriarcale» che non guardava al futuro[36] ma che garantì «uno stato di grossolana prosperità»,[37] lasciò, al 1860, un enorme patrimonio monetario e demaniale che avrebbe dato man forte allo sviluppo meridionale. In realtà il meridionalista non vide i benefici distribuiti in maniera equa in tutto il paese ma solo favoritismo nei confronti dell'Italia settentrionale a scapito del Mezzogiorno,[38] imputabile anche al pressapochismo della classe dirigente meridionale, che «fatte alcune nobili eccezioni [...] vale assai poco».[39]
Nella sua ottica, il brigantaggio fu, in massima parte, un movimento secolare di protesta proletaria e il brigante era visto sovente dal popolo come «il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa».[40] Egli non considerava tale fenomeno una lotta partigiana in favore dei Borbone ma un movimento da loro sfruttato per poter cacciare gli eserciti invasori, sin dai tempi della Repubblica Napoletana del 1799. Come i suoi avi, anche Francesco II attuò «la stessa politica che più di sessant'anni prima avea salvata la corona del suo bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via, gittarono in fiamme il reame».[41] Il popolo, benché lottasse in suo nome, maturò principalmente rancore contro i ceti borghesi e la sua persecuzione, ad opera del nuovo governo, fu da lui considerata terribile e crudele, «ed è costata assai più perdite di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860».[42]
Le tesi di Nitti vennero viste al tempo come un encomio ai Borbone ma lui si difese rammentando che i suoi ascendenti, di idee mazziniane, furono tra i maggiori bersagli del vecchio governo ed invitava «ad avere l'obbligo e il bisogno di giudicare senza preconcetti».[43] Per lui l'unità, con tutti i suoi difetti, portò altrettanti vantaggi e all'inizio del secolo XX commenterà:
Gaetano Salvemini
Gaetano Salvemini appartiene alla seconda generazione di storici che analizzarono il Risorgimento criticamente, senza cioè intenti celebrativi, ed influenzò a sua volta gli studiosi successivi[45]. Per Salvemini il Risorgimento avrebbe potuto essere il punto di partenza di uno stato nazionale moderno, fondato sul federalismo e sulla diffusione ed affermazione delle idee socialiste e democratiche (con tutte le conquiste politiche, sociali ed economiche ad esso legate) che avrebbero garantito all'Italia uno sviluppo organico di tutte le sue regioni e avrebbero piegato la reazione[46] Centro propulsore della lotta nazionale per il trionfo della democrazia sulle forze conservatrici, avrebbe dovuto essere la città di Milano[47].
L'unificazione d'Italia, scriveva Salvemini nel 1902, venne però realizzata su basi centraliste e non federaliste e fu espressione di forze non democratiche: il nuovo stato traeva la sua forza dall'alleanza fra il capitalismo settentrionale e la grande proprietà terriera meridionale, responsabili di aver imposto all'Italia una politica protezionista rovinosa, soprattutto per il Sud, un sistema tributario iniquo e l'adozione del suffragio ristretto (definito da Salvemini «cretino») che escludeva, in pratica, dal voto, le classi più povere.[48]
Sempre nel 1902 l'intellettuale e politico pugliese metteva in evidenza che la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali, realizzato all'indomani dell'unità, fu «...un turpe mercato fra l'Italia una e i possidenti meridionali, mediante il quale questi comprarono a buon mercato il diritto di conquistare enormi estensioni di terreno rubandole ai poveri. Garibaldi avrebbe voluto che le terre pubbliche fossero distribuite gratuitamente fra i nullatenenti del Mezzogiorno...ma i baroni meridionali non ci avrebbero guadagnato nulla...moderati nordici e baroni sudici [sic] si accordarono per derubare le plebi meridionali e dividersi la preda».[49] Erano pertanto sempre queste ultime a pagare, non i nobili e i latifondisti che le sfruttavano. Tuttavia mentre gli operai del nord avevano un partito che ne difendeva gli interessi (il Partito Socialista Italiano), le popolazioni del Sud, meno politicizzate e tutelate, si trovavano in balia dei latifondisti locali che avevano nella piccola borghesia meridionale una preziosa alleata. Quest'ultima, oziosa e volgare, suscitava in Salvemini un profondo disprezzo, Scriveva Salvemini riferendosi ai piccoli borghesi meridionali: «...andate un pomeriggio d'estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi...».[50] soprattutto se paragonata alla sobrietà, laboriosità e dignità dei contadini meridionali.
Ancora nel 1952 Salvemini segnalava le gravi responsabilità che la piccola borghesia aveva avuto, e continuava ad avere, nel mancato sviluppo del Mezzogiorno, ma «...di questa responsabilità i borghesi meridionali amano rimanere ignoranti. Trovano comodo prendersela con i settentrionali. Ebbene, quella responsabilità noi meridionali dobbiamo metterla in luce, sempre. Bisogna impedire che i meridionali dimentichino se stessi per non far altro che sbraitare contro i settentrionali.»[51]
Nell'ambito delle critiche al processo risorgimentale, ed alle modalità con le quali esso fu applicato, Salvemini pose l'accento sul fatto che l'economia dell'ex Regno delle Due Sicilie, ed in particolare della città di Napoli, fosse stata completamente distrutta: «...se dall'unità il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata: ha perduto la capitale, ha finito di essere il mercato del Mezzogiorno, è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone.[52]
Antonio Gramsci
Nello stesso filone antiapologetico di Salvemini, ma con connotazioni spiccatamente marxiste, si inserisce l'analisi revisionista di Antonio Gramsci. La questione meridionale, il giacobinismo, la costruzione del processo rivoluzionario nel nostro paese, il Risorgimento percepito come una rivoluzione agraria mancata, sono i temi centrali della sua analisi.
Per Antonio Gramsci il processo risorgimentale ebbe inizio nel Settecento. In questo secolo si produsse infatti un fenomeno di differenziazione tra una corrente di matrice neoguelfa, che assegnava all’Italia un primato civile e morale nel mondo in quanto culla del cattolicesimo e del Papato, e una di matrice laica, sostenitrice anch'essa del primato italiano anche se non originato né dipendente dalla Chiesa cattolica.[53] Questa seconda corrente confluirà successivamente nel mazzinianesimo. Solo dopo la rivoluzione francese tuttavia, gruppi di cittadini «disposti alla lotta e al sacrificio» acquisirono la consapevolezza che l'unificazione nazionale fosse non solo possibile ma necessaria.[54]
Fino al 1848 tali gruppi erano tuttavia esigui, dispersi, senza collegamento fra di loro e di gran lunga inferiori per numero alle forze antiunitarie. Fra queste ultime occupava un posto di particolare rilievo la Chiesa. Con la prima guerra di indipendenza il processo storico risorgimentale iniziò ad essere guidato da Casa Savoia e dai moderati che riuscirono a stabilire la propria egemonia intellettuale, morale e politica sull'ala unitarista di ispirazione più democratica rappresentata dal cosiddetto Partito d'Azione (Mazzini, Garibaldi) anche dopo il 1870. I moderati poggiavano infatti la propria forza su una classe sociale omogenea e poterono sviluppare una politica più lineare ed organica, mentre il Partito d'Azione, non essendo espressione di alcuna classe storica finì con l'accettare la supremazia dei primi. Scrive Gramsci: L'«L'affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di "avere in tasca" il Partito d'Azione o qualcosa di simile, è praticamente esatta non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto "indirettamente" da Cavour e dal Re...»[55]
Per il politico sardo l'azione egemonica del gruppo moderato si strutturò attraverso un ampliamento continuo della sua classe dirigente dovuto non solo all'assorbimento degli alleati ma anche delle élites avversarie. Tale fenomeno, noto con il nome di trasformismo e che caratterizzerà anche la vita politica italiana postrisorgimentale, spiega non solo il successo del processo di unificazione d'Italia, ma anche i limiti che lo hanno contraddistinto.[56] Il Partito d'Azione non poté avere lo stesso potere di attrazione di quello dei moderati perché, per averlo, avrebbe dovuto essere più vicino al popolo e presentarsi con programmi i cui contenuti sociali andassero incontro alle istanze e ai bisogni delle masse, soprattutto contadine. Queste ultime costituivano la classe sociale più povera della popolazione[57]. Un programma di governo realistico non fu invece mai formulato e neppure fu espressa una direzione politica dotata di sufficiente solidità. Per tali ragioni il Partito d'Azione fu spesso dilaniato da conflitti interni.[58]
Le irrisolutezze, le ambiguità e infine la rinuncia del Parito di Azione ad affrontare la questione agraria[59] furono alla base della mancata soluzione dei problemi economici delle masse rurali meridionali. Tali problemi, anzi, si erano aggravati a causa della forma in cui era avvenuta l'unificazione fra la parte settentrionale d'Italia e il Mezzogiorno. Secondo Gramsci infatti «l'unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno…cioè concretamente che il Nord era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l'impoverimento dell'economia e dell'agricoltura meridionale».[60]
Gramsci, nella disamina dell'operato dei governi unitari, rileva che, fino all'avvento della sinistra storica, il proletariato era di fatto escluso dalla partecipazione politica, poiché lo stato aveva fatto, del suffragio, esclusivo appannaggio della classe proprietaria. Sempre lo stato italiano, continua Gramsci «è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti»[61].
Una siffatta situazione, dovuta ad una legislazione sfavorevole che frenava lo sviluppo del Mezzogiorno, aveva potuto prosperare grazie all'alleanza fra le classi egemoni del paese: gli industriali del Nord e i grandi agrari del Sud sostenuti dalla borghesia meridionale. Ancora nel 1926 si era ben lontani dalla soluzione di quella specie di compromesso fra le forze capitaliste che secondo Gramsci «...dà alle popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quelle coloniali...», mentre i grandi proprietari di terre e la stessa borghesia meridionale «...si pongono invece nelle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora.»[62], per Gramsci il riscatto del Mezzogiorno sarebbe stato possibile solo attraverso la maturazione dei ceti urbani meridionali e la loro trasformazione in classe dirigente.[63]
Piero Gobetti
Le idee di Oriani influirono sul pensiero del liberale Piero Gobetti che nel 1926 criticò la classe dirigente liberale nella sua raccolta di saggi Risorgimento senza eroi. Secondo Gobetti, il Risorgimento fu opera di una minoranza che rinunciò ad attuare una profonda rivoluzione sociale e culturale. Da questa “rivoluzione fallita” nacque uno Stato incapace di venire incontro alle esigenze delle masse.
Il revisionismo meridionalista dalla seconda metà del Novecento
Il revisionismo risorgimentale conobbe un'evidente radicalizzazione e ripresa a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda, che del fascismo, dai quali il Risorgimento era considerato un mito intangibile. Le mutate condizioni politiche consentirono l'emersione di un gruppo di studiosi iniziarono a ridimensionare il valore dell'operato dei Savoia, formulando in proposito giudizi sostanzialmente negativi. A circa cent'anni di distanza da de' Sivo, gli appartenenti a questo gruppo ne ripresero gli argomenti di critica, addebitando in particolare la causa di gran parte dei problemi del Mezzogiorno al processo di unificazione nazionale. Con il passare degli anni, questo filone di revisionismo risorgimentale ha trovato altri sostenitori, sia meridionali che settentrionali, che hanno ulteriormente approfondito la ricerca sugli eventi controversi del processo di unificazione. Tra questi sono da menzionare Lorenzo Del Boca[64], Gigi Di Fiore[65], Pino Aprile[66], Fulvio Izzo[67], Aldo Servidio[68], Pier Giusto Jaeger e Luciano Salera.
La massima parte di tali revisionisti sostiene che il Risorgimento e il processo di unificazione politica degli stati preunitari, con particolare riferimento all'annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d'Italia, abbiano, mediante un'azione di conquista seguita da un'opera di colonizzazione e di sfruttamento sistematico delle sue risorse, causato le problematiche socio-economiche dell'area. È, infatti, opinione ampiamente condivisa da questi autori che le politiche messe in atto nelle province meridionali dai governi unitari a partire dal 1861, furono inadeguate o deleterie per il Mezzogiorno e ne arrestarono o compromisero lo sviluppo.
Carlo Alianello
Tra i pionieri del revisionismo vi è lo scrittore e sceneggiatore Carlo Alianello. Egli ricostruì i fatti risorgimentali dall'ottica dei vinti, esprimendo un duro atto di accusa verso gli ideatori dell'unificazione e le politiche del regno di Sardegna, pur non rinnegando l'unità della nazione.[69] Per le idee manifestate nella sua prima opera, L'Alfiere (1942), comparsa durante il ventennio fascista, in cui il Risorgimento era considerato un mito "intangibile",[70] Alianello rischiò il confino, che riuscì ad evitare solo per la caduta del regime.[70] Con l'instaurazione della Repubblica Italiana Alianello poté sviluppare la sua linea di pensiero con la pubblicazione de L'eredità della priora (1963), da alcuni considerata la sua opera massima,[70] e La Conquista del Sud (1972), saggio citato spesso nelle opere dei revisionisti a lui succeduti. In continuità con suoi precursori ottocenteschi, secondo Alianello le scelte operate nel processo unitario sarebbero state effettuate dai piemontesi con la complicità del governo britannico e delle massonerie straniere a scopo di mera occupazione.[71] Lo scrittore, contrariamente alla storiografia maggiormente diffusa, ritenne che il processo di unificazione non avesse avuto natura popolare e che fosse stato appoggiato dalle classi abbienti solamente per interessi personali.[72]
Michele Topa
Nella linea di discendenza culturale, a Carlo Alianello succede il giornalista e divulgatore Michele Topa che, con le sue opere Così finirono i Borbone di Napoli (1959) e I Briganti di Sua Maestà (1967), contribuì a delineare un nuovo approccio al Risorgimento, visto dalla parte dei vinti.
Nicola Zitara
Un personaggio di spicco del revisionismo più intransigente e di ispirazione indipendentista fu il giornalista e docente di diritto ed economia Nicola Zitara. Sulla stessa linea culturale di Alianello e Topa, Zitara considerò l'unità d'Italia il frutto di un'operazione di conquista militare ed economica ai danni del Sud, che sarebbe divenuto una colonia, relegata, in quanto tale, a mercato di sbocco e destinata a consentire lo sviluppo economico ed industriale dell'Italia centro-settentrionale. Nelle sue opere Zitara esprime le proprie convinzioni muovendo da un'analisi economica del Mezzogiorno pre e post unitario attraverso un'aspra critica al capitalismo e al liberismo, che fu condotta inizialmente seguendo i canoni propri dell'ideologia marxista. Del socialismo scientifico di Marx, però, Zitara, al pari di altri autori, sottolineò alcuni limiti, che a suo giudizio potevano essere superati integrando le teorie marxiane con un sua peculiare visione giusnaturalistica[73]. Zitara sostenne che l'unica via per la ripresa di economia e società meridionali fosse un ritorno all'indipendenza per le Due Sicilie e che alla base del sentimento indipendentista vi dovesse essere la riscoperta, da parte delle genti del Sud, della propria identità storica e culturale. Per Zitara, tale processo mnemonico di riappropriazione storica avrebbe avuto quale passaggio obbligato il Regno delle Due Sicilie: rimarcò sempre le eccellenze da egli e da altri autori registrate durante l'esistenza del Regno, assumendo lo Stato delle Due Sicilie e i suoi simboli ad emblemi identitari, pur non sposando la causa monarchica[74].
La soluzione di indipendenza prospettata da Zitara si concretizza in uno Stato da questi definito "Megaellenico" dove il principale fattore della produzione è il lavoro, e non il capitale, e la terra deve essere esclusa dalla proprietà privata, per rimanere unicamente un bene pubblico. Secondo il revisionista calabrese, il regno borbonico fu l'ultimo stato sovrano ad essere rappresentativo degli interessi delle popolazioni meridionali, le quali, secondo le sue tesi, al momento dell'annessione furono asservite agli interessi di un capitalismo definito "tosco-padano"[75].
Gigi Di Fiore
Lorenzo Del Boca
La Storia Ribelle
Da segnalare la piccola corrente storiografica ispirata da Romano Alquati e Dario Lanzardo alla metà degli anni settanta. Essi partendo dalle tesi gramsciane, propongono l'idea di un processo unitario voluto dai Savoia e dalla gran parte della classe dirigente italiana, in particolare da un asse siculo lombardo, contro gli interessi stessi del Regno di Sardegna, prova ne sarebbero: la grave crisi economica causata al Piemonte dal processo unitario, la perdita della Savoia di Nizza con il trattato di Torino (1860) e l'esodo forzato di 24.000 nizzardi tra il 1860 e il 1871 dopo il vespri nizzardi; la perdita della funzione di capitale di Torino e la strage di Torino (1864). Secondo questa visione, la regione che però più danneggiata dal processo unitario sarebbe stata la Sardegna che avrebbe perso centralità, nonché il peso acquistato dopo la fusione perfetta del 1847 nel regno che prendeva il suo nome. Alcuni di questi spunti sono stati raccolti da Roberto Gremmo negli anni ottanta, egli ha stigmatizzato l'italianizzazione forzata delle popolazioni alpine e dell'annichilimento della cultura piemontese, nonché la progressiva meridionalizzazione delle istituzione dello stato.
Il revisionismo accademico
Il revisionismo è coltivato, pur se in modalità differenti, da alcuni personaggi del mondo accademico, nella maggior parte dei casi di provenienza estera.
Denis Mack Smith
L'esempio forse più noto è quello dello storico inglese Denis Mack Smith, la cui attività si concentra sulla storia d'Italia dal Risorgimento ai giorni nostri. Laureatosi a Cambridge, membro della British Academy, del Wolfson College (Università di Cambridge), dell'All Souls College (Università di Oxford) e dell'American Academy of Arts and Science, fu collaboratore di Benedetto Croce e Grande Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana[76].
Mack Smith ha analizzato in una lunga serie di saggi le figure di maggior rilievo del processo unitario (Garibaldi, Cavour, Mazzini) e le circostanze in cui essi si mossero. Alcune figure, come quella di Garibaldi, hanno suscitato la sua ammirazione. Nella biografia intitolata "Garibaldi, una grande vita in breve"[77], lo storico inglese inizia il saggio con l'affermazione: "Con tutti i suoi difetti, Giuseppe Garibaldi ha un suo posto ben fermo fra i grandi uomini del secolo decimonono[78] sostenendo, inoltre, che fosse «...persona amabile e affascinante, di trasparente onestà...», che «...combatté per la gente oppressa ovunque ne trovasse...» e che fu il maggiore artefice dell'unione delle due Italie[79].
Anche nei confronti di Mazzini, lo studioso britannico espresse un giudizio positivo: il repubblicano fu ritenuto un «...patriota e di gran lunga il maggior profeta del Risorgimento...»[80] Nella biografia omonima ad esso dedicata, il pensatore fu giudicato positivamente soprattutto per l'impulso democratico dato alla vita del XIX secolo, con particolare riferimento alle sue campagne in favore della sicurezza sociale, del suffragio universale e dei diritti delle donne[81].
Di diverso segno fu il giudizio dello storico inglese su Cavour. Nel volume "Cavour e Garibaldi" (1954), egli contrappose lo statista piemontese a Garibaldi, a tutto vantaggio di quest'ultimo. Definì, infatti, Garibaldi «...moderato e empirico non-rivoluzionario...», «...cauto e statista...» mentre Cavour fu considerato «...disonesto...maldestro...sbagliato...» sebbene gli fosse riconosciuta una notevole abilità. Sostenne, inoltre, che il conte fosse determinato ad impedire l'unità d'Italia se ci fosse stata qualche possibilità che il merito potesse essere attribuito a forze radicali, repubblicane, popolari o democratiche[82]. Nel suo successivo Storia d'Italia dal 1861 al 1997 Mack Smith ammise tuttavia che «... Il conte Camillo di Cavour è il politico più interessante ed efficace della storia italiana moderna...».[83].
Anche la casa Savoia, con particolare riferimento a Vittorio Emanuele II, fu criticata dallo storico nella sua opera "I Savoia Re d'Italia" (1990). Il sovrano dell'Unità, contrariamente allo stereotipo del "re galantuomo" è da lui descritto come un personaggio di scarsa caratura morale (soprattutto per le numerose avventure extraconiugali) e sperperatore di denaro pubblico. Altrove, lo storico rilevò come il primo sovrano d'Italia ritenesse che ci fossero "solo due modi per governare gli italiani, con le baionette o la corruzione"; che contrariamente all'immagine di sovrano costituzionale egli, pur essendo stato, fra i regnati della penisola, l'unico a mantenere la costituzione dopo i moti del 1848, ritenesse tale forma di governo inadatta agli italiani; e che avesse segretamente rassicurato Metternich ed il Papa della sua disponibilità ad intervenire contro la Repubblica Romana mazziniana e ristabilire l'assolutismo[84].
Nel suo saggio Documentary falsification and Italian biography, Mack Smith mise infine in rilievo come la sistematica distruzione, riscrittura in chiave apologetica ed occultamento di documenti ufficiali sia una pratica cui tutti gli stati corrono il pericolo di cadere, ma che in alcuni momenti della storia italiana questa sia stata eletta a sistema. Citando esempi specifici riferiti a personaggi di elevata importanza storica (Vittorio Emanuele II, Lamarmora, Crispi) lo storico fornì altrettanti esempi di manipolazione degli eventi storici ad uso politico[85]. Fra le personalità oggetto di tali manipolazioni vi furono anche Mazzini e Garibaldi[86].
Anche gli ultimi Borbone delle Due Sicilie furono oggetto di severe critiche da parte di Mack Smith, che li ritenne responsabili di un "corrotto dispotismo"[87].
Christopher Duggan
Un altro autorevole esponente del revisionismo accademico è Christopher Duggan, allievo di Mack Smith e direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society dell’Università di Reading[88].
Nell’ambito della sua opera “La forza del destino – storia d’Italia dal 1796 ad oggi”, Duggan rivede la storia dell'unificazione nazionale, individuandone il principio nell'ingresso in Italia delle idee rivoluzionarie francesi nel 1796. Tali idee stimolarono, a suo giudizio, l'idea di una nazione italiana, inizialmente in un gruppo ristretto di uomini e donne del ceto colto[89]. Fu questo ristretto gruppo che cominciò ad analizzare le ragioni per cui la penisola, che aveva ospitato la civiltà romana e il Rinascimento, fosse rimasta visibilmente arretrata sul piano economico, culturale e politico, rispetto ad altri paesi europei[89]. Secondo lo storico inglese, la risposta fu individuata nella corruzione del carattere italiano, assunto coerente alle riflessioni di numerosi autori settecenteschi che individuavano in fattori morali l'ascesa o la caduta degli Stati[90]. Ne studia l'evoluzione nazionale, e afferma che ancor oggi, in Italia vi è un clima acrimonioso nei dibattiti storici, legato alla lotta politica, che rende arduo discutere della storia contemporanea italiana, gran parte dei dibattiti storiografici recenti sono, a suo avviso, ricchi di "esagerazioni, omissioni e distorsioni"[91].
Con riferimento al periodo post-unitario, egli riporta che già in occasione del massacro di Pontelandolfo e Casalduni voci in controtendenza come quella del deputato Giuseppe Ferrari, che definiva quanto accadeva una vera e propria “guerra civile”, furono bruscamente zittite, come antipatriottiche e dannose per l'assetto internazionale debole dell'Italia, e rispondendogli che “della violenza nell’Italia meridionale era responsabile il “brigantaggio” e nessun altro”[92].
Secondo lo studioso inglese, i governi del periodo successivo al 1861 erano costretti a rappresentare i furiosi combattimenti che avvenivano negli ex territori borbonici come unicamente connessi alla criminalità comune, dato che una diversa interpretazione avrebbe cozzato fortemente con gli esiti dei plebisciti, i quali parlavano invece di una popolazione unanimemente a favore dell’unità. Duggan osserva che gli sforzi compiuti per accreditare questa versione sono smentiti dai fatti, dato che nel 1864 ben 100.000 soldati (la metà dell’intero esercito italiano) erano schierati nel Mezzogiorno nel tentativo di rispondere alla sollevazione[93].
Lo storico riporta, come esempio di scene che, a suo giudizio, indussero molti settentrionali a vedere nel meridione un diverso stadio di civiltà, e non soltanto una popolazione politicamente arretrata, una descrizione dell'ingresso trionfale di "un'orda di briganti" in un paese abruzzese, con alla testa quattro galantuomini del clero, statue di santi e banda musicale, con uomini e donne armate, pronte ad un imminente saccheggio, e partecipanti ad una messa solenne con l'esposizione delle effigi di Francesco II e consorte. In aggiunta a ciò, lo storico afferma che numerose figure di primo piano dell’epoca contribuirono a costruire e sostenere l’immagine del Meridione come terra barbara e incolta, ripetendo un luogo comune diffuso da parecchio tempo prima dell'unificazione: che a sud di Roma iniziasse l'Africa[94]. Tra questi Duggan ricorda il caso di Luigi Carlo Farini[95] inviato a Napoli come luogotenente nell’ottobre 1860, che scrivendo a Cavour affermò “Ma amico mio, che paesi son mai questi (…)! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Lo studioso riporta che affermazioni riguardanti la barbarie, l’ignoranza, immoralità, superstizione, oziosità e codardia dei meridionali furono comuni in numerosi scritti e rapporti del tempo, che lo stesso Cavour scrisse a tal proposito che il meridione era corrotto “fino al midollo”[94][96] e che simili affermazioni erano anche ferocemente sostenute, con la veemenza caratteristica dei convertiti, da alcuni meridionali esiliati al tempo dei Borbone.
Secondo Duggan, il substrato su cui si poggiavano queste affermazioni era una miscela di “tornaconto e di paura”. Tornava utile, infatti, dipingere come corrotte ed arretrate le terre meridionali, in quanto ciò consentiva al nuovo governo di giustificare l’imposizione della propria costituzione, nonché di leggi, pratiche amministrative ed uomini secondo l’approccio della piemontesizzazione. Dall’altro lato, esisteva una viva preoccupazione rispetto alla possibilità della propagazione delle rivolte, il che avrebbe nuovamente frammentato il paese, con conseguenze imprevedibili[97].
Lo storico ritiene che la pretesa arretratezza delle terre meridionali fu strumentalmente utilizzata per giustificare atti di palese illegalità e violenza. Su tutti, viene ricordato il caso dell’eminente generale piemontese Giuseppe Govone, il quale, inviato in Sicilia con il compito di rastrellare coscritti, fece uso di metodi quali “la messa in stato d’assedio delle città, il taglio delle forniture d’acqua e la presa in ostaggio di donne e bambini”. Nel tentativo di giustificare le sue azioni in parlamento, Govone fece riferimento alla pretesa “barbarie” del territorio, causando lo scoppio di un parapiglia in aula. Francesco Crispi, siciliano, sfidò a duello un eminente deputato settentrionale, e ventuno democratici, tra cui lo stesso Garibaldi, si dimisero[98].
Duggan esamina inoltre il problema del numero degli uccisi negli anni immediatamente successivi all’Unità, in quella che citando Quintino Sella egli definisce una “vera guerra civile”. A tal proposito, egli effettua un raffronto tra le cifre ufficiali (5.200 tra uccisi in combattimento e giustiziati nel periodo 1861-1865) e quelle recenti che utilizzando le testimonianze locali ed i resoconti della stampa straniera, parlano di alcune decine di migliaia (e fino a 150.000) morti. Egli giudica queste ultime cifre “improbabili ma non impossibili”, dato che la natura stessa di questo tipo di eccidio, come quello di Pontelandolfo, originato secondo Duggan "dalla frustrazione di soldati che operavano in un mondo che li guardava con ostilita'"[99], è tale che non ne resta traccia nei documenti ufficiali[99].
Lo storico inglese critica aspramente il “trapianto a tutta l’Italia delle leggi e delle istituzioni piemontesi”, giudicando che esso fu effettuato “con così poca consultazione, e una fretta e un’insensibilità così grandi, da offendere gravemente le suscettibilità e gli interessi locali”. Se infatti il Piemonte poteva rivendicare un certo primato morale essendo l’unico stato italiano ad avere una Costituzione[100]; sotto altri aspetti quali l’istruzione, il governo locale e la giustizia, la Lombardia, la Toscana ed il Regno delle Due Sicilie avevano credenziali migliori. Solo in tempi recenti, infatti, il Piemonte si era liberato della fama di essere la “parte più arretrata della penisola”[100].
La sostituzione dei codici preesistenti con le leggi piemontesi causò forti malcontenti in Toscana, in specie per l’introduzione della pena di morte, inesistente nelle sue illuminate tradizioni giuridiche[101]. Altri malcontenti generalizzati furono dovuti all’introduzione dei prefetti come punti di riferimento locale del sistema di governo.[senza fonte] A tal proposito, Duggan osserva che "Non sorprende che nei primi decenni dopo l'Unità un'elevata percentuale dei prefetti provenisse dal Piemonte, o almeno dal Nord del paese; e nel caso di sedi chiave come Milano, Firenze, Napoli e Palermo si trattava quasi senza eccezioni di amici del ministro"[101].
Aspre critiche vengono rivolte da Duggan anche alla figura ed agli studi pseudoscientifici di Cesare Lombroso, che egli sprezzantemente definisce “Un uomo alquanto più fiducioso di possedere la soluzione dei problemi siciliani (e anzi dell’intera umanità)”. Lo studioso inglese fa risalire l’origine delle teorie razziste del medico veronese alla sua esperienza nell’esercito durante la campagna contro il cosiddetto brigantaggio. Essendo incaricato di effettuare le visite mediche ai coscritti, Lombroso ne esaminò e misurò circa 3.000, cominciando da ciò a sviluppare le sue idee sull’origine della delinquenza. Il primo risultato delle sue riflessioni fu un saggio del 1864 sulla connessione tra i tatuaggi dei soldati e la devianza[102]. A partire da questa esperienza, e da studi successivi, tramite una compilazione sistematica di statistiche sulla criminalità iniziata nel 1879, (vedi paragrafo specifico), Lombroso formulò l’assunto secondo cui “la violenza era un buon indicatore di barbarie, e a sua volta la barbarie era un buon indicatore della degenerazione razziale”. Tali teorie razziste, che comprendevano ad esempio l’opinione secondo cui l’incidenza generalmente minore degli omicidi nella metà orientale della Sicilia era in corrispondenza della presenza in loco di popoli “più ricchi di sangue ariano”,[103] sono bollate da Duggan come “un esempio paradigmatico della potenza del pregiudizio nel plasmare l’osservazione presunta imparziale”[104].
Duggan rivolge la sua attenzione critica anche alla costruzione della mitologia del Risorgimento, definita attraverso le parole di Francesco Crispi, che, secondo lo storico, avrebbe capito la necessità della nazione di avere "santi laici"[105], sostenendo “il bisogno di dare a questa religione della Patria, che deve essere la prima, se non l'unica, la massima solennità, la popolarità massima.“[106].
Lo storico inglese ritiene che l’idealizzazione del movimento unitario fu perseguita scientemente attraverso l’esaltazione delle figure di Vittorio Emanuele II e Garibaldi, in quanto catalizzatori e omogeneizzatori delle varie, e spesso contrastanti, tendenze monarchiche e repubblicane, federaliste ed unitarie, conservatrici e radicali per dare alla nuova nazione il "mito fondativo". Tale mitizzazione fu sostenuta da una fiumana di letteratura agiografica, soprattutto dopo la morte dei due personaggi (1878 e 1882, rispettivamente)[106] e da un’altrettanto cospicua ed attivamente incoraggiata costruzione di monumenti[107].
Questa operazione di iconificazione su scala nazionale ebbe accenti di cattivo gusto (come l’apposizione di una lapide in un camerino di Casamicciola ove Garibaldi aveva fatto un bagno), e anche episodi di disinformazione. A tal proposito, Duggan riporta il caso della seria biografia di Garibaldi scritta da Giuseppe Guerzoni nel 1882, che accanto alle virtù ne descriveva gli umanissimi vizi[108]. Essa fu immediatamente bollata come “troppo sofisticata” da Achille Bizzoni, che si affrettò a scriverne una versione edulcorata ad “uso del popolo”[109].
Duggan riporta inoltre che l’opera di costruzione di una mitologia del Risorgimento fu estesa anche alla “nazionalizzazione” dei curricula scolastici in materia di storia, il cui insegnamento doveva essere effettuato “in modo che i futuri allievi assorbissero dalla storia d’Italia l’amor di patria”. A tal fine, fu effettuata un’accurata manipolazione dei libri di testo, nei quali non si poteva ipotizzare che figure come “Cavour, o peggio ancora Vittorio Emanuele, non erano stati in tutto e per tutto dei patrioti disinteressati”[110].
A tal fine, ogni volta che un’alta personalità politica moriva, si procedeva ad un attento esame delle sue carte e della corrispondenza privata con il re, in modo da espungere e secretare nella Biblioteca Reale qualunque documento compromettente. Parimenti, la corrispondenza di Cavour fu massicciamente espurgata della feroce ostilità nei confronti di Garibaldi e dei democratici e delle frasi profondamente offensive nei confronti degli italiani[111].
Martin Clark
Un altro protagonista del revisionismo di stampo accademico è Martin Clark, docente di storia politica all'università di Edimburgo[112].
Nella sua opera “Il Risorgimento italiano – una storia ancora controversa”, Clark afferma la non sostenibilità della visione “patriottica e progressista” del processo di unificazione. Lo storico inglese rifiuta la visione teleologica del Risorgimento come processo e fine ineluttabile, ritenendolo piuttosto la concordanza di diversi eventi, alcuni dei quali affatto casuali.
Egli contesta che esistesse già una nazione italiana, dato che solo una ristretta élite culturale aveva coscienza ed orgoglio del proprio passato storico e si sentiva tale. A questo proposito, egli ricorda come solo il 2,5% della popolazione parlasse effettivamente l’italiano, mentre vasta parte degli abitanti della penisola parlava dialetti o lingue locali[113]; e che in ogni caso l’idioma italiano “definiva una comunità culturale, e non un’eventuale comunità politica”.[114] La minoranza di persone che si sentivano italiane, inoltre, costituita per lo più da esponenti dell’avvocatura o da intellettuali di diversa estrazione, auspicava l’indipendenza dai dominatori stranieri, l’Austria fra tutti, ma non l’unità. L’ambiente del tempo, infatti, era fortemente caratterizzato dalla presenza di diffuse tensioni campanilistiche, eredità dell’epoca dei Comuni e mai veramente sopite.
Lo studioso conclude quindi che “l’interpretazione patriottica del Risorgimento è erronea, non foss’altro per il fatto che gli italiani erano divisi e per nulla ansiosi di raggiungere l’unità nazionale”[115].
L’accademico inglese riconosce anche come gli studiosi di scuola meridionalista (vedi paragrafo specifico) abbiano dimostrato che la società dell’antico Regno delle Due Sicilie non fosse stagnante, e che alcune istituzioni duramente contestate dalla storiografia maggiormente diffusa, come il latifondo, non fossero indice di arretratezza socio-culturale, ma piuttosto la “risposta più appropriata alle condizioni tecnologiche e di mercato esistenti”. In questo contesto, prende corpo la tesi secondo cui furono in realtà le politiche doganali e fiscali adottate dai nuovi governanti a determinare la distruzione dell’economia del Meridione.[116]
Lucy Riall
Altre analisi del Risorgimento sono condotte anche dalla studiosa irlandese Lucy Riall, formatasi presso la London School of Economics e la Cambridge University, ed attualmente professoressa di storia presso il Birkbeck College dell'Università di Londra.[117] Riall dedica tutto un saggio alla figura di Garibaldi ed alla nascita del suo mito osservando che questo superava le barriere sociali e le frontiere degli stati, individuando in lui il primo eroe moderno a scala planetaria: "Questo rivoluzionario ai margini della politica, pressoché privo di sostegno ufficiale, che rimase al potere per meno di sei mesi in tutta la sua carriera politica, fu di fatto il primo a guadagnarsi una fama di dimensioni veramente mondiali e a raggiungere le masse per mezzo delle nuove tecnologie di stampa ...Era tanto odiato dalla Chiesa e dai tradizionalisti quanto era amato dalle giovani generazioni e dagli esclusi."[118].
Tommaso Pedio
Tra gli storici italiani che rileggono in chiave critica la storia del Risorgimento vi è il potentino Tommaso Pedio, archivista di Stato e docente di storia moderna presso l'università di Bari, il quale assunse posizioni estremamente critiche verso il processo di unificazione politico della penisola. La sua analisi ha carattere sia localistico, concentrandosi spesso sulla sua terra natia, sia più vasto, prendendo in considerazione l'intero Mezzogiorno. In particolare, Pedio considerò l'adesione della borghesia lucana alla causa unitaria come strumentale agli interessi della stessa, alla quale il nuovo governo di Torino avrebbe garantito potere politico e salvaguardia degli interessi economici[119]. Lo storico potentino evidenziò come tale fenomeno si configurasse come un conflitto tra la borghesia dei galantuomini liberali e i miserabili delle classi povere[119]. Pedio non risparmiò aspre critiche ai primi storici risorgimentali: egli, infatti, ravvisò in costoro attitudini di servile adulazione volte alla mistificazione degli eventi storici:
Lo storico, contrariamente ai suoi coevi, rivalutò, seppur con cautela, lo status economico del Regno delle Due Sicilie. Pedio, pur criticando la politica "paternalista" dei Borbone e la loro avversione all'emancipazione dei più elementari diritti civili,[121] sostenne che sul finire della prima metà dell'Ottocento, nel regno borbonico vennero realizzati, seppur con molti limiti, i presupposti per una trasformazione delle strutture economiche e sociali, i quali andranno perduti dopo l'unità. Dopo i primi impulsi, avvenuti sotto il decennio murattiano, la dinastia borbonica mirò nel rendere economicamente autonomo lo stato meridionale. Pedio individuò nel regno un eccessivo accentramento a livello economico (oltreché politico) di Napoli, che risentì di una grande immigrazione dalle altre province in cerca di lavoro nella capitale e non sempre garantito per tutti nonostante la presenza di opifici e fabbriche.[122] Tuttavia, nei primi decenni dell'Ottocento, Pedio parlò di una progressione delle strutture industriali preesistenti in Campania e Calabria e un'estensione di modesti opifici e piccole o medie fabbriche anche in altre aree del regno, in particolare in Abruzzo, Puglia e, sebbene in maniera molto esigua, in Molise e Basilicata.[123] Il settore tessile, anche se in modo piuttosto eterogeneo, ebbe una certa ripercussione sulle strutture sociali di tutte le province del regno.[124]
Tuttavia, Pedio affermò che, durante il Regno delle Due Sicilie, i salari erano piuttosto bassi, non vi erano norme a tutela dei lavoratori e nessuna sostanziale garanzia; l'operaio, inoltre, non aveva il diritto di protestare per ottenere migliori condizioni di lavoro e lo sciopero poteva essere punito dalla legislazione borbonica come "atto illecito tendente al disturbo dell'ordine pubblico",[125] e il ceto liberale non si intromise in favore del popolo per non ledere i propri interessi.[122] Nonostante le non poche lacune e il mancato raggiungimento di soddisfare completamente i bisogni del Regno, la gestione borbonica ebbe il merito, secondo Pedio, di aver creato i primi stabilimenti moderni della penisola e di aver generato anche notevoli trasformazioni nelle strutture sociali del Mezzogiorno, portando un considerevole aumento demografico.[126] Espresse anche disaccordo con il pensiero di Giustino Fortunato che vedeva una povertà secolare del Meridione, sostenendo che la questione meridionale ebbe inizio con l'unità d'Italia, addossando parte della responsabilità anche alla stessa classe politica del sud.
Pedio si dedicò doviziosamente allo studio del brigantaggio, in cui non intravide, come sostennero alcuni autori liberali, uno scontro reazionario tendente al ripristino della monarchia borbonica ma una lotta di classe tra il povero bracciante e il ricco possidente. Secondo lo storico, il brigantaggio, problema già noto nel Mezzogiorno, trae origine da fattori economico-sociali. Il latifondismo, causa principale del fenomeno, era un problema secolare del meridione: preminente sotto la dominazione spagnola, affrontato ma non risolto dai Borbone e dal governo napoleonico, rimasto insoluto con l'unità nazionale.[128] Nel 1860, i contadini, davanti alle promesse dei prodittatori nominati da Garibaldi riguardo ad una risoluzione demaniale, appoggiarono e seguirono i moti unitari nella speranza di una vita migliore ma la parola non fu mantenuta. Secondo Pedio, la classe liberale non si occupò della ripartizione delle terre per non inimicarsi il ceto borghese, il quale avrebbe visto i suoi interessi danneggiati, oltre al fatto che diede un grande contributo alla formazione dello Stato Unitario, e il nuovo governo italiano rimase impassibile davanti ai bisogni dello strato popolare. La plebe, che non ricavò nulla con il mutamento politico, maturò livore contro il nuovo ordine:
contadini meridionali hanno seguito le forze insurrezionali e accolto le avanguardie garibaldine, si trasforma rapidamente in aperta ostilità non appena il movimento liberale, conseguito il potere nelle province, si oppone alla risoluzione della questione demaniale per non disgustarsi la classe de’ proprietari che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose.[129]»
Ad accrescere la frustrazione popolare è l'aumento delle tasse, l'incremento dei prezzi sui beni primari e il bando della leva obbligatoria, sconosciuta sotto il Regno delle Due Sicilie. Molti renitenti vennero fucilati sul posto e senza neanche aver la possibilità di giustificarsi.[130] I braccianti, divenuti briganti, a cui si aggiunsero banditi comuni, ex garibaldini ed ex militari borbonici, in preda alla rabbia e alla disperazione, iniziarono a dedicarsi a grassazioni e saccheggi, il loro obiettivo principale erano le classi abbienti e l'intervento militare del nuovo stato italiano non cambiò la situazione:
Il governo borbonico in esilio guardò al malcontento contadino come una circostanza favorevole per riprendersi il trono, promettendo al ceto subalterno benefici e soprattutto la risoluzione dell'annosa questione demaniale. Il popolo disperato, convinto che una restaurazione borbonica avrebbe portato loro diritti, accettò il suo sostegno:
A sostenere il brigantaggio vi erano, oltre ai comitati collegati al governo borbonico, lo Stato Pontificio e persino alcuni ex carbonari che non approvarono l'andamento del nuovo sistema politico e i metodi adottati dalle truppe regie.[129] Con questi supporti la disordinata reazione contadina si trasformò in un ben organizzato movimento politico. Pedio, però, sostiene che i briganti vennero abbandonati a sé stessi e i notabili filoborbonici, davanti ai deputati del regno italiano scesi nel meridione per indagare sul brigantaggio, manifestarono servilismo e furono tra coloro che sollecitarono la sua repressione:
Salvatore Lupo
La rilettura storica di questo studioso parte dall'inizio del secolo XIX, in quanto secondo Lupo l'unificazione italiana, al pari della maggior parte dei maggiori eventi della storia non era ineluttabile, ma fu la realizzazione di un sogno e un disegno di determinanti movimenti politici, avvenuto con azioni e reazioni spesso caotiche e persino incoerenti[132]. A seguito della restaurazione Lupo osserva che la penisola era suddivisa in 6 stati indipendenti (a cui aggiungere il Lombardo Veneto incluso nell'Impero asburgico) con scarse relazioni economiche e privi di un coordinamento istituzionale, la maggior parte della popolazione era analfabeta e quindi è accettabile ipotizzare che non fosse in grado di elaborare una consapevolezza personale di italianità, diversamente le persone appartenenti ai ceti colti poterono immaginare l'italianità utilizzando dei modelli ideali come quello presentato nei Sepolcri (1807) dal Foscolo[133]. Politicamente a questa identità italiana si rifacevano diversi gruppi: i liberali, i democratici, i cospiratori di società segrete, in altre parole, a suo avviso, tutti gli oppositori dei sette governi monarchici e assolutistici, che desideravano la scomparsa del dominio straniero (diretto o indiretto) e una confederazione di stati italiani, ognuno con la concessione della costituzione; in seguito da questo campo politico si distingueranno i repubblicani mazziniani propugnando l'idea dell'Italia come unico stato[134].
Analizzando la parola Risorgimento Lupo osserva che questo termine nasconderebbe le contraddizioni dei patrioti, l'alternarsi di faziosità e solidarietà, le spinte passionali e le violenze degli scontri che caratterizzavano sia i patrioti che i loro oppositori, l'espressione Risorgimento sarebbe quindi un termine "edificante" che porrebbe i suoi protagonisti a maestri di morale, contro cui noi oggi, a grande distanza di tempo, saremmo "spinti per reazione a fare loro la morale, secondo i mediocri standard della correttezza politica oggi in voga" finendo per capirne ancor meno[135]. Viceversa Lupo reintroduce il termine di rivoluzione (e l'associato contro-rivoluzione), anch'esso usato dai protagonisti del tempo e sotto cui si divisero i democratici da un lato e i legittimisti e i conservatori dall'altro, questo termine finì nell'oblio nella storiografia risorgimentale assieme ai connessi "repubblica, insurrezione e popolo" a causa della vittoria dei moderati, ma la definizione di questo periodo storico non sarebbe completa senza introdurre anche l'espressione "guerra civile". Lupo rimanda all'analisi di Vincenzo Cuoco scritta nel 1801[136], dopo la distruzione sanfedista della Repubblica Partenopea avvenuta nel 1799, secondo lo storico napoletano esistevano, ad inizio secolo XIX, contemporaneamente due nazioni viventi nell'Italia meridionale, insediate sullo stesso suolo, ma «con diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse» distinte in "popolo delle campagne e delle città (lazzaroni)" e i "possidenti"[137]. L'impresa garibaldina del 1860 permise la vittoria della rivoluzione siciliana e di quella meridionale, a cui però nel periodo 1860- 1863 seguì un contrasto sicuramente definibile come guerra civile in cui piemontesi combatterono contro meridionali, ma anche meridionali combatterono contro meridionali, "arrivando a molti degli eccessi che si consumano in casi di questo genere"[138].
Per lo storico siciliano la Spedizione dei Mille è stata la più alta prova del volontariato militare risorgimentale. Tale volontariato fu liquidato, insieme a Garibaldi, subito dopo la battaglia del Volturno e con esso anche il governo dei democratici nel Meridione, sostituito dai rappresentanti del potere sabaudo[139]. Fra i drammi che sconvolsero all'epoca il Mezzogiorno, assunse particolare virulenza il brigantaggio postunitario, che pur avendo assunto le connotazioni di una guerra civile, viene visto da Lupo come l'ultimo atto di un conflitto più che cinquantennale.[140] Per quanto riguarda il dualismo Nord-Sud, questo era preesistente all'unificazione, ma non nelle forme di un Nord borghese che si contrapponeva a un Sud feudale, dal momento che «...la borghesia era una creatura onnipresente in Italia: quella professionale, percettrice di rendite fondiarie medio-piccole, quella grande-proprietaria, non poi così diversa dalla nobiltà, quella che gestiva imprese agricole, mercantili o di altra natura...».[141] Quanto al feudalesimo, non esisteva, o al massimo era circoscritto ad alcune aree interne del sud dominate dal latifondo. Lo storico siciliano considera inoltre priva di fondamento la tesi secondo cui la concorrenza delle industrie del nord avrebbe irrimediabilmente compromesso lo sviluppo di quelle meridionali. Fu l'integrazione dell'Italia in un sistema di libero scambio a produrre invece una vera e propria deindustrializzazione in tutto il paese: la partecipazione del settore secondario nel reddito privato passò, durante il primo ventennio post-unitario, dal 20,3% al 17,3%.[142]
Eugenio Di Rienzo
Un recente contributo alla storiografia revisionista del Risorgimento viene da Eugenio Di Rienzo, docente di Storia Moderna presso l’Università La Sapienza di Roma e direttore di “Nuova Rivista Storica”.
Nella sua opera Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, egli prende in esame i processi storici, economici e diplomatici che sono stati sottesi all’unificazione italiana, confermando diverse delle tesi degli autori a lui precedenti.
Secondo Di Rienzo, l’origine della crisi va individuata nell’atteggiamento di equidistanza diplomatica perseguito da Ferdinando II durante il suo regno, il quale era secondo lui protetto per tre lati dall’acqua salata, e per un quarto dall’acqua santa[143]. Tale dottrina strategica era dettata dalla necessità per il Regno delle Due Sicilie, una volta affrancatosi dalla tutela spagnola, di muoversi nello spazio geopolitico del Mediterraneo, entro il quale le grandi Potenze, segnatamente Inghilterra e Francia, giocavano il ruolo di attori principali. Lungi dall’essere caratterizzata da una passiva acquiescenza nei confronti degli stati più grandi, tale partita fu giocata con abilità dal gabinetto diretto da Ferdinando II, e non fu scevra di risultati, come provato dalla copiosa documentazione diplomatica esistente[144]. In quest’ambito, Ferdinando II prese la decisione di rovesciare il tradizionale assetto diplomatico del Regno di alleanza con l’Austria e di acquiescenza nei confronti dell’Inghilterra, che datava dai tempi della cattività in Sicilia di Ferdinando I; e tentare nel contempo un allineamento con i Borbone di Francia, con l’intenzione di realizzare un equilibrio di potenza nel Mediterraneo che rinforzasse la posizione neutrale del Regno[145]. Unitamente al rifiuto di intervenire nella Prima guerra carlista a favore di uno dei contendenti, il che provocò una violenta reazione diplomatica britannica, tale atteggiamento fu secondo Di Rienzo la base della futura ostilità anglo-napoletana[146].
L’Inghilterra aveva, inoltre, consistenti interessi in Sicilia, sviluppati durante il periodo di instaurazione del protettorato britannico sull’isola (1811-1815) da parte di William Bentinck. Al seguito dei militari numerosi imprenditori anglo-americani, come i Whitaker, gli Ingham e i Woodhouse, avevano impiantato diverse attività economiche, principalmente legate alla produzione vinicola ed allo sfruttamento delle strategiche miniere di zolfo siciliano, che all’epoca coprivano quasi la totalità del fabbisogno mondiale[147]. L’isola era dunque diventata rapidamente il caposaldo della politica inglese nel Mediterraneo, come Di Rienzo esemplifica attraverso le parole di Giovanni Aceto:
Il proposito inglese di fare del Mediterraneo un Mare Nostrum contrastava ovviamente con gli interessi francesi e spagnoli, ma soprattutto napoletani. Contemporaneamente, l’atteggiamento indipendentista delle Due Sicilie, che a più riprese tentarono di ridiscutere il trattato che li impegnava in qualità di “nazione commercialmente più favorita” con l’Inghilterra fin dal 26 settembre 1816, ebbe un forte ruolo nel deteriorare le relazioni tra i due stati. Le materie prime provenienti dalle Due Sicilie, ed in particolare lo zolfo, altamente strategico all’epoca, avevano infatti un peso rilevante nella bilancia commerciale inglese. Nei confronti del Regno fu di conseguenza adottata una politica di intimidazione che ebbe numerosi episodi, come ad esempio quello della contesa dell’Isola Ferdinandea, e quella che fu famosamente definita “Guerra dello zolfo”[149]. In questa occasione, il governo napoletano di cercò di ottenere condizioni più favorevoli per l’esportazione del minerale attraverso l’affidamento dell’estrazione alla francese Taix&Aycard. Dopo aver percorso infruttuosamente la via diplomatica, l’Inghilterra “passava all’uso della forza per sostenere la sua strategia di imperialismo commerciale camuffata dalla difesa dei principi del libero scambio”[150], inviando la flotta ad effettuare manovre dimostrative nel golfo di Napoli ed effettuando il blocco navale del naviglio delle Due Sicilie[150][151]. La successiva mobilitazione delle truppe da parte di Ferdinando II e la spedizione di note diplomatiche di protesta a tutti i governi europei ebbe come esito l’intervento di Luigi Filippo, che “pur giudicando le pretese inglesi eccessive e “suggerite da improba avidità”, obbligava Napoli ad abrogare il monopolio concesso al trust Taix-Aycard e a risarcire i danni subiti dalle aziende britanniche e francesi”[152]. Il trattato, caldeggiato in particolare da Giustino Fortunato senior, ripristinò lo status quo, ma le relazioni tra Due Sicilie ed Inghilterra restarono tese.
Roberto Martucci
I revisionismi d'impostazione cattolica
Ernesto Galli Della Loggia ha osservato che fra tutti i paesi europei l'Italia fu l'unico a realizzare la propria unione in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale[153] e fino alla firma dei Patti Lateranensi il cattolicesimo italiano e il Vaticano mantennero una pozione critica sul Risorgimento[154]. Tuttavia Paola Gaiotti De Biase osserva che con l'enciclica Rerum Novarum furono riscoperte da parte dei cattolici le verità del cattolicesimo liberale risorgimentale da intellettuali quali Giuseppe Toniolo, Filippo Meda, Maori, Romolo Murri, Valente, Migliori, Grandi, che superarono una posizione antagonista verso lo stato italiano arrivando ad elaborare una posizione data da un intreccio tra cattolicesimo liberale e l’intransigenza della testimonianza religiosa[155].
Da questo avvicinamento, incominciò un riesame e rivalutazione dei rapporti fra Chiesa cattolica e risorgimento italiano, che considererà il Risorgimento "come un evento provvidenziale, che le ha consentito di sgravarsi del peso del governo temporale e di svolgere così più liberamente la sua missione universale[156]
Una simile rianalisi del percorso storico del rapporto tra Chiesa e Stato e tra liberali e cattolici nel Risorgimento viene fatta da Gaetano Quagliariello, sempre partendo dalla premessa che "l'Italia è stata l'unica nazione dell'Occidente che si è formata contro la Chiesa". Secondo Quagliarello il rapporto può essere ricondotto ad una successione di fasi: Pio IX tempo dell'intransigenza con contrapposizione della nazione cristiana allo stato liberale, Leone XIII con un attacco al suo illiberalismo da un lato e un'attenzione alla politica sociale per ridurre il consenso delle masse verso il regime liberale, quindi una fase di "tentata integrazione" dove "mondo cattolico" è diviso in due posizioni: una intransigente e un'altra conciliatorista nel tentativo di superare lo stallo dato dal non expedit, se fosse riuscito avrebbe chiuso la "questione romana, tentativo non riuscito causa l'avvento del fascismo e conseguente caduta della democrazia liberale e i rapporti furono ridefiniti in una nuova fase con la stipula dei Patti Lateranensi[157] Dopo la caduta del fascismo, aggiunge Orsini, nel pensiero cattolica vennero assommate, nell'area dalla sinistra democristiana, le tradizionali posizioni cattoliche intransigenti verso lo Stato liberale con quelle aventi un approccio più positivo verso lo stato italiano, secondo una linea neo sturziana, avendo nello storico Gabriele De Rosa il massimo esponente[158].
Una differente interpretazione storiografica, basata sulla tesi secondo cui lo Stato unitario sia il frutto di una sopraffazione di una minoranza contro la maggioranza degli italiani, è opera di un gruppo di studiosi di ispirazione clericale, ideologicamente legati a quella componente cattolica pesantemente danneggiata dalla politica anticlericale attuata prima dai piemontesi e proseguita durante il Regno d'Italia. Il pontefice Pio IX scomunicò il governo liberale di Cavour per la violazione dei territori pontifici e per il severo trattamento riservato a tutto ciò che era riconducibile alla Chiesa cattolica. La protesta degli ambienti clericali non riuscì ad affermarsi di fronte al dirompente potere del neonato Stato e finì per essere relegata in una stretta cerchia di cattolici intransigenti. La polemica causata dallo scontro tra la Chiesa e il Regno d'Italia, a causa dell'invasione dello Stato Pontificio del 1870, sarà identificata in seguito come Questione romana.[159]
Tra quest'ultimi studiosi una particolare interpretazione storiografica del Risorgimento viene data da studiosi contemporanei che, secondo Salvatore Lupo, si trovano in posizioni antirisorgimentali di parte ultracattolica[160] come Angela Pellicciari[161], Roberto de Mattei[162], Francesco Mario Agnoli,[163] e Massimo Viglione,[164].
Risorgimento come opera provvidenziale
Nel giugno del 1959, in occasione delle solenni celebrazioni in memoria del centenario delle battaglie di Palestro e Magenta, l'allora cardinal Montini suggeri' una nuova chiave di lettura della storia risorgimentale, affermando pubblicamente "Occorre portare la storia vicino alla religione ... e saremo così invitati a esplorarne le sue profonde ragioni", chiarendo qualche giorno dopo, durante la celebrazione del Te Deum in Duomo, di riconoscere nelle vicende del Risorgimento italiano "quel carattere superlativo che pure chiamiamo provvidenziale" in quanto "realizza un disegno, che, per vederlo ora, è l'interpretazione giusta delle condizioni e dei bisogni d'un popolo; lo realizza con una rapidità che ha del prodigioso, e acquista subito una consistenza che persuade tutti essere definitiva"[165].
Nel filone di questa analisi sul conflitto Stato italiano e Chiesa, esploso nel risorgimento, Andrea Tornielli, nel suo saggio su Pio IX (2011), considera anch'egli "provvidenziale" la caduta del potere temporale del papato, ricordando che un simile giudizio venne espresso nel 1960 dall'allora cardinale Montini[166] che in un celebre discorso, pronunciato il giorno precedente l'apertura del Concilio Vaticano II, affermò che se inizialmente la fine del potere temporale "parve un crollo .. la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose ...il papato con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo ... " non mancando tuttavia Montini di osservare a proposito dell'unità italiana che "Qualche cosa mancò alla vita italiana nella sua prima formazione, non fosse altro la sua interiore unità, la sua consistenza spirituale, la sua unanimità patriottica e la sua piena capacità a risolvere i problemi di una società disuguale, tanto bisognosa di nuovi ordinamenti, e già attraversata da fiere correnti agitatrici e sovversive". Tornielli, dopo aver affermato che la firma dei Patti Lateranensi riconosce un pizzico di ragione postuma a Pio IX, conclude l'introduzione al suo saggio auspicando che i tempi siano maturi per guardare con distacco a "pagine di storia" vecchie di un secolo e mezzo, e lontano dalle polemiche degli opposti estremismi.
Valutando il ruolo che laici cattolici e chierici piemontesi ebbero nel costruire lo stato unitario, la storica Lucetta Scaraffia ritiene, nell'introduzione del saggio "I cattolici che hanno fatto l'Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all'Unità d'Italia" che vi fu un picco di conflittualità intorno alla presa di Roma e all’estensione delle leggi piemontesi di espropriazione dei beni ecclesiastici, ma anche momenti di accordo e collaborazione su vari piani, non necessariamente politici, negli anni immediatamente successivi all’Unità ed alla fine la Chiesa ne uscì ammodernata, purificata e rafforzata, osservando che anche eventi tramandati come negativi verso la Chiesa, quali l'Eversione dell'asse ecclesiastico in realtà permise agli ordini religiosi femminili di poter operare nel sociale mostrando all'Italia unita un modello interessante di emancipazione femminile: non attraverso la rivendicazione dei diritti, ma assumendosi le responsabilità e dimostrando di essere in grado di sostenerle[167].
Sulla stessa linea lo storico Andrea Riccardi, rifacendosi a Gabriele De Rosa sostiene che l'unificazione permise una miglior unità della chiesa italiana, in quanto antecedentemente le diocesi italiane costituivano "mondi a parte", il cui quelle piemontesi erano permeate da "elementi di gallicanesimo", mentre nel Regno borbonico ... ci fu una sorta di barriera nei confronti del Concilio di Trento, conseguentemente i salesiani dal Piemonte si diffusero nel Mezzogiorno, e i rogazionisti viceversa risalirono lo stivale, e l'unità della chiesa permise la formazione dell'Opera dei Congressi e della Azione Cattolica[168]. Anche per lo storico cattolico Francesco Trianello i cattolici italiani, prima del 1870 non costituivano una categoria omogenea, la questione cattolica nacque solamente dopo l'atto di forza della breccia di Porta Pia e non fu da tutti condivisa, per esempio, Traianello osserva che il cattolico Alessandro Manzoni "non curandosi della scomunica, votò a favore di Roma capitale" ed osserva che la formazione dello Stato italiano permise la nascita di una chiesa italiana, sia pure non equiparabile alle altre chiese nazionali europee per la presenza vaticana, consentendo "al papato di accentuare l’universalismo[169]
Il giurista Francesco D'Agostino, ritiene che l'unificazione politica italiana si sia purtroppo compiuta forzando una identità tra patriottismo e nazionalismo, trasmessa almeno fino alla sua generazione da un insegnamento scolastico che indicava l'Austria come il "nemico naturale dell'Italia", Garibaldi come un eroe e il Risorgimento inquadrato come un "evento patriottico", piuttosto che evento storico politico[170].
Diversamente da chi ha considerato, profittando delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, tale evento storico come un qualcosa da deplorare, D'Agostino ha sostenuto che l'Unità "ha segnato in modo irreversibile la vita del nostro Paese e che merita di restare nella memoria collettiva di tutti, oltre che di continuare ad essere, come tale, oggetto di approfondimenti critici"; secondo, il giurista, infatti, è questo, lo scopo delle celebrazioni. D'Agostino, che ha coordinato la sessione "I cattolici, la politica e le istituzioni" nell'ambito dei lavori del X Forum del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana sui 150 anni dell'Unità d'Italia ha esposto, sulle pagine del quotidiano cattolico l'Avvenire, la propria posizione che pare in linea con quella degli ambienti della cultura cattolica, collegati alle gerarchie vaticane affermando: "Nel 1861 non è nata l'Italia, più semplicemente è stato istituito sul territorio italiano uno "Stato Unitario". L'Italia, da un punto di vista culturale, artistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli. Letta come evento "politico", l'Unità d'Italia merita tutte le celebrazioni. Questo non significa, però, la pretesa di qualificare la proclamazione del Regno d'Italia (e gli ulteriori eventi del 1866 e del 1870, senza voler arrivare al 1918, come pur sarebbe ragionevole fare) come un evento di rilevanza "nazionale": si è trattato, invece, di un evento "politicamente" di grande rilievo. La nazione italiana non ha avuto alcun bisogno di aspettare il trionfo dei movimenti risorgimentali per riconoscersi ed essere riconosciuta come tale da tutte le nazioni. Tutte le difficoltà nascono dal fatto che ancor oggi la nozione di Stato viene confusa con quella di Nazione..."[171]. Tale sistematica confusione fra unità politica e nazionale è stata il "grande dramma del Risorgimento", mentre l'identità della nazione italiana, che preesisteva all'unione politica rimane "solida grazie alle sue fondamenta cristiane" ed ogni rivendicazione identitaria non può prescindere dal riconoscere le radici cristiane.[172].
Secondo D'Agostino, nella nazione italiana si deve includere anche il Canton Ticino, per quanto politicamente faccia parte della Svizzera (che è da considerarsi avente natura di stato multinazionale e non nazione), viceversa la cittadinanza italiana può essere condivisa anche a chi "non sia italiano per cultura, origine etnica o tradizione religiosa". La visione risorgimentalistica classica avrebbe proposto nella sua analisi un tentativo di assimilare Stato e nazione (similmente a quanto accadde in Francia, da Luigi XIV alla Rivoluzione) che avrebbe sempre come risultato "l'effetto perverso della politicizzazione dell'identità di un popolo, inducendo a valutarne la rilevanza in termini quantitativi e militari (la potenza) piuttosto che qualitativi, cioè in definitiva storici e 'spirituali'"[173].
Papa Benedetto XVI, nel suo messaggio inviato a Giorgio Napolitano in occasione del 150º anniversario dell'unificazione politica dell'Italia, approfondisce l'analisi svolta da Montini nel 1959 affermando che "Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima", facendo risalire al medio evo l'origine della "nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza" e il cristianesimo, tramite l'attività della Chiesa, contribuì "in maniera fondamentale" a formare l'identità italiana, sia sotto l'aspetto culturale che politico, permettendone il mantenimento e la crescita anche durante la frammentazione geopolitica e i periodi di assoggettamento allo straniero. L'analisi del Pontefice prosegue, rovesciando l'interpretazione di un Risorgimento "contrario alla chiesa" e alla religione in generale, ricordando il valore e il contributo del pensiero neoguelfo di Vincenzo Gioberti, di Cesare Balbo, Massimo D'Azeglio e Raffaele Lambruschini cattolici-liberali, e come, a suo giudizio, il pensiero di Antonio Rosmini sia entrato anche nell'attuale costituzione italiana. Infine la Questione Romana produsse a suo giudizio, un conflitto fra Stato e Chiesa, ma non intaccò il "corpo sociale" ove la comunità civile e quella ecclesiale rimasero sempre in amicizia[174].
Gianni Gennari, ricordando figure di cattolici risorgimentali dimenticate dai "pregiudizi" della storiografia tradizionale, ha contestato la ricostruzione storiografica classica di un Cavour morto irreligiosamente con alle labbra il motto "libera Chiesa in libero Stato!"[175] ricordando che il cappuccino Fra' Giacomo da Poirino gli portò in corteo pubblico l'estrema unzione e lo confessò in punto di morte, sfidando Pio IX e venendo quindi richiamato a Roma, ed inoltre ha riportato alla memoria il gesuita Carlo Passaglia che dopo esser stato anche teologo personale di Pio IX nel 1862 raccolse 10000 firme di preti richiedenti l'unità d'Italia[176],[177].
Questa revisione risorgimentale, iniziata da Montini, viene contestata esplicitamente da Pellicciari, che afferma che le parole di Paolo VI sono state strumentalizzate, secondo la studiosa è inesatto affermare che il potere temporale sia finito: è ridotto a un territorio simbolico, ma c’è e questo salva la libertà della Chiesa nella libertà del papa dal non essere suddito/cittadino di nessun altro Stato[178].
Angela Pellicciari
Le analisi della Pellicciari fanno risalire la questione risorgimentale all'ingresso in Italia delle "truppe giocobine francesi" guidate dal massone Napoleone Buonaparte che, secondo la studiosa, saccheggiarono l'Italia in nome della libertà e del risorgimento della gloria nazionale[179] affermando di voler "risvegliare il Popolo Romano assopito da molti secoli di schiavitù", e volendo imporre agli italiani un ordine anticristiano fondato sulla potenza di Satana, facilmente riconoscibile osservando che la stella inserita nello stemma del Regno d'Italia (1805-1814) altro non sarebbe che una insegna satanica: la pentalfa massonica.[180] La Pellicciari osserva che un'altra insegna satanica, un teschio di caprone, è ben visibile sulla stele, che al Gianicolo ricorda gli studenti padovani morti difendendo la repubblica romana[181]. Sconfitto Napoleone la liberal-massoneria inglese avrebbe preso la guida del movimento allo scopo di sollevare gli italiani dal "peso dei millecinquecento anni di oscurantismo cattolico", evento che, ricorda la studiosa, fu definito “Risorgimento del paganesimo”, da Leone XIII[182].
Secondo la Pellicciari, replicando a Norberto Bobbio “L’abbattimento del potere temporale dei papi, ... non è certo il principale obiettivo dell’élite risorgimentale: a leggere quello che le fonti del secolo scorso scrivono (sia di parte massonica che cattolica), il Risorgimento mira alla pura e semplice scomparsa del cattolicesimo”[183], arrivando a definire il Risorgimento come una guerra di religione, oggi dimenticata[184], scatenata da liberali e massoni contro la chiesa cattolica[185]. Secondo la Pellicciari a partire dal 1848, il Risorgimento può essere interpretato alla luce della battaglia liberale, avvenuta nel parlamento subalpino contro gli ordini religiosi, che nel 1848 portò nel regno piemontese alle leggi Siccardi, all'espulsione dei gesuiti, all'arresto del vescovo di Torino Luigi Fransoni e, nel 1858, alla soppressione degli ordini religiosi mendicanti[186][187].
Secondo la Pellicciari, importanti articoli dello statuto albertino non sarebbero stati rispettati dalla monarchia sabauda e dai suoi governi: appena promulgato infatti, sarebbe avvenuta la prima "la prima seria persecuzione anticattolica dopo Costantino"[188], nonostante l'articolo 1 dello statuto definisse la religione cattolica come unica religione di stato. Ugualmente non rispettati sarebbero stati l'articolo 28 sulla libertà di stampa, negata a quella cattolica, e il 29 che avrebbe dovuto difendere l'inviolabilità della proprietà privata, violato dagli incameramenti dei beni ecclesiastici derivanti dalle donazioni secolari della popolazione cattolica italiana[188][189] e che avrebbero "messo sul lastrico" 57.492 persone (ossia i membri degli ordini religiosi)[190]
Nella sua opera reinterpreta dal punto di vista cattolico anche alcune figure risorgimentali. Di Garibaldi, ricorda l'attività di scrittore e romanziere fortemente anticlericale che arrivò a suggerire di mettere "i preti alla vanga" per la bonifica delle Paludi pontine, a suo giudizio anticipando di un secolo la "fantasia" di Mao Tse-tung. Asserisce, inoltre, che nelle sue memorie Garibaldi abbia taciuto di essere stato anche uno schiavista, e nelle sue memorie "non racconta del commercio di carne umana"[191]. Come prova di tale ipotesi, la Pellicciari riporta la frase "Garibaldi "m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie", scritto dall'armatore ligure Pietro Denegri in riferimento al viaggio, compiuto nel 1852, della nave Carmen, comandata da Garibaldi nella rotta Callao-Canton-Lima[192]. Di Giuseppe Mazzini osserva che fu amico delle confessioni protestante, evangelica e anglicana, "nemiche della chiesa cattolica", e in opposizione a Montanelli, che gli attribuì il merito di aver parlato di Dio e quindi di spirito, afferma che ripudiò la rivelazione cristiana, condividendo l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria, la cui missione religiosa sarebbe stata la sostituzione del domma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia "[193]. Viceversa lamenta la censura e l'oblio operati verso gli scritti di Giacomo Margotti di cui si occupa diffusamente nel suo libro "Risorgimento anticattolico"[194].
La sua interpretazione storica include anche il giudizio negativo sui plebisciti avvenuti l'11 e 12 marzo 1860 in Emilia, Toscana, il 21 ottobre nell'Italia meridionale, 4 e 5 novembre nelle Marche e Umbria, a suo giudizio fatti per dimostrare al mondo, a conquista avvenuta, quanto fossero felici gli italiani del nuovo assetto. Per ottenere questo scopo afferma che venne chiamata al voto tutta la popolazione, azione che giudica "inaudita in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% degli abitanti". Facendo riferimento a testimonianze del tempo, afferma a tal proposito che i risultati furono una "truffa gigantesca confezionata ad arte" e concorda con il non expedit di Pio IX in quanto "con un simile stato i cattolici non dovevano avere nulla a che fare"[195].
Osservando, e concordando esplicitamente con quanto Marx[196] afferma, Pellicciari ritiene che la rivoluzione industriale inglese avrebbe ridotto la popolazione in miseria, mentre sostiene che in Italia, "grazie alla capillare presenza cattolica", questa rivoluzione non provocò gli stessi danni, al punto che nessun moriva di fame, contrariamente a quanto accadeva all'estero. La miseria generalizzata della popolazione sarebbe stata provocata dal Risorgimento che ridusse gli italiani sul lastrico, obbligandoli ad un’emigrazione di massa, sconosciuta nei millenni precedenti[197].
Negli ultimi anni l'opera di revisione storica della Pellicciari, è stata diretta ad inquadrare l'unificazione italiana nella più ampia prospettiva europea. A suo avviso "il punto non è solo quello della brutalità della conquista sabauda del Meridione né dell’arretratezza economico-sociale del Sud", ma quello di "affrontare il tema della nostra identità nazionale", comprendere l'errore storico e culturale di un Risorgimento inteso come “risorgimento” dal cattolicesimo, quanto :"tutti gli italiani, di qualsiasi regione e di qualsiasi ceto fossero, si sono uniformemente riconosciuti per più di un millennio nella fede e nella cultura cattoliche: fede e cultura che l’élite liberale dell’Ottocento ha combattuto con tutte le forze"[198].
Risorgimento esoterico
Alcuni studiosi teorizzano una interpretazione esoterica dello spirito e degli eventi che caratterizzarono il risorgimento italiano, tra questi Massimo Introvigne, Cecilia Gatto Trocchi e Pierluigi Baima Bollone che l'analizzano in funzione degli ideali di ingegneria sociale nati in Europa nel secolo XVI, e Sandro Consolato che sostiene l'esistenza di una spiritualità ermetica pre-cristiana o pagana italico-romana [199].
Secondo Massimo Introvigne[200] le forze che operarono per creare uno stato nuovo unitario seguivano l’idea della città ideale dei Rosacroce del secolo XVII , ripresi dai massoni che aspiravano ad uno stato non legato ad una specifica religione, ma con un atteggiamento relativistico verso la religione e le ideologie, quindi storicamente al di fuori della tradizione cattolica italiana.
Giuseppe Garibaldi, che divenne anche gran maestro massonico, medito’ l’idea di sostituire la tradizione religiosa con lo spiritismo, arrivando ad essere presidente della società spiritica italiana [201], mentre Giuseppe Mazzini era interessato alla mistica delle religioni orientali e credeva nella reincarnazione, e secondo Gatto Trocchi fu influenzato dall’ebrea Sara Levi Nathan Normal [202] e dalla teosofa Helena Petrovna Blavatsky, amica di Garibaldi, con cui partecipò alle battaglie di Monterotondo e di Mentana. Le pratiche esoteriche e spiritiche proseguirono nel paese per tutto il secolo XIX e si produssero anche nella pubblicazione di Aradia, o il Vangelo delle Streghe indicante le streghe come liberatrici degli oppressi in antitesi alla religione cattolica, ed il romanzo Pinocchio, sempre secondo Gatto Trocchi, può essere interpretato come un testo di iniziazione massonica per il cittadino del nuovo stato unitario [203] .
Questo progetto massonico risorgimentale, secondo Introvigne, trovo' nella casa Savoia uno strumento per operare, grazie alla sua storica, ambivalenza verso la religione, già presente al tempo di Vittorio Amedeo II di Savoia che pur avendo come confidente e confessore il beato Sebastiano Valfrè teneva maghi ed astrologhi a corte, e divenuta ben visibile nell’ottocento: Carlo Alberto all’inizio del suo regno assecondo' la richiesta di espellere i gesuiti dal suo regno, ma poi scriverà "Il mestiere di Re mette in pericolo la salvezza della mia anima". La matrice massonica sarà fortemente presente in Vittorio Emanuele II, anche se la massoneria, vietata in Piemonte, e in quasi tutti gli altri stati preunitari, nel 1814, dopo la caduta napoleonica, tornerà ad essere formalmente permessa nel 1859 con la creazione della loggia Ausonia e Costantino Nigra l'ambasciatrice personale di Cavour presso Napoleone III, diventerà il primo gran maestro dell’ordine. Nello stesso periodo casa Savoia mostrerà anche una forte vena cattolica praticante con figure come Maria Cristina di Savoia e Maria Clotilde di Savoia[204].
In ogni caso per Introvigne occorre distinguere tra progetto di Unita' d'Italia e quello risorgimentale, il primo non e’ attribuibile esclusivamente a movimenti esoterici o laicisti, ma inclusivo anche di rilevanti personaggi cattolici come il "beato Francesco Faà di Bruno o a Rosmini - che sposavano questa causa e la giudicavano cruciale per lo sviluppo dell'Italia, in un mondo in cui andavano affermandosi i grandi Stati nazionali"[205].
Secondo Consolato gruppi "insorgenti ed unitaristi", quali la carboneria, la Società dei Raggi e la Guelfia [206] agivano utilizzando la massoneria come "funzione di “copertura” di realtà iniziatiche italiane ben più antiche della Libera Muratoria nata in Inghilterra nel 1717" e "depositarie dell’antica sapienza pitagorica"[207]. Secondo la sua analisi l'Italia unita non sarebbe spiegabile se non con la trasmissione nei secoli della memoria culturale della Romanità, l'ideale romano dell'Unita' d'Italia sarebbe stato perseguito a partire dai sovrani longobardi nel medioevo, ad opera di "elites pagane", talvolta ermetiche sia sul piano politico che artistico e letterario[208], tra indica Federico II di Svevia, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Cola Di Rienzo, Alfonso d’Aragona, Niccolò Machiavelli, Tommaso Campanella, Giambattista Vico, Gaetano Filangieri, Gian Domenico Romagnosi [209].
Questa "idea fondamentale del ritorno all’origine mitica", secondo Consolato sarebbe già' stata riconosciuta da Antonio Gramsci, che a proposito del significato nazionale e politico dato nell'ottocento al termine risorgimento scrisse nei Quaderni dal carcere [210] scrisse che era associato ad altre frasi come “Riscossa nazionale” e “riscatto nazionale” che esprimevano "il concetto del ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di “ripresa” offensiva (“riscossa”) delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia (“riscatto”). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all’unità dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana “nata” o “sorta” con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia “rinata”, la nazione sia “risorta”, ecc. La parola “riscossa” è del linguaggio militare francese, ma poi si è legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si riscuote"
Argomentazioni del revisionismo storico del Risorgimento
Un certo numero di revisionisti sostengono che l'invasione del Regno delle Due Sicilie non sia stata dettata da motivi ideali legati alla volontà di unire l’Italia, ma sia piuttosto derivata dalla volontà del Regno di Sardegna di allargare i propri confini a danno degli stati contigui, incamerandone inoltre le ricchezze per sanare il proprio deficit[211][212][213]. Al fine di conseguire questo scopo, il Regno di Sardegna, attraverso soprattutto l’opera diplomatica di Cavour, si sarebbe assicurato l’appoggio sia dell’Inghilterra[214], che della Francia, che a diverso titolo avevano interesse in proposito.
In quest'ottica, la spedizione dei Mille non sarebbe stata un moto spontaneo di pochi idealisti, ma la testa di ponte di un’invasione pianificata a tavolino. In preparazione di quest’ultima, sarebbe stata effettuata una vasta opera di mistificazione e propaganda ai danni del governo borbonico[215][216], la quale aveva lo scopo di accentuarne l’isolamento diplomatico. Contemporaneamente, il governo piemontese avrebbe effettuato una vasta manovra di corruzione degli alti gradi dell’esercito e della marina del Regno delle Due Sicilie[217][218]. Oltre che con l'appoggio inglese[219] e marginalmente francese, nonché della massoneria internazionale[220], l’impresa dei Mille sarebbe stata effettuata con l’appoggio della mafia in Sicilia[221], e della camorra a Napoli[221][222][223], e sarebbe stata successivamente consolidata con l’invasione del Regno delle Due Sicilie da parte delle truppe sabaude, senza che tale atto fosse preceduto da una dichiarazione di guerra[224][225][226].
Sempre secondo tali autori, in seguito all’invasione, sarebbero stati organizzati dei plebisciti-farsa, tesi a dipingere come moto popolare spontaneo degli abitanti delle Due Sicilie il rivolgimento in atto, e a giustificare l’operato piemontese di fronte all’opinione pubblica europea[227].
Dopo l’annessione, il Piemonte avrebbe infine proceduto ad un’opera di estensione della propria organizzazione statale, con norme e persone piemontesi, all’intero territorio del neonato Regno d’Italia, cancellando leggi ed ordinamenti secolari, e smantellando più o meno coscientemente le attività economiche del sud Italia a favore di quelle del nord.[228][229]
Il peggiorare improvviso delle condizioni economiche ed il forte contrasto sociale e culturale tra piemontesi e abitanti delle regioni meridionali annesse sarebbe stato alla base dell’esplosione del fenomeno del brigantaggio, interpretato dai revisionisti come movimento di resistenza[230][231] (durante il quale i sabaudi si resero colpevoli di crimini di guerra quali deportazioni[232][233][234][235], eccidi[236][237] e stupri[237][238]) ed alla successiva massiccia emigrazione che colpì i territori meridionali[239][240]. Alcuni autori sostengono che nell’opera di annichilimento culturale e sociale avrebbero avuto un’influenza le teorie razziste elaborate da Lombroso a partire dal 1864, e pubblicate a partire dal 1876, che furono adottate come base pseudoscientifica per giustificare le repressioni in atto,[241][242] ma questo punto è tuttora oggetto di dibattito in quanto non esiste alcun tipo di prova.
Di seguito vengono trattati in dettaglio i diversi argomenti che conducono tali autori all’elaborazione della visione di cui sopra.
Situazione economica e sociale delle Due Sicilie
Molti revisionisti sostengono che il Regno delle Due Sicilie, generalmente descritto come uno stato povero e oppresso[243][244], fosse in realtà un regno in cui si viveva un certo benessere[71], con un buon tasso di progresso economico, sociale e culturale e che stava attraversando una fase di sviluppo crescente, bruscamente fermata dalle modifiche indotte dalla piemontesizzazione.[245]
A supporto di questa tesi viene generalmente citata l'opera dell'economista lucano Francesco Saverio Nitti, che fu tra l'altro Presidente del consiglio dei ministri del Regno d'Italia tra il 1919 e il 1920. Agli inizi del Novecento, quest'ultimo compì studi approfonditi sulla situazione economica del regno borbonico e degli altri stati che comporranno in seguito l'Italia unita, sostenendo che le Due Sicilie fossero lo stato che apportò al bilancio italiano minori debiti e la più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme[246]. In particolare, nelle sue opere Scienza delle Finanze e Nord e Sud, Nitti riportò che al momento dell'introduzione della lira, nel Regno delle Due Sicilie furono ritirate 443,3 milioni di monete di vario conio[247] pari al 65,7% di tutte le monete circolanti nella penisola; mentre il Regno di Sardegna ne aveva 27,1 milioni[248]. Le posizioni di Nitti furono tuttavia contestate da Giustino Fortunato, altro studioso meridionalista[249].
A sostegno di quanto affermato da Nitti, altri autori riportano che l'entità del risparmio pubblico e privato nelle Due Sicilie era di notevoli dimensioni. Nel periodo immediatamente precedente alla spedizione dei Mille, il solo Banco delle Due Sicilie (evoluzione del Banco di Napoli fondato nel 1584) gestiva una somma pari a 33 milioni di ducati tra depositi pubblici e privati, equivalenti a circa 140 milioni di lire piemontesi (il tasso di cambio tra le due monete era infatti pari ad un rapporto di 4,25:1,[250] in favore di quella napoletana). A tale somma andavano aggiunti due milioni di sterline, pari a circa 60 milioni di ducati (e quindi a 255 milioni di lire piemontesi) di proprietà personale di Francesco II. Altri 30 milioni di ducati (equivalenti ad altri 127,5 milioni di lire piemontesi) erano invece custoditi dalle banche siciliane[251]. Oltre al già citato Banco di Napoli, nella capitale era presente una delle uniche quattro filiali europee (le altre erano a Londra, Parigi e Vienna) della banca della famiglia Rothschild.[252]
Quanto sostenuto dagli storici revisionisti sulla base di aspetti qualitativi dell'economia, è stato di recente oggetto di studio scientifico da parte di ricercatori moderni. Gli economisti Vittorio Daniele dell'Università di Catanzaro e Paolo Malanima dell'"Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche" (ISSM - CNR) di Napoli hanno di recente pubblicato un'analisi delle serie storiche del prodotto delle regioni nel periodo 1861-2004. Nell'ambito delle conclusioni del loro lavoro, essi sostengono che al momento dell'annessione non vi fosse alcun reale divario economico tra nord e sud e che esso iniziò a manifestarsi nell'ultimo ventennio dell'800.[253]
Le posizioni di Malanima e Daniele vengono corroborate dal recente studio quantitativo di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli[254] "Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy", pubblicato dalla Banca d'Italia nella collana Quaderni di Storia Economica. In questo lavoro, gli studiosi indagano le ragioni per le quali il Mezzogiorno non ha tenuto dopo l'unificazione lo stesso passo di sviluppo industriale del resto d'Italia, lamentando, tra l'altro, che la discussione sulla Questione Meridionale in proposito si sia a lungo basata non su stime quantitative. Nell'ambito delle conclusioni del proprio lavoro, Fenoaltea e Ciccarelli affermano:
Oltre a porre l'accento sulle buone condizioni economiche delle Due Sicilie prima dell'unità, diversi revisionisti riportano i numerosi primati del Regno in campo scientifico e tecnologico, sostenendone su questa base il progresso civile e sociale. È ad esempio accertato che nelle Due Sicilie sia stata costruita la prima nave a vapore nel Mediterraneo (1818)[256]; la prima linea ferroviaria italiana (Napoli-Portici, 1839); la prima illuminazione a gas in Italia (1839); il primo osservatorio vulcanologico del mondo (Osservatorio Vesuviano (1841).[257] Gli stessi autori sottolineano inoltre la presenza di impianti industriali avanzati come la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa (la più grande di tutta la penisola),[258]; il Cantiere navale di Castellammare di Stabia[259], il Polo siderurgico di Mongiana e quello tessile, settecentesco, di San Leucio (oggi sito patrimonio dell'umanità dell'UNESCO).
Oltre ai primati del Regno nella sua totalità, i revisionisti riportano inoltre alcuni dati su Napoli. L'allora capitale, tra i numerosi primati, aveva quelli di prima città d'Italia (e la terza d'Europa) per numero di abitanti; di città d'Italia con il più alto numero di tipografie (113) e per pubblicazioni di giornali e riviste; ed il più alto numero di conservatori musicali e di teatri, fra cui il famoso San Carlo (1737), tuttora il più antico teatro d'opera d'Europa in attività. A Napoli era infine stata fondata la prima cattedra di economia politica a livello mondiale, nata ad opera di Antonio Genovesi nel 1754[260] nell'ambito dell'università Federico II, la più antica università statale d'Europa[261].
Altri storici sono di diverso avviso. Giustino Fortunato sostenne che il Mezzogiorno fosse affetto da una povertà atavica, che sarebbe stata in gran parte determinata dalle avverse condizioni geografiche e climatiche della regione.[262]. Tommaso Pedio, pur cogliendo alcuni segnali di rinnovamento economico nel Regno delle Due Sicilie durante la prima metà dell'Ottocento, ha spesso riportato, nei suoi saggi, le misere condizioni in cui versavano all'epoca i lavoratori del Regno delle Due Sicilie, privi, nella maggior parte dei casi, di tutele e con bassi livelli di reddito.
Denis Mack Smith ritiene che le condizioni economiche e sociali del Meridione preunitario fossero proprie di regioni arretrate e che la maggior parte degli abitanti dell'area vivesse nello squallore. Secondo lo storico inglese, le cause di tale situazione sarebbero da ricercare nei Borbone che egli ritenne sostenitori del sistema feudale:
La crisi finanziaria del Regno di Sardegna
Una parte della corrente revisionista sostiene che il vero motivo della conquista degli stati preunitari, ed in particolare del Regno delle Due Sicilie, non sia stato di natura ideale, ma piuttosto riconducibile alla crisi finanziaria del regno sabaudo[211][212]; il quale, tra il 1848 e il 1859, avrebbe accumulato un debito di circa 910 milioni di lire[264]. Già nel luglio 1850, infatti, lo stesso conte di Cavour così esprimeva in un intervento alla Camera le sue preoccupazioni riguardo allo Stato delle finanze piemontesi:
Gli autori revisionisti ritengono che ad incidere sul passivo del bilancio dello Stato sabaudo fossero le spese sostenute per le diverse guerre espansionistiche, e non, volute per inserirsi nel gioco diplomatico internazionale. In particolare, la guerra di Crimea, che Cavour considerava un buon trampolino di lancio per introdurre il Piemonte sullo scacchiere politico europeo, comportò a Torino, oltre che perdite pari ad un terzo del contingente inviato[266]; un importante sacrificio economico, che fu finanziato con la contrazione di un debito con la Gran Bretagna che verrà saldato solo nel 1902, andando a gravare per oltre quarant'anni sul bilancio dello Stato unitario[267].
Diverse fonti confermano lo stato di forte crisi finanziaria del Regno di Sardegna, riportando, invece, una situazione opposta per il Regno delle Due Sicilie. Secondo tali fonti, infatti, il debito pubblico delle Due Sicilie era un terzo di quello piemontese (26 milioni di lire contro 64), ma all'unificazione tale passivo fu accollato anche ai territori degli altri stati preunitari. In particolare, in un suo studio del 1862, il barone Giacomo Savarese confrontò le rendite (cioè i titoli di Stato), di Piemonte e Due Sicilie. In particolare, evidenziò che il Piemonte aveva nel 1847 un debito pubblico limitato a 9.342.707,04 lire annue, il quale negli anni successivi lievitò a tal punto che nel solo 1860 furono emesse rendite per 67.974.177,10 lire[268]. Per contro, il totale delle emissioni di titoli del debito pubblico delle Due Sicilie, nel decennio 1848-1859, assommò a 5.210.731,00 lire[268]. Savarese, inoltre, mise a confronto, sempre nel decennio preso a periodo di riferimento, i bilanci e le leggi allegate delle Due Sicilie e del Piemonte deducendone che quest'ultimo aveva accumulato, un disavanzo maggiore del primo di 234.966.907,40 lire (369.308.006,59 lire del Piemonte contro 134.341.099,19 lire delle Due Sicilie – che, negli anni 1856 e 1859, avevano fatto registrare finanche un avanzo di bilancio)[269]. Sempre nello stesso periodo, il Piemonte aveva approvato 22 provvedimenti legislativi che introducevano nuove tasse o aggravavano quelle già esistenti (contro nessuna nuova tassa o aggravio nelle Due Sicilie), nonché altre disposizioni che decretarono l’alienazione di una serie di beni pubblici[270] per ridurre il disavanzo[271].
La solidità finanziaria delle Due Sicilie e la contemporanea situazione opposta a carico del Piemonte, è stata esemplificata in questo modo dall'economista Francesco Saverio Nitti:
Anche la storica revisionista di impostazione cattolica Angela Pellicciari sostiene quanto sopra, riportando una frase di Pier Carlo Boggio, deputato del Regno di Sardegna[273]. Quest'ultimo scrisse nella sua opera Fra un mese! (1859) che «la pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta»[274] affermando che i gravi problemi finanziari del Piemonte erano conseguenza delle ingenti spese derivanti dal suo impegno per la causa nazionale:
La tesi del complotto internazionale contro il Regno delle Due Sicilie
Con l'ascesa al trono di Ferdinando II, la politica estera del Regno delle Due Sicilie fu caratterizzata da un orientamento molto chiaro: il sovrano voleva trasformare il regno in uno stato nelle cui faccende nessun altro stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé. Di conseguenza, il reame di Sua Maestà Siciliana mantenne, riporta Croce, un contegno non servile verso l'Inghilterra[275]; ma, tale atteggiamento, secondo quanto riferisce Paolo Mieli, non fu gradito al Regno Unito, poiché Londra riteneva che l'aver protetto la monarchia borbonica in età napoleonica le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II[276]. Dei guasti rapporti anglo-napoletani riporta anche lo storico calabrese Ernesto Pontieri che definisce la politica britannica verso le Due Sicilie come una politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso chi, non senza ragione, conservava rispetto all'Inghilterra, immutata la sua diffidenza[277]. La nuova politica adottata dal reame delle Due Sicilie, con particolare riferimento a determinati episodi storici, contribuì, dunque, secondo taluni autori, ad incrinare le relazioni internazionali tra Napoli e Londra.
Le relazioni diplomatiche
Alcuni revisionisti sostengono che, in seguito alle politiche adottate dal sovrano, il regno borbonico fosse caduto in una situazione di isolamento diplomatico[278]. Ferdinando II, infatti, aveva effettuato la scelta di perseguire una politica autarchica nella gestione dello Stato, che sul fronte estero si tradusse nella non adesione ad un "partito" specifico. Il Regno delle Due Sicilie era piuttosto legato all'Austria (Maria Teresa, moglie di Ferdinando II, era austriaca) ed aveva relazioni di lunga data sia con la Francia di Napoleone III, che con l'Inghilterra (queste ultime risalenti proprio al periodo speso in Sicilia da Ferdinando I). Ferdinando II, tuttavia, aveva dato segni fin dall'inizio del suo regno di volere assicurare al proprio paese un'indipendenza diplomatica[279], convinto com'era che la sua posizione di paese "tra l'acqua santa e l'acqua salata"[280] lo avrebbe protetto da ingerenze estere, a condizione di avere una potente marina militare.
I progressi delle Due Sicilie in campo marittimo
Secondo alcuni filoni revisionisti il contrasto diretto tra la Gran Bretagna ed il Regno delle Due Sicilie avrebbe avuto radici nella progressiva affermazione di quest'ultimo quale potenza marinara posta al centro del Mediterraneo, e, quindi, in diretto contrasto con gli interessi inglesi[281][282]. A tal proposito, diverse fonti riportano come, in particolare sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, la marina mercantile napoletana fosse progressivamente cresciuta dalle 5.328 unità (102.112 tonnellate) del 1834 alle 9.847 unità (259.917 tonnellate) del 1860, e come, soprattutto, fosse mutata la tipologia del naviglio a favore di unità a più elevato tonnellaggio, le quali consentivano, quindi, di condurre traffici commerciali su lunghe distanze[283][284]. Il proposito del sovrano di migliorare progressivamente l'influenza commerciale della propria Marina nel Mediterraneo era in netto contrasto con la strategia inglese di dominio dei traffici sui mari; i lavori per l'apertura del canale di Suez erano appena iniziati e dunque le Due Sicilie avrebbero potuto interferire negli interessi inglesi di traffico tra la madrepatria e le Indie.[285]
La disputa territoriale sull'isola Ferdinandea
Anche la contesa su Ferdinandea, un'isola di circa quattro chilometri quadrati emersa dal mare, nel luglio del 1831, tra Sciacca e Pantelleria e, quindi, entro le acque territoriali siciliane, viene generalmente considerata come un'altra causa di contrasto tra la Gran Bretagna e le Due Sicilie. La disputa sull'isolotto cominciò con la presa di possesso dello stesso da parte della Gran Bretagna, che, da Malta, inviò la corvetta Rapid, comandata dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, per sbarcare sull'isola alcuni fanti affinché la occupassero. L'atto dei britannici, viene considerato, da Paolo Mieli, sproporzionato, se si considerano esclusivamente le dimensioni dell'isola. Il giornalista italiano, infatti, interpreta l'occupazione inglese di Ferdinandea come un segno inequivocabile delle mire britanniche sulla Sicilia, dalla quale Londra importava, non solo prodotti agroalimentari, ma soprattutto lo zolfo e che, quindi, avrebbe avuto interesse a tenere sotto il proprio controllo[276]. Il 10 agosto, dunque, gli inglesi piantarono per primi il loro vessillo sull'isolotto, che fu battezzato isola di Graham. Il 17 agosto, tuttavia, ritenendo la neonata isola posta all'interno delle proprie acque territoriali, lo Stato borbonico ne rivendicò l'appartenenza dandole il nome del proprio sovrano. Questa disputa, risolta velocemente con la scomparsa dell'isola a fine dicembre[286], è generalmente interpretata come un altro indice della volontà di Ferdinando II di affermare le Due Sicilie come potenza marinara tesa al controllo del Mediterraneo centro-meridionale[282], in contrasto diretto con gli interessi inglesi.
La prima guerra carlista
Tra il 1833 e il 1840, ebbe corso la prima guerra carlista, conflitto scoppiato per la successione a Ferdinando VII sul trono di Spagna, che vedeva contrapposto a Isabella II, figlia dello scomparso sovrano, il fratello di quest'ultimo, don Carlos. Nel 1834, Ferdinando II non volle fornire l'appoggio militare del proprio esercito a Isabella, al fianco della quale erano schierate Francia e Inghilterra, che valutarono la scelta del sovrano delle Due Sicilie come un atto di insubordinazione. Secondo Paolo Mieli, il rifiuto di Ferdinando II fu determinante nel danneggiare irrimediabilmente i rapporti con la Gran Bretagna, poiché tale atto fu interpretato dal governo di Londra come un eloquente segnale che indicava una precisa volontà del governo borbonico: liberare il Regno delle Due Sicilie da qualsiasi condizione di subalternità, elevandolo al rango di medio-grande potenza.
La questione dello zolfo siciliano
Secondo alcuni storici revisionisti, il comportamento degli inglesi sembrerebbe correlato anche con la questione dello zolfo siciliano[287][288]. Tale preziosa materia prima era gestita dalla Gran Bretagna in regime di monopolio, in virtù di una concessione fatta nel 1816 da Ferdinando I. A quei tempi, lo zolfo era una risorsa strategica per la fabbricazione di polvere da sparo, e la produzione delle miniere siciliane copriva l'80% della domanda mondiale[289]. Nel 1836, Ferdinando II ritenne svantaggiose per le casse dello Stato le condizioni economiche della concessione assegnata agli inglesi, che traevano profitto dal minerale comprandolo a un costo molto basso e rivendendolo a prezzi elevati, senza garantire un buon introito al suo regno.[71] Il sovrano, che nel frattempo aveva rimosso la tassa sul macinato, si trovava in condizione di dover cercare altri mezzi con cui incamerare contributi per le casse del regno. La soluzione sembrò arrivare dalla Francia nel tentativo di modificare la partnership commerciale con gli inglesi. La gestione dello zolfo venne così affidata ad una ditta francese, la Taix Aycard di Marsiglia, che lo avrebbe pagato almeno il doppio rispetto agli inglesi.[71]
Tutto ciò provocò una forte reazione della Gran Bretagna che, oltre a preannunciare il sequestro delle navi siciliane,[290] mandò nel 1836 una flotta navale nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti. Ferdinando II non si fece intimorire e ordinò al suo esercito di proteggere le coste del regno.[71] Il tutto sarebbe sfociato in una vera e propria guerra se il sovrano francese Luigi Filippo non fosse riuscito a fare da arbitro tra i due stati. La contesa venne conclusa con l'annullamento da parte dello Stato borbonico del contratto stipulato con la Taix Aycard,[291][292] l'obbligo di rifondere agli inglesi le perdite che sostenevano di aver avuto causa la rescissione del contratto, e di rimborsare ai francesi il mancato guadagno derivante dall'annullamento del nuovo accordo.[71]
La guerra di Crimea e la politica estera di Cavour
La politica estera voluta da Ferdinando II, secondo alcune interpretazioni storiografiche, si estrinsecò anche nella scelta di restare neutrale nella guerra di Crimea, non concedendo l'uso dei suoi porti alle flotte inglesi e francesi[293], il che gli alienò non poche simpatie. Secondo Paolo Mieli, la guerra di Crimea fu per Ferdinando II l'occasione per affermare nuovamente le Due Sicilie come stato libero da qualsiasi forma di subalternità. Dopo essersi dichiarato neutrale, infatti, Ferdinando II adottò ogni provvedimento possibile per non favorire il fronte anglo-francese. Il governo borbonico, infatti, emanò disposizioni sanitarie, giustificate dall'epidemia di colera sviluppatasi in Crimea, che obbligavano i vascelli provenienti dall'Impero ottomano ad una quarantena di quindici giorni. Inoltre, vietò il rilascio di passaporti ai cittadini siciliani, temendo che avversatori isolani della dinastia si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta da fuoriusciti politici italiani[276]. In conseguenza di ciò, il 7 agosto 1855, il primo ministro britannico Palmerston, in una seduta della Camera dei Comuni, accusò il governo di Napoli di essersi schierato a favore dell'Impero russo, poiché, secondo il capo del governo britannico, il Regno delle Due Sicilie ne era divenuto uno stato vassallo. Per Palmerston, quindi "il regno borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e all'Inghilterra vietando l'esportazione di merci che il suo stato di neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a trafficare"[276].
Differentemente da Ferdinando II, in tutto il decennio precedente l'unità d'Italia, Cavour fu molto attivo nella diplomazia europea per assicurare allo stato sabaudo la simpatia, se non l'alleanza, di Inghilterra e Francia. È noto, infatti, che nel 1855 egli inviò un contingente di truppe per combattere a fianco di quelle inglesi nella Guerra di Crimea. In questo modo, si guadagnò un seggio alla successiva conferenza di pace, dove riuscì far prendere ai rappresentanti inglesi e francesi una posizione sulla questione italiana. L'amicizia piemontese con la Gran Bretagna venne confermata dalla visita di stato che re Vittorio Emanuele II fece alla Regina Vittoria[214] al termine del conflitto. Sul fronte diplomatico francese, invece, Cavour riuscì ad avvicinare a sé Napoleone III e lo fece, secondo quanto riportato da Gigi Di Fiore, anche grazie alle arti seduttive di una sua parente nei confronti dell'Imperatore[294]. L'amicizia con la Francia da parte del Piemonte si concretizzò con la collaborazione militare tra francesi e sabaudi contro l'Austria durante la Seconda guerra di indipendenza italiana, al termine della quale gli accordi di Plombières sancirono l'annessione della Lombardia al Piemonte.
Ipotesi del complotto internazionale
Secondo talune interpretazioni revisioniste, le politiche adottate da Ferdinando II nelle relazioni diplomatiche e il conseguente contrasto con l'Inghilterra furono tra le circostanze che determinarono una convergenza di interessi internazionali verso l'annessione delle Due Sicilie al Piemonte. Per taluni autori, infatti, il processo di annessione sarebbe stato una operazione pianificata, attuata con il palese sostegno della Gran Bretagna[295].
Le dichiarazioni di Gladstone
Un'illustre personalità, talvolta confusa da alcuni autori con Gladstone, visitò il 20 marzo 1850 il carcere della Vicaria di Castel Capuano e quello di Santa Maria Apparente. Si trattava di Alexander Baillie-Cochrane, deputato conservatore e sostenitore dei diritti dei governi assolutistici[297]. La sua visita, effettuata con il proposito di informarsi sulle condizione dei popoli sottoposti ai governi della penisola italiana usciti vincitori dai rivolgimenti del 1848, va inquadrata nell'aspro scontro che si svolgeva allora nelle aule parlamentari inglesi tra conservatori e liberali[298]. Della sua visita vi sono quattro testimonianze:
- una rapporto (conosciuto come Memorandum per S. M.) steso da un ignoto funzionario della polizia napoletana;
- una lettera, datata 29 marzo, scritta da Antonio Scialoja, che incontrò il deputato britannico in Castel Capuano, dov'era detenuto[299];
- una lettera scritta il 24 marzo da Carlo Poerio dove egli descrive l'incontro con il Cochrane avuto a Santa Maria Apparente, suo luogo di detenzione;
- l'opera scritta dal Baillie-Cochrane stesso, Young Italy[300].
Il rapporto di polizia contiene alcune imprecisioni e omissioni, dovute, probabilmente, all'intendimento del funzionario di compiacere i propri superiori; vi è, comunque, descritto l'incontro del Cochrane con il Poerio. La lettera di Scialoja lascia intendere che l'ex-ministro non si aspettasse risultati positivi dalla visita dell'esponente politico inglese «spedito qui dai suoi amici politici per esaminare le tristi condizioni di questo paese e farne rapporto»[301]. Le considerazioni esposte da Poerio nella propria missiva concordano in gran parte con quelle dello Scialoja, non credendo che l'Inghilterra (così come la Francia) avrebbe esercitato delle forti pressioni sul governo napoletano per il ristabilimento della Costituzione e della legalità[301]. Nella sua opera il Cochrane riporta che le opinioni da lui raccolte a Napoli erano eterogenee: la nobiltà riteneva che tutto andasse per il meglio, mentre la classe media si lamentava del dispotismo imperante. Egli, per accertare la verità, si recò a far visita al presidente del consiglio dei ministri, Giustino Fortunato, chiedendogli di visitare subito le carceri napoletane e di parlare con i detenuti politici; alla proposta del Fortunato di effettuare la visita l'indomani, egli replicò con un «sul momento, o non più», al che il presidente acconsentì. Cochrane effettuò una prima rapida visita a Santa Maria Apparente, sulle cui condizioni di vita espresse un parere abbastanza positivo. Qui interrogò i prigionieri politici circa il motivo della loro detenzione (gli venne risposto, genericamente, per "cospirazione contro il governo") e la durata della stessa (da due settimane a otto-nove mesi, senza aver subito né interrogatorio né processo)[302]. Spostatosi alla Vicaria ne ebbe, invece, una pessima impressione, poiché si trovò di fronte a «gentiluomini di elevata educazione costretti a mescolarsi con la feccia delle galere» e poiché fu quasi assalito da una turba di carcerati speranzosi di avere da lui assicurazioni e promesse che egli non poté dare. Chiese, poi, di visitare il piano sotterraneo, del quale dichiarò che per descriverne gli orrori avrebbe avuto bisogno dell'immaginazione di Dante[303]. Viste le misere condizioni dei prigionieri, il Cochrane pensò a come recare loro sollievo e, ricevuto un invito a visitare il Re a Caserta, decise di rivolgere la richiesta direttamente al monarca. Recatosi a Caserta il giorno dopo, 21 marzo, ne ricavò rispetto a Ferdinando II un'"universale impressione favorevole circa la sua operosità, condotta ed ansia di fare ciò che era giusto"[304]. Una volta di fronte al Re, dichiarò che egli riconosceva l'iniquità delle accuse a lui rivolte dai liberali, ma che era necessario, visto lo stato deplorevole delle carceri e la promiscuità che vi regnava, liberare i detenuti politici che vi si trovavano (il cui numero ammontava a 614, secondo quanto da lui constatato, e non a 15.000, secondo quanto veniva falsamente propagandato)[304]. Ferdinando II, con un linguaggio che secondo Cochrane "non avrebbe potuto essere più nobile, generoso e sensibile", rispose che la commistione tra detenuti comuni e prigionieri politici era stata determinata dal fatto che "fino al 1848 non vi era un solo prigioniero politico, e che il governo non aveva mai considerato una tale terribile necessità ma ciò non era esatto,[305] in quanto vi erano stati detenuti politici nelle carceri delle Due Sicilie già a partire dal 1832[306], ed altri erano stati imprigionati in seguito ai moti insurrezionali avvenuti nel 1844 e 1847 tant'è che il re stesso aveva concesso un'amnistia ai "politici" condannati nel 1847.[307]. Ammettendo il male che da tale condizione derivava, il Re promise che avrebbe immediatamente operato per eliminare i problemi segnalati dal deputato inglese. Egli dichiarò inoltre false le voci secondo cui il governo stesse promuovendo petizioni per abolire la Costituzione, e che sperava di concedere presto un'amnistia. Andando via, Cochrane si scusò della sua franchezza, ma Ferdinando II gli rispose "Sono felice di aver ascoltato la verità - desidero ascoltarla; nessuno è più ansioso di me di fare ciò che è giusto. Sono stato vergognosamente descritto e calunniato - per lo più ingiustamente; ma voi avete parlato dal cuore coraggiosamente ed onorevolmente, e vi ringrazio per questo!"[308]. Lasciata Napoli il 22, Cochrane riportò che quale risultato immediato del suo colloquio con il Re, si ebbe la separazione dei detenuti politici dai delinquenti comuni ed il rilascio di alcuni di essi. Lo stesso Cochrane fu in seguito raggiunto in patria da notizie secondo cui i detenuti politici erano stati trasferiti in un posto peggiore, e che i contatti con le famiglie erano stati resi più difficili. In conclusione della descrizione di quell'esperienza, Cochrane constatò che la verità si trovava tra i due estremi che aveva ascoltato e, pur ammettendo che vi erano state delle violazioni della legalità da parte del governo borbonico, espresse critiche rispetto al linguaggio diplomatico adottato dal governo inglese nei confronti di Ferdinando II. Egli scrisse "Molto può essere fatto con persone come il Re di Napoli, usando tatto e buon senso. Nulla può essere ottenuto da coloro che iniziano con il negarne qualunque buona qualità, e che, rivendicando i diritti di un popolo straniero, mostrano una perfetta noncuranza o ignoranza rispetto al diritto delle nazioni"[309]. L'anno successivo, Cochrane fu alla Camera dei Comuni, fiero difensore della politica seguita dai governi borbonico e austriaco in Italia. Le sue dichiarazioni, inoltre, furono spesso usate dai borbonici in difesa del governo napoletano e, talvolta, proprio per controbattere alle affermazioni del Gladstone.
Il politico conservatore inglese William Gladstone, tra l'autunno del 1850 e l'inverno del 1851, soggiornò a Napoli, con la sua famiglia, per circa quattro mesi: la motivazione ufficiale del suo viaggio riguardava i problemi di salute di una delle sue figlie, Mary, di soli 3 anni. Rientrato in patria, in febbraio, scrisse due lettere al Parlamento britannico, in cui sosteneva che lo stato borbonico fosse in una terribile situazione sociale. Gladstone, in particolare, sosteneva di essersi recato in alcune carceri napoletane e di essere rimasto scioccato dalle condizioni in cui versavano i detenuti[215].
Nell'introduzione alle lettere, era scritto, tra l'altro:
Le due lettere vennero anche date alle stampe divenendo note come: Two Letters to the Earl of Aberdeen, on the State Prosecutions of the Neopolitan Government; ebbero diverse ristampe[310] e ne venne pubblicata anche una loro traduzione in francese, intitolata Deux Lettres Au Lord Aberdeen Sur Les Poursuites Politiques Exercées Par Le Gouvernement Napolitain. Le missive, dunque, si diffusero in tutta Europa e le affermazioni in esse contenute furono accreditate come vere. A nulla valsero i tentativi del governo borbonico di smentire le asserzioni del britannico[311]. La diffusione di tali assunti, inoltre, costò le dimissioni del primo ministro napoletano Giustino Fortunato, per non aver informato il re della vicenda[312].
Immediatamente dopo la loro pubblicazione, le accuse di Gladstone suscitarono reazioni tra i contemporanei, ed i primi commenti in risposta alle lettere si concentrarono sulla confutazione delle affermazioni del politico britannico. Alphonse Balleydier, ad esempio, in La vérité sur les affaires de Naples, réfutation des lettres de m. Gladstone, si propose di demolire gli assunti su cui Gladstone basava le sue "fabuleux échafaudage", deplorando, tra l'altro, il fatto che una volta giunto a Napoli, in luogo di visitare il ministro Fortunato o rendere omaggio al sovrano, si fosse recato subito nelle prigioni a parlare con i più accaniti avversari del governo napoletano[313] ivi detenuti.
Sempre in Francia, Jules Gondon, al fine di respingere le accuse di Gladstone, pubblicò il libro La terreur dans le royaume de Naples, lettre au right honorable W.E. Gladstone en réponse à ses Deux lettres à lord Aberdeen[314]. Il conte Walewski, ambasciatore francese che soggiornò a Napoli per quasi due anni, scrisse, invece, una lettera a Lord Palmerston, in cui affermò:
Ad ogni modo, taluni autori collocano le lettere di Gladstone tra gli episodi che potrebbero essere ascritti all'ipotesi del complotto internazionale ai danni delle Due Sicilie. Gli antirisorgimentali, infatti, ritengono che le denunce sul presunto malgoverno dei Borbone fossero un chiaro appoggio ai liberali italiani e che esse avrebbero permesso a piemontesi e inglesi di indebolire la posizione delle Due Sicilie nello scacchiere della diplomazia internazionale[71]. Secondo Gigi Di Fiore, la motivazione ufficiale della visita di Gladstone a Napoli, cioè i problemi di salute di sua figlia, fu soltanto un pretesto: in realtà, il motivo del viaggio sarebbe stato quello di relazionare il governo di Londra circa gli eventi del 1848 nelle Due Sicilie. Inoltre, per Di Fiore, le lettere di Gladstone sarebbero state finalizzate esclusivamente a screditare lo stato brobonico[311].
In particolare, alcuni autori hanno sostenuto che le affermazioni di Gladstone fossero false, che egli non sarebbe mai entrato in alcun carcere borbonico e che quanto da egli riportato sarebbe stato partorito dalla mente del politico inglese di concerto con il segretario di stato per gli affari esteri del governo britannico, Lord Palmerston. Ad esempio, Giacinto de' Sivo in Storia delle Due Sicilie sostenne che Gladstone fosse stato inviato a Napoli "col segreto onorevole ufficio", conferitogli da Palmerston, di divulgare calunnie riguardanti lo stato delle cose nel reame di Sua Maestà Siciliana[316]. Domenico Razzano, invece, nell'opera La Biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II sostenne che Gladstone, tornato a Napoli tra il 1888 e il 1889, avrebbe confessato di non essere mai stato in alcun carcere e di aver scritto le due missive dietro incarico di Palmerston, basando le sue dichiarazioni sulle affermazioni di alcuni rivoluzionari antiborbonici[317]. Anche Di Fiore riporta che, a distanza di quaranta anni, il politico britannico sarebbe stato costretto a smentire le affermazioni contenute nelle sue missive, ammettendo che le sue denunce sarebbero state da lui stesso inventate e che egli non avrebbe visitato alcun penitenziario napoletano[311]. Paolo Mieli, sposando la tesi della cospirazione orchestrata dai due politici britannici, arriva a sostenere che Palmerston e Gladstone furono "i più implacabili nemici della dinastia napoletana"[276]. In un articolo comparso sulla pubblicazione Rassegna storica del Risorgimento, Maria Gaia Gajo, però, avanza dei dubbi in merito alla possibilità di un'intesa tra Palmerston e Gladstone, poiché, ritiene assurdo che, un liberale ed un conservatore (che in passato si era dimostrato un tenace oppositore della linea politica di Palmerston) avessero potuto collaborare in tal senso[318].
Ai dubbi sull'effettiva presenza di Gladstone nelle carceri borboniche si ricollega un documento che ha indotto in errore coloro che lo hanno considerato come un elemento probatorio. Un memorandum per S. M. Ferdinando II del 22 marzo 1850, che descrive le visite di un personaggio distinto a due carceri napoletane e le conversazioni intrattenute con le autorità delle prigioni, riguardo al trattamento dei detenuti (sia comuni, sia politici), e con i detenuti politici stessi (e con il Carlo Poerio in particolare), è stato, talvolta, interpretato come prova della presenza del Gladstone in quei luoghi[319]. Il documento, però, risale a circa un anno prima delle presunte visite di Gladstone e, secondo Nunzio Coppola, esso riporterebbe, invece, della visita effettuata, il 20 marzo 1850, dal deputato inglese Alexander Baillie-Cochrane ai penitenziari partenopei[320].
Nelle sue missive Gladstone fece ampio riferimento alla prigionia che Carlo Poerio scontò sotto il governo borbonico, spendendo, a giudizio di Gigi Di Fiore, parole di fuoco, per il liberale napoletano[311]. Ferdinando Petruccelli della Gattina, in un articolo pubblicato, il 22 gennaio 1861, sul giornale "Unione" di Milano, parlò di Gladstone e di Poerio, senza, peraltro, negare l'imprigionamento di quest'ultimo:
La figura di Poerio, come persona di riferimento dei liberali napoletani, quindi, sarebbe stato una creazione mediatica, costruita ad hoc per incarnare la figura del "tipico" rivoluzionario liberale da contrapporre ad un'altra creazione mediatica, il "mostro Bomba", frutto, secondo Harold Acton, di una stampa, da un lato, suggestionata dal "giocoliere" Gladstone e, dall'altro, disprezzata dallo stesso Ferdinando II[322]; il Cotugno, in merito alle affermazione del Petrucelli sul Poerio, riporta che: «dimentico di quel che aveva scritto in onore del Poerio nel suo libro su "La Rivoluzione di Napoli del 1848", per odio di parte, lo aggrediva con plateali insulti nei Moribondi del Palazzo Carignano»[323]. Nel 1885, l'ex Ministro degli esteri inglese lord James Howard Harris, III conte di Malmesbury, richiamando il caso Perio nelle sue memorie, scrisse che le torture denunciate relativamente al Poerio non rispondevano a verità. Malmesbury sostenne che il Poerio non sarebbe stato vittima delle dette sevizie, poiché, dopo aver constatato personalmente le condizioni fisiche di quest'ultimo, egli avrebbe avuto modo di valutare che nessun uomo avrebbe mai potuto rimettersi dalle denunciate torture così rapidamente come avrebbe fatto il Poerio:
«[...] le torture fisiche alle quali si è detto egli sarebbe stato sottoposto, io credo siano inventate. Nessun individuo, che avesse tanto sofferto, avrebbe potuto ristabilirsi in soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come costui, quando mi fu presentato da Lord Shaftesbury, alla Camera dei Lords»
Secondo quanto mostrerebbero alcuni dati, infatti, la linea assunta dal re Ferdinando II verso i condannati per reati politici non sarebbe stata delle più dure. Tra il 1851 ed il 1854, riporta Angela Pellicciari, i tribunali meridionali comminarono 42 condanne a morte per delitti politici, ma, di esse, non ne fu eseguita alcuna, poiché furono tutte commutate da Ferdinando II (19 in ergastoli, 11 in trenta anni di reclusione e 12 in pene minori)[325]. Per contro, nello stato piemontese, era ampio il ricorso alla pena capitale: tra il 1851 ed il 1855, furono eseguite 113[326] condanne a morte. A tal proposito, nella seduta parlamentare del 26 marzo 1856, Angelo Brofferio, commentando lo sgomento suscitato da tre esecuzioni avvenute a Torino in una sola settimana, lamentò la necessità di un intervento sull'attività dei tribunali, condotta, a suo dire, in maniera deprecabile, e di una riforma del codice penale, che egli giudicava asperso di sangue[326][Da chiarire se non vi furono condanne a morte neppure per reati comuni nel regno delle Due Sicilie e chiarire se le condanne a morte in Piemonte furono per reati politici o comuni].
Nonostante ciò, anche una parte della stampa italiana, seguendo l'eco delle dichiarazioni di Gladstone, che continuò a propagarsi negli anni, si scagliò contro il sistema carcerario borbonico. Il 19 marzo 1857, il "Corriere Mercantile" di Genova, quindi l'Italia del Popolo nell'aprile dello stesso anno pubblicarono articoli in cui si sosteneva che nelle carceri meridionali era adoperata la cuffia del silenzio[327], che sarebbe stata inventata da Baione, ispettore di polizia di Palermo, ed utilizzata soprattutto nei riguardi di due prigionieri politici Lo Re e De Medici,[328], il console generale delle Due Sicilie a Genova rispose al Corriere Mercantile dichiarando falso che a Napoli sia stato istituito lo strumento di tortura qualificato cuffia del silenzio[329]. Nel 1863, ancora, Pietro Corelli sostenne che, dopo l'arresto di Francesco Riso, in seguito alla rivolta della Gancia, la polizia di Palermo, avrebbe minacciato di adoperare la cuffia del silenzio su costui, se egli non avesse rivelato i nomi degli altri rivoltosi[330]. Si trattava, in sostanza, di uno strumento di tortura composto da una serie di fasce metalliche, da assicurare intorno alla testa del detenuto, e recante una lingua di ferro ricurva che entrava nella bocca fino al palato per impedire a questi di parlare. A queste affermazioni, risalenti al periodo risorgimentale, la storica revisionista Pellicciari, ribatte affermando che tale dispositivo di costrizione, sarebbe stato ampiamente adoperato dal sistema carcerario britannico[331], e sarebbe stato sconosciuto a Napoli e mai impiegato nei penitenziari delle Due Sicilie[327].
I rapporti tra Regno di Sardegna e Inghilterra
Secondo alcuni filoni revisionisti, una macchinazione contro il Regno delle Due Sicilie sarebbe stata ordita dal Regno di Sardegna e l'Inghilterra, con lo scopo di trarre entrambi profitto dal collasso dello Stato borbonico[71]. Carlo Alianello sostenne che, oltre al regno sardo, anche la Gran Bretagna, una delle maggiori potenze mondiali, aveva i suoi punti deboli (come la Grande carestia in Irlanda, a quel tempo parte del Regno Unito, che, oltre a provocare migliaia di morti, portò un elevato tasso di emigrazione verso le Americhe).[71].
Tuttavia non vi è ancora molta chiarezza sul ruolo di Cavour nell'annessione del regno delle Due Sicilie. Secondo Arrigo Petacco, il primo ministro piemontese disapprovava la conquista del regno borbonico e cercò persino di stipulare un accordo con Francesco II per una formazione di uno stato federale, ma quest'ultimo si sarebbe rifiutato.[332]
Altri scrittori come Lorenzo Del Boca[333] e Aldo Servidio[334] riportano invece che nel 1856, quattro anni prima della Spedizione dei Mille, Cavour e il conte di Clarendon, emissario di Lord Palmerston nonché ministro degli esteri inglese, ebbero contatti per organizzare rivolte antiborboniche nelle Due Sicilie, aneddoto sostenuto anche dallo storico inglese George Macaulay Trevelyan, autore di diverse opere su Garibaldi.[334] Cavour avrebbe ordinato a Carlo Pellion di Persano di prendere contatti a Napoli con l'avvocato Edwin James, uomo di fiducia del governo inglese.[333][334]
Il conte di Clarendon si scagliò contro Ferdinando II, al quale, a suo dire, le potenze progredite dovevano imporre di ascoltare la voce della giustizia e dell'umanità.[335]
Gli aiuti stranieri ai Mille
Secondo più fonti revisioniste, il governo inglese avrebbe rivestito un ruolo importante nella spedizione dei Mille, finanziando la campagna militare di Garibaldi con 3 milioni di franchi francesi,[219] forniti anche con il contributo della massoneria statunitense e canadese.[220] Prima che i Mille giungessero in Sicilia, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti siciliani, oltre che a scopo intimidatorio, come riporta Alberto Santoni[336], e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica, come sostiene Roberto Martucci[337].
Al momento dello sbarco a Marsala, erano presenti due navi da guerra britanniche nei pressi della costa. L’Argus e l’Intrepid, i due vascelli inglesi, giunsero circa tre ore prima della comparsa delle navi Piemonte (a bordo della quale si trovava Garibaldi) e Lombardo[338]. È tuttora controverso il motivo della presenza delle imbarcazioni inglesi a Marsala[339], diversi storici revisionisti e fonti sia coeve che moderne danno per certo che essa fosse diretta ad appoggiare lo sbarco dei garibaldini[340][341][342][343]. Secondo D. M. Smith, le navi borboniche arrivarono a distanza di tiro quando i garibaldini erano tutti sbarcati[344].
Dopo lo sbarco, vi fu a tal proposito un dibattito nel parlamento della Gran Bretagna, durante il quale il deputato Sir Osborne accusò le imbarcazioni britanniche di aver favorito l'approdo di Garibaldi a Marsala[345]. Nella seduta parlamentare del 21 maggio 1860, Osborne chiese se corrispondesse a verità quanto era stato riportato da alcuni giornali sulla vicenda[346]. Lord Russell sostenne che l'invio di navi britanniche presso Marsala era stato ordinato dall'ammiraglio Fanshawe[347], in seguito alle richieste di protezione avanzate dai numerosi sudditi inglesi, aventi case e interessi commerciali a Marsala (come i magazzini vinicoli di Woodhouse e Ingham)[345], preoccupati dalla voce di una possibile insurrezione siciliana e del progetto della spedizione di Garibaldi. Lord Russell, basandosi anche sul dispaccio telegrafico spedito dall'ufficiale in capo dell'Intrepid ricevuto dall'ammiragliato, così ricostruì la vicenda: mentre era in corso lo sbarco dei garibaldini una fregata ed un vapore della marina militare napoletana si avvicinarono a Marsala, ma si astennero dallo sparare sulle navi garibaldine e sugli uomini durante lo sbarco, per quanto l'ufficiale dell'Intrepid affermasse che avessero l'opportunità di far fuoco su entrambi gli obiettivi. Successivamente allo sbarco il comandante del vapore napoletano chiese a Marryatt, comandante dell'Intrepid di prendere possesso dei due vascelli, l'ufficiale inglese rifiutò non avendo ricevuto istruzioni contrarie all'ordine di condotta del governo inglese di mantenersi neutrale. Lord Russell aggiunse che sembrerebbe che il comandante napoletano avesse chiesto il richiamo a bardo dei vascelli inglesi degli ufficiali eventualmente a terra, richiesta prontamente accetta ed eseguita con l'innalzamento dell'apposito segnale sul pennone, dopo l'imbarco degli ufficiali iniziò il bombardamento da parte delle due navi borboniche; questa richiesta, secondo Lord Russell potrebbe essere interpretabile come un atto di cortesia internazionale da parte dell'ufficiale borbonico ma rimarcò non implicasse che le due navi inglesi si opponessero al suo fuoco. Il rappresentante inglese concluse la sua risposta affermando che non risultava che l'ufficiale inglese abbia ecceduto nello svolgere suo dovere, e trovandosi cola' per proteggere gli interessi britannici nulla fece di più[348].
Lo stesso Garibaldi, durante il suo viaggio in Inghilterra compito nel 1864, il 16 aprile durante un pubblico discorso al Crystal Palace Londra, ove era invitato dal Comitato Italiano, ringraziò ampiamente l'Inghilterra per l'aiuto ricevuto: «... L'Inghilterra ci ha aiutato nei buoni e cattivi giorni. Il popolo inglese ci presto' assistenza nella guerra dell'Italia meridionale, ed anche ora gli ospizi di Napoli sono in gran parte mantenuti dalle largizioni mandate da qui. ... Se non fosse stato per l'Inghilterra gemeremmo tuttavia sotto il giogo dei Borboni di Napoli. Se non fosse stato pel governo inglese, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina. Concittadini il nostro arrivo a Napoli sarebbe stato impedito, se fosse stato possibile, dagli stessi despoti che oggi si sforzano di schiacciare la povera e piccola Danimarca[349]. ... » e, dopo altre frasi inneggianti all'Inghilterra concludeva il discorso promettendo che sarebbe stato pronto contraccambiare l'aiuto ad accorrere per assistere l'Inghilterra, se questa fosse stata attaccata e invasa da un nemico[350]. ,[351]
L'inventore statunitense Samuel Colt, affiliato alla loggia massonica "St John's" del Connecticut,[219] offrì all'esercito garibaldino 100 armi da fuoco che comprendevano rivoltelle e carabine, approfittando di poter pubblicizzare i suoi prodotti.[352] Dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi sembrò soddisfatto delle armi fornite ed acquistò da Colt 23.500 moschetti al costo di circa 160.000 dollari.[352] Garibaldi inviò poi una lettera di ringraziamento all'inventore americano e Vittorio Emanuele II gli donò una medaglia d'oro.[352]
Il tradimento degli ufficiali borbonici
Gli autori appartenenti alcuni filoni revisionisti sostengono che in aggiunta del supporto britannico e americano, i Mille ebbero dalla loro parte il rinnegamento di numerosi ufficiali delle Due Sicilie, reso possibile soprattutto dalle sovvenzioni finanziarie dell'Inghilterra. I franchi, che sarebbero stati forniti dai britannici furono convertiti in piastre turche (la moneta usata a quel tempo nel commercio internazionale) e sarebbero stati sfruttati in gran parte per garantire ai traditori il reclutamento nell'esercito del nuovo Stato, conservando il grado, le qualifiche, i comandi e lo stipendio. La formula andò a buon fine e i garibaldini avrebbero avuto dalla loro parte circa 2300 ufficiali[217][218].
Un esempio è quello di Tommaso Clary, comandante del forte di Milazzo, che, secondo Giuseppe Buttà, "fu vile o traditore".[6]
Un altro ufficiale accusato di tradimento fu Guglielmo Acton, nipote di John e cugino di secondo grado di Lord Acton. Con il grado di capitano di fregata, Acton era comandante della corvetta Stromboli[353], una delle navi della flotta borbonica che, nella mattinata dell'11 maggio 1860, avevano l'incarico di dare la caccia ai due vapori piemontesi che i servizi borbonici avevano indicato trovarsi nel tratto di mare compreso tra Trapani e Sciacca e che non contrastarono, se non con forte ritardo[354], lo sbarco dei Mille a Marsala. L'Acton fu sottoposto ad inchiesta per il suo comportamento durante lo sbarco; il giudizio della commissione della marina napoletana sulla sua condotta fu che essa era stata «irreprensibile»; comunque fu sospeso per due mesi finché venne assegnato al Monarca in armamento presso il cantiere navale di Castellammare di Stabia.[355] Dopo l'Unità, Guglielmo Acton fu nominato ammiraglio del Regno d'Italia divenendone, in seguito, anche senatore e Ministro della Marina del Governo Lanza (14 dicembre 1869 - 10 luglio 1873) dal 15 gennaio 1870 al 5 agosto 1872.
La battaglia di Calatafimi, dipinta sovente dalla storiografia come un'eroica impresa garibaldina, secondo alcuni autori sarebbe stata solamente una farsa. Il generale borbonico Francesco Landi fu colpevole, secondo Buttà, di una vergognosa condotta dopo il fatto d'armi di Calatafimi che «...segno' la caduta della Dinastia delle Due Sicilie».[6] Nonostante la netta superiorità numerica del suo esercito, Landi ritirò le proprie truppe dal campo di battaglia, permettendo ai Mille di poter avanzare senza troppi disagi a Palermo.[356] Accusato di tradimento, fu destituito e confinato ad Ischia per ordine di Francesco II. Landi morì il 2 febbraio 1861, secondo Di Fiore, di crepacuore per essere stato ingannato dai garibaldini, i quali gli avrebbero promesso una somma di 14.000 ducati depositata al Banco di Napoli ma, in realtà, ne avrebbe trovati solo 14.[357]
L'elargizione di denaro da parte di emissari sabaudi è ben documentata nelle pagine del diario del conte Carlo Pellion di Persano. L'ammiraglio e futuro ministro della Marina, infatti, fu tra i mandatari di Cavour che ebbero il compito, dopo la conquista garibaldina della Sicilia, di assicurarsi i servigi, non solo degli ufficiali borbonici, ma anche di esponenti della nobiltà e della classe politica meridionale[358] rispetto all'entrata in campo della monarchia sabauda. Il 6 agosto 1860, nel suo diario, costui così sintetizza la parte conclusiva di una missiva scritta al primo ministro piemontese: Termino col dargli la buona notizia che possiamo oramai far conto sulla maggior parte dell'ufficialità della regia marina napoletana[359]. In sostanza, leggendo il suo diario sembrerebbe che Persano potesse disporre di grosse cifre da adoperare per foraggiare i sostenitori della causa unitaria sebbene spesso si fosse trovato a fare i conti con la cupidigia di alcuni di essi: Ho dovuto Eccellenza somministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, giusta invito del marchese di Villamarina, e quattromila al comitato. Sebbene tutto questo sia fatto secondo le formole, che ho stabilite, perché non un soldo passi per le mie mani, pure questa faccenda di denaro m'intisichisce[360].
L'appoggio dei baroni siciliani
Rosolino Pilo, che ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una nuova sollevazione in Sicilia dopo quelle del 1820-1821 e 1848-1849[361], si accordò con i baroni affinché questi schierassero le bande di picciotti che erano al loro servizio, al fianco dei garibaldini[362]. Pur non avendo ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo 1860, Rosolino Pilo partì per l'isola con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione garibaldina[363]. Accompagnato da Giovanni Corraro, il Pilo giunse nel messinese e prese immediatamente contatti con gli esponenti delle famiglie più importanti. In questo modo, egli si assicurò l'appoggio dei latifondisti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione, avrebbero rese disponibili le bande[362].
Commistioni con la criminalità
Una parte della critica revisionista pone l'accento anche sulle modalità con cui agli artefici del Risorgimento si sarebbero serviti della criminalità organizzata per addivenire al fine dell'Unità. La trattazione verte su Liborio Romano, un ex carbonaro che, quando ancora ricopriva la carica di Ministro di polizia sotto Francesco II, iniziò a trattare segretamente con Cavour e Garibaldi e strinse accordi con la Camorra, finalizzati ad agevolare l'avvento del nuovo assetto istituzionale.
Nel raccontare il tardo XVIII secolo, Gigi Di Fiore riporta che, all'epoca, la camorra era attiva nella gestione del gioco d'azzardo e nello sfruttamento della prostituzione. L'autore poi riporta un passaggio dei giornalisti Ferdinando Russo e Ernesto Serao in cui costoro descrivono lo sviluppo storico delle commistioni che sarebbero esistite fra camorra e stato: "Sotto i Borboni la camorra era un'organizzazione tollerata in piena luce e richiesta di servigi non infrequenti. Ai tempi del cardinale Ruffo era lo stato maggiore delle orde reazionarie. Ai tempi del Del Carretto, capo della polizia, era l'alleato politico e poliziesco del governo. Là dove la sagacia dei commissarii e il braccio rude dei feroci non riusciva a colpire, riusciva al camorra"[364]. Fino al 1848, riporta Marc Monnier, la camorra sarebbe stata utilizzata come una sorta di "polizia scismatica"[365], in seguito ad una insana alleanza con la polizia: la camorra avrebbe provveduto alla repressione dei piccoli reati come "sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città", mentre la polizia cittadina avrebbe tollerato le attività dei camorristi[366].
Non univoca è la ricostruzione della posizione assunta dalla camorra nei rapporti tra governo borbonico e opposizione liberale, dopo il 1849. Secondo Marcella Marmo[367], i camorristi avrebbero mantenuto una posizione di equidistanza fra potere regio e liberali napoletani, ben sintetizzata da una loro canzoncina, citata anche da Salvatore Lupo[368]: "nuje nun simm' cravunar' [carbonari],/nuje nun simm' rialist',/ma facimm' 'e camorrist',/famm' 'n c... a chill' e a chist'".
Secondo la ricostruzione revisionista .[ tutto questa ricostruzione è fondata su poche righe anonime -firmate redazione- del Giornale, si trova una fonte referenziata?], Ferdinando II avviò una campagna di repressione contro la camorra, allo scopo di spezzare quell'alleanza istituzioni-criminalità, che si era generata. La risposta dei camorristi fu di tipo politico e si sarebbe concretizzata in una nuova alleanza, questa volta con i liberali[366]. Ponendosi al "servizio del movimento liberale", la camorra favoriva la causa unitaria, tanto che, il 2 novembre 1859, Francesco II avrebbe riferito all'ambasciatore austriaco a Napoli degli elevati timori che i capi della camorra potessero organizzare una insurrezione e degli sforzi del governo meridionale per scongiurare tale ipotesi. Nel giugno del 1860, il Foreign Office britannico, veniva informato da Henry George Elliot, plenipotenziario inglese a Napoli, che bande armate di camorristi erano schierate e pronte per affrontare "la mobilitazione della plebe ancora fedele alla dinastia borbonica"[366].
Con l'approssimarsi di Garibaldi a Napoli e lo spostamento di re Francesco II ed esercito a Gaeta, Liborio Romano, Prefetto di polizia passato alla fazione filounitaria, provvide ad inquadrare i malavitosi nella guardia cittadina, facendo in modo che i camorristi diventassero i "veri padroni" della città[366]. Romano, massone e mazziniano, assegnò alla camorra il compito di "corpo speciale di potere": i delinquenti furono nominati poliziotti, "con tanto di coccarda", e, in quanto polizia ufficiale, venivano stipendiati dallo stato. Napoli fu consegnata nelle mani della camorra. Dunque, al fine di mantenere l'ordine all'arrivo di Garibaldi in città Romano provvide a far scarcerare i camorristi detenuti per ottenere un maggior appoggio: tra essi vi era il temuto Salvatore De Crescenzo, detto Tore 'e Criscienzo[369]. Gli accordi tra costui, che era il capo riconosciuto della camorra, e Liborio Romano furono presi quando il De Crescenzo era ancora detenuto: egli, infatti, sotto il governo borbonico, aveva trascorso 8 degli ultimi 10 anni in galera[370]. Secondo Salvatore Lupo, Liborio arruolò chiunque potesse servire a mantenere l'ordine pubblico durante il turbolento periodo di transizione di potere, onde evitare il rischio di stragi e saccheggi ad opera degli elementi legittimisti similmente a quanto avvenuto nel 1799 e 1848[371]: Liborio, infatti, scrisse nelle sue memorie che i camorristi attendevano il momento per approfittare di "qualsivoglia perturbazione avvenisse", di conseguenza per salvare, a suo giudizio, la città da questi pericoli trovò l'unico espediente di "prevenire la triste opera dei camorristi offrendo ai loro capi un mezzo per nobilitarli: e cosi pervenni toglierli ai partiti del disordine, o almeno a paralizzarne le tristi tendenze"[372]. Aldo Servidio, però, nota un paradosso in questa interpretazione dell'operato del Romano, sottolineando che era stato lo stesso Ministro di polizia a far rimettere in libertà il "grande e qualificatissimo numero di camorristi" dal cui operato criminale egli voleva proteggere la città: in sostanza, per impedire di commettere crimini ai camorristi che Romano aveva rimesso in libertà, sempre Romano affidava a costoro il potere di polizia[370]. Una volta ottenuto il potere, la camorra avviò una serie di assalti ai commissariati di polizia: nascondendosi dietro gli intenti rivoluzionari, i malavitosi esercitarono vendette personali contro i fuonzionari della polizia borbonica che li avevano combattuti in passato. Così, il camorrista Felice Mele, uccise a pugnalate l'ispettore Perrelli; dopo l'omicidio, il Mele fu nominato ispettore, in sostituzione del funzionario che egli stesso aveva assassinato[373].
Il 7 settembre 1860, afferma Di Fiore, Garibaldi entrò nella città partenopea disarmato e senza scorta[374], "solo grazie all'intervento della camorra": capeggiati dalla "sanguinaria" Marianna De Crescenzo, sorella di Salvatore e detta la Sangiovannara, i camorristi assunsero il controllo delle zone strategiche di Napoli, reprimendo l'attività dei filoborbonici[366]. Come ricompensa, Garibaldi concesse la grazia a Tore 'e Criscienzo[375] e confermò Romano ministro dell'Interno.[376] A sua volta Romano ricambiò la Camorra e inserì diversi membri dell'organizzazione nelle istituzioni[377], tra cui il capo camorrista Salvatore De Crescenzo[378], affidando loro incarichi di polizia e facendo loro amministrare l'erogazione in tre anni di 75.000 ducati al popolo, secondo un decreto di Garibaldi emanato nell'ottobre 1860.[379][380]
Tuttavia Garibaldi, nelle sue memorie "I Mille"[381], sostenne che i camorristi abborrivano i garibaldini, venendo quest'ultimi rappresentati dal clero locale come eretici, e scrisse che:
accennando, inoltre, a trattative di ufficiali borbonici con camorristi affinché spargessero notizie di vittorie borboniche e indicando la camorra come responsabile della fine del patriota Gambardella, mortalmente pugnalato poco dopo l'ingresso di Garibaldi a Napoli[382]. Secondo Gigi Di Fiore, però, fu proprio nel periodo di transizione della dittatura di Garibaldi verso l'avvento della monarchia sabauda che la camorra a Napoli riuscì ad ottenere maggior potere:
L'attività della camorra prosperava attraverso il contrabbando, controllato dal solito De Crescenzo e da Pasquale Merolle. I camorristi, dicendo "è roba d'o zi' Peppe", intendendo appunto Giuseppe Garibaldi, facevano in modo che le merci fossero sbarcate senza che venisse pagato il dazio alla dogana ed intascando essi stessi le somme che avrebbero dovuto essere pagate allo stato[383]. Con un decreto del 26 ottobre 1860, a firma del pro-dittatore Giorgio Pallavicino, fu stabilita l'erogazione di una pensione di 12 ducati al mese a Marianna la Sangiovannara, cugina di Salvatore De Crescenzo[384], e ad altre cinque donne, con la seguente motivazione[385]:
Secondo Di Fiore, le beneficiarie del provvedimento sarebbero state tutte donne di camorra ricompensate con l'attribuzione di prebende, giustificata dai meriti patriottici[387]. La circostanza è riportata puntualmente anche da Giacinto de' Sivo il quale la riporta come contemporanea alla chiusura provvisoria del Collegio del Salvatore:
Nel 1862, Salvatore De Crescenzo fu arrestato, e al momento di essere preso in custodia dal delegato di polizia Nicola Jossa, incredulo di quanto stesse avvenendo, disse:
Il camorrista fu imprigionato a castel Capuano, quindi nell'isola di Ponza e mandato al confino per 5 anni[389]. Fra il 1863 e il 1864, in applicazione della legge Pica, furono tratti in arresto circa mille camorristi[390].
Violazione del diritto internazionale
Alcuni filoni revisionisti sostengono che l'unificazione, con particolare riferimento all'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, sia avvenuta in violazione del diritto internazionale. A tal proposito, essi affermano che l'entrata dell'esercito sabaudo nei territori delle Due Sicilie fu un atto illegale di aggressione, in quanto non preceduta da una formale dichiarazione di guerra[224][225][226]. Di Fiore osserva inoltre che un comportamento simile a quello tenuto nelle Due Sicilie si verificò anche in occasione dell'apertura delle ostilità contro il Ducato di Modena e lo Stato della Chiesa, nessuno dei quali beneficiò di una dichiarazione di guerra.[391]
I plebisciti
Le annessioni territoriali al Regno di Sardegna (e al successivo Regno d'Italia), vennero ratificate mediante i cosiddetti plebisciti d'annessione[392]. Il concetto di plebiscito, come consultazione elettorale per ratificare il trasferimento di territori tra stati, si era affermato già con la rivoluzione francese e l'originarsi del principio di autodeterminazione dei popoli. Questo tipo di votazione, infatti, non era infrequente: basti pensare ai plebisciti svoltisi nel 1852 e nel 1870 che ratificarono per due volte la monarchia di Napoleone III di Francia. Tali consultazioni prevedevano sostanzialmente le medesime modalità di svolgimento: erano votazioni a suffragio censitario, ovvero limitate a coloro che possedevano un certo censo, svolte per convalidare de iure situazioni di fatto. Ai plebisciti risorgimentali, cui partecipò solo il 2% della popolazione nazionale[393], risultò aver preso parte la maggioranza degli aventi diritto: in particolare il numero di astenuti e di contrari alle annessioni risultò essere irrisorio.
Lo Stato sabaudo utilizzò le consultazioni plebiscitarie per dimostrare la diffusa volontà degli Italiani di riunirsi in un unico stato e per legittimare, quindi, la politica espansionistica attuata dal Piemonte[227]. Giuseppe La Farina, in alcune epistole indirizzate all'abate Filippo Bartolomeo, sottolineò come, per evitare la disapprovazione delle potenze europee, fosse indispensabile, per Vittorio Emanuele II, ottenere un qualche riconoscimento popolare per giustificare le annessioni territoriali e per impedire che si parlasse di "conquista"[227]. Il re sabaudo era consapevole di non poter estendere la propria sovranità a popoli che non avessero invocato il suo intervento; era consapevole che solo il consenso popolare avrebbe dato pretesto alla diplomazia di affermare che gli italiani approvavano il nuovo Stato unitario[227].
Sin dall'epoca dello svolgimento dei plebisciti d'annessione, infatti, non mancò qualche voce critica sul senso di tale suffragio, come quella dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna, il torinese Massimo D'Azeglio:
Una critica simile fu mossa dal liberale britannico Lord Russell, in un dispaccio inviato a Torino il 31 gennaio 1861:
Sullo stesso tema si espresse, il 30 aprile 1860, il quotidiano inglese The Times commentando il plebiscito per l'annessione della Savoia alla Francia:
Critiche alle modalità di svolgimento dei plebisciti sono state oggetto di trattazione da parte di accademici come Denis Mack Smith e Martin Clark, che ha citato il predetto brano del Times, e di alcuni altri autori revisionisti come Angela Pellicciari, secondo la quale le consultazioni si sarebbero svolte senza tutela della segretezza del voto e, talvolta, perfino, in un clima di intimidazione, dato che, i plebisciti avevano il mero scopo di dare una parvenza di legittimazione popolare ad una decisione già presa[397]. La Pelicciari, addirittura, definisce i plebisciti come una truffa colossale considerandoli una consultazione truccata[397].
In particolare, la storica marchigiana cita aneddoti riguardanti le consultazioni plebiscitarie per l'annessione del Ducato di Modena e del Granducato di Toscana. Filippo Curletti, stretto collaboratore di Cavour e capo della polizia politica sabauda, affermò, nel suo memoriale, che ai plebisciti modenesi, partecipò un modesto numero di aventi diritto e, alla chiusura delle urne, furono distrutte le schede degli astenuti. Dato l'elevato numero di assenti, inoltre, una pratica diffusa fu quella di "completare la votazione" con l'introduzione nelle urne di schede dove la preferenza era stata espressa dai sabaudi al fine di compensare le assenze[397]. Tale pratica fu messa in atto in modo così grossolano che, in alcuni collegi, al momento dello spoglio, il numero dei votanti risultava maggiore di quello degli aventi diritto[397]. In Toscana, secondo quanto riportato da La Civiltà Cattolica, le consultazioni furono precedute da un'incalzante campagna stampa dove si definiva nemico della patria e reo di morte chiunque non avesse votato per l'annessione[397]. Alle tipografie toscane, poi, fu commissionata la stampa di un gran quantitativo di bollettini pro annessione, mentre fu scoraggiata la stampa di bollettini contrari all'unificazione. Sempre la rivista gesuita affermò che si sarebbe abusato dell'ingenuità delle popolazioni delle aree rurali spingendole a recarsi alle urne poiché, in caso contrario, sarebbero incorse in sanzioni[397].
Altri autori, come Roberto Martucci, corroborano le loro critiche ai plebisciti sottolineando, oltre l'esiguo numero degli astenuti, anche il numero irrisorio dei "no" all'annessione: tali dati consentono al Martucci di definire il voto politicamente ininfluente[398]. Al riguardo, l'autore si sofferma ad analizzare le modalità di voto ed i risultati plebiscitari delle province siciliane, citando i casi di Palermo (36.000 favorevoli e 20 contrari), dove furono autorizzati a votare anche i cittadini sprovvisti di certificato, poiché "smarrito"; Messina (24.000 contro 8); Alcamo (3.000 contro 14); Girgenti (2.500 contro 70); Siracusa, dove si votò senza che fossero state redatte le liste elettorali; e Caltanissetta, dove il governatore proibì qualsiasi propaganda in senso autonomista[399]. Tomasi di Lampedusa, nelle pagine de "Il Gattopardo", affrontò le problematiche connesse ai plebisciti siciliani.
A Venosa, comune in provincia di Potenza, riporta Antonio Vaccaro, su 1.448 preferenze, solamente una risultò contraria all'unificazione[400].
Altri autori riportano infine come il plebiscito che determinò l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia fu accompagnato da eventi di particolare gravità ed illegalità. Le operazioni di voto avvennero nel centralissimo Largo di Palazzo a Napoli (l'attuale Piazza del Plebiscito). Le urne, su cui vi era chiaramente indicato il "sì" o il "no", erano palesi e venivano sorvegliate a vista da numerosi camorristi, che Liborio Romano aveva arruolato come poliziotti, esautorando gli agenti fedeli ai Borbone.[221][222]
La piemontesizzazione
Con il termine piemontesizzazione, utilizzato già nel 1861 in chiave critica nel neonato Parlamento del Regno d'Italia[228], si indica l'estensione ai territori del nuovo Regno d'Italia dell'organizzazione politica ed amministrativa dello Stato sabaudo nonché, in buona parte, delle sue leggi. Secondo le tesi revisioniste tale estensione normativa non avrebbe tenuto in considerazione le differenze tra i diversi stati pre-unitari. Nell'ambito delle stesse critiche si fa notare come le principali cariche burocratiche e militari siano state quasi esclusivamente riservate ad appartenenti della classe politica del Regno sabaudo.[229] La prima legislatura del Regno d'Italia fu l'VIII, come da numerazione dello Stato piemontese. Il primo re d'Italia conservò la sua precedente successione dinastica di secondo, come se fosse ancora sovrano di Sardegna.
Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandò al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di avere una rappresentanza napoletana ridotta:
Il 20 novembre 1861, in un'interpellanza al Parlamento Italiano, così si esprimeva il deputato di Casoria, Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni:
Politiche fiscali
Patrick Keyes O'Clery, nel saggio The making of Italy, sostenne che le politiche fiscali attuate dal nuovo stato unitario si configurarono come dannose per l'economia del Meridione. Egli evidenziò che l'imposizione fiscale nel Regno delle Due Sicilie era tra le meno severe d'Europa; al contrario, la tassazione in Piemonte era molto gravosa. Dopo l'Unità, il sistema tributario sabaudo fu esteso a tutta la penisola, e ciò comportò per i cittadini delle province meridionali un improvviso incremento del prelievo fiscale (incremento giunto al 100% nel 1866), che, di fatto, era il doppio di quello attuato in epoca borbonica[403].
La fiscalità piemontese prevedeva tutta una serie di imposte che, invece, erano inesistenti nelle Due Sicilie preunitarie: di conseguenza, andarono a gravare anche sulle popolazioni meridionali la tassa di successione (che poteva arrivare fino al 10% del patrimonio oggetto di trasferimento ereditario), le tasse sugli atti delle società per azioni e degli istituti di credito, e la tassa sul sale (dalla quale i Borbone avevano esentato la sola Sicilia)[273]. Fu inasprita l'imposta fondiaria[273] e furono introdotte o inasprite le tasse che colpivano gli strati più poveri della popolazione, come la tassa sul macinato (che fu più che raddoppiata ed estesa a tutte le granaglie, finanche alle castagne)[403], i dazi di consumo (applicati sugli acquisti di bevande e generi alimentari) e la tassa sulla macellazione. L'imposta di bollo, che andava da un minimo di 3 ad un massimo di 12 grani, fu innalzata all'equivalente di un minimo di 13 grani ed un massimo di 58 grani[404].
La politica fiscalista attuata dopo l'Unità ed in particolare durante i governi della destra storica è spiegata dalla volontà di risanare il bilancio dello Stato unitario, che ereditava il pesante debito pubblico del Piemonte sabaudo, per raggiungere, appunto, il pareggio di bilancio (risultato ottenuto nel 1876). A tale scopo, infatti, il governo italiano attuò una severa politica fiscale, basata principalmente sulla imposizione indiretta, che gravava sui consumi, colpendo, in questo modo, principalmente i ceti meno abbienti. Il gettito fiscale, quindi, venne impiegato esclusivamente per il pagamento dei debiti contratti dallo Stato e non fu destinato allo sviluppo e alla crescita economica[405].
Reinterpretazione del brigantaggio
La reinterpretazione del brigantaggio postunitario come rivolta legittima, nonché l'eccessiva repressione messa in atto dallo Stato unitario. Il brigantaggio viene rivalutato da parte di un filone revisionista come un movimento di resistenza,[230] alcuni ritengono persino in analogia a quello che avrebbe coinvolto, in seguito, i partigiani italiani contro le truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale.[231] Il deputato Giuseppe Ferrari, durante un dibattito parlamentare, disse:
La repressione del brigantaggio, ottenuta con successo (e con molta difficoltà) in circa dieci anni dal governo unitario, viene aspramente criticata dai revisionisti a causa della violenza con cui il Regio Esercito italiano (soprattutto dopo la promulgazione della legge Pica) applicava sommarie condanne a morte senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari,[407] il più delle volte giustiziando anche coloro che venivano solamente sospettati di connivenze o adesioni alle bande brigantesche.[408]
La violenza degli scontri è testimoniata dal fatto che non meno di 14.000 briganti o presunti tali furono fucilati, uccisi in combattimento o arrestati nel periodo di applicazione della legge[409].
Deportazioni
Secondo alcune tesi revisioniste, i militari borbonici che rifiutarono di prestare giuramento al nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, vennero reclusi in presidi militari del settentrione italiano, quali Alessandria, San Maurizio Canavese e Fenestrelle, considerati da taluni revisionisti veri e propri campi di concentramento.[232][233][234][235] I soldati fedeli al loro vecchio sovrano furono visti con scarsa considerazione e disprezzo, tanto che il generale La Marmora li definì "un branco di carogne".[410] Lo stesso Cavour, in una lettera indirizzata a Vittorio Emanuele II, scrisse: «I vecchi soldati borbonici appesterebbero l'esercito».[411]
Non esistono ancora stime ufficiali sul numero dei detenuti e delle vittime. Nel forte di San Maurizio Canavese il numero degli imprigionati sarebbe ammontato a 3000 al settembre 1861, quando gli allora ministri Bettino Ricasoli e Pietro Bastogi vi fecero visita.[412] Nel forte di Fenestrelle si sostiene, invece, che furono deportati circa 20.000 soldati borbonici (per lo più provenienti dalla resa della fortezza di Capua)[413] e papalini.[414]
Per via delle condizioni malsane e delle temperature molto rigide, si ritiene che gran parte dei detenuti perì per fame, stenti e malattie.[414][415] Per evitare epidemie ed essendovi difficoltà nel seppellire i cadaveri, i corpi dei reclusi venivano disciolti nella calce viva.[416] Anche alcuni briganti vennero relegati al forte, un esempio fu la calabrese Maria Oliverio. Nel 2008 venne posta all'interno della fortezza una lapide commemorativa che rende omaggio ai deportati borbonici.[417] Benché si parla di migliaia di morti nel forte di Fenestrelle, un altro recente vaglio storico, ad opera di Juri Bossuto, consigliere regionale piemontese di Rifondazione Comunista, ridimensiona notevolmente il numero delle vittime, riportandone solo quattro nel novembre del 1860 e tende a smentire il maltrattamento ai danni dei prigionieri borbonici, poichè sarebbero stati assistiti con vitto e cure sanitarie.[418]
Nella medesima prigione furono rinchiusi anche alcuni garibaldini fatti prigionieri sull'Aspromonte nel 1862, mentre tentavano una spedizione verso lo stato Pontificio.[419]
Eccidi
Nei territori dell'ormai decaduto Regno delle Due Sicilie, ed in particolare durante la fase acuta del cosiddetto brigantaggio (1861-1862), si verificarono numerosi episodi di violenza ai danni delle popolazioni civili. In particolare, i revisionisti affermano che le truppe piemontesi si resero responsabili di diversi eccidi, tra cui i più noti furono quelli di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi del Beneventano.
Il 14 agosto 1861, il generale Enrico Cialdini ordinò una feroce rappresaglia contro i due comuni, dove i briganti di Cosimo Giordano avevano ucciso 45 soldati sabaudi che vi erano appena giunti. Cialdini inviò un battaglione di cinquecento bersaglieri a Pontelandolfo, capeggiato dal colonnello Pier Eleonoro Negri, mentre a Casalduni mandò un distaccamento separato, al comando del maggiore Melegari. I due piccoli centri vennero quasi rasi al suolo dai militari, lasciando circa 3.000 persone senza dimora.[236] Diverse fonti riferiscono inoltre che la distruzione dei due paesi fu accompagnata da atti di saccheggio[420] e stupri[421][422]. Sul numero esatto delle vittime non vi è tuttora consenso, dato che le cifre vanno da un centinaio a più di un migliaio di morti.[423] Altre città che subirono una sorte simile a quella di Casalduni e Pontelandolfo furono Montefalcione, Campolattaro e Auletta[424][425] (Campania); Rignano Garganico (Puglia); Campochiaro e Guardiaregia (Molise); Barile e Lavello (Basilicata); Cotronei (Calabria).[426]
Nel periodo di cui sopra, diversi comandanti militari si distinsero per i loro duri provvedimenti contro il brigantaggio, tra cui Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna, Enrico Morozzo Della Rocca e Ferdinando Pinelli. Tali atti suscitarono numerose polemiche, anche da parte della classe liberale. Giovanni Nicotera deputato dell'opposizione, intervenne in Parlamento dichiarando:
Lo stesso Nino Bixio (uno dei comandanti della spedizione dei Mille e protagonista del discusso episodio della strage di Bronte) denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 aprile 1863:
Napoleone III, riferendosi ad una strage nel Casertano perpetrata ai danni dei briganti, disse "les Bourbons n'ont jamais fait autant" (i Borbone non hanno mai fatto tanto),[429] mentre lord Alexander Baillie-Cochrane (lo stesso che nel marzo 1850 aveva visitato le carceri napoletane e Ferdinando II), riferendosi ad un editto antibrigantaggio di Pietro Fumel, dichiarò "a more infamous proclamation had never disgraced the worst days of the Reign of Terror in France" (un proclama più infame non aveva mai disonorato i giorni peggiori del regno del terrore in Francia).[430] I metodi violenti delle truppe del Regio Esercito Italiano furono infine applicati anche per la repressione dei moti di protesta operaia per la chiusura progressiva di impianti industriali, ad esempio dello stabilimento siderurgico di Pietrarsa (attualmente sede del Museo Nazionale Ferroviario), dove il 6 agosto 1863, per reprimere le proteste degli operai, intervennero Guardia Nazionale, Bersaglieri e Carabinieri, lasciando sul terreno tra quattro e sette morti e una ventina di feriti. Al comando delle truppe c'era il Questore Nicola Amore, successivamente divenuto sindaco di Napoli, che nella sua relazione al Prefetto parla di fatali e irresistibili circostanze[431][432]. Il mantenimento dell'ordine pubblico tramite interventi repressivi dell'esercito, senza scrupolo nell'uso delle armi contro le proteste popolari, continuò fino alla fine del secolo esteso a tutto il territorio nazionale, culminando nelle sanguinose repressioni dei moti popolari del 1898.
La questione meridionale
Nonostante la storiografia più diffusa sostenga che il Mezzogiorno possedesse già un problema di ritardato sviluppo prima dell'Unità, i revisionisti sostengono che il degrado economico del Sud abbia avuto inizio dopo il Risorgimento a causa delle politiche del governo unitario poco attente alle necessità meridionali.[245]
Secondo gli elaborati[quali scritti di Nitti?] di Francesco Saverio Nitti, l'origine della questione meridionale ebbe inizio quando il capitale appartenuto alle Due Sicilie, oltre a contribuire maggiormente alla formazione dell'erario nazionale, fu destinato in prevalenza al risanamento delle finanze settentrionali, nella fattispecie in Lombardia, Piemonte e Liguria.[433] Nitti inoltre enunciò, attraverso la sua ricerca statistica, che i fondi di sviluppo furono stanziati maggiormente nelle zone settentrionali, fu istituito un regime doganale che trasformò il Sud in un mercato coloniale dell'industria del Nord Italia[434] e la pressione tributaria del meridione risultò maggiore rispetto al settentrione[435]. L'economia del Mezzogiorno, infatti, fu sfavorita da un sistema doganale di stampo protezionistico, il quale favoriva soprattutto le industrie del nord Italia, permettendo ad esse di non soccombere di fronte alla concorrenza straniera.
Giustino Fortunato, convinto sostenitore dello Stato unitario, era, afferma Gaetano Salvemini, «[...] assai pessimista sulla capacità dei meridionali a sollevarsi con le loro forze dal baratro cui erano stati messi dalla natura nemica e dalle sventure della loro storia [...] e aspettava dal Nord la salvezza»[436]. Nonostante ciò, non mancò di evidenziare come l'Unità d'Italia fosse stata la rovina economica del Mezzogiorno[437] e non risparmiò critiche alla politica economica e finanziaria dello Stato italiano e della grande industria del Settentrione nel Meridione. Fu lo stesso Fortunato che, a seguito dell'indebitamento del Banco di Napoli di un milione di lire in tre anni, coniò il termine di "carnevale bancario"[438] per indicare il trasferimento di capitali del sud destinati alle industrie e agli istituti di credito del nord.
Il revisionista Nicola Zitara mosse denunce nei confronti degli industriali Carlo Bombrini, Pietro Bastogi e Giuseppe Balduino, indicandoli tra i maggiori responsabili del crollo economico del meridione dopo l'unità.[439]
Nel 1954, l'economista piemontese Luigi Einaudi, nella sua opera Il buongoverno disse:
Mancata riforma agraria
Alcuni revisionisti sostengono che la mancata suddivisione delle grandi proprietà terriere in Sicilia sia stata uno dei fattori all'origine della conflittualità tra Garibaldi e le masse contadine[441]. Infatti, erano stati numerosi i contadini che, spinti dal malcontento verso lo stato borbonico dovuto alle cattive condizioni dei lavoratori agricoli, si erano uniti ai Garibaldini. Tuttavia le loro speranze di mutazione della situazione esistente erano andate deluse. Inoltre la mancata attuazione dei decreti che Garibaldi, una volta assunta la dittatura sull'isola in nome del re Vittorio Emanuele II, emanò circa l'abolizione sia di diverse tasse su prodotti agricoli[442], sia dei canoni sulle terre demaniali[442] generò ulteriore malcontento[443]. Il primo a sollevare questo dibattito fu Antonio Gramsci. In generale, nulla venne fatto dal governo unitario per combattere il latifondo, che, anzi, crebbe in seguito alla vendita dei beni ecclesiastici ai grandi proprietari terrieri[444].
Politiche daziarie e doganali
La dissomiglianza tra le politiche economiche attuate da destra storica e sinistra storica ebbe, invece, serie conseguenze sull'agricoltura meridionale: se, infatti, l'assenza di barriere doganali, dovuta alle politiche liberiste della destra, consentì all'agricoltura del Mezzogiorno di trovare, per i suoi prodotti pregiati, quali agrumi, olio e vino, un mercato di sbocco in Francia[444], il protezionismo attuato dalla sinistra generò un conflitto doganale con Parigi che danneggiò quei settori che erano trainanti per l'agricoltura delle regioni del Sud. La scelta del protezionismo, che aveva trovato le sue basi nell'obiettivo di favorire lo sviluppo dell'industria nazionale, non solo fu deleterea per l'agricoltura meridionale, ma comportò risultati scadenti anche in campo industriale[445]. Per compensare la mancata crescita nel settore secondario, lo Stato investì notevolmente, con commesse pubbliche, nell'industria, specie in quella armatoriale: ad esempio, nel 1884, furono create ex novo le Acciaierie di Terni, che beneficiarono, tra le altre, delle commesse della Regia Marina[446]. La forte presenza governativa nel "caso Terni" si pone in contrasto con l'assenza dello Stato nel "caso Mongiana". Il Polo siderurgico di Mongiana, fiorente in età borbonica, era entrato in una fase di lento declino in seguito all'Unità. L'abolizione dei dazi voluta dalla destra storica e l'assenza di interventi da parte del nuovo stato unitario condannarono i siti di Mongiana e Ferdinandea alla chiusura e gli operai del polo industiale e dell'indotto all'emigrazione: al declino dell'industria meridionale faceva da contraltare la nascita della grande industria del Nord[447].
Le concessioni ferroviarie
Le ferrovie napoletane, le prime in Italia con la tratta Napoli–Portici (1839), al momento dell'Unità, avevano in esercizio una rete estesa per 128 chilometri. Buona parte della storiografia più diffusa, riferendosi al primo tratto di ferrovia italiano[448], afferma che le ferrovie napoletane fossero un "giocattolo del Re", realizzato per consentire al sovrano di spostarsi più rapidamente da Napoli alla residenza estiva della Favorita presso Portici, altri autori, come Montanelli sottolinearono che alla vigilia dell'Unità d'Italia, di chilometri di binari: "Il Piemonte ne aveva nel frattempo costruiti 900, il Lombardo-Veneto 500, la Toscana 250...". Viceversa taluni autori revisionisti affermano che le ferrovie del Regno delle Due Sicilie, non fossero, per l'appunto, un "giocattolo del Re", ma ne sottolineano le funzioni di trasporto pubblico e commerciale. Al riguardo, alcuni autori riportano dell'immediato riscontro, in termini di numero di passeggeri, ottenuto dal nuovo mezzo di trasporto, sulla citata tratta[449][450], che si assestò su una media giornaliera di oltre un migliaio di viaggiatori[451], e sulle tratte realizzate negli anni successivi: a titolo di esempio il Giornale del Regno delle Due Sicilie riporta che, nel novembre 1856, i passeggeri che, nelle diverse classi di viaggio, adoperarono la linea Napoli-Capua furono 115.151[452].
Già nel 1843, infatti, fu inaugurato il tratto Napoli–Caserta, prolungato fino a Capua nel 1845; nel 1844 fu aperto il ramo fino a Nocera, seguito dal tratto Cancello–Nola–Sarno nel 1856, mentre parallelamente era già stata prolungata la Napoli–Portici fino a Castellammare.
A ulteriore supporto di tale fatto, va evidenziato che lo sviluppo delle ferrovie delle Due Sicilie non si era affatto arrestato, ma anzi all'atto dell'unificazione stava per conoscere un'ulteriore fase di espansione. Con il Decreto Reale del 28 aprile 1860 (Decreto contenente de' provvedimenti per la costruzione di tre grandi linee di strade ferrate ne' dominii continentali, e di altrettante nei dominii di là del Faro), infatti, Francesco II delle Due Sicilie tracciò il piano di allungamento delle ferrovie esistenti, il quale si sarebbe poggiato sia sull'affidamento dei lavori in concessione a privati, che sull'iniziativa governativa; e che avrebbe interessato sia la parte continentale, che quella insulare del Regno:
Le linee ferroviarie di cui sopra avevano scopo eminentemente commerciale, come esplicitato nell'incipit del decreto. Per quanto riguardava i domini continentali, sarebbero state costruite tre linee ferroviarie, che avevano lo scopo di mettere in comunicazione il Tirreno con l'Adriatico e lo Jonio. Tutte con base di partenza Napoli, si sarebbero dirette a Brindisi e Lecce via Foggia, la prima; a Reggio Calabria attraverso la Basilicata, la seconda; e al Tronto attraverso gli Abruzzi, la terza. In Sicilia, del pari, sarebbero state costruite tre linee che, dipartendosi tutte da Palermo, si sarebbero dirette a Catania, la prima, a Messina, la seconda, e a Terranova (Gela) via Girgenti (Agrigento), la terza. Francesco II avrebbe presieduto personalmente ai progetti, attraverso una commissione composta dai più alti gradi del governo[455].
I lavori per le ferrovie ed il materiale rotabile erano affidate al Real Opificio di Pietrarsa ed alle fabbriche dell'indotto.
Durante la Spedizione dei mille, con una serie di tre decreti (25 giugno, 2 e 17 agosto 1860), e riprendendo quindi quanto decretato due mesi prima da Francesco II, venne disposto dal prodittatore, in nome di Vittorio Emanuele II, la costruzione di una rete ferroviaria siciliana, che avrebbe dovuto unire Palermo e Messina, passando per Caltanissetta e Catania e la progettazione di una linea ferroviaria passante per i principale centri minerari solfiferi isolani, da Girgenti a Caltanissetta[456].
Prima della proclamazione dell'unità d'Italia, il governo dittatoriale di Garibaldi concesse, con un decreto emanato il 25 settembre 1860 a Caserta, alla ditta Adami e Lemmi l'esclusiva delle ferrovie per il sud Italia[457], con l'obbligo di estendere le esistenti linee alla Basilicata, Puglia e Calabria, di effettuare i collegamenti con le esistenti ferrovie papaline, procedere nella costruzione delle tratte ferroviarie siciliane, di costruire le grandi officine di riparazione e costruzione delle macchine e vagoni, di dotare le linee di collegamenti telegrafici e di adattare tutto l'impianto rotabile agli standard delle ferrovie dell'alta Italia dopo aver scelto se sia preferibile il sistema adottato "nell'antico regno Lombardo Veneto" o nel Piemonte. Col decreto alla ditta Adami e Lemmi era richiesto di depositare a titolo di cauzione l'equivalente di 500.000 lire e venne stabilito un sistema di pagamento lavori di tipo bonus et malus in funzione della tempistica di avanzamento dei lavori. Veniva inoltre richiesto l'impiego esclusivo di manodopera locale e di persone provenienti dall'esercito meridionale[458].
Il governo piemontese, però, non convalidò questa concessione[459], che fu affidata alla Società Vittorio Emanuele. La successiva proposta di mediazione che riservava a capitali francesi le linee adriatiche[460] non trovò attuazione.
L'emigrazione
Dopo l'unificazione della penisola, oltre ad un aggravamento della situazione economica del Mezzogiorno, si ebbe un vertiginoso fenomeno migratorio, quasi inesistente nel Sud prima del Risorgimento.[239] Le statistiche sull'emigrazione mostrano un numero notevole di partenze dal Mezzogiorno verso l'estero dopo l'Unità, per l'aggravarsi della situazione contadina.[240] L'emigrazione post-unitaria interessò anche il settentrione, in cui l'ondata migratoria fu maggiore rispetto al meridione nei primi anni di unificazione ma a partire dal '900 i flussi si intensificarono esponenzialmente anche nel sud. Il Veneto (tra gli ultimi territori annessi), risultò la regione con il più alto tasso di espatri tra il 1876 ed il 1900.[461] Nel 1901, l'allora presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli, in visita in diverse città del meridione, giunse a Moliterno (Potenza) e fu accolto dal sindaco che lo salutò "a nome degli ottomila abitanti di questo comune, tremila dei quali sono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli".[462]
Il revisionismo nell'arte
Letteratura
Un precursore della narrazione in controtendenza, se pur in forma poetica, degli avvenimenti precedenti e seguenti l’unificazione, è stato Ferdinando Russo. Giornalista de “Il Mattino” di Napoli, all’epoca diretto dal fondatore Edoardo Scarfoglio, Russo si dilettava nello scrivere “macchiette”, vale a dire nel tratteggiare caratteri tipici dell’ambiente partenopeo usando la poesia o la prosa, avendo in questa forma letteraria gli autorevoli esempio di Francesco De Bourcard[463] e Giuseppe Gioacchino Belli per l'ambiente romano.
Lo scrittore napoletano dovette difendersi più volte in tribunale dall’accusa di vilipendio delle istituzioni, come racconta egli stesso in una delle sue opere[464], dato che i suoi personaggi esprimevano sovente critiche feroci contro lo stato di cose del tempo. La macchietta popolare “‘O pezzente ‘e San Gennaro” (Il pezzente di San Gennaro), pubblicata sul Mattino nel 1898, ad esempio, portò al sequestro del giornale su ordine del procuratore del re, in quanto il personaggio ritratto esprimeva sentimenti filoborbonici. Russo subì la perquisizione del proprio studio e fu mandato sotto processo. Dovette inoltre assistere alla comparsa di un articolo di fondo a firma di Scarfoglio, intitolato “Il terribile anarchico Ferdinando Russo”, in cui il direttore ne prendeva le difese.
Successivamente a questi avvenimenti, Russo scrisse altre due opere in versi, le quali tratteggiano dalla parte dei vinti le circostanze della morte di Ferdinando II, e le condizioni in cui versarono i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie dopo l’unificazione. La rilevanza di tali opere artistiche sotto il profilo storico deriva dal fatto che entrambe furono composte trasponendo in versi interviste realmente effettuate a testimoni delle vicende narrate.
Nella poesia del 1910 "'O Luciano d'o Rre" (Il Luciano[465] del Re), Russo narra la vicenda dell'ultimo viaggio di Ferdinando II, avvenuto tra Napoli e Bari tra la fine di aprile e l'inizio di maggio del 1859, in occasione dell'arrivo nelle Due Sicilie di Maria Sofia di Baviera, promessa sposa di Francesco II. Le vicende vengono descritte attraverso la voce narrante di Luigi, uno dei quattro marinai che costituivano la guardia del corpo segreta del re[466], che molti anni dopo i fatti esercitava il mestiere di ostricaio. Nella poesia si racconta della vita di Santa Lucia negli anni precedenti l'unificazione come di un periodo di grande abbondanza e felicità per gli abitanti, dove anche nelle classi più umili si riusciva a provvedere senza sforzo ai bisogni della vita ed in generale si viveva una certa agiatezza. Si fa a tal proposito specifico riferimento al fatto che le famiglie avevano tutte di che dotare le ragazze che andavano in moglie, all'abbondanza di monete d'oro e d'argento in circolazione, ed alla virtuale assenza di tasse. Viene inoltre suggerito che la causa reale della morte di Ferdinando II, già ammalato, sia stata una tazza di cioccolata avvelenata fattagli bere dall'arcivescovo di Ariano Irpino, monsignor Michele Caputo[467][468][469] (che negli anni successivi all'unificazione fu Presidente Onorario dell'Associazione Clerico-Liberale Italiana di Napoli)[470], presso il quale la comitiva reale si era rifugiata durante il viaggio per sfuggire al maltempo. Più avanti, viene sostenuto che l’entrata dei piemontesi, descritti come "senza neanche la camicia"[471], a Napoli sarebbe avvenuta solo grazie ad una serie di tradimenti, e che una volta in città, essi avrebbero saccheggiato Palazzo Reale, sottraendo una gran quantità di beni. La poesia si conclude con una sprezzante descrizione delle condizioni in cui la "libertà" ha ridotto il popolo:
Tenimmo tutte 'a stessa malatia!
Simmo rummase tutte mmiezo 'e scale,
fora 'a lucanna d' 'a Pezzentaria!
Che me vuò di'? Ca simmo libberale?
E addò l'appuoie, sta sbafantaria?
Quanno figlieto chiagne e vo' magna,
cerca int' 'a sacca... e dalle 'a libbertà![472]»
Nell'opera "'O surdato 'e Gaeta" (Il soldato di Gaeta, 1919), Russo narra invece dell’incontro con il settantottenne Michele Migliaccio, un reduce dell'assedio del 1860-61, rimasto mutilato di un braccio a causa dello scoppio di una granata l'ultimo giorno dei combattimenti, e finito all'Albergo dei Poveri di Napoli. Nel racconto del soldato si ritrovano temi come il tradimento di diversi ufficiali dell'esercito[474] come causa della disfatta; il coraggio dimostrato da Francesco II e da Maria Sofia durante l’assedio; e la spietatezza degli assedianti (e in particolare di Cialdini) sia nel rifiutare di accogliere gratuitamente i cavalli che morivano di fame nella fortezza, che nel continuare il bombardamento della piazza anche durante le trattative per la resa. I versi riportano un accenno alla sorte miserabile toccata ai reduci (cui in violazione degli accordi di capitolazione non fu erogata la paga pattuita) molti dei quali erano morti di fame o si erano ridotti a fare lavori umilissimi[475]. La poesia si conclude con un’immagine di toccante dignità del soldato, che nasconde la medaglia al valore guadagnata a Gaeta sotto la giubba dell'Ospizio, dato che sarebbe stata disonorata dall'essere appuntata sulla divisa dei poveri.
Cinema
Musica
Il revisionismo di natura politica
A livello politico il Risorgimento è stato attaccato da parte del partito Lega Nord, che sostiene la linea della delegittimazione del processo unitario, seguendo una versione diametralmente opposta a quella del grosso degli autori revisionisti. Significative al riguardo furono le dichiarazioni di uno dei fondatori del partito, Umberto Bossi, che, a Montecitorio, si espresse negativamente sulle vicende risorgimentali:
Ne è nata la cosiddetta "polemica dei libri di testo", nata dal pensiero secondo il quale nelle scuole italiane la storia risorgimentale sia alterata da deformazioni culturali. Nonostante la totale estraneità del mondo politico al dibattito storiografico, si va affermando un certo tipo di volontà politica che ha intenzione di inserirsi a pieno titolo nel merito della questione revisionista, mostrando serie intenzioni di modificare la fonte primaria della conoscenza storica all'interno delle scuole: i libri di testo. A conferma di ciò il 28 gennaio 1999, il deputato Mario Borghezio (Lega Nord) dichiarò:
Critiche al revisionismo del Risorgimento
L'approccio revisionista al Risorgimento è stato nel corso degli anni oggetto di critiche da parte di esponenti del mondo accademico e giornalistico.
Uno dei primi critici di Giacinto de' Sivo fu ad esempio Benedetto Croce. Pur stimando lo storico maddalonese sotto il profilo personale, e giudicandolo «un onest'uomo», lo definì sempre come un reazionario e sostenne che la sua analisi fosse soggetta a limiti, fra cui la scarsa obiettività e il disinteresse a voler intendere la storia moderna, che condannava apertamente. Il Croce, in un discorso letto presso l'Accademia Pontaniana di Napoli nel 1918 e dato alle stampe in quello stesso anno, riferendosi a Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, affermò: «[...] è infatti un libro accurato nell'informazione, sebbene (come si può immaginare) unilaterale, partigiano [...]. Non reca a dire il vero molta luce sugli avvenimenti che descrive, ma codesta è necessaria conseguenza del concetto politico dell'autore il quale, condannando tutta la storia moderna, considerandola perversione, non sentiva il bisogno di intenderla [...]». Il filosofo giunse a sostenere che l'opera più ponderosa del de' Sivo non ebbe forse grande diffusione dal momento che «[...] i borbonici non avevano in verità l'abitudine di leggere [...] e i liberali, che componevano allora la propria storia o epopea, non si davano briga delle querimonie del rappresentante di un partito vinto»[478]. Le note sul de' Sivo furono successivamente inserite da Benedetto Croce, nel capitolo Uno storico reazionario, Giacinto de Sivo, nell'opera Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici[479].
Benché ammirasse la finanza borbonica, che definì "onesta", Nitti ritenne che tale sistema era, allo stesso tempo, dannoso per lo sviluppo del meridione, poiché, secondo il suo pensiero, era una politica volta ad economizzare su tutto, impedendo, così, lo sviluppo infrastrutturale[480], ma che garantiva una mediocre agiatezza che rendeva la vita del popolo meno difficile rispetto al periodo postunitario[481]. Sulla base delle ricerche effettuate, Nitti sostenne che, grazie a questa grande giacenza patrimoniale, il Mezzogiorno aveva tutti i requisiti per trasformarsi[482].
I diversi filoni revisionisti del Risorgimento sono tuttora oggetto di critiche da parte di personalità di diversa estrazione. Uno dei più noti detrattori è lo storico Ernesto Galli della Loggia, che controbatte a diverse asserzioni esposte dai taluni revisionisti. Galli della Loggia nega il depauperamento del Sud dopo l'Unità e sostiene che il divario tra settentrione e meridione, al 1860, era già esistente.[483] Egli ha contestato una scarsa presenza di vie di comunicazione nel regno borbonico e ha definito la ferrovia Napoli-Portici "un giocattolo del re", giudicandola inferiore alla Torino-Genova o alle ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia.[483] Egli giustifica questo suo giudizio affermando che collegare Napoli con Portici non avrebbe potuto in alcun modo favorire l'economia, non solo per l'estrema brevità della ferrovia in sé, lunga pochi chilometri, ma soprattutto perché Portici non era una zona produttiva, ma solo una zona residenziale. Si è espresso negativamente sulla politica economica adottata dai Borbone in Sicilia, da lui giudicata "coloniale".[483] Lo storico ha inoltre smentito una componente anticattolica nel Risorgimento, considerandola invece "laicista, più o meno massonica".[483]
Francesco Perfetti, professore di storia contemporanea presso la LUISS di Roma, ha dichiarato che la parola revisionismo dovrebbe essere eliminata perché si sarebbe caricata di una valenza politica e ideologica, suggerendo ai revisionisti cattolici di valutare il risorgimento con i criteri dello storicismo critico nel quadro europeo.[484]. Tra gli oppositori della tesi revisionista vi è anche il giornalista Giorgio Bocca, che ha definito "una balla" l'immagine di un Mezzogiorno fiorente depredato dal Nord e che la sua povertà risale a secoli prima dell'unità ricordando quanto scrisse lo storico Carlo De Cesare: "L'industria napoletana era armonica ma immobilista e senza prospettive. Le campagne separate dalla capitale con scarsissime comunicazioni, un livello culturale infimo, debolissime attrezzature civili".[485] Bocca ha inoltre considerato "insensati" i movimenti meridionali, analogamente a quello leghista.[485]
Francesco Traianello osserva che due dei filoni revisionisti: quello leghista etno-localistica, che vede il risorgimento come danno per il Nord e quello intransigente cattolico incentrato sul ruolo “nazionale” del papato contrario allo stato unitario e propugnatore della teoria del complotto massonico protestante, pur partendo da posizioni molto diverse oggi siano costituiscano "una sorta di alleanza implicita nel demolire il significato del Risorgimento e della unificazione nazionale"[486]
Il giornalista e storico Sergio Romano parla di un "travisamento nazionale". Egli ha dichiarato:
Critiche sono state mosse anche da Sergio Boschiero, segretario dell'Unione Monarchica Italiana, che ha denunciato il pericolo di un "revisionismo senza storici", mirante a demolire il mito risorgimentale. Secondo il movimento monarchico, sono stati analizzati alcuni testi di sedicenti storici che, attraverso la stampa, spargono odio in funzione antinazionale.[487]
Un attacco diretto contro il revisionismo venne formulato da Alessandro Galante Garrone, nell'editoriale "Ritornano gli sconfitti dalla storia", pubblicato in prima pagina sulla La Stampa il 27 settembre 2000, accompagnato dalla firma di 56 intellettuali e scritto a seguito di una mostra sul brigantaggio tenuta nell'annuale meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. In esso Garrone afferma che questa revisione si traduce in una distorsione della realtà storica, divenendo una provocazione inaccettabile per l'Italia civile accompagnata dall'esaltazione delle forze sanfediste all'interno di un'aggressione più vasta contro i "principi laici e liberali che costituiscono una parte fondante della Costituzione repubblicana"[488] connessa a un "rifluire di ideologie reazionarie, di speranze di rivincita di sconfitti dalla storia".
Anche Emilio Gentile non risparmia critiche a questa revisione storiografica e rispondendo alla domanda che un intervistatore gli fa su Giacinto de' Sivo e Giuseppe Spada rileva: «Qui ci muoviamo nell'ambito della libellistica reazionaria...si tratta di una letteratura poco rilevante dal punto di vista storiografico...» e chiudendo il suo intervento ne mette in luce i risvolti propagandistici e l'assenza di serietà scientifica: «Però ripeto, siamo in ambito propagandistico, che non ha alcuna serietà scientifica.»[489].
Indro Montanelli, fortemente critico verso quegli storici che sostengono il primato del regno delle due Sicilie, scrive nella sua Storia d'Italia:«[...] il Piemonte era di gran lunga, tra gli stati italiani, il più florido, il meglio amministrato e il più efficiente. Alcuni meridionalisti hanno sostenuto e sostengono che questo primato spettava al Regno delle due Sicilie [...], e citano a riprova il fatto che fu Napoli, e non Torino a inaugurare la prima ferrovia. Questa ferrovia però, che si snodava per poche decine di chilometri, rimase unica o quasi, mentre il Piemonte ne costruiva per 850 chilometri. Quanto al bilancio, mentre Napoli badava a tenerlo in attivo con una politica di tesaurizzazione che lasciava il paese senza strade, senza scuole, senza servizi, Torino aggravava il disavanzo, ma per potenziare l'agricoltura e ammodernare l'industria rendendola competitiva con quella straniera»[490].
Nel maggio 2010, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, durante le celebrazioni per l'unità d'Italia a Marsala, ha invitato a non «ripescare le vecchissime tesi, non degne di un approccio serio alla riflessione storica, di un Mezzogiorno ricco, economicamente avanzato a metà Ottocento che con l’Unità sarebbe stato bloccato e spinto indietro sulla via del progresso»[491].
Note
- ^ "Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l’Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l’unità nazionale, voi l’ingrandimento territoriale (Giuseppe Mazzini)". Citato in Alberto Cappa, Cavour, G. Laterza & figli, 1932, p. 249.
- ^ Denis Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, 1993, p. 286.
- ^ Autore di "Cronaca di artiglieria per la difesa di Gaeta"
- ^ Autore di "Una pagina di storia - Giornale degli avvenimenti politici e militari nelle Calabrie dal 25 luglio al 7 settembre 1860"
- ^ a b Marcello Donativi, Il Principe dei Reazionari, in www.storialibera.it. URL consultato il 19-01-2011.
- ^ a b c Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Brindisi, Edizioni Trabant, 2009 [1875], p. 86, ISBN 88-965-7609-0. URL consultato il 20 gennaio 2011.
- ^ Roberto Mascia, La vita e le opere di Giacinto de’ Sivo (1814-1867). Il narratore - Il poeta tragico - Lo storico, Berisio, Napoli 1966.
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. II, p. 220, Berisio, Napoli 1964.
- ^ La Tragicommedia, a cura di Francesco Maurizio Di Giovine e Gabriele Marzocco, Editoriale il Giglio, Napoli 1993, p. 44.
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. II, p. 429, Berisio, Napoli 1964
- ^ L’Italia e il suo dramma politico nel 1861, con il testo integrale del Discorso per i morti nelle giornate del Volturno difendendo il Reame, con una introduzione di S. Vitale, Editoriale il Giglio, Napoli 2002.
- ^ G.iacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967 (ried. parz. a cura di Silvio Vitale, il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini 1994), pag. 46-47
- ^ G. de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967 (ried. parz. a cura di Silvio Vitale, il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini 1994), pag. 16
- ^ Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967 (ried. parz. a cura di Silvio Vitale, il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini 1994), pag. 50
- ^ G. de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967 (ried. parz. a cura di Silvio Vitale, il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini 1994), pag. 67-68
- ^ G. de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967 (ried. parz. a cura di Silvio Vitale, il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini 1994), pag. 61-62
- ^ Walter Maturi, Rosario Romeo, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1965, p. 332.
- ^ La Civiltà Cattolica, anno XV, serie V, vol. X, fasc. 340, 12-5-1864, p. 447
- ^ La Civiltà Cattolica, anno XV, serie V, vol. X, fasc. 340, 12-5-1864, pp. 449-450
- ^ La Civiltà Cattolica, anno XV, serie V, vol. X, fasc. 340, 12-5-1864, pp. 201
- ^ La Civiltà Cattolica, anno XV, serie V, vol. X, fasc. 340, 12-5-1864,p. 448
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,vol. I, p. 32
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,vol. I, p. 3
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,vol. I, p. 171
- ^ La Civiltà Cattolica, anno XV, serie V, vol. X, fasc. 340, 12-5-1864, p. 448.
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,vol. I, p. 373
- ^ Giuseppe Massari, Il signor Gladstone ed il governo napoletano. Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana, Tipografia Subalpina, Torino 1851,p. 24
- ^ G. de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, p. 25
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,vol. I, p. 474-475
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. II, p. 497.
- ^ Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, 1958, p.48
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1901, p.110-111
- ^ Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1900, p.30
- ^ Francesco Saverio Nitti, Domenico De Masi, Napoli e la questione meridionale, Guida, Napoli, 2004, p.56
- ^ Francesco Saverio Nitti, Domenico De Masi, Napoli e la questione meridionale, Guida, Napoli, 2004, p.58
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1901, p.110-111
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.118
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.108
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.120
- ^ Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Osanna, 1987, p.34
- ^ Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Osanna, 1987, p.65
- ^ Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Osanna, 1987, p.66
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1901, p.109
- ^ Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, 1958, p.125
- ^ Emilio Gentile, p. 120
- ^ Scriveva nel 1902 il politico di Molfetta: «...il federalismo è non soltanto l'unico sistema amministrativo che possa eliminare ogni artificiale squilibrio finanziario ed economico fra le varie regioni italiane, ma è anche l'unico mezzo adatto a fiaccare la reazione...» Rosario Villari, p. 397
- ^ Rosario Villari, p. 395
- ^ Rosario Villari, pp. 398-402
- ^ Rosario Villari, p. 400
- ^ Gaetano Salvemini, Scritti sulla Questione Meridionale 1896-1955, Torino, 1955, p. 415.
- ^ Gaetano Salvemini, Movimento Socialista e Questione Meridionale, IV, Milano, 1963, p. 647.
- ^ Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, 1896-1955, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1955, p.115
- ^ Antonio Gramsci, 2010, p. 11
- ^ Antonio Gramsci, 1977, p. 20
- ^ .Antonio Gramsci, 1977, p. 98
- ^ Antonio Gramsci, 1977, p. 98
- ^ Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume 4, Einaudi Editore, 1975, p. 2479
- ^ «...gli odi tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona ed attività da parte dei più gagliardi uomini di azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica». Antonio Gramsci, 1977, p. 102
- ^ «perché il partito d’azione non pose in tutta la sua estensione la questione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l'impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri intorno al Piemonte come stato e come esercito» >.Antonio Gramsci, 1977, p. 168
- ^ Antonio Gramsci, 1977, p. 110
- ^ Antonio Gramsci, L'Ordine Nuovo, 1920, p. 422
- ^ Cit. dalle Tesi di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti e approvate al terzo congresso del Partito comunista italiano (Lione, gennaio 1926). Stanno in La Costruzione, p. 490 e seg.
- ^ Barbagallo, p. 42
- ^ Daniele Cardetta, Ecco chi è Lorenzo Del Boca, in www.nuovasocieta.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Concetta Di Lunardo, Nuovo libro di Gigi Di Fiore: Gli ultimi giorni di Gaeta, in www.attualita.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Arianna e Selena Mannella, Terroni di Pino Aprile, in www.sololibri.net. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Massimo Novelli, Tra le mura di Fenestrelle il lager di Re Vittorio, in ricerca.repubblica.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ L’imbroglio nazionale: intervista ad Aldo Servidio, in www.eleaml.org. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Rosa Piro, L’eredità delle parole: primi appunti per uno studio linguistico sistematico sull’opera di Carlo Alianello (PDF), in www.italianisti.it. URL consultato il 22-04-2011.
- ^ a b c Lucio Zinna, La «conquista» del sud nella narrativa di Carlo Alianello (PDF), in lucaniart.files.wordpress.com. URL consultato il 19-01-2011.
- ^ a b c d e f g h i Carlo Alianello, La conquista del Sud, in Brigantino - il Portale del Sud. URL consultato il 25 giugno 2010.
- ^ Da noi il popolo minuto aveva sempre considerato i piemontesi non come italiani ma come stranieri, non gente della nostra terra ma invasori, saraceni, turchi, austriaci o francesi che fossero. Solo i signori erano italiani, ma per gli interessi loro. Un esercito d'occupazione, insomma, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza. Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, 1972, p.229
- ^ Carlo Beneduci, Biografia di Nicola Zitara, in nicolazitara.org, Fondazione Nicola Zitara. URL consultato il 15 marzo 2012.
- ^ Nicola Zitara, Presentazione di Nicola Zitara, in La voce di Megaride, Vip Edizioni Grafiche. URL consultato il 15 marzo 2012.
- ^ Nicola Zitara, L'invenzione del Mezzogiorno: una storia finanziaria, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 289-290, ISBN 88-164-0959-2.
- ^ Denis Mack Smith: Modern Italy, University of Michigan Press
- ^ Garibaldi, A great life in brief
- ^ Incipit del saggio, Lerici editore, 1960
- ^ Denis Mack Smith, Garibaldi, 1993ª ed., Milano, Mondadori, 1993, p. 3, ISBN 88-04-45797-X.
- ^ Denis Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1997, Bari-Roma, Laterza, 1997, pag. 18, ISBN 88-420-6143-3.
- ^ Mazzini - Mack Smith, Denis - Yale University Press
- ^ Jonathan Steinberg reviews ‘Cavour’ by Denis Mack Smith and ‘Cavour and Garibaldi 1860’ by Denis Mack Smith · LRB 23 May 1985
- ^ Denis Mack Smith (1997), p. 26
- ^ (EN) Denis Mack Smith, Documentary falsification and Italian biography, in History and Biography: Essays in Honour of Derek Beales, di Timothy C. W. Blanning e David Cannadine, Cambridge University Press, 1996, p. 185, ISBN 0-521-47330-6.
- ^ Denis Mack Smith (1996), pp. 173-174
- ^ Denis Mack Smith, La storia manipolata, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 75-78, ISBN 88-420-6151-4.
- ^ Denis Mack Smith (1997), p. 135
- ^ Christopher Duggan, La circolazione delle idee: Mazzini nel contesto inglese e nel contesto italiano, su progettorisorgimento.it. URL consultato il 02/01/2011.
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. IX, Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. IX-X, Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Prefazione di Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 255-256. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 256. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 257. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Presidente del consiglio dei Ministri del regno d'Italia tra il 1862 ed il 1863
- ^ La versione originale in francese è “jusqu’à la moelle des os”
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 257-258. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 282. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 260. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 264. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 283. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 306. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 307. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 308. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 337. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 335. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 337-338. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Giuseppe Guerzoni (1882) Garibaldi. G. Barbera editore, Firenze.
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 336. Laterza editfore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 339. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 339-340. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ Martin Clark, Il Risorgimento italiano : una storia ancora controversa, Milano, BUR, 2001.
- ^ Martin Clark (1998) “Il Risorgimento italiano – una storia ancora controversa”, pag. 8. BUR Storia. ISBN 978-88-17-86673-6
- ^ Martin Clark (1998) “Il Risorgimento italiano – una storia ancora controversa”, pag. 72. BUR Storia. ISBN 978-88-17-86673-6
- ^ Martin Clark (1998) “Il Risorgimento italiano – una storia ancora controversa”, pag. 9. BUR Storia. ISBN 978-88-17-86673-6
- ^ Martin Clark (1998) “Il Risorgimento italiano – una storia ancora controversa”, pag. 12. BUR Storia. ISBN 978-88-17-86673-6
- ^ Lucy Riall, L'unificazione difficile: la questione meridionale e i conflitti sociali, su progettorisorgimento.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ vedi Introduzione (pp. XIII-XIV) di Lucy Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe - Un'epopea fra mito e storiaLaterza, Bari, 2007
- ^ a b Tommaso Pedio, La Basilicata nel Risorgimento politico italiano (1700-1870), Potenza, Dizionario dei patrioti lucani, 1962, p. 112. ISBN non esistente
- ^ Tommaso Pedio, Economia e società meridionale a metà dell'ottocento, a cura di Santino Giuseppe Bonsera, Cavallino-Lecce, Capone Editore, 1992, p. 2.
- ^ Tommaso Pedio, Economia e società meridionale a metà dell'Ottocento, Capone, 1999, p.4
- ^ a b Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell'Ottocento, Archivio Storico Pugliese, Bari, 1977, p.320
- ^ Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell'Ottocento, Archivio Storico Pugliese, Bari, 1977, p.335-342
- ^ Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell'Ottocento, Archivio Storico Pugliese, Bari, 1977, p.327
- ^ Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell'Ottocento, Archivio Storico Pugliese, Bari, 1977, p.353
- ^ Tommaso Pedio, Industria, società e classe operaia nelle province napoletane nella prima metà dell'Ottocento, Archivio Storico Pugliese, Bari, 1977, p.319
- ^ Silvio Vitale, Ricordo di Tommaso Pedio, in www.eleaml.org. URL consultato il 13-05-2011.
- ^ Tommaso Pedio, Latifondo e usi civici, prammatica 1792, eversione della feudalità, usurpazioni delle terre demaniali, adesione dei galantuomini al nuovo regime, in www.brigantaggio.net. URL consultato il 27-01-2012.
- ^ a b c d Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale, Edizioni Levante, Bari, 1982, p.134-141
- ^ Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale: (1806-1863), Capone, 1987, p.63
- ^ Tommaso Pedio, Il brigantaggio nelle discussioni parlamentari, in www.brigantaggio.net. URL consultato il 29-01-2012.
- ^ Vedi p.7 Salvatore Lupo, L'unificazione italiana - Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, 2011ª ed., Roma, Donzelli, 2011, p. 184, ISBN 978-88-6036-627-6.
- ^ Lupo fa specifico riferimento ai versi 180-188 del poema
- ^ Salvatore Lupo, (2011), p. 8-9
- ^ Salvatore Lupo, (2011), p. 9
- ^ pagg 325-326, 328 della edizione critica curata da A. De. Francesco di Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli,Lacaita, 1998
- ^ Salvatore Lupo, (2011), p. 11-12
- ^ Salvatore Lupo, (2011), p. 17
- ^ Salvatore Lupo, Il Passato Del Nostro Presente. Il Lungo Ottocento 1776-1913, 2010ª ed., Roma-Bari, Mondadori, 2010, p. 104, ISBN 978-88-420-93992.
- ^ Salvatore Lupo, (2010), pp. 106-107
- ^ Salvatore Lupo, (2010), p. 130
- ^ Salvatore Lupo, (2010), p. 129
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 15. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 17-18. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 22-24. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 25-26. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 27-29. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Giovanni Aceto (1827) De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre à l’époque de la Constitution de 1812, ou Memoires historiques sur les principaux événements de ce temps, pa un membre de differéns Parlemens de Sicile, p. 103. Ponthieu, Paris.
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 29-31. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ a b Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 34. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ Un totale di quindici navi delle Due Sicilie furono catturate ed avviate verso Malta
- ^ Eugenio Di Rienzo (2012) Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee – 1830-1861, pag. 35. Rubbettino editore, Soveria Mannelli
- ^ E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in "Il Mulino", n. 349, Bologna 1993 pp. 855-866
- ^ Oscar Sanguinetti ,Qualche appunto sul Risorgimento “provvidenziale”, Cultura & Identità, 'Anno III, n. 10, marzo-aprile 2011'
- ^ Paola Gaiotti De Biase, I cattolici, il Risorgimento e l'Unità d'Italia Fra lungo conflitto ed evento provvidenziale, Dossier L'Italia in posa. Il 150° e i problemi dell'Unità nazionale tra storiografia e rappresentazione sociale, Dipartimento di discipline storiche, antropologiche, geografiche, Universita' di Bologna online
- ^ Oscar Sanguinetti, op cit"
- ^ vedi Quagliarello citato da Fabio Grassi Orsini in Rivalutare il Risorgimento. Un confronto critico con il revisionismo, l'Occidentale, 19 Febbraio 2012
- ^ Fabio Grassi Orsini, op cit
- ^ Renato Cirelli, La questione romana. Il compimento dell'unificazione che ha diviso l'Italia, Mimep, 1997.
- ^ Introduzione a "L'unificazione italiana" op. cit.
- ^ [1] A.Pellicciari, Risorgimento da riscrivere: liberali & massoni contro la Chiesa, Edizioni Ares, 1998
- ^ Roberto de Mattei, Pio IX, Milano, Piemme, 2000, ISBN 88-384-4893-0.
- ^ Francesco Mario Agnoli, Però l’Italia è nata storta, in www.avvenire.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Ettore d’Alessandro di Pescolanciano, “Risorgimento” fu vera storia?, in www.ondadelsud.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ Eliana Versace, Giovanni Battista il patriota. Fin dalla giovinezza Montini vide nel Risorgimento una trama provvidenziale, L’Osservatore Romano, 6 agosto 2010
- ^ Cfr. Introduzione in Andrea Tornielli, Pio IX, Mondadori, 2011
- ^ cfr. intro Lucetta Scaraffia, I cattolici che hanno fatto l'Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all'Unità d'Italia, Lindau, Torino 2011
- ^ Andrea Riccardi, I credenti che fecero l’impresa, Avvenire, 3 marzo 2010
- ^ Giovanni Grasso, I Cattolici E L’Unità D’Italia/4. Per lo storico Francesco Traniello «è sbagliato leggere moventi anticattolici nel processo risorgimentale» Avvenire, 12 marzo 2010
- ^ Francesco D`Agostino, La nostra storia nazionale e la sfida della multietnicità, Avvenire 4 ottobre 2009
- ^ Francesco D'Agostino, Avvenire, 5 maggio 2010, Milano
- ^ Con la forza delle radici 3 dicembre 2010
- ^ Francesco D'Agostino, L'Unità d'Italia gran fatto politico ma non evento identitario, Avvenire, 5 maggio 2010
- ^ Benedetto PP. XVI, MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A S.E. L'ONOREVOLE GIORGIO NAPOLITANO,PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, IN OCCASIONE DEI 150 ANNI DELL’UNITÀ POLITICA D’ITALIA
- ^ vedi Massimo Gramellini: " Ho pensato al mio unico idolo politico, Cavour, morto gridando in faccia al suo confessore: «Frate, libera Chiesa in libero Stato!»" Massimo Gramellini, Casa e Chiesa, La Stampa, 4 maggio 2010
- ^ Gianni Gennari, Cattolici e unità d'Italia: il pregiudizio in pagina, l'Avvenire 5 maggio 2010
- ^ Giuseppe Di Leo, Cattolici italiani e unità nazionale
- ^ Andrea Galli, I Cattolici E L’Unità D’Italia/2. «L’attacco al papato non fu un effetto collaterale del Risorgimento, ma il suo fine». Il j’accuse di Angela Pellicciari, Avvenire, 6 marzo 2010
- ^ Angela Pellicciari, Risorgimento e Massoneria, Il Timone, n. 24, Marzo-Aprile 2003
- ^ Angela Pellicciari, Risorgimento e Massoneria, Il Timone, n. 24, Marzo-Aprile 2003
- ^ Angela Pellicciari, I veri romani e Mazzini, Il Tempo, 16 Aprile 2011
- ^ Angela Pellicciari, Per non ripetere gli equivoci del Risorgimento, Studi Cattolici ,n. 295, aprile 2004
- ^ A. Pellicciari, Sicuro che la massoneria non abbia nulla a che fare col Risorgimento? La Padania, 6 dicembre 2000
- ^ cfr A.Pellicciari, L'altro Risorgimento: una guerra di religione dimenticata, Piemme, 2000
- ^ cfr A.Pellicciari, Risorgimento da riscrivere: liberali & massoni contro la Chiesa, Edizioni Ares, 1998
- ^ pag 11. A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere .
- ^ Angela Pellicciari, Quando i Gesuiti erano odiati come i tiranni, La Padania, 12 agosto 2001
- ^ a b Angela Pellicciari, Risorgimento? Del paganesimo , Il Timone, n. 11, Gennaio/Febbraio 2001
- ^ A. Pellicciari, Per non ripetere gli equivoci del Risorgimento, Studi Cattolici, n. 295, aprile 2004
- ^ A. Pellicciari, Sicuro che la massoneria non abbia nulla a che fare col Risorgimento?, La Padania, 6 dicembre 2000
- ^ Angela Pellicciari, Giuseppe Garibaldi - Un uomo dal cuore tenero, Il Timone, n. 15, Settembre-Ottobre 2001
- ^ Angela Pellicciari, Giuseppe Garibaldi - Un uomo dal cuore tenero, Il Timone, n. 15, Settembre-Ottobre 2001
- ^ pag. 27-29 A.Pellicciari, L'altro Risorgimento: una guerra di religione dimenticata, Piemme, 2000
- ^ Angela Pellicciari, Risorgimento anticattolico:la persecuzione della Chiesa nelle Memorie di Giacomo Margotti, Piemme, 2004
- ^ Angela Pellicciari, Plebisciti: solo una bella parola, Il Timone, n. 28, Novembre/Dicembre 2003
- ^ IV sezione del primo libro del Capitale
- ^ Angela Pellicciari, 1500 anni di gloriosa storia cattolica italiana: poi il disastro dell'unita' d'Italia (precisiamo i fatti), Libero, 20 agosto 2009
- ^ A. Pellicciari, Sul risorgimento c'è ancora molto da scoprire, Libero, 12 febbraio 2010
- ^ Sandro Consolato
- ^ Andrea Galli, Risorgimento esoterico, La Stampa, 23 marzo 2010
- ^ Andrea Galli, Risorgimento esoterico, La Stampa, 23 marzo 2010
- ^ La madre di Ernesto Nathan
- ^ Cecilia Gatto Trocchi
- ^ Andrea Galli, Risorgimento esoterico, La Stampa, 23 marzo 2010
- ^ Andrea Galli, Risorgimento esoterico, La Stampa, 23 marzo 2010
- ^ Società segreta di tipo Massonico tra i cui affiliati vi era Antonio Solera
- ^ Dell’elmo di Scipio
- ^ “Dell’elmo di Scipio”. intervista a Sandro Consolato (a cura di Federico Gizzi)
- ^ Dell’elmo di Scipio
- ^ pag. 2306 (par 11), A. Gramsci (a Cura di V. Gerratana), Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975
- ^ a b Nicola Zitara, L'Unità d'Italia: nascita di una colonia, Jaca Book, 1974, p.40.
- ^ a b Angela Pellicciari, L'altro Risorgimento: una guerra di religione dimenticata, Milano, Edizioni Piemme, 2000, p. 117, 88-3844-970-8.
- ^ Camillo Benso di Cavour, Opera parlamentaria del conte di Cavour, volume primo, Razzauti Editore, Livorno, 1862, p.209
- ^ a b cfr L. Cappelleti, 1892, p 258 e succ.
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia!, Milano, 2003, p. 67
- ^ a b Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Edizioni Trabant, 2009, p. 428.
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia!, Milano, 1998, p. 61.
- ^ a b Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, Guida, 2002, pag. 197, ISBN 88-7188-489-2.
- ^ a b c Massimo Viglione, Libera Chiesa in libero Stato? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Roma, 2005, p.61
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia!, Casale Monferrato, 1998, p.61
- ^ a b c Gigi di Fiore, I vinti del Risorgimento
- ^ a b Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli
- ^ http://www.bibliocamorra.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=27 Coinvolgimento della camorra da parte di Liborio Romano
- ^ a b Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, Utet, Torino, 2004, p. 99.
- ^ a b Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Edizioni Trabant, 2009, p. 331.
- ^ a b Mario Spataro, I primi secessionisti: separatismo in Sicilia, Napoli, 2001, p. 50.
- ^ a b c d La Farina Giuseppe, Epistolario di Giuseppe La Farina, Vol. 2, a cura di Ausonio Franchi, Milano, E. Treves & C., 1869, pp. 181-184. URL consultato il 19 gennaio 2011.
- ^ a b Francesco Proto Carafa, Duca di Maddaloni, Interpellanza al Parlamento Italiano, Atto 234, 20 novembre 1861
- ^ a b Marco Meriggi, Breve storia dell'Italia settentrionale dall'Ottocento a oggi, Roma, 1996, p. 60
- ^ a b Massimo Viglione, Francesco Mario Agnoli, La rivoluzione italiana:storia critica del Risorgimento, Il minotauro, 2001, p.164
- ^ a b Francesco Pappalardo, Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra Resistenza e reazione, D'Ettoris, 2004.
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, 1998, p. 145.
- ^ a b Francesco Mario Agnoli, Dossier brigantaggio: viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità, Napoli, 2003, p. 258.
- ^ a b Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento:legittimisti e briganti tra Borbone e i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000, p. 187.
- ^ a b Fulvio Izzo, I lager dei Savoia:storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Controcorrente, Napoli, 1999, p. 62.
- ^ a b Christopher Duggan, The Force of Destiny: A History of Italy Since 1796, Penguin Books, 2007, p. 224
- ^ a b Di Fiore Gigi, 1861, Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato, Napoli, Grimaldi & C. editori, 1998.
- ^ Christopher Duggan (2011) La forza del destino – Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, pag. 255. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9
- ^ a b Massimo Viglione, Francesco Mario Agnoli, La rivoluzione italiana:storia critica del Risorgimento, Roma, 2001, p. 98
- ^ a b E. Sori, L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979.
- ^ Tommaso Pedio, Perché «Briganti», p.99. Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia, p.227-228.
- ^ Giuseppe Galasso, Passato e presente del meridionalismo, vol.1, Guida, 1978, p.19
- ^ a b Sergio Romano, La nostalgia dei Borbone e il Risorgimento del sud, in archiviostorico.corriere.it. URL consultato l'08-01-2011.
- ^ Pino Aprile, Quel nord che ha educato i meridionali alla minorità, in www.ilmanifesto.it. URL consultato il 01-11-2010.
- ^ a b Nicola Zitara, L'unità d'Italia. Nascita di una colonia, Quale cultura, 1984.
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.118
- ^ Nicola Zitara, Nascita di una colonia, Jaka Book, 1971, pag. 36.
- ^ Harold Acton, p. 2
- ^ Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano; discorsi politici (1880-1910), vol.2, Laterza, 1911, p.337
- ^ Domenico Demarco, Banca e congiuntura nel Mezzogiorno d'Italia, vol. I (1809-1863), p. 31, E.S.I., Napoli, 1963
- ^ R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita, Sansoni, Milano, 1999. Citato in: Gigi di Fiore, I vinti del Risorgimento, pag. 263.
- ^ Beaud Michel (2004) Storia del capitalismo. Dal Rinascimento alla New Economy. Oscar Storia Mondadori. ISBN 8804528028
- ^ Paolo Malanima, Vittorio Daniele, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004) (PDF), in www.paolomalanima.it. URL consultato il 27-12-2010.
- ^ Rispettivamente docente di Economia Applicata e Dottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni presso l’Università di Tor Vergata (Roma).
- ^ Carlo Ciccarelli, Stefano Fenoaltea (2010 Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy, Banca d'Italia - quaderni di Storia Economica, 2010, p. 5-22.
- ^ Ressmann Claudio, Rivista Marittima, Febbraio 2007
- ^ Lisetta Giacomelli,Roberto Scandone, Vulcani d'Italia, Napoli, 2007, p.161
- ^ Piero Bevilacqua Breve storia dell'Italia meridionale: dall'Ottocento a oggi, Roma, 1993, p.54
- ^ A. Fratta (a cura di) (1990) La fabbrica delle navi. Storia della cantieristica nel Mezzogiorno d'Italia. Electa Napoli
- ^ Gerolamo Boccardo, Dizionario della economia politica e del commercio, Torino, Sebastiano Franco e Figli e C., 1857, p. XII. URL consultato il 30 gennaio 2011. ISBN non esistente
- ^ Norbert Kamp, Federico II di Svevia, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani (on line). http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Federiciana/VOL01/FEDERICIANA_VOL01_000205.xml
- ^ «...io credo che il problema sociale delle Isole come in tutto il Mezzogiorno è «...il problema della miseria...sono regioni in grandissima parte non così naturalmente fertili, come si immagina, per condizioni difficilissime di clima e suolo, né suscettibili di altra produzione al di fuori di quella agricola...»Da Giustino Fortunato, Le Regioni, 1896, in Rosario Villari, pp. 245-246.
- ^ Denis Mack Smith (1997), p. 5
- ^ Camillo Benso di Cavour, Opera parlamentaria del conte di Cavour, volume primo, Razzauti Editore, Livorno, 1862, p.209.
- ^ Camillo Benso di Cavour, Lettere edite ed inedite, 1883, p. 226.
- ^ Perirono cinquemila dei quindicimila militari del corpo di spedizione piemontese, di cui 2.000 di colera.
- ^ Angela Pellicciari, 2000, pp. 111-112
- ^ a b Giacomo Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Napoli, Tipografia Cardamone, 1862, p. 26. ISBN non esistente
- ^ Giacomo Savarese, pp. 24-25
- ^ Giacomo Savarese, pp. 28-29
- ^ Gigi di Fiore, I vinti del Risorgimento, pag. 263-264.
- ^ Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, Laterza, Bari, 1958. Citato in: Gigi di Fiore, I vinti del Risorgimento, pag. 264.
- ^ a b c Angela Pellicciari, Il sud era ricco prima di diventare Italia, in www.angelapellicciari.it. URL consultato il 16-01-2011.
- ^ a b Pier Carlo Boggio, Fra un mese!, Tip. scol. di S. Franco, 1859, p. 21-22.
- ^ Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli. Citato in Paolo Mieli, L'errore dei Borbone fu inimicarsi Londra. L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli, in nuovarivistastorica.it, Roma, Società editrice Dante Alighieri. URL consultato il 15 aprile 2012.
- ^ a b c d e Paolo Mieli, L'errore dei Borbone fu inimicarsi Londra. L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli, in nuovarivistastorica.it, Roma, Società editrice Dante Alighieri. URL consultato il 22 aprile 2012.
- ^ Ernesto Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del sette e dell'Ottocento: saggi storici, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1965, p. 347, ISBN non esistente.
- ^ Ennio Di Nolfo, Europa e Italia nel 1855-1856, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1967, pag. 412. ISBN non esistente
- ^ È famoso a tal proposito il commento del console inglese a Napoli all'atto della sua salita al trono, che individuava la necessità di "dargli [a Ferdinando II] qualche salutare lezione in proposito"
- ^ L'espressione si riferisce al fatto che la sicurezza del Regno delle Due Sicilie era garantita dall'essere protetto a nord dallo Stato della Chiesa, ai tempi considerato intangibile, e da tutti gli altri lati dal mar Mediterraneo, che era protetto dalla flotta militare
- ^ Erminio De Biase, L'Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie. Controcorrente editore, Napoli, 2002
- ^ a b Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fausto Fiorentino Editore, Napoli 1990
- ^ Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni di Angelo Massafra,Università di Bari. Dipartimento di scienze storiche e sociali,Italy. Soprintendenza archivistica per la Puglia, pag. 307-309. EDIZIONI DEDALO, 1988 - 1312 pagine. Consultato il 12 gennaio 2011
- ^ Radogna, Lamberto. Storia della marina mercantile delle Due Sicilie. (1734 – 1860). Mursia, 1982.
- ^ Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Rassegna storica del Risorgimento, Volume 29,Parti 3-4, 1942, p.729
- ^ Tuttavia l'Inghilterra non perse l'interesse su quest'isola, posizionata lungo la rotta per Malta, effettuando su quel tratto di mare, negli anni successivi, rilievi batimetrici
- ^ Thomson, Dennis (1989): The Sulphur War (1840): A Confrontation between Great Britain and the kingdom of the Two Sicilies in the Mediterranean, Michigan State University.
- ^ Giura, Vincenzo(1973): La questione degli zolfi siciliani (1838-1841), in: Cahiers internationaux d´histoire economique et sociale, Nummer 2, pag.278-392
- ^ Harold Acton, p. 140
- ^ Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medioevale e moderna,Editori Laterza, 1976, pag.512-513.
- ^ Rivista contemporanea,Vol 26,a pag 429,Torino-1861
- ^ Denis Mack Smith,Storia della Sicilia medioevale e moderna,pagg.512-513.Editori Laterza, 1976
- ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia
- ^ Gigi di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p. 19
- ^ Giuseppe Buttà, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, Tipografia del giornale La Discussione, Napoli, p.111
- ^ Coppola, p. 625
- ^ Coppola, p. 617
- ^ Coppola, p. 613
- ^ Antonio Scialoja, I principi della economia sociale esposti in ordine ideologico, a cura di Gabriella Gioli, p. XIII, Franco Angeli editore, Milano, 2006
- ^ Alexander Baillie-Cochrane, The prisons of Naples, in Young Italy by Alexander Baillie Cochrane, Londra, John W. Parker, 1850, pp. 262-279. ISBN non esistente
- ^ a b Coppola, p. 629
- ^ Coppola, pp. 619-620
- ^ Coppola, p. 623
- ^ a b Baillie-Cochrane, p. 275
- ^ Coppola, p. 624
- ^ Francesco Mastroberti, Tra scienza e arbitrio : il problema giudiziario e penale nelle Sicilie dal 1821 al 1848, Bari, Cacucci, 2005, p. 251, ISBN 88-8422-461-6.
- ^ Pécout Gilles, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea (1770-1922), a cura di R. Balzani, Torino, Bruno Mondadori, 1999, p. 129, ISBN 978-88-424-9357-0.
- ^ Baillie-Cochrane, p. 276
- ^ Baillie-Cochrane, p. 279
- ^ (EN) William Ewart Gladstone, Two Letters to the Earl of Aberdeen, on the State Prosecutions of the Neopolitan Government, Londra, John Murray Publication, 1851. ISBN non esistente
- ^ a b c d e Gigi Di Fiore (2007), p. 93
- ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno: Ferdinando II, S. Lapi, 1909, p.68
- ^ (FR) Alphonse Balleydier, La vérité sur les affaires de Naples, réfutation des lettres de m. Gladstone, Parigi, Imprimerie de W. Remquet, 1851, pp. 5-6. ISBN non esistente
- ^ (FR) Jules Gondon, La terreur dans le royaume de Naples, lettre au right honorable W.E. Gladstone en réponse à ses Deux lettres à lord Aberdeen, Parigi, Auguste Vaton, 1851. ISBN non esistente
- ^ Raffaele Cotugno, Tra reazioni e rivoluzioni. Contributo alla storia dei Borboni di Napoli dal 1849 al 1860, Lucera, M. & R. Frattarolo, s.a., p. 97. ISBN non esistente
- ^ Giacinto de' Sivo, Storia delle Due sicilie: dal 1847 al 1861, Volume Primo, Trieste, Brenner, 1868, pp. 377-378, ISBN non esistente.
- ^ Domenico Razzano, La Biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II, a cura di Vincenzo D'Amico, Battipaglia, Ripostes, 2010, p. 26, ISBN 88-9693-302-2.
- ^ Maria Gaia Gajo, Le lettere di Gladstone ad Aberdeen, in Rassegna Storica del Risorgimento, anno LIX, fasc. IV, ottobre-dicembre 1973, pp. pp. 31-47.
- ^ in Cotugno (lettere), pp. 8-9 e in Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX, vol. III (1850-1860), Milano, A. Vallardi, 1907-1918, p. 20.
- ^ Coppola, pp. 616-617
- ^ Carlo Alianello, La conquista del sud, Rusconi, 1972, p.25
- ^ Il richiamo alle affermazioni di Petruccelli è utilizzato da Acton per sottolineare come i liberali napoletani restarono coesi fintantoché fu in vita Ferdinando II, «principale bersaglio dei loro strali», ma, morto quest'ultimo, furono incapaci di una seria azione politica finendo per scagliarsi «l'uno contro l'altro per sbranarsi». Harold Acton, p. 4
- ^ Cotugno (lettere), p. 34
- ^ James Howard Harris Malmesbury, p. 313
- ^ Angela Pellicciari, 2000, p. 188
- ^ a b Cesare Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze, Casa Editrice Barbèra, 1862, pp. 262-263.
- ^ a b Angela Pellicciari, 2000, p. 190
- ^ vedi pag 700 Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900) giorno per giorno illustrata, Volume 3, A. Vallardi, 1918
- ^ vedi pag 702 Alfredo Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900) giorno per giorno illustrata, Volume 3, A. Vallardi, 1918
- ^ Pietro Corelli, La stella d'Italia; o, Nove secoli di Casa Savoia, Vol. 5, Milano, Alessandro Ripamonti Editore, 1863, p. 388. ISBN non esistente
- ^ In Gran Bretagna, infatti, le pene corporali stabilite dai tribunali non erano infrequenti.
- ^ Intervista ad Arrigo Petacco autore del ”Il Regno del Sud”, in www.giornale.ms. URL consultato il 03-11-2010.
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme Editore, Milano, 1998, p. 36.
- ^ a b c Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, 2000, p. 65.
- ^ Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2004, p. 327, ISBN 88-420-7491-8.
- ^ Alberto Santoni, Storia e politica navale dell'età moderna: XV-XIX secolo, Roma, Ufficio storico della marina militare, 1998, pag. 305.
- ^ Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999, pag. 165, ISBN 88-383-1828-X.
- ^ Harold Acton, p. 493
- ^ > Giuseppe Pandolfo, Una Rivoluzione tradita:da Marsala a Bronte, Italo-Latino-Americana Palma, 1986.
- ^ Félix Dupanloup, La sovranitá del Pontefice secondo il diritto cattolico e il diritto europeo, Tipografia Monaldi, 1861, pag. IV.
- ^ Andrea Carteny, Contro l'unità d'Italia, di Pierre Joseph Proudhon, Miraggi Edizioni, 2010, pag. 12.
- ^ Angelo Tamborra, Garibaldi e l'Europa, Roma, Stato maggiore dell'Esercito, Ufficio storico, 1983, pag. 27.
- ^ Francesco Protonotari, Nuova antologia, Vol. 548-549, Direzione della Nuova Antologia, 1982, pag. 61.
- ^ pag. 88 D. M. Smith, Garibaldi, una grande vita in breve, Lerici, 1966
- ^ a b Editori Vari, Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Harvard College Library, 1863, p.80, cit.:«Nella camera de' comuni d' Inghilterra il deputato sir Osborne accusa i legni inglesi di aver favorito lo sbarco di Garibaldi a Marsala : il ministro lord Russell fa una risposta, in ogni parola della quale si può desumere qualche spiegazione sullo spirito della politica inglese ne' fatti di Sicilia.»
- ^ pagg. 42-43 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870
- ^ Comandante la flotta inglese nel Mediterraneo
- ^ Il testo integrale dell'interpellanza e' riportato, numerato come doc. 23 pagg. 42-43 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870.
- ^ In quell'anno la Danimarca venne attaccata da Austria e Prussia
- ^ pagg. 906-907 in Giuseppe da Forio, Vita di Garibaldi, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870(?)
- ^ Patrick Keyes O'Clery, L'Italia dal Congresso di Parigi a Porta Pia, Roma, 1980, p.118.
- ^ a b c Herbert G. Houze, Samuel Colt: arms, art, and invention, Yale University Press, 2006, p.187.
- ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno, Vol. 2, Città di Castello, Scipione Lapi, 1909, pag. 233.
- ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Napoli, Rizzoli Editore, 2007, pag. 114, ISBN 88-17-01846-5.
- ^ * Carlo Agrati, I mille nella storia e nella leggenda, Milano, Mondadori, 1933, p. 172. ISBN non esistente
- ^ Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia!, Milano, 2003, p. 78-79.
- ^ Archivio privato Giuseppe Catenacci, missive e documenti famiglia Quandel: lettera del tenente colonnello Nicola Landi a Raffaele De Cesare, 9 agosto 1898. Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.147.
- ^ Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere: liberali & massoni contro la Chiesa, Roma, Edizioni Ares, 1998, p. 314, 88-8155-156-X.
- ^ Carlo Pellion di Persano, La presa di Ancona: Diario privato politico-militare (1860), Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1990, p. 91, ISBN 88-7692-210-5. URL consultato il 23 febbraio 2011.
- ^ Carlo Pellion di Persano, p. 140
- ^ Antonio Martorana, L'autonomia siciliana nella storia della Sicilia e dell'Europa, in Viaggio nell'autonomia, ARS - Assemblea Regionale Siciliana, 2006. URL consultato il 2 agosto 2011.
- ^ a b Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Milano, Piemme, 1998, pp. 79-80-81, ISBN 88-384-3142-6.
- ^ Cesare Bertoletti, Il risorgimento visto dall'altra sponda, Napoli, Berisio Editore, 1967, pp. 196-197. ISBN non esistente
- ^ Gigi Di Fiore (1993), p. 45
- ^ Marc Monnier, La Camorra: Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze, Barbèra Editore, 1863, p. 84, ISBN non esistente. URL consultato il 6 dicembre 2011.«[...] la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borboni fino al 1848. Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici. [...] Inoltre la camorra [...] era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi malfamati della città»
- ^ a b c d e f Quando la camorra aiutò Garibaldi in nome della libertà di delinquere, in Il Giornale, Milano, Società Europea di Edizioni, 16 luglio 2011. URL consultato il 6 dicembre 2011.
- ^ vedi pag. 21 in Marcella Marmo, Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l'Unita' d'Italia, Editore: L'ancora del Mediterraneo, 2011
- ^ vedi pag. 75-76 in Salvatore Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli editore, 2011
- ^ Gigi Di Fiore (1993), pp. 62-64
- ^ a b Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, 2000, p. 90.
- ^ Vedi pag. 76 in S. Lupo ibidem
- ^ Gigi Di Fiore (1993), pp. 62-63
- ^ Gigi Di Fiore (1993), pp. 63-64
- ^ Gigi Di Fiore (1993), p. 12
- ^ Ferdinando Russo, Ernesto Serao, La camorra, Napoli, Bidieri, 1907, p. 63, ISBN non esistente.
- ^ Giovanni La Cecilia, Storia dell'insurrezione siciliana, Tip. Sanvito, Milano, 1860, p. 318.
- ^ Harold Acton, p. 517
- ^ Salvatore De Crescenzo
- ^ Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, 2000, p. 55.
- ^ decreto
- ^ a b vedi il capitolo XLIV-La camorra di G. Garibaldi, I Mille, 1874
- ^ Si veda anche pag 74 di Pasquale Fornaro, István Türr: una biografia politica , Rubbettino Editore, 2004,
- ^ a b Gigi Di Fiore (1993), p. 64
- ^ pag 126 Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento
- ^ Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. V, libro XXVIII p. 261, Berisio, Napoli 1964
- ^ Atti del governo estratti dal giornale officiale di Napoli, Edizioni 1-27, Napoli, 1860, pp. 178-179.
- ^ Gigi Di Fiore (1993), p. 65
- ^ Gigi Di Fiore (1993), p. 69
- ^ Salvatore De Crescenzo. Biblioteca digitale della camorra, Università degli studi di Napoli Federico II
- ^ Gigi Di Fiore (1993), p. 68
- ^ Gigi di Fiore, controstoria dell'Unità d'Italia
- ^ Plebiscito (XML), in Treccani.it. URL consultato il 18 gennaio 2011.
- ^ Lucy Riall (1994) The Italian Risorgimento: state, society, and national unification, pag. 75. Routledge, London.
- ^ Franco Alberti, Due costituzioni, da Napoli a Torino: note storiche e considerazioni sullo Zeitgeist, Napoli, Guida, 2002, pag. 73, ISBN 88-7188-442-6. URL consultato il 27 novembre 2010.
- ^ Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Edizioni Trabant, 2009, p. 512
- ^ Martin Clark, Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa, BUR, 2006, p.128
- ^ a b c d e f Angela Pellicciari, La farsa dei plebisciti, in Libertà e persona. URL consultato il 19 gennaio 2011.
- ^ Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999, pag. 251, ISBN 88-383-1828-X.
- ^ Roberto Martucci, pp. 256-257
- ^ Antonio Vaccaro, Guida di Venosa, Osanna, Venosa, 1998, p. 93
- ^ Camillo Benso di Cavour, Carlo Pischedda, Epistolario, Olschki, 2005, p.2875.
- ^ Interpellanza al Parlamento Italiano, Atto 234, 20 novembre 1861
- ^ a b (EN) Patrick Keyes O'Clery, The making of Italy, Londra, Regan Paul, Trench, Trubner & Co., 1892, p. 365. ISBN non esistente
- ^ (EN) Henry Gordon Lennox, Italy in 1863, Londra, Harrison and Sons, 1863, p. 31. ISBN non esistente
- ^ Luciano Palermo, p.137
- ^ Teodoro Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari, Malta, 1863, p.34.
- ^ Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, 2005, p.60
- ^ Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, 2000, p. 135
- ^ Mario Iaquinta, Mezzogiorno, emigrazione di massa e sottosviluppo, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2002. pag. 63 ISBN 88-8101-112-3
- ^ Gigi Di Fiore, Quelle fortezze-carceri dove i «terroni» morivano, su archiviostorico.corriere.it. URL consultato il 17 gennaio 2011.
- ^ Cavour, La liberazione del Mezzogiorno, vol.IV, p.295. Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia, p.174
- ^ Il numero dei detenuti è stato riportato da Alfredo Comandini in una pubblicazione intitolata L'Italia nei Cento anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata. Citato in Gigi Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, p.177
- ^ Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, UTET Università, 2004.
- ^ a b Neoborbonici all'assalto di Fenestrelle 'In quel forte ventimila soldati morti', su ricerca.repubblica.it. URL consultato il 29 luglio 2010.
- ^ Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999, pag. 215, ISBN 88-383-1828-X.
- ^ Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Napoli, 2007, p. 178.
- ^ A Fenestrelle per ricordare le vittime dell'Unità d'Italia, su www3.lastampa.it. URL consultato il 24 agosto 2010.
- ^ http://torino.repubblica.it/cronaca/2011/07/08/news/i_morti_borbonici_a_fenestrelle_non_furono_40mila_ma_quattro-18872501/
- ^ Mino Milani, Giuseppe Garibaldi, Mursia, 1982, p.399.
- ^ Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Napoli, Guida, 2000, pag. 210
- ^ Gigi di Fiore Controstoria dell'Unità d'Italia
- ^ Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, 2005, pag. 185
- ^ Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella, Il rogo delle case e 400 morti che nessuno vuole ricordare, in www.corriere.it. URL consultato il 18-10-2010.
- ^ Raffaele Avallone, Estate 1861, il massacro dei "briganti", in Corriere del Mezzogiorno, 7 marzo 2011. URL consultato il 14 marzo 2011.
- ^ Giacinto de' Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Vol. 2, libro XXXIII, paragrafo 7 (PDF), Brindisi, Edizioni Trabant, 2009, p. 440, ISBN 88-96576-11-3. URL consultato il 14 marzo 2011.
- ^ Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia!, Milano, 2003, p. 231
- ^ Teodoro Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari, Malta, 1863, p.34.
- ^ Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Guida Editore, 2000, p. 263.
- ^ Alfredo Capone, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Volume 2, UTET, 1981, p.53
- ^ Patrick Keyes O'Clery, The making of Italy, Regan Paul, Trench, Trübner, 1892, p.301.
- ^ Archivio di Stato di Napoli, “Fondo Questura”, Fascio 16, inventario 78. Citato in: Angelo Forgione - 1º Maggio. Napoletane le prime vittime operaie Pietrarsa 1863: Bersaglieri e Carabinieri sparano sui lavoratori.
- ^ Il-museo-nazionale di Pietrarsa.pdf a pag 21
- ^ Nicola Zitara, L'Unità d'Italia: nascita di una colonia, Milano, 1971, p.37
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p.117
- ^ Francesco Saverio Nitti, Domenico De Masi, Napoli e la questione meridionale, Guida, Napoli, 2004, p.84.
- ^ Sono parole tratte dagli Scritti di Gaetano Salvemini e cit. da: Antonio Gramsci, Quaderno 19, Risorgimento Italiano, Torino, Einaudi, 1977 (con introduzione e note di Corrado Vivanti), p. 175 (nota)
- ^ Giustino Fortunato, Emilio Gentile, Carteggio 1865-1911, Bari, Laterza, 1978, pp. 64-65.
- ^ Giustino Fortunato, Emilio Gentile, Carteggio, Volume 1, Laterza, 1978, p.27
- ^ Nicola Zitara, Sud Italia: arretratezza o colonialismo interno? (p.5) (PDF), in www.eleaml.org. URL consultato l'11-01-2011.
- ^ Luigi Einaudi, Il buongoverno, Laterza, 1973, pag. 155
- ^ Demetrio De Stefano, Il Risorgimento e la questione meridiondale, Reggio Calabria, La Procellaria, 1964, pag. 256. ISBN non esistente
- ^ a b Raccolta degli atti del governo dittatoriale e prodittatoriale in Sicilia, Palermo, Stabilimento tipografico Francesco Lao, 1860, pag 9 e pag. 24. URL consultato il 31 ottobre 2010. ISBN non esistente
- ^ Rossano Scacchi, Anima ottocentesca, Trento, Editrice UNI Service, 2008, pag. 82 (nota 47), ISBN 88-6178-281-5.
- ^ a b Luciano Palermo, Storia dell'industria, Bari, Laterza, 2000, p. 135, 88-421-0596-1.
- ^ Luciano Palermo, p.138
- ^ Luciano Palermo, p.139
- ^ Danilo Stentella, Polo industriale di Mongiana, in archeologiaindustriale.org, 9 aprile 2008. URL consultato il 27 marzo 2012.
- ^ Andrea Giuntini, I giganti della montagna: storia della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, 1845-1934, Firenze, Leo S. Olschki, 1984, p. 2, ISBN 88-2223-249-6.
- ^ Luigi Settembrini, Protesta del popolo delle due Sicilie, a cura di Mario Battaglini, Roma, Archivio Izzi, 2000, p. 146, ISBN 88-8576-082-1.«Il successo del nuovo mezzo fu enorme se si pensa che in soli tre mesi i passeggeri furono 131.116.»
- ^ Amintore Fanfani, Storia economica, Volume V: Età contemporanea, Torino, UTET, 1972, p. 255, ISBN non esistente.
- ^ Peter Michael Kalla Bishop, Italian Raileoads, New York, Drake Publisher, 1972, p. 16, 08-7749-144-5.
- ^ (31 gennaio 1857) Giornale del Regno delle Due Sicilie, numero 23
- ^ Real Decreto n. 809 del 28 aprile 1860.
- ^ Domenico Antonio Vacca (1860) Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie pag. 204. Napoli, Stamperia Reale. http://books.google.it/books?id=TmsuAAAAYAAJ&pg=PA207&dq=28+aprile+1860+francesco+II&hl=it&sa=X&ei=VAJ4T_H1KLTR4QSa6uWMDw&ved=0CDIQ6AEwAA#v=onepage&q=28%20aprile%201860%20francesco%20II&f=false
- ^ Domenico Antonio Vacca (1860) Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie pag. 204-206. Napoli, Stamperia Reale. http://books.google.it/books?id=TmsuAAAAYAAJ&pg=PA207&dq=28+aprile+1860+francesco+II&hl=it&sa=X&ei=VAJ4T_H1KLTR4QSa6uWMDw&ved=0CDIQ6AEwAA#v=onepage&q=28%20aprile%201860%20francesco%20II&f=false
- ^ Il testo integrale del decreto del 17 agosto, riassuntivo anche dei precedenti, e' riportato, numerato come doc. 128 pagg. 274-275 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870.
- ^ Decreto 25 settembre 1860
- ^ Il testo integrale del decreto e' riportato, numerato come doc. 218 pagg. 516-521 in Giuseppe da Forio, Storia di Giuseppe Garibaldi - Volume secondo - Documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Perrotti, 1870.
- ^ Rosario Romeo, p. 345
- ^ Decreto 119
- ^ Gian Antonio Stella, Espatri dalle regioni italiane 1876 - 1900, in www.speakers-corner.it. URL consultato il 07-10-2010.
- ^ Denis Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1948, La Terza Editore, Bari, 1960, p. 375
- ^ Autore del celebrato volume “Usi e costumi di Napoli”
- ^ ’’ ’O Luciano ddo ‘Rre ‘’
- ^ Abitante del quartiere marinaro di Santa Lucia in Napoli
- ^ Gli altri tre erano Francesco Raffaele di Lipari, Carlo Corallino di Porto, Salvatore Santaniello di Castellammare di Stabia.
- ^ Di sentimenti liberali, inviò a Garibaldi 2.000 ducati per il finanziamento della spedizione dei Mille, in aperto contrasto con la politica di Papa Pio IX. Il 29 luglio 1860 fu cacciato via dalla popolazione di Ariano Irpino e dovette rifugiarsi a Monteleone.
- ^ La Ginestra
- ^ storia
- ^ Luigi Polo Friz, Lodovico Frapolli, La massoneria italiana nel decennio post unitario, Milano, FrancoAngeli, 1998, p. 269, ISBN 88-464-0917-5.
- ^ "Trasèttemo, gnorsì!... Senza cammise! E 'o ddicevano stesso 'e piamuntise!"
- ^ Qui stiamo tutti all’ospedale!/Abbiamo tutti la stessa malattia!/Siamo rimasti tutti in mezzo alle scale,/fuori alla mensa dell’Albergo dei Poveri!/Che mi vuoi dire? Che siamo liberali?/E che te ne fai, di questa sbruffoneria?/Quando tuo figlio piange e vuol mangiare,/Cercati in tasca, e dagli la libertà!
- ^ Ferdinando Russo, 'O Luciano d'o Rre, 1910
- ^ Viene fatto specificamente il nome di Pianell. Si tratta probabilmente del colonnello Pianell (fratello del generale Giuseppe Salvatore) che consegnò al nemico nel novembre 1860 il 15º Battaglione Cacciatori (Harold Acton, p. 584, vedi anche: Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, Milano, Mondadori, pp. 175-176.)
- ^ Cocchiere, spazzino, venditore di punte di frustini per cavalli.
- ^ Bossi: «Il Nord non voleva l'Unità d'Italia», su ilsole24ore.com. URL consultato il 5 agosto 2010.
- ^ Rapporto stenografico della seduta n. 473 della Camera dei Deputati del 28/01/1999
- ^ Benedetto Croce, Francesco Paolo Bozzelli e Giacinto de' Sivo. Due note lette all'Accademia Pontaniana nella tornata del 17 febbraio 1918 dal socio Benedetto Croce, Napoli, Stabilimento Tipografico Francesco Giannini e figli, 1918, pp. 14 e seguenti.
- ^ Secondo Lorenzo Arnone Sipari, il proposito di Croce era quello di «conferire dignità storiografica ad una memorialistica ormai dimenticata» Lorenzo Arnone Sipari, Il brigantaggio meridionale nell'opera di Benedetto Croce tra le due guerre, in Raffaele Colapietra (a cura di), Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale: un difficile rapporto, L'Aquila, Colacchi, 2005, p. 75.
- ^ Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute prospettive. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fìsco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull'amore delle classi popolari. [...] Fra il 1848 e il 1860 si cercò di economizzare su tutto, pure di non mettere nuove imposte: si evitavano principalmente le imposte sui consumi popolari. Niente scuole, ma niente balzelli; poche opere pubbliche, ma pochi oneri. Il Re dava il buon esempio, riducendo la sua lista civile spontaneamente di oltre il 10 per cento; fatto questo non comune nella storia dei principi europei, in regime assoluto o in regime costituzionale. Era spesso un «paternalismo» corrompente volgare: si cercava contentare un po' tutti. Piccoli impieghi e la maggior parte di poco conto e senza diritto a pensione; ma folla enorme di impiegati. Chi sapeva leggere, se non diventava un liberale, diventava senza dubbio un impiegato. [...] Era la vecchia Europa con tutte le sue avversioni per ogni cosa nuova, con tutte le sue debolezze. Si evitavano le concessioni industriali; si evitava che si formassero banche o società per azioni; si temeva che la speculazione penetrasse e con essa il desiderio di cose nuove. [...] Una grandissima città per capitale con un gran numero di province quasi impenetrabili. Ma si voleva un'amministrazione prudente, accorta. La finanza era rigida, la banca onesta. Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Roux e Viarengo, 1901, pp. 111-112
- ^ È vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora. Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Roux e Viarengo, 1901, p.118
- ^ Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901, p. 113
- ^ a b c d Edoardo Castagna, Risorgimento capro espiatorio, in www.avvenire.it. URL consultato l'08-01-2011.
- ^ Francesco Perfetti, Storici, troppi paraocchi, in www.storialibera.it. URL consultato il 09-01-2011.
- ^ a b Giorgio Bocca, Sud, basta coi luoghi comuni, in espresso.repubblica.it. URL consultato il 09-01-2011.
- ^ Giovanni Grasso, I Cattolici E L’Unità D’Italia/4. Per lo storico Francesco Traniello «è sbagliato leggere moventi anticattolici nel processo risorgimentale» Avvenire, 12 marzo 2010
- ^ Sergio Boschiero ha chiuso il 62° ciclo di conferenze del circolo Rex, in www.monarchia.it. URL consultato l'08-01-2011.
- ^ Francesco Mario Agnoli, Dossier brigantaggio, p.21.
- ^ Entrambe le citazioni sono tratte da: Emilio Gentile, Italiani senza Padre, Intervista sul Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2011, pag. 117 e 118, ISBN 978-88-420-9499-9.
- ^ Indro Montanelli, Storia d'Italia, vol. 30, Fabbri editori, p. 178.
- ^ Napolitano:"Penoso liquidare l'Unità d'Italia, su ilgiornale.it, Il Giornale, 11-5-2010.
Bibliografia
- Francesco Barbagallo, La Modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Torino, Einaudi, 1994, ISBN 88-06-13502-3.
- Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli (1825-1861), Firenze, Giunti Editore, 1997, ISBN 88-09-21256-8.
- Carlo Alianello, La conquista del Sud, Milano, Rusconi, 1982, ISBN 88-18-01157-X.
- Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali», Milano, Piemme, 2010, ISBN 978-88-566-1273-8.
- Alessandro Bianco di Saint-Joroz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, G. Daelli e C. Editori, 1864.
- Carmelo Bonanno, L'età contemporanea nella critica storica, Padova, Liviana, 1973.
- Aristide Buffa, Tre Italie, Palermo, Arti grafiche G. Zangara, 1961.
- Alberto Cappa, Cavour, Bari, G. Laterza & figli, 1932.
- Licurgo Cappelletti, Storia di Vittorio Emanuele II e del suo regno, Volume 1, Roma, Enrico Voghera, 1892.
- Renato Cirelli, La questione romana. Il compimento dell'unificazione che ha diviso l'Italia, Milano, Mimep-Docete, 1997, ISBN 88-86242-37-9.
- Martin Clark, Il Risorgimento italiano : una storia ancora controversa, Milano, Rizzoli, 2001, ISBN 88-17-86673-3.
- Raffaele Cotugno, Tra reazioni e rivoluzioni contributo: alla storia dei Borboni di Napoli dal 1849 al 1860, Lucera, M. & R. Frattarolo, s.a..
- Benedetto Croce, Francesco Paolo Bozzelli e Giacinto de' Sivo. Due note lette all'Accademia Pontaniana nella tornata del 17 febbraio 1918 dal socio Benedetto Croce, Napoli, Stabilimento tipografico Francesco Giannini e figli, 1918.
- Raffaele De Cesare, Roma e lo Stato del papa:dal ritorno di Pio IX al XX settembre (1850-1870), Roma, Newton Compton Editori, 1975.
- Hercule De Sauclières, Il Risorgimento contro la Chiesa e il Sud. Intrighi, crimini e menzogne dei piemontesi, Napoli, Controcorrente, 2003, ISBN 978-88-89015-03-2.
- Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie 1847-1861, Brindisi, Edizioni Trabant, 2009, ISBN 978-88-96576-10-6.
- Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento, Milano, Edizioni Piemme, 2003, ISBN 88-384-7040-5.
- Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia!, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2001, ISBN 88-384-4798-5.
- Gigi Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Milano, Rizzoli, 2007, ISBN 88-17-01846-5.
- Gigi Di Fiore, Potere camorrista: quattro secoli di malanapoli, Napoli, Guida Editore, 1993, ISBN 88-7188-084-6.
- Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, UTET Università, 2004.
- Gigi Di Fiore, Gli ultimi giorni di Gaeta. L'assedio che condannò l'Italia all'Unità, Rizzoli, 2010.
- Lisetta Giacomelli, Roberto Scandone, Vulcani d'Italia, Liguori Editore, Napoli, 2007. ISBN 978-88-207-4064-1
- Diomede Ivone (a cura di), Cultura Stato e Mezzogiorno nel pensiero di Pasquale Saraceno, Napoli, Editoriale Scientifica, 2004, ISBN 88-8937-308-3.
- Emilio Gentile, Italiani senza Padri, Roma-Bari, Giuseppe Laterza e Figli, 2011, ISBN 978-88-420-9499-9.
- Antonio Gramsci, La questione meridionale, Roma, Edizioni Rinascita, 1951. ISBN non esistente
- Antonio Gramsci, La Costruzione del Partito Comunista, 1923-1926, Torino, Einaudi, 1972. ISBN non esistente
- Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume 4, Torino, Einaudi Editore, 1975.
- Antonio Gramsci, Quaderno 19, Risorgimento Italiano, Torino, Einaudi Editore, 1977.
- Antonio Gramsci, Il Risorgimento e l'Unità d'Italia, Roma, Donzelli Editore, 2010, ISBN 978-88-6036-453-1.
- Alfonso Grasso e altri, La storia proibita. Quando i piemontesi invasero il Sud, Napoli, Controcorrente, 2001.
- Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Segrate, Mondadori Editore, 2010.
- Herbert G. Houze, Samuel Colt: arms, art, and invention, New Haven, Yale University Press, 2006, ISBN 0-300-11133-9.
- Fulvio Izzo, I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Napoli, Controcorrente, 1999.
- Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, Cles (TN), Mondadori, 2005, p. 322, ISBN 88-04-42688-8.
- Gerlando Lentini, La bugia risorgimentale. Il Risorgimento italiano dalla parte degli sconfitti, Il Cerchio, 1999.
- Roberto Martucci, L'invenzione dell'Italia unita: 1855-1864, Firenze, Sansoni, 1999.
- Marco Meriggi, Breve storia dell'Italia settentrionale dall'Ottocento a oggi, Roma, Donzelli Editore, 1996, ISBN 88-7989-297-5.
- Patrick Keyes O'Clery, L'Italia dal Congresso di Parigi a Porta Pia, Roma, Istituto nazionale di studi romani, 1980.
- Antonio Pagano, Due Sicilie: 1830-1880, Vicenza, Capone Editore, 2002.
- Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere, Milano, Edizioni Ares, 2007.
- Ernesto Ravvitti, Delle recenti avventure d'Italia, Venezia, Tipografia Emiliana, 1864.
- Valentino Romano, Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del sud (1860-1870), Controcorrente, 2007.
- Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, G. Laterza & figli, 2004, ISBN 88-420-7491-8.
- Luciano Salera, Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud, Napoli, Controcorrente, 2006, ISBN 88-89015-47-0.
- Salvatore Scarpino, La guerra «cafona». Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario, Boroli Editore, 2005.
- Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale, Napoli, Guida Editore, 1976, ISBN 88-7188-489-2.
- Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medioevale e moderna, Bari, Laterza, 1976.
- Gaetano Salvemini, Scritti sulla Questione Meridionale, 1896-1955, Torino, Einaudi, 1955. ISBN non esistente
- Gaetano Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale IV, Milano, Feltrinelli, 1963. ISBN non esistente
- Mario Spataro, I primi secessionisti:separatismo in Sicilia, Napoli, Controcorrente, 2001.
- Editori Vari, Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da aprile 1860 a marzo 1861, Italia, 1863.
- Editori Vari, Cronaca della guerra d'Italia 1861-1862, Rieti, Tipografia Trinchi, 1863.
- Massimo Viglione, Libera chiesa in libero stato?:il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Roma, Città Nuova Editrice, 2005, ISBN 88-311-0339-3.
- Nicola Zitara, L'unità d'Italia. Nascita di una colonia, Cosenza, Quale cultura, 1984.
- Nicola Zitara, L'invenzione del mezzogiorno. Una storia finanziaria, Milano, Jaca Book, 2011.
- Nicola Ostuni, Iniziativa privata e ferrovie nel regno delle Due Sicilie, Napoli, Giannini, 1980.
- Lodovico Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli, Giannini, 1839.
- Dennis Thomson, The Sulphur War (1840): A Confrontation between Great Britain and the kingdom of the Two Sicilies in the Mediterranean, Michigan State University, 1989.
- Raffaele Cotugno, Le lettere di W. E. Gladstone a Lord Aberdeen al lume di nuovi documenti, Bari, Stab. Tip. Società Cooperativa, 1914.
- Alberto Ferone, Le finanze napoletane negli ultimi anni del regno borbonico, Napoli, Editrice I.T.E.A., 1930, Ferone.
- Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, 1981. ISBN non esistente
- Nunzio Coppola, Visita di un «personaggio distinto» ai detenuti politici napoletani nel marzo 1850, in Rassegna Storica del Risorgimento, vol. 42, 1955, pp. pp. 613-630.
- (EN) James Howard Harris Malmesbury, Memoirs of an Ex-Minister. An Autobiography, Volume 2, Londra, Elibron, 1999, ISBN 1-4021-29-38-6.
- Cecilia Gatto Trocchi, Il Risorgimento esoterico, storia esoterica d'Italia da Mazzini ai giorni nostri, Mondadori, 1996.
- Pierluigi Baima Bollone, Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia. Da Napoleone a Vittorio Emanuele III, Priuli e Verlucca, 2011.
- Sandro Consolato, Dell'elmo di Scipio. Risorgimento, storia d'Italia e memoria di Roma, flower-ed, 2012, ISBN 978-88-97815-05-1.