Polizeiregiment "Bozen"
Il Polizeiregiment "Bozen" (Reggimento di polizia "Bolzano"), poi SS-Polizeiregiment "Bozen"[1], era un reparto militare della Ordnungspolizei (polizia d'ordinanza) creato nell'autunno 1943 in Alto Adige durante l'occupazione tedesca della regione. La truppa era formata da coscritti altoatesini, mentre gli ufficiali e i sottufficiali provenivano dalla Germania.
Polizeiregiment "Bozen" | |
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Descrizione generale | |
Attiva | 1943-1945 |
Nazione | ![]() |
Servizio | Ordnungspolizei |
Tipo | Reggimento di polizia |
Ruolo | Gendarmeria |
Dimensione | circa 2.000 unità |
Guarnigione/QG | Caserma di Gries, Bolzano; a Roma il III battaglione era alloggiato nelle soffitte del Viminale |
Decorazioni | 24 Croci di Ferro di seconda classe 78 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade |
Reparti dipendenti | |
tre battaglioni di quattro compagnie ciascuno | |
Comandanti | |
Degni di nota | colonnello Alois Menschik (comandante del reggimento); maggiore Hellmuth Dobbrick (comandante del III battaglione); sottotenente Wolgasth (comandante dell'11ª compagnia) |
Fonti citate nel corpo del testo | |
Voci su gendarmerie presenti su Wikipedia |
Composto da tre battaglioni, è noto principalmente in quanto il terzo fu impiegato con compiti di guardia e sorveglianza nella Roma occupata, dove il 23 marzo 1944 l'11ª compagnia fu colpita dall'attentato di via Rasella compiuto da partigiani gappisti, riportando 33 caduti e 55 feriti[2]. Per rappresaglia, il giorno seguente i tedeschi perpetrarono l'eccidio delle Fosse Ardeatine, alla cui esecuzione i sopravvissuti della compagnia attaccata non parteciparono, nonostante in base alla consuetudine militare germanica spettasse a loro vendicare i commilitoni caduti.
Le caratteristiche del "Bozen" rappresentano uno dei vari aspetti controversi dell'attentato di via Rasella: per questo motivo, nell'ambito delle decennali polemiche sull'argomento, sono state tratteggiate descrizioni del reggimento tra loro notevolmente difformi, in cui la capacità offensiva e il grado di adesione al nazismo dei suoi uomini sono enfatizzati[3] o al contrario minimizzati[4][5], rispettivamente per affermare o negare la legittimità morale e l'efficacia militare dell'azione partigiana.
Il primo battaglione fu operativo in Istria e il secondo nel Bellunese (dove fu coinvolto nella strage della valle del Biois dell'agosto 1944), svolgendo entrambi prevalentemente attività antipartigiane, compito a cui fu adibito anche il terzo dopo il suo ritiro da Roma e spostamento al nord. Tutti e tre si arresero negli ultimi giorni di guerra agli eserciti alleati o ai partigiani.
Contesto storico
Dopo l'annuncio dell'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, i tedeschi dettero avvio all'invasione dell'Italia. Sin dal 10 settembre le province di Bolzano (Alto Adige), Trento e Belluno furono sottoposte al diretto controllo del Terzo Reich venendo incluse nella Zona d'operazioni delle Prealpi (in tedesco Operationszone Alpenvorland – OZAV), territorio sul quale la Repubblica Sociale Italiana – entità statuale satellite della Germania – era titolare di una sovranità puramente formale.
Allo scopo di procedere con la creazione di unità militari, fu istituito a Bolzano l'Ufficio Centrale di Reclutamento, una commissione mista composta da membri dell'amministrazione civile, della Wehrmacht e delle SS, con il compito di sondare la disponibilità della popolazione a servire in armi il Terzo Reich. In un primo momento, l'attenzione delle autorità germaniche era limitata agli Optanten, cioè quegli altoatesini che, in base al sistema delle opzioni di cittadinanza risalente all'accordo italo-tedesco del 1939, avevano optato per la cittadinanza tedesca[6]. In seguito, visti gli scarsi risultati, il commissario supremo dell'Alpenvorland Franz Hofer, Gauleiter del Tirolo-Vorarlberg, emanò delle direttive che stabilirono i criteri per l'arruolamento coatto della popolazione maschile della regione senza riguardo all'appartenenza etnica: la direttiva n. 30 del 6 novembre 1943 dichiarava che «per raggiungere la vittoria finale per una nuova Europa è necessario l'impiego totale di tutte le forze»[7]. In base a tale disposizione, tutti gli appartenenti alle classi 1924 e 1925 furono chiamati dalle autorità tedesche ad assolvere il servizio di guerra nell'Organizzazione Todt, nel SOD (Südtiroler Ordnungsdienst), nel CST (Corpo di sicurezza trentino), nei Polizeiregimenter, nei corpi delle SS e nella Wehrmacht; mentre l'arruolamento in formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana, pur formalmente previsto, venne ostacolato in tutti i modi[6].
La successiva ordinanza n. 41 del 7 gennaio 1944 specificava che «tutti i cittadini di sesso maschile delle classi dal 1894 al 1926 incluso, che hanno la residenza nel territorio della Zona di Operazioni delle Prealpi oppure vi risiedono non solo transitoriamente, sono obbligati alla prestazione del servizio di guerra»[8]. Il precedente regime delle opzioni fu quindi travolto, venendo obbligati all'arruolamento tutti gli uomini appartenenti alle classi di leva indicate, di lingua italiana o tedesca che fossero, compresi coloro che a suo tempo avevano optato per l'Italia anziché per la Germania, i cosiddetti Dableiber, i quali furono tacciati di tradimento, sottoposti a vessazioni e angherie, e in molti casi inviati al fronte orientale[9].
La chiamata al servizio di guerra nell'Alpenvorland è stata definita da qualche autore come un vero e proprio «rastrellamento di sudtirolesi» nelle vallate, dovuto alla nota volontà dei tedeschi di impiegare tutte le risorse umane disponibili, tanto da arrivare a schierare nelle ultime fasi del conflitto anche i giovanissimi della Hitlerjugend e gli anziani del Volkssturm. Per la maggior parte, gli arruolati erano contadini, artigiani, pastori e mugnai, molti dei quali montanari. Ricevettero una cartolina indirizzata «All'obbligato al servizio di guerra»[10], che lapidariamente enunciava: «Vi viene dato l'ordine di presentarVi in base all'ordinanza del commissario supremo»[11]. Chi avesse tentato di rifugiarsi in montagna per sottrarsi all'arruolamento avrebbe rischiato la condanna a morte, nonché la persecuzione dei propri cari, come minacciava un manifesto in lingua italiana del gennaio 1944:
Coloro che si presentavano, dopo un paio di settimane di addestramento, ricevevano un modulo prestampato individuale da firmare, sul quale era scritto: «L'arruolato svolge il proprio servizio presso il reggimento in qualità di volontario». A chi tentò di rifiutarsi di firmare fu spiegato che ciò avrebbe comportato il trasferimento immediato al fronte oppure in un lager. Josef Prader, reduce del III battaglione del "Bozen", in seguito ricordò: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che, se volevano, potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva e piaceva a loro, e che se facevo tante storie, sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari...»[13].
L'arruolamento forzato dei Dableiber e l'estensione nei loro confronti delle dure sanzioni per i renitenti (come avvenne nel caso di Franz Thaler), costituiva violazione di almeno tre articoli della Convenzione dell'Aia del 1899, sottoscritta e mai denunciata dalla Germania:
- Art. 44: «È proibito forzare la popolazione di un territorio occupato a prendere parte alle operazioni militari contro il proprio paese».
- Art. 45: «È proibito costringere la popolazione di un territorio occupato a prestar giuramento alla potenza nemica».
- Art. 46: «L'onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata, al pari delle convinzioni religiose e dell'esercizio dei culti, devono essere rispettati»[14].
Solo in provincia di Belluno questo tentativo di coscrizione obbligatoria fallì e – malgrado il rischio di condanne a morte e di ritorsioni sui famigliari – la gran parte dei giovani aderì con diverse modalità al movimento di liberazione, che in zona era già bene organizzato e operava anche per sabotare in vario modo il reclutamento da parte degli occupanti. A Trento e a Bolzano si registrarono invece solo sporadiche defezioni da queste milizie costituite con giovani del posto, tuttavia non mancarono casi di diserzione e di partecipazione a forme di resistenza, specie quando fu chiaro che queste truppe venivano impiegate in azioni antipartigiane e di ritorsione sui civili, dentro e fuori il territorio dell'Alpenvorland. Per tutelare le loro famiglie, i disertori in genere dissimulavano la fuga, ad esempio inscenando in pubblico un arresto da parte di bande partigiane[15].
Costituzione e addestramento
Un primo nucleo del reggimento fu costituito nell'ottobre 1943, sotto le direttive del colonnello Alois Menschick, con il nome di Polizeiregiment "Südtirol", successivamente cambiato (a seconda delle fonti, il 29 ottobre[16] o nel corso di novembre[17][6]) in "Bozen" (Bolzano). Furono poi creati altri tre reggimenti sudtirolesi (Südtiroler Regimenter), anch'essi identificati non con un numero, come accadeva per gli altri reggimenti di polizia tedeschi, ma con dei riferimenti geografici: "Alpenvorland" (Prealpi), "Schlanders" (Silandro) e "Brixen" (Bressanone). Complessivamente questi reparti avevano una consistenza di circa diecimila uomini, numero ragguardevole dovuto al fatto che molti consideravano l'arruolamento nei reggimenti di polizia un modo per rimanere vicino casa, speranza che, tranne per una parte del "Bozen" e per il "Brixen", effettivamente si realizzò[6].
Entro la fine del mese di ottobre il "Bozen" raggiunse le 2.000 unità venendo suddiviso in quattro battaglioni, poi ridotti a tre (il quarto, costituito nell'aprile 1944, già nel mese successivo fu scorporato per costituire il primo nucleo del Polizeiregiment "Alpenvorland"[16]), dei quali solo il terzo svolse il proprio servizio fuori dalle due zone d'operazioni create dai tedeschi nell'Italia nord-orientale. Ogni battaglione era composto da quattro compagnie numerate progressivamente (I battaglione: compagnie dalla 1ª alla 4ª; II battaglione: compagnie dalla 5ª all'8ª; III battaglione: compagnie dalla 9ª alla 12ª)[6].
Gli uomini, inizialmente circa duemila optanti delle classi 1900-1912[18], furono addestrati fino al febbraio 1944 prima di essere inviati in zona di operazioni. L'idea originaria di costituire un reggimento integralmente con volontari fu abbandonata a causa della scarsità degli stessi, e si procedette alla leva delle classi citate prima.[16]
Alle reclute venne impartito un addestramento di tre mesi sull'uso di granate, fucili, mitra e mitragliatrici (molte di preda bellica, soprattutto italiana come gran parte dell'abbigliamento integrato dalle mostrine tedesche), mimetizzazione, sicurezza, combattimento in piccoli gruppi e controguerriglia. Secondo i reduci, il "Bozen" fu il meglio addestrato dei quattro reggimenti, fatto che in parte spiegherebbe perché le sue perdite di guerra furono più contenute di quelle, ad esempio, del reggimento "Alpenvorland". A differenza dello "Schlanders", al "Bozen" e agli altri reggimenti non furono impartite lezioni ideologiche sul cosiddetto Judensystem (sistema ebraico)[6].
La paga per il soldato semplice di un reggimento di polizia sudtirolese era di 12,5 lire al giorno, 2,5 lire in più rispetto alla paga dell'esercito[6].
Primo battaglione
Il primo battaglione fu inviato nel marzo 1944 in Istria, inclusa nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico (OZAK), affiancando le truppe tedesche in operazioni antipartigiane, accerchiamenti e rastrellamenti, oltre a sorvegliare le linee ferroviarie e di trasporto per garantire i rifornimenti. L'arretramento del fronte balcanico lo costrinse in un primo momento a trasferirsi a Gorizia con gli stessi compiti, per poi ritirarsi fino al passo del Predil (oggi presso il confine italo-sloveno) nel vano tentativo di frenare l'avanzata dell'VIII Armata britannica, alla quale nella successiva ritirata si arrese a Thörl-Maglern, in Carinzia, nel maggio 1945[16]. I prigionieri furono inviati in un campo di raccolta a Kötschach-Mauthen, da dove alcuni di loro riuscirono a fuggire per tornare in Alto Adige attraverso la Gailtal. Furono quindi trasferiti prima a Udine e poi a Rimini-Bellaria, sorvegliati con maggior rigore da guardie neozelandesi e polacche. Coloro che avevano eluso la sorveglianza ed erano tornati alle proprie case, essendo sprovvisti del foglio di congedo regolare, dovettero presentarsi presso la Caserma "Vittorio Veneto" di Bolzano, dove in breve tempo furono concentrati molti ex appartenenti ai corpi di polizia altoatesini, sottoposti a una sorveglianza piuttosto blanda; tuttavia, in seguito i prigionieri furono per la maggior parte trasferiti presso il campo di Rimini e poi a Taranto, venendo rilasciati nel settembre 1946[6].
Questo battaglione fu l'unico a essere munito di veicoli blindati, disponendo di due mezzi italiani catturati dopo l'8 settembre 1943: un'autoblindo AB41 e una Lancia 1ZM[19][20].
Secondo battaglione
Il secondo battaglione nel febbraio del 1944 fu inviato nella provincia di Belluno, dove tra marzo e dicembre effettuò ottantacinque operazioni antipartigiane, in particolare nel valle del Biois in agosto e sul monte Grappa in settembre. Tra la mattina del 20 agosto e la sera del giorno successivo fu coinvolto, insieme ad alcuni reparti della Divisione corazzata paracadutisti "Hermann Göring" e della SS-Gebirgs-Kampfschule (Scuola d'alta montagna delle Waffen-SS) di Predazzo[21], nella strage della valle del Biois, in cui furono uccisi 44 civili e distrutte 245 abitazioni lasciando 645 persone senza tetto. Inoltre, nel marzo 1945, in seguito all'uccisione di tre militari sudtirolesi nel corso di un attacco partigiano, uomini di questo battaglione parteciparono all'impiccagione di quattordici persone in una piazza centrale di Belluno. Alla fine della guerra, la maggior parte dei membri del reparto fu fatta prigioniera dai partigiani il 2 maggio 1945 ad Agordo. Alcuni tentarono di scappare attraverso l'Agordino, ma furono nuovamente catturati dai partigiani e internati nel campo di Cencenighe, dove vari partecipanti all'eccidio del Biois furono riconosciuti e immediatamente fucilati. I prigionieri restanti, consegnati agli statunitensi, furono inviati nel campo di Rimini e condivisero la stessa sorte di quelli del primo battaglione[6][22].
Durante il processo per il massacro della valle del Bios, i militari sudtirolesi imputati furono assolti per mancanza di prove e, chiamati a testimoniare, accusarono i loro ex comandanti per il comportamento tenuto nel corso dell'operazione, fornendo elementi decisivi per la determinazione dei capi d'accusa[23]. Il maresciallo (Zugwachtmeister der Schutzpolizei) Erwin Fritz, nativo di Berlino e residente nella Germania Ovest a Gottinga, commissario di polizia a riposo, fu processato in contumacia poiché il suo governo non ne concesse l'estradizione, venendo difeso dall'avvocato Roland Riz, vicepresidente della Südtiroler Volkspartei (SVP) e senatore, il quale ne chiese l'assoluzione con formula piena[24]. Fu inizialmente condannato all'ergastolo dalla Corte d'assise di Bologna, la quale tuttavia in appello venne dichiarata incompetente per difetto di giurisdizione. Processato nuovamente dal Tribunale militare di Verona, Fritz fu assolto per insufficienza di prove[25].
Terzo battaglione
Invio a Roma e impiego operativo
Il trasferimento del terzo battaglione a Roma avvenne dal 12 al 19 febbraio 1944[6], in condizioni difficili a causa delle contemporanee operazioni per le prime due battaglie di Montecassino e per contrastare lo sbarco di Anzio[26]. Teoricamente alle dipendenze del comandante supremo delle SS e della polizia in Italia, generale Karl Wolff, nell'assolvimento dei compiti di sorveglianza a Roma seguiva le direttive del comandante militare della piazza, il generale della Luftwaffe Kurt Mälzer[27][28]. In proposito, nel settembre 1946 lo stesso Wolff, fatto prigioniero, dichiarò:
Il commissario supremo dell'Alpenvorland Hofer, nonostante fosse a capo di un'amministrazione civile, riteneva che i reggimenti di polizia sudtirolesi fossero ai suoi ordini, avendo alle sue dipendenze il locale comandante delle SS e della polizia, generale Karl Brunner. Per questo aveva formalmente preteso che ogni spostamento dei Polizeiregimenter al di fuori dell'OZAV dovesse ottenere la sua autorizzazione, cosicché il trasferimento del reparto a Roma fu, con ogni probabilità, oggetto di un accordo tra lui e Wolff[26].
Malgrado il battaglione fosse giunto nella capitale nel febbraio 1944 e fosse al suo primo impiego operativo, nel febbraio 1946 la delegazione italiana presso la conferenza di pace di Parigi presentò un memoriale[29], in cui circa il "Bozen" era scritto: «Unità di questo reggimento furono impiegate anche a Roma nei famosi rastrellamenti che ebbero luogo durante l'inverno 1943-44», in riferimento al celebre rastrellamento del ghetto di Roma dell'ottobre 1943, che portò alla deportazione di un migliaio di ebrei romani nei campi di sterminio. Tuttavia, in quei giorni gli uomini del "Bozen" si trovavano a circa mille chilometri di distanza, essendo appena iniziato il loro addestramento nella caserma di Gries a Bolzano. Lo storico Carlo Gentile ha individuato come possibile causa dell'errore la partecipazione al rastrellamento di unità che condividevano con il "Bozen" la denominazione di "Polizeiregiment", gli SS-Polizeiregimenter 12, 15 e 20, provenienti dalla Germania e dai territori orientali occupati, i quali non erano legati in alcun modo al "Bozen": l'ultimo dei tre era stato formato a Praga ed era composto da SS addestrate a Dębica. Nel dopoguerra l'errore dell'attribuzione al "Bozen" del rastrellamento è stato poi ripetuto da vari storici, che hanno citato la relazione diplomatica senza accertarne la veridicità[30].
Il battaglione, ridotto a sole tre compagnie, trovò alloggio nelle soffitte del Palazzo del Viminale, sede del ministero dell'Interno. Gli incarichi operativi furono così ripartiti: alla 9ª compagnia fu affidata la sorveglianza dei lavori di allestimento di strutture difensive ad Albano; la 10ª fu impiegata nel centro della città per la guardia agli stati maggiori tedeschi, al Vaticano e agli edifici pubblici (secondo Robert Katz, fu un motociclista di questa compagnia a uccidere Teresa Gullace il 3 marzo[31]); mentre l'11ª fu posta in riserva. In base al processo di rotazione delle unità, il 24 marzo l'11ª avrebbe dovuto sostituire la 10ª, la quale sarebbe passata in riserva[6].
Non avendo particolari incarichi oltre al servizio di guardia al ministero dell'Interno, l'11ª compagnia fu sottoposta per oltre un mese a un'attività addestrativa supplementare di marcia e di tiro, in attesa di dare il cambio alle altre due compagnie. Gli uomini ricoprivano tutti il grado più basso (Unterwachtmeister der Polizei) dopo quello di allievo[32]. Quasi ogni mattino marciavano fino al campo di esercitazioni e al poligono di tiro, nei pressi del Foro Mussolini, per poi fare ritorno verso le 14:00 seguendo sempre lo stesso percorso: piazza del Popolo, via del Babuino, piazza di Spagna, via dei Due Macelli. Giunti all'incrocio con via del Tritone, sebbene questa strada fosse più comoda per raggiungere via delle Quattro Fontane, il maggiore Dobbrick, comandante del battaglione che marciava spesso insieme ai suoi uomini, ordinò che la colonna continuasse lungo via del Traforo per poi svoltare a via Rasella, parallela di via del Tritone mal lastricata e più ripida, per evitare il traffico del centro. La colonna marciava con alla testa il comandante della compagnia, il sottotenente Wolgasth di Amburgo, divisa in tre file con un sottufficiale davanti ad ognuna. Gli uomini più alti erano nelle prime file, in modo da dare un'impressione di forza[33]. La marcia era spesso accompagnata da un canto, Hupf, mein Mädel[31] (Salta, ragazza mia), imposto da Dobbrick con dure punizioni per chi non avesse cantato. Sebbene fosse intonato molto controvoglia dai militari altoatesini, che si sentivano ridicoli[34], i partigiani consideravano il canto una provocazione e una dimostrazione di spavalderia[35][36].
Agli uomini, tra cui vi erano dei ladini che parlavano tedesco con difficoltà, fu vietata la libera uscita per impedire ogni contatto con la popolazione romana, venendo severamente puniti qualora avessero comprato qualcosa all'esterno o, essendo per la maggior parte cattolici praticanti, si fossero recati segretamente in chiesa. Durante l'addestramento, gli ufficiali tedeschi erano soliti insultarli come «traditori», «maiali» e «bastardi». Per la difficoltà nell'addestrarli e la scarsa marzialità dimostrata anche dopo ore di esercitazioni, li definivano inoltre «teste di legno tirolesi» (Tiroler Holzköpfe)[37].
L'attentato di via Rasella
Il 23 marzo l'11ª compagnia fu colpita dall'attentato di via Rasella ad opera di varie unità dei Gruppo di Azione Patriottica (GAP). Giorgio Amendola, uno dei comandanti dei GAP a Roma, dichiarò di aver scelto personalmente il "Bozen" come obiettivo[38]. Secondo un'altra versione, la scelta sarebbe stata di Mario Fiorentini "Giovanni"[39], di padre ebreo, che aveva riconosciuto in quei soldati «le stesse uniformi verde marcio» degli uomini venuti a prendere i suoi genitori[40][41].
Rosario Bentivegna ricordò come segue gli attimi precedenti l'esplosione dell'ordigno da lui nascosto in un carretto da spazzino:
La mancata partecipazione alla rappresaglia
Sebbene la consuetudine di guerra tedesca prevedeva che fosse il reparto colpito a dover eseguire la rappresaglia, in modo che i soldati uccisi fossero vendicati dai loro stessi camerati, gli uomini del "Bozen" non parteciparono all'eccidio delle Fosse Ardeatine. Secondo una ricostruzione basata sulle testimonianze di alcuni di loro, la mattina del 24 marzo i sopravvissuti all'attacco gappista furono chiamati dal loro comandante ad attuare la rappresaglia, ma si rifiutarono per motivi religiosi[43][44]. Il reduce Albert Innerbichler, taglialegna in pensione della provincia di Bolzano, nel 1996 raccontò:
Secondo un altro superstite, Luis Kauffman: «Ci furono discussioni, telefonate concitate, esplosioni di rabbia. Ma la nostra decisione fu chiara: non potevano pretendere che dei cristiani come noi...»[47]. Il reduce Arthur Atz, in una prima intervista a tratti molto confusa a causa della sua scarsa dimestichezza con l'italiano, negò che l'ordine fosse stato impartito direttamente alla truppa, attribuendo il rifiuto al comandante:
In successive interviste anche Atz affermò di essersi rifiutato[49][50].
Preso atto del rifiuto, gli ufficiali e i sottufficiali del battaglione, tutti tedeschi, tentarono di convincere il comandante, maggiore Dobbrick, dell'impossibilità di far eseguire le fucilazioni a militari che «non hanno mai sparato contro altri uomini, nemmeno in battaglia. È "ausgeschlossen" (escluso) e "unmöglich" (impossibile) pretendere che si mettano ora a fucilare ostaggi inermi». Il comandante reagì adirato e apostrofò i suoi uomini come «Cani vigliacchi!», per poi recarsi dal generale Mälzer[51].
Lo svolgimento del colloquio presso l'ufficio di Mälzer è ricostruito negli atti del processo al tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, comandante del servizio di sicurezza (SD) a Roma, iniziato nel 1948. Intorno alle ore 12:00, mentre Mälzer informava Kappler che l'ordine proveniva da Hitler in persona, sopraggiunse il maggiore Dobbrick, convocato qualche ora prima. Dopo che Kappler presentò a Mälzer la lista con una parte dei nominativi dei prigionieri da fucilare, il generale si rivolse a Dobbrick affidandogli il compito di far eseguire la rappresaglia ai suoi uomini. Secondo le deposizioni di Kappler, Dobbrick «insistette che non poteva aspettarsi che i suoi uomini, che erano di sentimenti religiosi, avessero potuto procedere all'esecuzione nel breve tempo a disposizione», dichiarando: «I miei uomini sono anziani. In parte sono molto religiosi, in parte pieni di superstizione e vengono da remote provincie delle Alpi»; in breve, «Dobbrick mise avanti la questione che i suoi uomini non erano addestrati alle armi e che erano anche di età avanzata»[52]. Per questo, due giorni dopo Kappler protestò contro Dobbrick presso il generale Karl Wolff, comandante delle SS e della polizia in Italia. A causa delle difficoltà opposte da Dobbrick, Mälzer telefonò al comando della 14ª Armata e parlò con il colonnello Wolfgang Hauser affinché gli fornisse un reparto per le esecuzioni, ma l'ufficiale rispose testualmente: «la polizia è stata colpita, la polizia deve fare espiare». Solo a questo punto Mälzer ordinò a Kappler di provvedere personalmente alle fucilazioni con le sue SS[53][54].
Circa la denuncia di Kappler contro Dobbrick, Robert Katz scrive che non ebbe conseguenze cosicché il maggiore rimase al comando delle due restanti compagnie del suo battaglione, trasferito nel Nord Italia[55]. Bruno Vespa, all'interno di un'opera divulgativa, scrive che Dobbrick «salvò l'onore a prezzo della vita [...] si rifiutò di eseguire le fucilazioni e, più tardi, venne a sua volta fucilato»[56]. La presunta esecuzione dell'ufficiale non trova riscontri in nessun'altra fonte.
Nonostante il reggimento non avesse preso parte alla rappresaglia, nel rapporto della delegazione italiana alla conferenza di pace di Parigi del 1946[29], lo stesso che imputava ai militari altoatesini il rastrellamento del ghetto, si legge: «Fu un'unità del reggimento "Bozen" che diede luogo alla sfrenata rappresaglia contro 320 ostaggi civili trucidati alle Fosse Ardeatine vicino a Roma il 24 marzo 1944»[57].
In un'intervista a Kappler realizzata nel 1974 nel carcere militare di Gaeta in cui era recluso, l'intervistatore gli domandò se fosse vero che qualcuno si era rifiutato di eseguire l'ordine di rappresaglia. L'ex ufficiale delle SS rispose:
Negli anni novanta, nel corso del processo agli ufficiali delle SS Karl Hass ed Erich Priebke, subordinati di Kappler e tra gli organizzatori dell'eccidio, il rifiuto di Dobbrick di far eseguire la rappresaglia ai suoi uomini, giudicato da Kappler pretestuoso, insieme al successivo «autentico rimbalzo di responsabilità che si verificò tra i vari Comandi militari tedeschi», è stato considerato la prova che la legittimità dell'ordine apparve dubbia ad alcuni tra gli stessi militari tedeschi. Quindi, secondo la corte, gli imputati lo eseguirono «non perché convinti della sua legittimità, ovvero perché non consapevoli della sua manifesta criminosità, ma solo perché preferirono anteporre il proprio personale interesse all'esecuzione di centinaia di innocenti»[59]. Inoltre, il comportamento del comandante del "Bozen" è stato utilizzato come argomento per dimostrare che per i militari tedeschi non fosse impossibile sottrarsi a ordini di rappresaglia, in modo da contraddire la linea difensiva di coloro che, accusati di crimini di guerra, invocavano lo stato di necessità sostenendo che non obbedire a tali ordini avrebbe comportato la propria condanna a morte[60].
È stato ipotizzato che dietro il mancato coinvolgimento del "Bozen" nell'eccidio vi fosse la volontà del Gauleiter Franz Hofer di evitare che i «suoi uomini sudtirolesi» si macchiassero di un crimine tale da aggravare le sue responsabilità, compromettendo le sue speranze di conservare il governo della regione in seguito a una futura trattativa di pace con gli Alleati[61]. Hofer credeva infatti di poter sopravvivere politicamente alla sconfitta della Germania nazista, creando con il favore degli Alleati – con i quali era in contatto tramite il colonnello delle SS Eugen Dollmann – una repubblica tirolese indipendente che avrebbe messo fine alle pretese austriache e italiane sulla regione e sarebbe servita agli statunitensi come baluardo verso l'est[62].
Vicende successive
I funerali dei caduti furono celebrati il 25 marzo presso il cimitero militare germanico di Pomezia, all'epoca chiamato Heldenfriedhof (cimitero degli eroi). I tedeschi ordinarono ad alcuni soldati del "Bozen" di formare un Blumenkommando, una squadra che aveva il compito di reperire il maggior numero possibile di fiori per il luogo della cerimonia. Parteciparono le massime autorità tedesche e della RSI a Roma, tra cui il generale Eberhard von Mackensen, comandante della 14ª Armata[6]. Fu presente anche il generale Wolff, il quale nel pomeriggio si recò a visitare in due ospedali i feriti della compagnia attaccata[63]. Trenta militari, non essendosi ripresi dallo shock dell'attentato, disertarono e tornarono alle loro case in Alto Adige. Denunciati, furono costretti a presentarsi presso la caserma di Gries. Successivamente vennero inquadrati in compagnie punitive e inviati al fronte orientale, da cui la maggior parte di loro non fece ritorno[45].
Con la caduta del fronte a Cassino e l'avanzata alleata verso Roma, al "Bozen" fu ordinato di ritirarsi fino a Firenze, dove il reparto decimato nell'attentato fu ricostituito. Grazie a documenti tedeschi dell'epoca, è stato possibile ricostruire gli spostamenti del III battaglione dopo via Rasella. Diversamente dalle altre unità del Polizeigruppe Rom (il gruppo dei corpi di polizia tedesca impiegati a Roma), che furono schierate sul fronte nei Colli Albani riportando gravi perdite presso Albano Laziale e Rocca di Papa, il "Bozen" alla fine di marzo o al più tardi nei primi giorni dell'aprile 1944 fu inviato nell'Italia settentrionale. Il battaglione venne segnalato a Castelfranco (probabilmente Castelfranco di Sotto, in provincia di Pisa) il 22 giugno e a Lecco il 28 giugno e il 25 luglio. Poi in varie località in provincia di Torino: il 29 luglio a Chiomonte, il 9 agosto ad Avigliana e Susa, il 18 agosto a Bussoleno, il 21 agosto a Bruzolo, il 9 settembre a Susa[64]. In novembre era operativo a Bologna[16]. Dal 17 febbraio 1945 fino all'aprile 1945 fu segnalato a Pieve di Cadore (Belluno). Altri documenti segnalano il passaggio della 9ª compagnia a Cismon del Grappa (Vicenza) il 27 agosto 1944 e a Roncegno Terme (Trento) nell'ottobre 1944[65].
Risulta quindi che nell'autunno 1944 il III battaglione cominciò a rientrare nei confini dell'Alpenvorland. Il 2 maggio 1945 le truppe schierate nella zona del Cadore ricevettero l'ordine di ritirata attraverso la linea Livinallongo-Falzarego-Schluderbach. Dopo pochi chilometri i sudtirolesi si trovarono di fronte a posti di blocco partigiani, che gli permisero di rientrare in Alto Adige attraverso la val Pusteria, in direzione di Brunico. Durante l'estate la maggior parte di loro ricevette l'ordine di presentarsi alle autorità americane di Bolzano: coloro che seguirono l'ordine furono trattenuti in città per circa un mese e poi, salvo complicazioni, definitivamente congedati[66].
Robert Katz afferma che il terzo battaglione nel corso delle attività antipartigiane nel Nord Italia commise delle atrocità contro i civili[55].
Caratteristiche
Relazione con le SS
Il Polizeiregiment "Bozen" era un reparto della Ordnungspolizei (polizia d'ordinanza)[67][68], subordinata come tutte le forze di polizia del Reich al comando delle SS sin dal 17 giugno 1936, allorché Heinrich Himmler, già capo delle SS, fu nominato anche capo della polizia, suddivisa in Ordnungspolizei (al comando di Kurt Daluege) e Sicherheitspolizei (polizia di sicurezza, al comando di Reinhard Heydrich)[69].
Generalmente trascurato dalla storiografia sull'attentato di via Rasella, per decenni il "Bozen" è stato oggetto di descrizioni inesatte e contraddittorie, venendo spesso identificato erroneamente come un reparto di SS formato da volontari, tanto che la frase «Transitava per via Rasella un plotone di SS» è stata – come ha notato lo storico Lorenzo Baratter, autore di varie pubblicazioni sui reggimenti di polizia altoatesini – «ricopiata dal 1944 ad oggi con la stessa, sorprendente, caparbietà degli antichi amanuensi»[70]. Nel comunicato con cui il Comitato di Liberazione Nazionale denunciò l'eccidio delle Fosse Ardeatine era scritto che a via Rasella il nemico «aveva perso trentadue dei suoi SS»[71].
Il giornalista statunitense Robert Katz, nel suo Morte a Roma (prima edizione 1967), citando appunti presi durante un'intervista al gappista Mario Fiorentini del 27 marzo 1965, scrive: «Sulle mostrine delle loro uniformi grigie e sul fronte dei loro elmetti, come Fiorentini può vedere, portano la doppia saetta, simbolo delle SS»[72]. In merito, lo storico statunitense Richard Raiber ha commentato: «Tutto ciò era immaginario. Avrebbe dovuto essere noto ai partigiani – se non a Katz – che i poliziotti, fossero SS o meno, non portavano le Sigrunen sulla mostrina destra delle loro divise, un distintivo riservato solo a membri delle Waffen-SS al di sotto del grado di colonnello delle SS (SS-Standartenführer), mentre la "doppia saetta" era raffigurata sul lato destro, e non sul fronte, degli elmetti indossati dai membri delle SS»[73]. Richard Raiber[74] e Joachim Staron[75] hanno inoltre rilevato che una delle fonti utilizzate da Katz[76] afferma che il battaglione aveva la reputazione di essere «notoriamente crudele» senza citare documenti a sostegno.
Da Morte a Roma di Katz è stata tratta la sceneggiatura del film Rappresaglia (1973) di George Pan Cosmatos, nel quale gli uomini del "Bozen" sono rappresentati come SS, in divisa grigia con le tipiche mostrine con la doppia S dell'alfabeto runico. Sempre Katz, nel più recente Roma città aperta, ha descritto il reparto come un «battaglione SS» composto da optanti per la Germania che, «di fronte all'obbligo del servizio militare, avevano compiuto l'ulteriore scelta di arruolarsi nelle SS piuttosto che nella Wehrmacht»[77].
Giorgio Amendola e Mario Alicata, comandanti dei GAP a Roma, non hanno mai parlato di SS nei loro scritti, definendo l'obiettivo dell'attentato «polizia tedesca»[78], «plotone di gendarmi»[79] o «reparto di gendarmeria tedesca»[38]. Rosario Bentivegna, nel suo libro Achtung Banditen!, edito per la prima volta nel 1983, non specifica il corpo di appartenenza dei militari attaccati, scrivendo che «venivano su, verdi nelle loro divise come ramarri»[80]; le divise verdi erano caratteristiche della polizia d'ordinanza, nota infatti colloquialmente come Grüne Polizei (polizia verde)[81], mentre l'uniforme di servizio delle SS era di colore grigio[82]. Intervistato nel 1994 nell'ambito di un'inchiesta su via Rasella[83], in risposta all'osservazione dell'intervistatore «si è insistito molte volte, ed anche Lei lo ha affermato in questa sede, che i Tedeschi uccisi in Via Rasella fossero delle SS, invece non è vero», Bentivegna ha dichiarato:
Anche Carla Capponi ha parlato di «SS di Bolzano, gruppi speciali»[85]. Nel corso della stessa inchiesta, il reduce del reggimento Arthur Atz, interrogato su quale fosse il suo corpo di appartenenza, ha risposto: «Polizia tedesca. Polizia. [...] Non abbiamo fatto parte delle SS, quella era una pura bugia che hanno detto, eravamo sempre poliziotti, mai delle SS, credevano soltanto loro che eravamo delle SS»[48]. Sulla questione, lo storico Giorgio Angelozzi Gariboldi ha affermato: «La definizione che fossero SS è incongrua... perché non avevano la divisa grigia delle SS, una divisa con le mostrine delle SS nel bavero, ma una divisa verde vivace [...] questi del Bozen con le SS non avevano nulla a che fare»[86]. Secondo Matteo Matteotti, all'epoca partigiano socialista a Roma, erano «reparti che non avevano niente a che fare con le rappresaglie, gli orrori che venivano perpetrati nei confronti dei partigiani e della popolazione. Si trattava appunto di un reparto di soldati di scarso rilievo bellico e aggressivo»[87].
Esaminando i documenti personali e le uniformi degli uomini del "Bozen", vari autori ne hanno confutato l'appartenenza alle SS. Hermann Frass ha scritto: «Non si parlava assolutamente di SS, nemmeno sul libro paga, che era redatto dal comando del reggimento e che riportava il suo sigillo di servizio. Né sull'uniforme, né sull'elmetto, né sul cinturone compariva il simbolo delle SS. Gli ufficiali venivano chiamati con le definizioni di rango della Wehrmacht e non con quelle delle SS»[88]. Lorenzo Baratter ha rilevato l'assenza del distintivo delle SS sulle divise, mentre ha definito «del tutto formale» l'uso di libretti personali con il logo delle SS, esteso dal 1944 a tutti i reparti di polizia e loro ausiliari. Lo stesso autore ha fatto notare che tra l'Ordnungspolizei e le SS potevano esistere relazioni funzionali – ad esempio, per gli ufficiali subalterni e superiori il grado ricoperto valeva in entrambi i corpi, mentre i generali avevano un doppio grado assegnato automaticamente a partire dal 1942-43 – ma tra l'appartenere all'uno o all'altro corpo vi era una differenza sostanziale, dimostrata dal fatto che, mentre la SS fu dichiarata «organizzazione criminale» dal Tribunale internazionale di Norimberga, i componenti dell'Ordnungspolizei poterono rimanere in servizio anche nel dopoguerra[89].
Il prefisso "SS-" apposto alla denominazione del reggimento derivava da un provvedimento di Himmler del 24 febbraio 1943, con il quale fu disposto che tutti i reggimenti di polizia – in virtù della stretta connessione tra la polizia e le SS e in segno di riconoscimento per il loro valido impiego sul fronte orientale – fossero rinominati in SS-Polizeiregimenter, senza tuttavia modificarne l'appartenenza alla Ordungspolizei[90]. Dal bollettino dei comandanti della polizia relativo all'anno 1944 risulta inoltre che il nome del "Bozen" fu cambiato in SS-Polizeiregiment ventiquattro giorni dopo via Rasella, il 16 aprile. Quindi secondo Baratter «A prescindere dalle considerazioni che riguardano l'uso del termine SS associato ai Polizeiregimenter, è dunque dimostrato che il 23 marzo il "Bozen" non apparteneva nemmeno sotto il profilo formale alle SS»[91]. Anche nel caso del Polizeiregiment "Alpenvorland" il provvedimento fu applicato con molto ritardo, il 29 gennaio 1945, mentre il "Brixen" e lo "Schlanders" nacquero direttamente come SS-Polizeiregimenter[6].
Richard Raiber ha definito l'identificazione con le SS «un mito creato dai partigiani dopo la guerra»[92]. Baratter ha attribuito la persistenza dell'errore nelle ricostruzioni storiche a «storici militanti che nel dopoguerra hanno commesso delle strane "sviste", evitando di ammettere che a Via Rasella furono colpiti dei soldati che non appartenevano nemmeno formalmente alle SS, non erano dei volontari e che, per la loro stessa origine, sudtirolese, avevano subito da fascismo e nazismo per almeno vent'anni quello che i partigiani romani nemmeno lontanamente potevano intuire»[93].
Nazionalità
Esistono versioni discordanti su quale fosse l'effettiva nazionalità dei componenti dell'11ª compagnia attaccata a via Rasella. Una parte delle fonti afferma che era formata interamente da uomini che in seguito alle opzioni di cittadinanza avevano deciso per la Germania (Optanten). Secondo Robert Katz erano uomini che «al tempo dell'unione con la Germania, avevano scelto la cittadinanza tedesca»[77]. La Corte suprema di cassazione, all'interno della sentenza di condanna inflitta nel 2007 al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni dei gappisti, ha dichiarato che «facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica»[94].
Tuttavia, è storicamente comprovato che le autorità tedesche dell'Alpenvorland, dopo un primo insoddisfacente tentativo di limitare l'arruolamento agli optanti per la Germania volontari[6][18], effettuarono varie chiamate di leva obbligatoria – minacciando severe pene per i renitenti – rivolte a fasce della popolazione maschile sempre più ampie, fino a includere tutti gli abitanti della regione, compresi quindi coloro che avevano optato per l'Italia (Dableiber)[95]. In questo quadro altre fonti delineano una situazione più complessa, ammettendo in varia misura la possibilità che nel reggimento militassero anche cittadini italiani. Secondo Michael Wedekind nel "Bozen", il primo reggimento di polizia sudtirolese formato, militavano «perlopiù politicamente affidabili Optanten»[96], mentre i reggimenti costituiti in seguito – l'"Alpenvorland", lo "Schlanders" e il "Brixen" – erano composti prevalentemente da Dableiber[18]. Lutz Klinkhammer afferma invece che i militari del "Bozen" in servizio a Roma erano «in parte Optanten, ma perlopiù Dableiber [...] costretti, contro ogni norma internazionale, al servizio militare»[97]. In riferimento al contesto in cui fu costituito il reggimento, Alessandro Portelli scrive che «Fino al settembre 1943, sono reclutati solo gli "optanti" [...]. Dopo l'8 settembre, vengono richiamati anche cittadini formalmente italiani, la cui la [sic] volontarietà è poco più che una finzione, ma che comunque preferiscono questo servizio che è meglio pagato e li tiene lontani dal fronte»[98]. Lorenzo Baratter sottolinea come i tedeschi arruolassero indifferentemente altoatesini di ogni cittadinanza: «Non importava se i destinatari delle cartoline di precettazione fossero cittadini di lingua italiana oppure tedesca, optanti per la Germania piuttosto che per l'Italia: bastava essere uomini, residenti nel territorio dell'Alpenvorland, essere nati tra il 1894 e il 1926. Non c'erano altre vie di scampo»[9]. Per Claus Gatterer il reggimento era composto per la maggior parte da quei filo-austriaci descritti dal prefetto italiano Mastromattei come animati da sentimenti di «ostilità pregiudiziale e irriducibile contro il nazismo»[6].
Umberto Gandini evidenzia la loro stessa incertezza in merito: «Quelli che persero la vita erano sudtirolesi, quasi tutti già anziani, arruolati per forza appena tre mesi prima, partiti malvolentieri e scaraventati come tanti altri nella bolgia di una guerra non voluta né capita, incerti pure sulla loro cittadinanza al punto che non avrebbero saputo dire con sicurezza se dovevano considerarsi, per la burocrazia, italiani o tedeschi. [...] Avevano tutti documenti d'identità italiani in tasca ma parlavano tedesco; indossavano la divisa della polizia tedesca ma erano stati in precedenza, quasi tutti, soldati italiani»[99]. Le ricerche storiche hanno infatti documentato che, a prescindere dalla cittadinanza acquisita in seguito alle opzioni, coloro che furono inviati a Roma avevano in gran parte già prestato servizio militare nel Regio Esercito italiano, essendo stati molti di loro fanti a Torino, artiglieri di montagna a Merano e a Rovereto, alpini a Brunico, genieri a Casale Monferrato. Johann Kaufmann, caduto nell'attentato, era stato fante a Palermo. Il sopravvissuto Peter Putzer, originario di Varna, era stato artigliere da montagna italiano, compiendo l'addestramento al passo del Tonale con i cannoni austro-ungarici catturati durante la prima guerra mondiale[17]. Arthur Atz, di Caldaro, dichiarò di aver svolto il servizio militare italiano nel 1939 in Sardegna, venendo reclutato nel "Bozen" dopo aver optato per la Germania nel 1943. Le risposte di Atz su quale fosse la nazionalità sua e dei suoi ex commilitoni appaiono confuse, anche a causa del suo italiano stentato:
Nelle polemiche su via Rasella, il fatto che i militari attaccati fossero altoatesini e non propriamente tedeschi è stato uno degli aspetti che hanno maggiormente diviso: i critici dell'azione partigiana, ritenendo i caduti degli italiani costretti a indossare quell'uniforme dalle circostanze della guerra, dunque anch'essi vittime dei tedeschi, hanno accusato i gappisti di aver commesso un inutile fratricidio; viceversa, nell'ottica dei partigiani l'essere italiani in divisa tedesca era un'aggravante, come dimostra l'episodio riferito da Pasquale Balsamo della telefonata da lui ricevuta dalla madre di uno dei militari uccisi, intenzionata a difendere la memoria del figlio rivendicandone l'italianità. Alla domanda «Capisce, Balsamo, che mio figlio era italiano?», l'uomo rispose: «Signora, non lo dica a nessuno! Perché sennò è pure alto tradimento! Suo figlio non solo era italiano: vestiva la divisa tedesca, occupava un paese italiano e perseguitava gli italiani in divisa tedesca, quindi era un traditore»[9][100]. Per Bentivegna «erano di nazionalità germanica, e molti di loro avevano lottato per la nazionalità germanica prima... nel 1938 quando ci fu l'accordo sull'Alto Adige tra Mussolini e Hitler. [...] Per noi avevano una divisa nemica, erano nemici. Cioè, anche i fascisti erano italiani, che ragionamento è?»[84].
Poco dopo essere stato rintracciato in Argentina, Erich Priebke dichiarò che tra gli esecutori del massacro delle Fosse Ardeatine il desiderio di vendetta era poco sentito, in quanto per loro i caduti di via Rasella «non erano veri tedeschi, era gente che veniva dal Tirolo, fossero stati nostri...»[101]; insomma erano «più italiani che tedeschi»[102].
Età
"L'età dei caduti del Bozen andava dai 26 ai 42 anni compiuti. La testimonianza di un portinaio raccolta da Raleigh Trevelyan in «Roma '44» secondo cui si trattava di «vecchi, padri di famiglia» è abbastanza forzata"[44]. Altre fonti fanno comunque notare che la maggioranza del reggimento proveniva da uomini delle classi 1900-1912,[18] uomini quindi tra i 31 e 43 anni, che vengono definiti proprio "ältere Familienväter".[103]
Alessandro Portelli scrive: «Non sono truppe scelte né freschissime, anche se la vulgata antiresistenziale esagera facendone dei vecchietti: i morti in via Rasella vanno dai 27 ai 43 anni, con una media di 38», facendo notare che mentre Arthur Atz all'epoca aveva 25 anni il gappista Francesco Curreli ne aveva 55[104].
Controversie e commemorazioni
Dopo la guerra, ogni cinque anni a marzo i reduci del "Bozen" si sono riuniti presso il Santuario di Pietralba, dove tra gli ex voto è custodito un quadretto con i nomi dei caduti di via Rasella[43]. Nel 1981, l'ex senatore della Südtiroler Volkspartei (SVP) Friedl Volgger, nell'annunciare sull'organo di stampa del partito una commemorazione che si sarebbe svolta il 29 marzo, scrisse:
I sudtirolesi si inchinano con il massimo rispetto davanti ai morti. Ceri e corone dovrebbero però essere stati innalzati da tempo anche per i poliziotti sudtirolesi proditoriamente uccisi. Nella pubblica opinione essi sono stati purtroppo per lungo tempo dimenticati. Per loro non ci sono state né medaglie d'oro, né onori[105].»
La manifestazione si svolse al cimitero militare austro-ungarico di Bolzano alla presenza di circa quattrocento persone. Durante la cerimonia fu scoperta una lapide in memoria dei militari uccisi, in cui l'attentato era definito «hinterhältig» (proditorio), e fu intonato il canto Ich hatt' einen Kameraden, che in Germania e in Austria accompagna tradizionalmente le esequie con onori militari e le commemorazioni dei caduti, essendo ufficialmente incluso nei cerimoniali delle forze armate. Tra i partecipanti, oltre a rapprestanze di associazioni dei reduci e degli Schützen, vi erano il presidente della provincia autonoma di Bolzano Silvius Magnago, leader della SVP, e il senatore dello stesso partito Karl Mitterdorfer[106].
Le parole di Vollger e la manifestazione suscitarono dure proteste da parte dell'ANPI[107], mentre i senatori del PCI Andrea Mascagni, Flavio Luigi Bertone e Giovanni Battista Urbani, tramite un'interrogazione parlamentare, invitarono il governo a
Nel 1984 Josef Rampold, direttore del quotidiano Dolomiten, principale giornale in lingua tedesca dell'Alto Adige, criticò l'allora presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini per non aver reso omaggio, in occasione delle sue visite a Bolzano, alla lapide posta nel cimitero militare cittadino in memoria dei «sudtirolesi che furono uccisi nel proditorio attentato di via Rasella [...] arruolati e utilizzati semplicemente come corpo di guardia non facendo del male a nessuno»[109]. Pertini replicò domandando al direttore del quotidiano se si fosse «mai recato, nelle sue visite a Roma, alle Fosse Ardeatine, ove sono raccolte le salme di 335 innocenti uccisi dai tedeschi per rappresaglia dell'attentato di via Rasella»[110]. Nella discussione si inserì anche il filosofo e senatore a vita Norberto Bobbio, attivo nella Resistenza nelle file del Partito d'Azione, il quale – all'interno di un'intervista in cui definì alcune azioni gappiste quali l'uccisione di Giovanni Gentile e l'attentato di via Rasella atti di violenza fini a loro stessi – affermò che non avrebbe avuto problemi a deporre un fiore sulle tombe dei militari altoatesini: «A parte la teatralità del gesto, contrario alla mia natura, non ho alcun motivo serio per rifiutarlo. Sono state vittime innocenti perché scelte a caso»[111].
In diverse occasioni a via Rasella sono state affisse senza autorizzazione lapidi in memoria dei caduti del "Bozen", poi rimosse dalla polizia: nel 1996 dal gruppo di estrema destra Movimento Politico[112] e nel 2000 da sconosciuti[113].
Ordine di battaglia
Comandante: Oberst der Schutzpolizei (colonnello di polizia) Alois Menschik
Aiutante: Hauptmann der Schutzpolizei (capitano di polizia) Ullbrich
Battaglioni:
- I/SS-Polizei Regiment Bozen
- II/SS-Polizei Regiment Bozen
- Comandante: Major der Schutzpolizei (maggiore di polizia) Ernst Schröder
- III/SS-Polizei Regiment Bozen
- Comandante: Major der Schutzpolizei Hellmuth Dobbrick
- Polizei Ersatz Bataillon Bozen (battaglione rimpiazzi)
Decorazioni
Il Bozner Tagblatt annunciò vari conferimenti di decorazioni ai militari del "Bozen":
- Agosto 1944: 15 Croci di Ferro di seconda classe (1 ufficiale, 8 sottufficiali e 6 militari di truppa) «per comportamento coraggioso nella lotta contro i banditi»[114].
- 13 ottobre 1944: 3 Croci di Ferro di seconda classe, tutte a sottufficiali (tra cui il maresciallo Erwin Fritz, poi processato per l'eccidio della valle del Bios); 28 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade (1 ufficiale, 2 sottufficiali e 25 militari di truppa)[115].
- Novembre 1944: 5 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade «per comportamento coraggioso contro sovversivi» (5 militari di truppa)[116].
- Febbraio 1945: 6 Croci di Ferro di seconda classe (4 ufficiali, tra cui il maggiore Ernst Schröder, comandante del II battaglione, 2 militari di truppa); 31 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade (6 ufficiali, 12 sottufficiali, 13 militari di truppa)[117].
- Febbraio 1945: 14 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade «per comportamento valoroso» (4 sottufficiali, 10 militari di truppa)[118].
Totale: 102 decorazioni (24 Croci di Ferro di seconda classe, 78 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade).
Considerando che solo i militari di truppa provenivano dall'Alto Adige, il numero complessivo di decorazioni assegnate agli altoatesini del reggimento ammonta a 61 (8 Croci di Ferro di seconda classe, 53 Croci al merito di guerra di seconda classe con spade).
Note
- ^ Il prefisso "SS-" fu aggiunto il 16 aprile 1944. Cfr. Staron 2002, p. 38, e Baratter 2005, p. 190.
- ^ Prima di iniziare l'esecuzione della rappresaglia si contarono 32 morti e 56 feriti, essendo incluso tra questi ultimi il soldato Haller, morto successivamente a causa delle ferite riportate. Non si è ancora in grado di stabilire se tra i feriti vi furono altri decessi nei mesi seguenti. Cfr. Zanette 2011, p. 34.
- ^ «famigerato battaglione Bozen, specializzato nella repressione di partigiani, più nazista dei nazisti». Cfr. Giorgio Bocca, L'intransigenza maestra di vita, in L'Espresso, 6 novembre 2006.
- ^ «Nemmeno un vero e proprio reparto militare, più comparse che guerrieri». Cfr. Silvio Bertoldi, Ore 15 del 23 marzo 1944: un carrettino da spazzini carico di morte, in Corriere della Sera, 29 giugno 1997.
- ^ «probabilmente la meno nazista delle formazioni tedesche presenti a Roma». Cfr. Sergio Romano, Attentato di via Rasella L'orrore delle rappresaglie, in Corriere della Sera, 11 febbraio 2011.
- ^ a b c d e f g h i j k l m n o Il Polizeiregiment "Bozen", in historiamilitaria.it. URL consultato il 15 giugno 2014.
- ^ Baratter 2005, p. 187.
- ^ Letteralmente «sind zur Ableistung des Kriegsdienstes verpflichtet». Cfr. Baratter 2005, pp. 187-188.
- ^ a b c Baratter 2005, p. 189.
- ^ «An den Kriegsdienstpflichtigen».
- ^ «Sie werden hiermit aufgefordert, sich auf Grund der Verordnung des Obersten Kommissars...».
- ^ Baratter 2005, p. 188.
- ^ Gandini 1979, pp. 9-10, cit. in Portelli 1999, p. 412 nota 33, e Baratter 2005, p. 186.
- ^ Zanette 2011, p. 23.
- ^ Giuseppe Sittoni, Sudditi fedeli e contro. Durante l'occupazione nazista, Pergine Valsugana (Trento), Publistampa, 2011, ISBN 8890250658, p. 288.
- ^ a b c d e Wedekind 2003, p. 329.
- ^ a b Baratter 2005, p. 186.
- ^ a b c d Wedekind 2003, p. 328.
- ^ Baratter 2005, p. 197.
- ^ Per un'immagine della Lancia 1ZM in forza al I battaglione, si veda (EN) Pz.Sp.Wg.Lancia 1ZM(i) from the I. Btl./SS-Pol.Rgt. Bozen, in beutepanzer.ru. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Vincenzo Tessandori, La strage dei nazisti a Falcade nel Bellunese, in La Stampa, 16 febbraio 1978.
- ^ Wedekind 2003, pp. 329-330.
- ^ Baratter 2005, p. 184.
- ^ Criticata a Bolzano condanna a due nazisti, in La Stampa, 10 luglio 1979.
- ^ Roberto Bona, Caviola, 63 anni fa la strage, in Corriere delle Alpi, 18 agosto 2007.
- ^ a b c Baratter 2005, p. 191.
- ^ Goetz 1983, pp. 166 e ss., cit. in Staron 2002, p. 38.
- ^ Gianni Oliva, L'ombra nera. Le stragi nazifasciste che non ricordiamo più, Mondadori, Milano, 2007, pp. 118-119.
- ^ a b Intitolato Participation in the war on the side of Germany of Austrians and of German-speaking Alto Atesini (South Tyrolians) after the 8th of September 1943.
- ^ Baratter 2005, p. 193.
- ^ a b Katz 2009, p. 241.
- ^ Baratter 2005, p. 192.
- ^ Baratter 2005, p. 194.
- ^ Baratter 2005, p. 196.
- ^ Portelli 1999, pp. 199-200.
- ^ «Passava cantando, quasi a sottolineare la sicurezza delle forze d'occupazione». Testimonianza di Giorgio Amendola, in Gianni Bisiach, Pertini racconta. Gli anni 1915-1945, Milano, Mondadori, 1983, p. 130.
- ^ Baratter 2005, pp. 194-195.
- ^ a b Lettera di Giorgio Amendola a Leone Cattani sulle vicende di via Rasella, 12 ottobre 1964, pubblicata per la prima volta in Renzo De Felice, Mussolini l'alleato. II. La guerra civile 1943-1945, Torino, Einaudi, 1997, Appendice, pp. 562-566, consultabile sul sito dell'Associazione Italiana Autori Scrittori Artisti "L'Archivio".
- ^ Capponi 2009, p. 211.
- ^ Portelli 1999, pp. 107-108.
- ^ Via Rasella, parla chi ideò l'agguato: «Non fu attentato ma atto di guerra», in Il Messaggero, 23 marzo 2012.
- ^ Bentivegna 2004, p. 200.
- ^ a b Scampati alla strage di via Rasella rifiutarono di fucilare gli ostaggi, in La Stampa, 24 marzo 1979.
- ^ a b Dino Messina, E i superstiti del battaglione decimato non vollero vendicarsi, in Corriere della Sera, 23 febbraio 2004.
- ^ a b Baratter 2005, p. 201.
- ^ Priebke: I superstiti del "Bozen", poteva rifiutarsi come noi, in Adnkronos, 28 maggio 1996. URL consultato il 19 giugno 2014..
- ^ Portelli 1999, p. 201.
- ^ a b c Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale ad Arthur Atz, in larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Giancarlo Perna, L'ultimo dei Bozen: mi rifiutai di sparare alle Fosse Ardeatine, in Il Giornale, 16 settembre 1997. Cfr. Portelli 1999, p. 412.
- ^ Pierangelo Giovannetti, «Rifiutammo l'ordine di Kappler», in Avvenire, 17 marzo 2004.
- ^ Baratter 2005, p. 202.
- ^ Varie deposizioni di Kappler citate in Portelli 1999, pp. 201-202.
- ^ Sentenza n. 631, del Tribunale Militare Territoriale di Roma, in data 20.07.1948, in difesa.it. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Katz 2009, pp. 280-281.
- ^ a b Katz 2009, p. 444.
- ^ Vespa 2005, p. 335.
- ^ Baratter 2005, p. 200.
- ^ Marcello Morace, Un'intervista storica: Kappler ha sempre cercato la libertà, in La Stampa, 29 agosto 1977.
- ^ Sentenza del Tribunale Militare di Roma, in data 22.07.1997, in difesa.it. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Carlo Carli, Relazione di minoranza della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, Senato della Repubblica, XIV legislatura, 24 gennaio 2006, p. 53.
- ^ Zanette 2011, p. 30.
- ^ Baratter 2005, p. 292.
- ^ Baratter 2005, p. 203.
- ^ Baratter 2005, p. 204
- ^ Baratter 2005, pp. 204-205.
- ^ Baratter 2005, p. 205.
- ^ (DE) Zur Geschichte der Ordnungspolizei, su lexikon-der-wehrmacht.de. URL consultato il 15 marzo 2014.
- ^ Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009, luglio 2012, pp. 30 e 110.
- ^ Franz Leopold Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Mondadori, 2004, p. 79.
- ^ Baratter 2005, p. 206.
- ^ Katz 2009, p. 312.
- ^ «On the lapels of their gray uniforms and on the front of their helmets, as Fiorentini could see, they bore the double lightning bolt, symbol of the SS». Cfr. Raiber 2008, p. 212, nota 4 relativa a p. 41.
- ^ «All of this was imaginary: It must have been know to the partisans–if not to Katz–that no policeman, whether or not SS, wore Sigrunen on the right collars of their uniforms, a custom reserved exclusively for members of the Waffen-SS below the rank of SS Colonel (SS-Standartenführer), while the "double lightning flashes" were painted of the right temporal aspects, not the fronts, of helmets worn by members of the SS». Cfr. Raiber 2008, p. 212, nota 4 relativa a p. 41.
- ^ Raiber 2008, p. 212, nota 4 relativa a p. 41.
- ^ Staron 2002, p. 38.
- ^ Elizabeth Wiskemann, The Rome-Berlin Axis. A Study of the Relations between Hitler and Mussolini, Londra, 1949, p. 333 (nell'edizione 1966, p. 390).
- ^ a b Katz 2009, p. 240.
- ^ Così il comunicato del comando dei GAP scritto da Alicata in rivendicazione dell'attentato, pubblicato su l'Unità clandestina del 30 marzo 1944. Cfr. Roma 24 marzo 1944, l'eccidio delle Fosse Ardeatine, sezione ANPI di Lissone.
- ^ Amendola 1973, pp. 291 e 296 ss., cit. in Staron 2002, p. 38, n. 32.
- ^ Bentivegna 2004, p. 199.
- ^ Si veda il lemma "Grüne Polizei" del glossario in Werner Warmbrunn, The Dutch under German Occupation, 1940-1945, Stanford University Press, 1963, p. 313.
- ^ Anche Portelli 1999, p. 199, scrive: «Non portano l'uniforme grigia delle SS combattenti, ma quella verde ramarro degli addetti ai rastrellamenti».
- ^ Realizzata dal regista Enzo Cicchino e andata in onda per il programma della Rai Mixer di Giovanni Minoli.
- ^ a b Adattamento ed elaborazione dell'intervista originale a Rosario Bentivegna, in larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale a Carla Capponi, in larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale a Giorgio Angelozzi Gariboldi, in larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Adattamento ed elaborazione dall'intervista originale a Matteo Matteotti, in larchivio.com. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Hermann Frass, Das Drama der 11. Kompanie in Rom vor dreissig Jahren, in «Südtirol in Wort und Bild», 18 (1974), Heft 3, in Baratter 2005, p. 189.
- ^ Baratter 2005, pp. 189-190.
- ^ «Mit Erlaß des RFSS und Chef des Deutschen Polizei vom 24.Februar 1943 erhielten die Pol.-Rgter, auf Grund der engen Verbindung von Polizei und SS und in Anerkennung ihres Einsatzes an der Ostfront in Krisenzeiten die Bezeichnung "SS-Polizei-Regimenter", blieben aber unverändert Bestandteil der Ordnungspolizei». Traduzione: «Con provvedimento adottato da parte del RFSS e Capo della polizia tedesca [Himmler] il 24 febbraio 1943 i reggimenti di polizia, in virtù della stretta connessione tra la polizia e le SS e in riconoscimento del loro impiego sul fronte orientale in tempi di crisi, hanno ricevuto l'appellativo "SS-Polizei-Regimenter", ma è rimasta invariata la loro appartenenza alla Ordnungspolizei». Cfr. (DE) Zur Geschichte der Ordnungspolizei, in lexikon-der-wehrmacht.de. URL consultato il 19 giugno 2014.
- ^ Baratter 2005, p. 190.
- ^ Raiber 2008, p. 41.
- ^ Nicola Spagnolli, Le guerre mondiali viste dalle Dolomiti. Incontro con lo storico Lorenzo Baratter, in Il Popolo Veneto, 26 febbraio 2006.
- ^ Nel 1996 Il Giornale aveva invece scritto, tra altre affermazioni giudicate diffamatorie, che era formato interamente da cittadini italiani. Cfr. Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 6 agosto 2007, n. 17172.
- ^ Baratter 2005, pp. 187-189.
- ^ «zumeist politisch zuverlässige Optanten».
- ^ Klinkhammer 1997, p. 12.
- ^ Portelli 1999, p. 198.
- ^ Gandini 1979, cit. in Paolo Piffer, Le voci di quelli del "Bozen", in «Altre Storie», anno quarto, numero dodici, novembre 2003, p. 9.
- ^ Portelli 1999, p. 200.
- ^ Emanuela Audisio, Bariloche si mobilita per il nazista Priebke, in La Repubblica, 12 maggio 1994.
- ^ Emanuela Audisio, Priebke muore a 100 anni e lascia un testamento shock, in La Repubblica, 12 ottobre 2013.
- ^ Goetz 1983, p. 168 ss., citato in Staron 2002, p. 38. Si noti che il comparativo "älter" si può usare nel senso di "reif", cioè maturo; si parla quindi di "maturi padri di famiglia", ad ogni buon conto "più vecchi" di coscritti ventenni.
- ^ Portelli 1999, p. 199.
- ^ Cerimonie a Bolzano per i 33 sudtirolesi morti in via Rasella, in La Stampa, 27 marzo 1981.
- ^ Giuliano Marchesini, Hanno ricordato i caduti al canto di «Kameraden», in La Stampa, 30 marzo 1981.
- ^ Daniele Martini, Anche da via Rasella nacque la Repubblica (PDF), in l'Unità, 28 marzo 1981. Nella stessa pagina, Enrico Paissan, Per la SVP i partigiani erano «folli fanatici»; f.m., Segnale grave che si somma ad altri, intervista ad Arrigo Boldrini.
- ^ Senato della Repubblica, VIII legislatura, resoconto stenografico della seduta di giovedì 2 aprile 1981, p. 14054.
- ^ Da Bolzano un attacco a Pertini, in la Repubblica, 27 settembre 1984.
- ^ Secca replica di Pertini al quotidiano Dolomiten, in La Stampa, 2 ottobre 1984.
- ^ Intervista a Norberto Bobbio a cura di Giampiero Mughini, Giustizia e libertà: il nodo è ancora qua (PDF), in L'Europeo, 20 ottobre 1984.
- ^ Giuliano Gallo, Una lapide a Roma in via Rasella, provocazione fascista sulla strage, in Corriere della Sera, 17 gennaio 1996.
- ^ Via Rasella, sequestrata lapide che ricorda i Bozen uccisi, in La Repubblica, 19 agosto 2000.
- ^ (DE) Auszeichnungen von Männern der Polizei, in Bozner Tagblatt, 26 agosto 1944.
- ^ (DE) Auszeichnungen von Männern der Polizei, in Bozner Tagblatt, 14 ottobre 1944.
- ^ (DE) Kreis Bozen, in Bozner Tagblatt, 9 novembre 1944.
- ^ (DE) Polizeimänner ausgezeichnet, in Bozner Tagblatt, 16 febbraio 1945.
- ^ (DE) Auszeichnung von Männern der Polizei, in Bozner Tagblatt, 26 febbraio 1945.
Bibliografia
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- Inchieste giornalistiche
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- Giorgio Amendola, Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1973.
- Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Prima e dopo via Rasella, Milano, Mursia, 2004 [1983].
- Carla Capponi, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Milano, Il Saggiatore, 2009 [2000].
- Opere di divulgazione
- Rosario Bentivegna, Via Rasella. La storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa, introduzione di Sergio Luzzatto, Roma, Manifestolibri, 2006, ISBN 8872854474.
- Bruno Vespa, Vincitori e vinti. Le stagioni dell'odio. Dalle leggi razziali a Prodi e Berlusconi, Milano, Mondadori, 2005, ISBN 8804548665.
Collegamenti esterni
- Il Polizeiregiment "Bozen", da historiamilitaria.it
- Gli articoli de La Stampa citati nella voce possono essere consultati nell'archivio storico del quotidiano