Sandbox Claudio Gioseffi
Modifica in corso: Voce in creazione sulla Storia dell'urbanistica e dell'architettura vicentina

La città di Vicenza è ricca di palazzi e di edifici pubblici - oltre che, naturalmente, di edifici religiosi - costruiti in epoca diverse, principalmente durante l'età moderna, i quattro secoli in cui la città è stata soggetta alla Repubblica veneta.

La storia dell'architettura e dello sviluppo urbanistico di Vicenza fornisce utili indicazioni per la conoscenza:

  • dei vincoli politici e del senso di appartenenza di una città che non è mai stata capitale di una signoria o di uno Stato: le mura, le porte e il rapporto della città con il contado, gli edifici del potere civile e religioso ricchi di valori simbolici
  • della struttura sociale della comunità cittadina come si è modificata nel tempo: le differenze architettoniche, la posizione rispetto al centro e l'ampiezza delle strade, la dislocazione dei mercati, la struttura dei quartieri più poveri e l'addensamento degli uffici religiosi che contrassegnavano il prestigio delle classi sociali
  • dell'evoluzione degli aspetti artistici, determinata dal gusto e dalle disponibilità finanziarie dei committenti, dall'emergere di artisti locali il più noto dei quali è il Palladio, dalle influenze esterne alla città.

Urbanistica ed edifici rappresentano quindi una fonte importante per comprendere la storia della città.

Epoca romana

  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia di Vicenza § Vicetia romana.

Il primo insediamento sul piccolo gruppo di alture - formato da detriti alluvionali - che emergeva dalla pianura acquitrinosa alla confluenza dei fiumi Astico (ora Bacchiglione) e Retrone - ebbe origine nel VI secolo a.C.[1] ad opre a dei Veneti. Sicuramente esso fu influenzato dalla costruzione, nel 148 a.C., della via Postumia che favoriva i traffici e il rapido transito delle legioni.

Ma alla seconda metà del primo secolo a.C., quando Vicetia divenne municipium romano optimo iure, cioè con pienezza di diritti civili e politici, risale la ristrutturazione dell'abitato secondo il caratteristico tracciato urbanistico romano ad assi relativamente ortogonali - quel tracciato ancora riconoscibile nella città moderna - così come la sostituzione di abitazioni in legno con costruzioni in pietra o laterizio e l'edificazione delle prime mura[2].

Queste furono erette, come avvenne per altre città consimili, per delimitare lo spazio urbano da quello rurale e conferire prestigio al nuovo status di città romana[3], in un tempo in cui tutta la regione era pacificata e apparentemente non erano necessarie. In assenza di reperti significativi, si presume che le mura fossero costruite solo parzialmente, in particolare a ovest della città, che invece negli altri lati era naturalmente difesa dai fiumi, l'Astico (ora Bacchiglione) e il Retrone, valicati da due ponti - descritti e disegnati anche dal Palladio - che corrispondevano agli attuali ponte degli Angeli e di San Paolo[4].

L'estensione dell'insediamento romano era piuttosto modesta e corrispondeva all'attuale centro storico in senso stretto: a ovest, iniziava presso l'odierna porta Castello; a nord presso l’incrocio delle contrade Porti-Apolloni-Pedemuro San Biagio; a est, all’inizio di corso Palladio movendo da piazza Matteotti; a sud, là dove si incontrano le contrade della Pescheria e di San Paolo.

 
Tratto di strada romana (uno dei cardini minori) rinvenuto in corso Fogazzaro. Lastricato in basoli poligonali di trachite, con tracce del transito di carri.

L'impianto urbanistico delle città romane si basava su un fascio di strade parallele con orientamento est-ovest, i decumani, che si intersecavano in senso ortogonale con un fascio di altre, i cardines, ad orientamento nord-sud. La ristrutturazione urbanistica di Vicenza, avvenuta a metà del I secolo a.C., dovette tener conto dell'assetto preesistente, per cui questo schema fu adattato e subì delle variazioni: le intersezioni tra decumani e cardines non furono infatti tracciate in senso ortogonale ma obliquo.

Al centro delle strade principali il decumanus maximus - che corrispondeva grosso modo all'attuale corso Palladio - costituiva il tratto cittadino della via Postumia che ad est, dopo aver superato l'Astico con un ponte[5], continuava verso Aquileia, mentre a ovest, passata la porta della cinta muraria in seguito chiamata Porta Feliciana e poi Porta Castello, continuava verso Verona. Era abbastanza ampio da permettere il doppio senso di circolazione dei carri.

Più controverso è quale fosse il cardo maximus, generalmente individuato nella via che, superato l'attuale Ponte San Paolo, passava sotto la Basilica Palladiana, proseguiva per contrà del Monte e contrà Porti il continuava verso nord, costeggiato il bordo occidentale del lacus Postierlae formato dal fiume Astico. Altri ritengono che il cardo maximus fosse piuttosto quello che, salendo dalle attuali contrà Cordenons e Cesare Battisti, percorreva corso Fogazzaro e poi continuava, fuori città, verso le montagne.

Vicino all'intersecazione delle due strade principali – sotto Palazzo Trissino Baston e la parte occidentale di Piazza dei Signori – è stata ritrovata una parte della pavimentazione del Foro, centro multifunzionale della vita cittadina che, secondo il modello romano, era dotato di strutture monumentali. Presentava un orientamento nord-sud: un'area sacra più rialzata, con i templi, a nord del decumano e un'area più abbassata, lastricata a grosse pietre rettangolari ancora visibili sotto il palazzo, destinata alla politica e ai commerci a sud della strada; concludeva il Foro una basilica civile, sul luogo in cui fu poi costruito il Palatium vetus e più tardi la Basilica - proprio per questo motivo così denominata dal Palladio[6].

Sotto la cattedrale, sono conservati e visibili i resti di domus decorate e di strade romane e al lato sud di piazza del Duomo, in ottimo stato di conservazione, il Criptoportico, parte di una domus patrizia nel periodo imperiale. Si ritiene che in città vi fossero anche altri criptoportici[7] - creati per livellare il terreno formato da dossi naturali oltre che per contenere il terrazzamento dei giardini - e le terme, di cui resta qualche lacerto in contrà Pescherie vecchie.

Dalla località Villaraspa (Motta di Costabissara) partiva l'acquedotto che, passando per la località Lobia, posta 3 km a nord del centro storico, dove sussistono tuttora resti degli archi di sostegno, e transitando per gli attuali viale Ferrarin, via Brotton e corso Fogazzaro, portava in città l'acqua delle risorgive[8] per terminare nel castellum aquae, cioè nel serbatoio presso Mure San Lorenzo[9].

 
L'acquedotto romano in località Lobia

Nel I secolo d.C. Vicenza aveva acquisito una certa importanza, tanto da demolire in parte le mura per consentire lo sviluppo della città e costruire il Teatro, in cui si svolgevano i ludi scenici e di cui si possono ancora vedere l'esatto perimetro e la configurazione con le 24 arcate[10], posto nel sobborgo periferico di Berga e collegato al centro da un ponte sul Retrone, al punto di confluenza delle strade che giungevano da sud-est (da Costozza e Longare) e da sud-ovest (da Lonigo e Sant'Agostino), costeggiando le pendici dei Colli Berici, per consentire un migliore afflusso degli spettatori. Dietro il palcoscenico, sul lato nord, era costruito un vasto quadriportico che arrivava sino al fiume, nel quale potevano intrattenersi gli spettatori.

Un'ampia zona a sud-ovest della città, corrispondente agli attuali Campo Marzo e borgo San Felice, era destinato fin dall'epoca pre-romana alle tumulazioni (diversi reperti si trovano al Museo naturalistico archeologico della città). Testimonianze significative del culto cristiano in epoca tardo antica si trovano nella Basilica dei Santi Felice e Fortunato, sotto forma di mosaici e di iscrizioni del tempo.

Nell'insieme, il tracciato urbanistico, i servizi urbani (acquedotto, ponti, fognature) e i reperti archeologici relativi agli edifici di quest'epoca mostrano un totale adeguamento del primo insediamento veneto alla cultura romana.

Medioevo

  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia delle mura e fortificazioni di Vicenza.

L'aspetto urbano nell'Alto Medioevo

È improbabile che, durante i periodi di sovranità ostrogota, longobarda e franca - cioè dal V al IX secolo, Vicenza si sia allontanata dagli schemi e dai limiti della città romana. Di certo vi rimasero gli elementi determinanti della “maglia urbana”, la “impronta indelebile” della romanità, ribadita dalle ultime, più accreditate indagini archeologiche.

"Semmai, saranno andati via via scomparendo, qui come altrove, i monumenti, ... i centri della vita sociale, politica, artistica antica, causa distruzione, abbandono o riconversione; con essi veniva meno tutta una pratica sociale e una cultura, insieme a elementi essenziali dell’immagine, della coscienza, dell’ideologia cittadina"[11].

La diminuzione della popolazione urbana condusse all'abbandono di molti edifici, senza che vi fosse poi bisogno di liberare gli spazi dalle macerie per utilizzarle in nuove costruzioni; aumentarono gli spazi incolti all'interno, paludosi e boschivi all'esterno della città; all’opposto della città precedente di estrazione greco-romana, quella medievale era dimora non solo dei vivi, bensì, in stretta vicinanza, dei vivi e dei loro morti: sepolti sotto i pavimenti delle chiese o lungo le navate o raccolti più semplicemente nelle zone adiacenti i luoghi di culto.

 
Campanile medievale della Cattedrale di Vicenza. Il basamento è parte di una fortificazione del X secolo e la sopraelevazione è del XII secolo[12].
 
Mura altomedievali in contrà Porton del Luzo.

Nel X secolo, in seguito alle scorrerie degli Ungari, iniziò la costruzione di strutture difensive che caratterizzarono fortemente l'aspetto della città: una cerchia di mura, iniziata plausibilmente sulle basi e sul tracciato delle precedenti romane e proseguita fino a tutto il secolo XIII, infine completata, per racchiudere anche i nuovi borghi, nel XIV e XV secolo.

Con riferimento ad alcuni studi, in particolare quelli dello storico francese Le Goff, lo studioso vicentino Franco Barbieri insiste sul significato simbolico riassunto nelle mura e nell'aspetto circolare della città medievale. Anche a Vicenza si affermò la tipica tendenza radiocentrica medievale, che racchiudeva la città in un perimetro circolare, entro termini pressoché equidistanti da un punto intermedio tra la cattedrale e la sede del potere comunale[13].

Erano forse presenti influenze etniche: gli accampamenti delle popolazioni germaniche erano rotondi, una disposizione funzionale a un ordinamento gerarchico. Ben più forti erano le ragioni politiche, ideologiche e religiose, che producevano un marcato simbolismo. La città, dimora degli uomini, piccolo microcosmo, aspirava a farsi simile alla perfezione dell’universo che, stando alla concezione aristotelico-tolemaica, era organizzato in cerchi concentrici. La città terrena doveva corrispondere all’immagine del suo prototipo ideale, la Gerusalemme celeste che nella tradizione iconografica veniva rappresentata chiusa in un cerchio perfetto attorno al tempio di Salomone. Il circuito rafforzava la sacralità della città e del potere che in essa risiedeva.

Nell’Apocalisse, dodici angeli appaiono a presidio delle porte della Città santa: e gli Statuti di Vicenza del 1264 intimavano di far eseguire al più presto, sulle porte civiche, affreschi in onore della Vergine, dell’apostolo Pietro, dell’arcangelo Michele, dei Santi Cristoforo, Felice e Fortunato. Le porte, consacrate, costituivano non solo il necessario veicolo all’osmosi tra la città e il suo territorio, ma rimarcavano il divario nettissimo tra l’interno, regno dell’ordine tutelato dalla fede, e il disordine esterno: fuori si apriva la natura, la non-città[14]. Già Aristotele, nel settimo capitolo della Politica, raccomandava alla città le mura non solo perché necessarie, o quanto meno utili alla difesa, ma perché possono esservi d’ornamento e di definizione dello spazio identitario, significativo dal punto di vista sia tecnologico sia artistico.

La città medievale ci appare quindi organismo funzionale, ma anche immagine allegorica di un mondo trascendente. Scomparsa - all’infuori di alcune chiese, conventi e palazzi comunali - pressoché ogni importante testimonianza della facies interna della città, oggi le mura, o ciò che di esse rimane, rappresentano uno dei documenti privilegiati per la conoscenza del Medioevo in questo territorio[15].

D'altra parte, eccezione fatta per la torre-campanile della cattedrale e qualche breve tratto di mura, del periodo altomedievale quasi nulla resta nell'attuale aspetto urbano della città.

La città turrita del XIII secolo

 
Torri dei Loschi, in contrà Sant'Antonio, probabilmente della fine dell'XI secolo. Secondo la tradizione furono risparmiate da Federico II nel sacco di Vicenza del 1236, perché vicine alla cattedrale[16].

L'arrivo in città delle famiglie feudali ne cambiò l'aspetto, arricchendola di edifici privati e pubblici. Secondo il cronista Battista Pagliarini[17] che scrive qualche secolo più tardi, le torri sarebbero state più di cento. Può trattarsi di un'esagerazione, ma è documentato che il podestà Guglielmo di Pusterla nel 1208 dovette emanare un praeceptum, una sorta di regolamento edilizio, per dare ordine al moltiplicarsi di edifici e di mura e all'occupazione delle aree pubbliche.

Nel Duecento la struttura urbanistica della città era simile a quella di altre città venete.

Al centro dell'insediamento più antico – vicino a dove si presume fosse il Foro romano – il Palatium vetus, prima sede del Comune che si è era costituito verso la seconda metà del XII secolo e che comprendeva la cappella dedicata a San Vincenzo, il Salone dei Quattrocento sostenuto da archivolti sotto il quale passava l'antico cardo maximus e dove si riuniva il Consiglio di Credenza e, più ad est, il Palazzo del Podestà, affiancato a nord dalla Torre dei Bissari e a sud da quella del Tormento, rappresentavano la sede del potere pubblico.

Tutt'intorno le piazze dei mercati di vendita al minuto: la piazza delle Biave, cioè del foraggio e delle sementi, la piazza del Vino[18], la piazza delle Erbe, le Pescherie vecchie e quelle Nuove[19], contrà Muscheria dove si vendevano guanti e oggetti in pelle e le strade occupate dalle professioni giuridiche, come i Nodari, e finanziarie come la contrà dei Giudei[20]. Piazze e palazzi pubblici erano circondati dallo spesso muro del Peronio, le cui porte venivano chiuse al tramonto.

L'architettura religiosa del XIII secolo

A poca distanza dall'area riservata ai poteri pubblici si trovava la cittadella, ancora in parte fortificata, degli edifici religiosi: la cattedrale, il palazzo del vescovo e le abitazioni dei canonici.

L'XI secolo - dopo il devastante terremoto del 1117 - e la prima metà del Duecento sono anche l'epoca in cui vennero ristrutturate in forme romaniche alcune importanti chiese cittadine - la stessa cattedrale - e monastiche costruite al limite della città: la basilica dei Santi Felice e Fortunato, la chiesa di San Silvestro, quella di San Bartolomeo.

Nella seconda metà del secolo, conclusa la tirannia di Ezzelino III da Romano, a Vicenza si diffusero rapidamente gli Ordini mendicanti, ciascuno dei quali costruì la propria grande chiesa in uno dei settori della città, all'interno della cinta murata, presso una delle porte aperte nelle mura, spostando nei quartieri la vita religiosa della città e modificando così, almeno in parte, l'impostazione rigidamente centralizzata dell'abitato. Risalgono a quel tempo la chiesa di Santa Corona, quella chiesa dedicata a San Michele, la grande chiesa di San Lorenzo e quella di San Giacomo Maggiore (Carmini).

Tutte queste chiese furono edificate nelle forme del gotico lombardo - un compromesso tra romanico e gotico, senza eccessivi slanci in altezza, con il mantenimento della facciata a capanna e delle masse murarie - secondo l'impostazione cistercense: pianta a croce latina, con tre navate terminanti in absidi rettangolari.

XIV secolo: lo sviluppo della città e l'ampliamento delle mura

 
Case costruite nelle mura scaligere in Borgo Santa Lucia
  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia delle mura e fortificazioni di Vicenza.

Sotto la signoria scaligera la città si arricchì e si espanse. Nel corso dei primi tre secoli del secondo millennio - come del resto in tutta Europa - il numero degli abitanti era aumentato notevolmente e si erano creati nuovi insediamenti al di fuori dell'antica cinta muraria altomedioevale di cui, a partire dal 1365, Cansignorio della Scala dispose l'ampliamento, sia a est che a ovest del centro storico; la nuova cinta era infatti necessaria per dotare di adeguate difese la città, in un momento in cui la signoria si trovava in difficoltà e si incominciavano ad usare le più potenti armi da fuoco.

Il borgo orientale al di là del Bacchiglione, cresciuto intorno al monastero di San Pietro e già densamente abitato, fu racchiuso dal nuovo tratto in cui si aprivano le porte di Santa Lucia, di Padova e di Camarzo - posta alla fine di contrà San Pietro e successivamente chiusa[21] – che consentivano l'accesso alle strade provenienti rispettivamente da Treviso, Padova e Casale per confluire al ponte (ora degli Angeli), dall'epoca romana unico passaggio disponibile per valicare il fiume.

 
Le mura scaligere in viale Mazzini

A ovest, invece, la nuova cinta si inserì nella struttura fortificata di porta Castello per dirigersi verso nord, creare l'avamposto della Rocchetta, aprirsi nelle porte Nuova e di Santa Croce, per poi seguire il corso del Bacchiglione e innestarsi nuovamente nei pressi del ponte Pusterla. Il nuovo tratto racchiudeva così un'area non ancora abitata - a parte il borgo di Porta Nuova[22] - che, per volontà di Antonio della Scala, fu dotata di un tracciato viario ad assi ortogonali, con isolati regolari di notevoli dimensioni. Quest'area rimase però per molto tempo secondaria rispetto al centro storico della città; nel corso del XVI e XVII in essa aumentarono gli insediamenti, in genere però formati da conventi e istituti assistenziali.

La costruzione delle mura, che comportò alcune modifiche al percorso del Bacchiglione e della roggia Seriola per costituire i fossati di completamento, rispettò l'integrità della vecchia cinta. Questo fatto mantenne integra l'identità del nucleo storico cittadino, al punto che le nuove inclusioni furono ancora sempre chiamate, dagli storici locali come nel linguaggio corrente, i borghi della città.

Età moderna

Si tratta di un arco di tempo - in cui Vicenza fu capoluogo di un contado appartenente ai Domini di Terraferma della Serenissima - particolarmente fecondo per l'architettura vicentina, in cui si susseguirono momenti distinti - anche se non nettamente divisi - ciascuno dei quali caratterizzato da aspetti di tipo politico, religioso, culturale e artistico:

  • 1450-1580: è il periodo della costruzione dei primi grandi palazzi nobiliari in stile gotico fiorito veneziano, ad indicare la piena adesione alla Dominante
  • 1480-1530: ad opere di artisti provenienti da altre parti dell'Italia centro-settentrionale, a Vicenza si afferma rapidamente un gusto nuovo ed è la Rinascenza
  • 1540-1580: il momento in cui - sancita ormai definitivamente la sottomissione di Vicenza alla Dominante - l'aristocrazia cittadina esprime le proprie aspirazioni frustrate all'autonomia con la richiesta di simboli e riconoscimenti di nobiltà e potenza. Andrea Palladio le interpreta con un'architettura che si richiama ai fasti imperiali si traduce in edifici pubblici, palazzi monumentali e ville signorili
  • 1575-1640: in un periodo di declino demografico ed economico della città, gli architetti del tempo - dallo Scamozzi al Pizzocaro - interpretano questa tendenza con una architettura molto più sobria e funzionale alle esigenze del tempo
  • 1650-1710: con l'emergere di una nuova classe sociale di recenti arricchiti e il consolidarsi della Controriforma cattolica, rinascono l'esigenza di ostentare il lusso privato e il trionfo della Chiesa, che si esprimono in palazzi privati e in edifici religiosi in stile barocco, in genere progettati da architetti non vicentini
  • 1710-1797: mentre la Serenissima si avvia verso il suo inesorabile declino, l'aristocrazia vicentina investe ancora in palazzi e ville sempre più grandiosi, simbolo di uno stato sociale; la Chiesa, da parte sua, favorisce l'inserimento in città degli ordini religiosi della Controriforma e la conseguente costruzione di imponenti edifici. Il clima generale è infarcito di cultura classica e lo stile barocco si contende il campo con la riscoperta del Palladio.

Il Quattrocento

La ridefinizione della città nel Quattrocento

 
Porta San Bortolo, fatto costruire da Venezia nel 1435

Dopo la dedizione di Vicenza alla Serenissima, la prima preoccupazione della Repubblica fu quella di dotare la città di ulteriori fortificazioni, che fossero adeguate all'espansione in atto e all'eventualità di una guerra moderna. Furono così delimitati con mura e fossati i settori a sud-est e a nord, cioè i Borghi di Berga e di Pusterla, scelta strategica anche per garantire la sicurezza delle zone vicine alle vie d'acqua - principale collegamento con Venezia - che giungevano alla città.

Borgo Berga, presso il quale si trovava il porto sul Retrone, era già quasi completamente abitato; oltre a diversi monasteri che si erano insediati nel corso del Duecento, si erano sviluppate anche attività produttive, in particolare la manifattura di panni di lana. Borgo Pusterla, invece, era praticamente costituito solo da modesti insediamenti lungo la strada che usciva da porta Pusterla, tra la chiesa di San Marco - che dal punto di vista ecclesiastico, estendeva la propria giurisdizione parrocchiale fino al ponte del Marchese - e il monastero di San Bartolomeo.

Con questa scelta urbanistica la città ricevette la configurazione definitiva che sarebbe rimasta tale fino alla fine dell'Ottocento (secondo lo storico Castellini, che commentava una mappa, assumendo la figura di uno scorpione).

Il gotico fiorito

 
Palazzo Regaù, in Borgo San Pietro (ora Corso Padova), seconda metà del Quattrocento.

La messa in sicurezza della città e del territorio - dal quale provenivano le risorse economiche che costituivano la ricchezza dei nobili vicentini, proprietari terrieri - diede, a partire dalla metà del XV secolo, un forte impulso allo sviluppo dell'edilizia privata, che era stata piuttosto povera durante il Medioevo, attraversato da continui conflitti e mutamenti di potere.

Sorsero così - nel centro della città, presso i luoghi del potere[23], e nella zona vicina al Retrone e al porto[24], punto d'arrivo per chi proveniva da Venezia - case e palazzi raffinati e di grandi dimensioni in stile gotico fiorito, allora dominante in laguna - che volevano in qualche modo rivaleggiare con i palazzi di Venezia[25].

Sono invaghiti di monofore e balconi ad archi inflessi e lobati, impennacchiati al cimiero, ornati di patere trafitte da spilloni, moltiplicati in trifore e polifore di spiegata grandiosità. Le facciate erano ravvivate da affreschi, oggi quasi del tutto perduti; nei cortili interni che, secondo il modello veneziano, erano abbelliti da logge, una scala esterna dava accesso ai piani superiori[26].

Una delle principali caratteristiche che fanno riconoscere la struttura gotica di un palazzo di quell'epoca - seppur rimaneggiato nel corso del tempo - è l'asimmetria delle aperture nei prospetti; a partire dalla fine del secolo, nei palazzi di nuova costruzione, rifacendosi ai modelli della classicità, verrà ricercata la perfetta simmetria.

Lo sviluppo edilizio del Quattrocento diede impulso anche all'attività degli artigiani, scultori e pittori che - come gli architetti, rimasti tutti anonimi - si iscrivevano alla Fraglia dei tagliapietra; dai pochi nomi che ci sono rimasti, alcuni provenivano dai territori veneziani, qualcun altro dalla Lombardia[27].

L'edilizia pubblica e religiosa

Intorno al 1450 venne sistemato per volontà pubblica il Palazzo della Ragione, con il raggruppamento dei vetusti palazzi comunali precedenti mediante la creazione di un loggiato. La nuova struttura integrava con abilità elementi lagunari e di terraferma, guardando contemporaneamente al Palazzo Ducale di Venezia e al Palazzo della Ragione di Padova; da quest'ultimo, in particolare, veniva tratta l'idea della copertura a carena rovesciata. Un'altra opera pubblica importante fu la costruzione, in due momenti successivi nella prima metà del XVI secolo, del palazzo del Monte di Pietà.

Dal punto di vista dell'architettura religiosa, venne completamente ristrutturata la Cattedrale duecentesca a tre navate, che era stata accresciuta e abbellita nel corso del Trecento. Nel 1467 venne eretta la facciata e furono completati il soffitto con le grandiose volte a vela e la cappella maggiore. Nel corso del secolo, ai lati della navata si aggiunsero numerose cappelle delle famiglie nobili cittadine.

A parte la costruzione della chiesa di Santa Maria in Foro, vicino al Palazzo della Ragione, e all'Ospedale dei santi Maria e Cristoforo a San Marcello, altri edifici, invece, furono costruiti o ristrutturati nei borghi o ancora più lontano: l'Oratorio dei Boccalotti e il chiostro delle benedettine in Borgo San Pietro, la chiesa e il convento delle domenicane sempre nello stesso borgo, la chiesa e il convento dei Santi Bernardino e Chiara in Borgo Berga, la prima chiesetta gotica di Monte Berico.

La Rinascenza vicentina

 
Palazzo Angaran, di fine '400, l'unico che a Vicenza sviluppa due prospetti su portico continuo

L'entusiasmo per il gotico veneziano durò poco: a partire dagli anni settanta il gusto cominciò a cambiare, rivolgendosi piuttosto verso modelli veronesi e lombardi. In contrà Pedemuro San Biagio aprirono la loro bottega - e si iscrissero alla Fraglia vicentina dei tagliapietra - Bernardino da Como con il cognato Tommaso e Giacomo da Porlezza con i suoi luganesi; iniziò con loro un periodo molto fecondo, durante il quale il processo di cambiamento investì i preesistenti edifici gotici, spesso modificati e abbelliti con una serie di preziosismi lombardi: ne è un esempio casa Pigafetta; un altro esempio del passaggio da uno stile all'altro è dato dai due palazzi Arnaldi, l'Arnaldi Segala gotico e l'Arnaldi Tretti rinascimentale, costruiti a pochi anni di distanza e affiancati in via Pasini.

Nel 1476 arrivò a Vicenza Lorenzo da Bologna, che vi rimase per 13 anni e portò in città un suo linguaggio rinascimentale genericamente toscano su basi emiliane. La ricerca del modello di palazzo signorile, monumentale e più moderno, si tradusse in esempi, come il palazzo Negri De Salvi a Santo Stefano e il palazzo Angaran di là del ponte degli Angeli. Dove non era possibile procedere alla demolizione o alla trasformazione del palazzo, si cercò di adattare al nuovo gusto almeno l'ingresso, come nel caso della Ca' d'oro.

Su commissione di famiglie patrizie, Lorenzo da Bologna mise mano anche alla modifiche di importanti edifici religiosi, come la chiesa di Santa Corona dove, abbattuta l'abside rettilinea, ne costruì un'altra semicircolare per il grandioso e solenne presbiterio, insieme con la cappella dei Barbaran; a lui sono attribuiti anche il coro e la sagrestia del Santuario di Monte Berico e la cappella dei Trissino in Cattedrale. Vicenza così tendeva ad allinearsi su un decisivo livello monumentale, risolvendo nello splendore dell'apparato edilizio cittadino la propria frustrazione di non essere politicamente importante a livello regionale[28].

Durante questo periodo le famiglie gentilizie vicentine si profusero in donazioni e lasciti alle chiese cittadine, stabilendo il loro patronato su nuove cappelle - che venivano ricavate nelle pareti laterali delle navate - finanziando la costruzione di altari e la produzione di tele e di affreschi. Esempi particolarmente importanti di questo momento si trovano in Cattedrale, in Santa Corona e si trovavano nella distrutta chiesa di San Bartolomeo, il cui patrimonio artistico fu disperso nell'Ottocento.

Il secolo del Palladio

Il retroterra culturale del Cinquecento

 
Gian Giorgio Trissino, ritratto del 1510 di Vincenzo Catena

Dopo la conclusione della guerra di Cambrai, le maggiori città della Terraferma veneta si dotarono di importanti difese, totalmente diverse dalle fortificazioni precedenti e adeguate all'impiego dell'artiglieria. Anche per Vicenza furono formulati progetti - e la loro realizzazione avrebbe portato ad una configurazione ben diversa della città - che però vennero tutti disattesi. A parte il costo che sarebbe stato proibitivo - soprattutto per rafforzare il lato sud, dove gli spalti avrebbero dovuto arrampicarsi su Monte Berico - si fece costantemente sentire la non troppo malcelata opposizione dell'aristocrazia cittadina, che lamentava la devastazione dei campi e la demolizione di edifici per fare posto alle fortificazioni. Al di là di questi motivi concreti vi erano altre ragioni: i nobili vicentini manifestavano in prevalenza simpatie filo imperiali, che si erano rese evidenti durante la guerra nel momento in cui era arrivato Massimiliano I.

La vittoria finale di Venezia aveva definitivamente frustrato ogni velleità di autonomia politica. Così l'aristocrazia vicentina si rifugiò in una distinzione culturale, che esaltava sogni di romana grandezza e si realizzava in tutto ciò che poteva essere creato con il patrimonio personale: l'educazione dei figli, la creazione di circoli culturali come l'Accademia olimpica, l'edificazione di palazzi che si rifacevano alla Roma imperiale, piuttosto che agli edifici gotici di Venezia. Questo gusto per il classicismo di ascendenza tosco romana - già trionfante in Italia centrale - veniva indicato come la modernità[29].

Palazzi e ville

  Lo stesso argomento in dettaglio: Villa veneta e Ville palladiane.

Con l'estensione del dominio di Venezia alla Terraferma e il periodo di sostanziale pace creatosi dopo la guerra, l'aristocrazia vicentina, come anche quella veneta e veneziana, rafforzò il proprio interesse per i possedimenti fondiari. Alle grandi proprietà si accompagnarono importanti investimenti in agricoltura, che venivano poi remunerati dalla produttività dei fondi; le rendite così ottenute permettevano alle famiglie una vita sfarzosa: i palazzi in città, il patronato delle cappelle e degli altari nelle chiese, la carriera politica e militare dei figli e una cospicua dote per le figlie.

Il palazzo di famiglia in città divenne sempre più grande e maestoso, ma il vero simbolo di questo mondo nuovo fu la villa, un complesso in cui alla bellezza e alla grandiosità della residenza signorile si affiancavano gli edifici necessari alla gestione della tenuta circostante: la villa aveva dunque, a differenza di altre residenze, una doppia funzione, sia di rappresentanza e di svago che di centro produttivo.

Rispetto alle ville venete che, alla fine del XV secolo, erano sorte sulla base degli antichi castelli - grandiose, quasi una ripetizione dei palazzi di città - quelle del Palladio risposero alla necessità di un nuovo tipo di residenza rurale. Più piccole, spesso con un unico piano principale abitabile, erano adatte da una parte a controllare l'attività produttiva, dall'altra ad impressionare gli affittuari e i vicini oltre che ad intrattenere gli ospiti importanti; erano quindi efficaci al fine di stabilire una presenza sociale e politica nelle campagne e, nello stesso tempo, adatte per il riposo, la caccia, e per sfuggire dalla città, soprattutto nel periodo estivo.

Circondate da vaste estensioni di campi coltivati e vigneti, le ville comprendevano magazzini, stalle e depositi per il lavoro agricolo. Di norma presentavano ali laterali, le barchesse, destinate a contenere gli ambienti di lavoro, dividendo razionalmente lo spazio del corpo centrale, destinato ai proprietari, da quello dei lavoratori, in modo da non sovrapporre le diverse attività. Il corpo centrale era a sua volta suddiviso in senso verticale, dove ogni piano assolveva a funzioni diverse.

L'affermazione del Palladio

  Lo stesso argomento in dettaglio: Andrea Palladio.
 
Andrea Palladio nel 1576, in uno dei pochissimi ritratti ritenuti attendibili. Olio su tavola, attribuito a G.B. Maganza. Vicenza, Villa Valmarana ai Nani

Uno dei più insigni esponenti di questo nuovo clima politico, sociale e culturale fu Gian Giorgio Trissino, umanista, poeta e tragediografo che, oltre a svolgere attività diplomatiche per conto del papato, si interessava di linguistica e di architettura.

Volendo rimodernare la sua residenza di Cricoli, intorno al 1537 il Trissino ne affidò la ristrutturazione alla bottega di Giovanni e Girolamo da Pedemuro e lì si entusiasmò per le capacità professionali di Andrea di Pietro che, tre anni dopo, avrebbe chiamato il Palladio[30].

Tra i due, accomunati dalla passione per la classicità, nacque una collaborazione che durò fino alla morte del Trissino nel 1550. Anche dopo, il Palladio si dedicò totalmente a rifare il volto della città, sia nell'edilizia pubblica che in base ai desideri dei nobili committenti che investivano nella costruzione o nella ristrutturazione dei loro palazzi.

Andrea Palladio lasciò in eredità un insostituibile patrimonio di idee, concretizzate soprattutto nei palazzi che arricchirono il centro storico e nelle sontuose ville venete.

L'edilizia pubblica

Le grandi opere pubbliche progettate dal Palladio, e cioè le Logge del Palazzo della Ragione (Basilica Palladiana) e la Loggia del Capitanio, con la loro monumentalità mirarono a conferire alla città quell'importanza cui essa aspirava. Nel 1580 egli progettò il Teatro Olimpico, commissionatogli dall'Accademia Olimpica per la messa in scena di commedie classiche.

L'edilizia religiosa

Autore di alcune tra le più belle chiese di Venezia, egli realizzò a Vicenza soltanto parti di edifici religiosi:il portale della chiesa di Santa Maria dei Servi, la cupola e il portale laterale della Cattedrale di Vicenza, la Cappella Valmarana nella chiesa di Santa Corona. Gli viene attribuito anche il progetto, completato postumo, della chiesa di Santa Maria Nova.

L'edilizia privata

Il Palladio viene ricordato a Vicenza soprattutto per i palazzi signorili che progettò, anche se non di tutti riuscì a vedere il completamento: sono, in ordine cronologico, i palazzi Civena, Poiana, Thiene, Porto (per Iseppo da Porto), Chiericati, Schio, Valmarana, Barbaran da Porto, Porto in piazza Castello, Thiene Bonin Longare.

Le ville

Oltre alla celebratissima villa Capra detta la Rotonda, che servì di modello agli architetti successivi in tutta Europa, il Palladio progettò una quindicina di ville nel vicentino e diverse altre - per un totale di 24 - in territorio veneto.

Il Sei e il Settecento

Due secoli di stagnazione

L'ambiente politico, economico e sociale di Vicenza nel periodo che va dalla morte del Palladio (1580) alla fine della Repubblica veneta (1797) fu essenzialmente determinato dalle sorti della Serenissima che, sfiancata dalle lotte contro i turchi e indebolita per la perdita dei traffici verso l'oriente, si arroccava in una politica conservatrice il cui unico obiettivo era quello di mantenere i privilegi dell'aristocrazia.

Simile a quella della capitale era la situazione di Vicenza: l'aristocrazia cittadina, ormai rassegnatasi a dipendere da Venezia senza poter giocare un ruolo politico a livello statale, si rifaceva sul contado, sfruttando i proventi delle campagne per aumentare il proprio prestigio esteriore. All'interno della città restava netta la distinzione tra i ceti sociali - raro era l'emergere di nuove famiglie nobili o arricchitesi di recente - e all'interno delle stesse famiglie si tendeva alla concentrazione dei patrimoni, mediante l'esclusione dei figli cadetti o delle figlie che venivano avviate alla vita di convento.

Tutto questo fu determinante per l'immagine urbana. I grandi palazzi restarono localizzati nell'antico centro storico, all'interno delle mura altomedievali, la cui popolazione era costituita dalle famiglie importanti e dai loro servitori. Gli artigiani e i commercianti si radicarono nei borghi racchiusi dalle mura tardomedievali di Berga, San Pietro, Pusterla, Porta Nova e in quello esterno di San Felice. L'ambiente fuori dalle mura restò quello della campagna, che si arricchì di ville sempre più imponenti.

La maggior novità di questo periodo dal punto di vista architettonico fu data dalla costruzione o dal rifacimento degli edifici religiosi: chiese, conventi, oratori, che trassero notevole impulso dall'attuazione della Controriforma cattolica.

Il Seicento, uno stile monumentale ma severo

Il Palladio morì senza vedere la piena realizzazione dei suoi sogni; nel 1580 - lo testimonia la Pianta Angelica, redatta nel medesimo anno - tutto era ancora incompleto: le logge della Basilica erano finite solo a settentrione e ad occidente, nel Teatro Olimpico mancavano gli interni, molti palazzi restarono incompleti (come il Palazzo Porto in piazza Castello) o furono completati molto più tardi (il cantiere di Palazzo Chiericati sarebbe rimasto aperto ancora per un secolo e mezzo).

Con Vincenzo Scamozzi, che proseguì il lavoro del Maestro in alcune di queste opere, iniziò un nuovo corso che avrebbe caratterizzato tutto il XVII secolo: l'attività edilizia aveva recepito l'insegnamento del Palladio, la sua tendenza alla monumentalità e alla scenografia - i palazzi si fecero sempre più grandi, spesso inglobando e unificando edifici preesistenti, cui si accedeva attraverso altissimi portoni - ma si fece sempre più sobria, severa e razionale, anche in base alle richieste della committenza, costituita ancora dalle famiglie aristocratiche cittadine, ma dove iniziava ad emergere anche una nuova classe sociale, che esprimeva il lusso e il prestigio in maniera diversa, contenendolo all'interno dei palazzi ed evitando lo sfoggio esterno.

Nella seconda metà del secolo anche a Vicenza - che si risollevava dai tempi duri della peste - come nel resto dell'Italia nacque una nuova sensibilità che rifiutava la troppa austerità fino ad allora imperante, preferendo invece uno stile che puntava all'esuberanza decorativa, unendo pittura, scultura e stucco nella composizione spaziale e sottolineando il tutto mediante suggestivi giochi di luce ed ombre: lo stile barocco, le cui caratteristiche fondamentali erano le linee curve, dagli andamenti sinuosi, come ellissi, spirali o curve a costruzione policentrica; il forte senso della teatralità doveva destare meraviglia e ammirazione.

Questa sensibilità veniva da Venezia, dove il principale esponente del barocco, Baldassarre Longhena - a sua volta profondamente influenzato dai due sommi maestri del Cinquecento italiano, Jacopo Sansovino e Andrea Palladio - aveva costruito la chiesa di Santa Maria della Salute. A Vicenza però il barocco non trovò grandi applicazioni nell'architettura civile (praticamente solo il palazzo Leoni Montanari); maggiori invece furono le sue espressioni nell'architettura religiosa.

Il Settecento e il mito del Palladio

  Lo stesso argomento in dettaglio: Palladianesimo § Diffusione del palladianesimo.

A Vicenza nel Settecento si assistette alla riscoperta e alla rivalutazione del Palladio.

Marco Boschini, personaggio eclettico e fine critico d’arte veneziano, chiamato dagli amministratori vicentini[31], nel 1676 pubblicò il volumetto I gioielli pittoreschi. Virtuoso ornamento della città di Vicenza, la prima guida alla città. Questi gioielli erano le chiese e i palazzi pubblici della città. Egli affermava che tutta la città era stata abbellita dall’impostazione del Palladio e, come Tiziano era il gigante della pittura, Palladio era il Tiziano dell’architettura.

Cent’anni dopo, nel 1779, venne pubblicata una nuova guida della città di Vicenza, la Descrizione delle architetture, pitture e scolture di Vicenza, con alcune osservazioni, scritta da Pietro Baldarini, che poi affiancò Enea Arnaldi, grande estimatore del Palladio: in essa si affermava che tutto ciò che c’era di buono a Vicenza era stato fatto dal Palladio, mentre i successori, dopo che era stato raggiunto un tale livello di perfezione, erano ricaduti nella barbarie. L’architettura del Seicento veniva vista come quella della decadenza e questa valutazione rimase tale fino alla fine dell’Ottocento[32] e ai primi del Novecento, quando dell’architettura seicentesca venne fatta una rivalutazione critica.

L'architettura del XVII e del XVIII secolo

L'edilizia pubblica

Verso la fine del XV secolo la città aveva sostenuto un notevole sforzo per la ristrutturazione o il completamento di alcune opere già iniziate.

Il castello semi diroccato - ora Palazzo del Territorio - che dopo la dedizione alla Serenissima era stato diviso tra il Comune di Vicenza (che l'aveva adibito a prigione) e l'Arsenale della Repubblica veneta - fu ristrutturato e, dismesse le prigioni, nella parte comunale venne costruito il Teatro Olimpico, mentre nel settore veneziano trovarono sede dal 1616 i magistrati incaricati dei 15 vicariati e delle due podesterie del territorio vicentino. Per accedere a questo settore nel 1600 fu eretto il maestoso arco progettato dall'architetto Ottavio Bruto Revese, che disegnò anche l'arco trionfale in Campo Marzo.

A cavallo del secolo furono completate le logge della Basilica palladiana - nel 1597 (diciassette anni dopo la morte di Palladio) il secondo livello delle logge e nel 1614 il prospetto su piazza delle Erbe.

Il XVII e del XVIII secolo non annoverano invece l'esecuzione di importanti opere pubbliche, a parte l'ampliamento. a inizio Settecento, del palazzo del Monte di pietà e la costruzione della seconda facciata, che diventava l'accesso alla sede della prima biblioteca civica Bertoliana.

L'edilizia privata

Nel Seicento avvenne il completamento di molti palazzi progettati dal Palladio; nell'affidare ad altri architetti la progettazione di palazzi nuovi le famiglie rifiutarono lo sfarzo esteriore, chiedendo un decoro più contenuto. Anche se non grandioso, l'architettura in città divenne più severa, più austera fino a raggiungere con Antonio Pizzocaro un aspetto quasi militaresco, riflettendo così la diversa situazione economica e sociale che si era creata in città.

I palazzi cittadini, come in genere tutt'Italia seppure con varianti regionali, rimasero fedeli alla tipologia residenziale del Rinascimento, con un corpo edilizio chiuso attorno ad una corte interna; di solito i prospetti principali furono dotati di avancorpi e decorati mediante l'impiego di colonne giganti. Dagli altri si distingue il barocco palazzo Leoni Montanari, unione di unità abitative diverse messe insieme da un nuovo arricchito, il setaiolo Giovanni Leoni che lo volle per promuovere la sua posizione sociale e avere un seggio nel consiglio della città. La sua costruzione fu affidata ad un architetto "foresta", il lombardo Giuseppe Marchi. Solo qualche altro palazzo inserì all'esterno qualche elemento di un barocco smorzato, come le specchiature tipiche del palazzo Segala al di là del ponte degli Angeli e del palazzo Piovene Cicogna in Borgo Pusterla.

I vicentini nobili, i nuovi ricchi e i patrizi veneziani continuarono a commissionare nelle loro ottenute di campagna la costruzione di ville sempre più grandiose.

L'edilizia religiosa

A partire dalla fine del Cinquecento e fino a tutto il Settecento, l'attuazione della Controriforma diede un notevole impulso alla costruzione o al rifacimento di edifici religiosi: chiese, conventi, oratori.

Essa ebbe notevoli ripercussioni anche in campo artistico: gli edifici riflettevano nella struttura e nell'ornamentazione la simbologia cattolica che si voleva affermare, in contrapposizione a quella protestante; fu promossa l'importanza didascalica delle immagini e furono fissate una serie di norme nelle arti per sottolineare la distinzione tra il clero ed i fedeli.

La Chiesa cercò un compromesso col potere politico, conciliando la fede con la vita mondana; proprio per questo il barocco divenne uno stile atto ad esprimere sia lla fede che le frivolezze della mondanità. Questo stile, sviluppatosi a Roma tra il 1630 ed il 1670 e diffusosi in Italia e in Europa, trovò la sua espressione anche negli edifici religiosi di Vicenza.

Molti edifici furono costruiti o ristrutturati per accogliere i nuovi ordini religiosi istituiti con la Controriforma: si tratta della chiesa e del convento di San Giuliano (1666-1720 sotto la direzione di Antonio Pizzocaro che aveva redatto il progetto) per i frati Minimi, delle chiese di Santo Stefano (1675-1764 iniziata da Carlo Borella)[33] e di San Gaetano(1720-29 dell’architetto padovano Girolamo Frigimelica[34]) per i Teatini, di quelle di San Marco in San Girolamo per i Carmelitani (1720-27, forse dell'architetto veneziano Giorgio Massari o di quello vicentino Giuseppe Marchi), dei Santi Filippo e Giacomo per i padri Somaschi, di San Filippo Neri per i padri Filippini(su progetto, almeno per quanto riguarada la facciata, di Ottone Calderari).

Altri edifici furono ingranditi, abbelliti o totalmente ricostruiti, come la chiesa di Santa Maria in Araceli (1675-80, su progetto di Guarino Guarini e realizzazione di Carlo Borella) delle Clarisse, il santuario della Madonna di Monte Berico (1688-1703, realizzato da Carlo Borella sulla base di un progetto di Andrea Palladio) dei Servi di Maria, la chiese e il monastero di Santa Caterina per le Benedettin, la facciata e la cappella della Pietà nella chiesa di San Vincenzo.

Un'ulteriore tipologia di edifici fu quella degli Oratori, che nel Seicento furono costruiti o rinnovati per iniziativa delle Confraternite: furono quelli del Gonfalone, del Crocifisso, di San Nicola da Tolentino, delle Zitelle, quelli della Concezione annesso alla chiesa di San Lorenzo o del Rosario annesso alla chiesa di Santa Corona.

Architetti e artisti del XVII e del XVIII secolo

Questo enorme cantiere - parallelo a quello della costruzione dei grandi palazzi cittadini - venne alimentato da botteghe di lapicidi (acquistarono fama quelle di Pedemuro, degli Albanese, dei Merlo), da architetti (come Guarini e Antonio Pizzocaro) e capomastri (i Borella), da scultori (i fratelli Marinali), da pittori (come i Maganza, Francesco Maffei, Giulio Carpioni) e da artigiani (falegnami, intarsiatori) che producevano gli arredi.

Seicento

Tra gli architetti spicca, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, Vincenzo Scamozzi. Dopo aver completato come scenografo il cantiere del teatro Olimpico progettato dal Palladio, progettò palazzi (come il palazzo Trissino al Duomo e il palazzo Trissino Baston) e ville (come la Rocca Pisana di Lonigo) con uno stile innovativo, imponente ma più sobrio e severo rispetto a quelli del Palladio. Mentre quest'ultimo aveva proposto palazzi teorici, idealizzati, lo Scamozzi risolveva le difficoltà di edifici costruiti su aree irregolari, costruendo con grande abilità pratica. Egli individuò un elemento cardine, la serliana - non inventata dal Palladio ma da lui resa famosa per l'utilizzo che ne fece nelle logge della Basilica[35]- che utilizzò nella maggior parte delle sue opere.

Giacomo Monticolo, architetto minore[36], disegnò la facciata della chiesa dei santi Filippo e Giacomo con una facciata estremamente sobria, tagliente, spigolosa. A partire dal 1641 Domenico Borella e i suoi figli realizzarono per i padri Somaschi il convento annesso a questa chiesa, nello stile militaresco e severo che sarebbe stato poi ripreso dal Pizzocaro[37]

Ottavio Bruto Revese realizzò il palazzo vescovile - rifatto completamente nell'Ottocento - in modo del tutto diverso dal Palladio; fu anche autore dell'arco di accesso al palazzo del Territorio e dell'arco trionfale fuori la porta del Castello.

Un'altra famiglia di architetti e scultori che avevano una bottega a Vicenza fu quella degli Albanese. Giambattista Albanese pensò una nuova tipologia di edificio religioso, partendo dalle chiese palladiane di San Giorgio e del Redentore a Venezia e di Santa Maria Nova a Vicenza[38]. Fu il modello utilizzato dal Pizzocaro ma, in generale, per tutto il Seicento a Vicenza e reiterato nei secoli successivi. Il fratello Girolamo, oltre a tante statue, costruì la chiesetta annessa alla Rotonda e probabilmente - essendo l'architetto di fiducia di Alessandro Trento - la villa Trento Capra a Costozza[39].

"Grande impresario e mente direttiva dell'architettura seicentesca vicentina" - così lo definisce Franco Barbieri - "Antonio Pizzocaro fu l'indiscusso protagonista di quella Vicenza in grigio dal fascino austero ma non priva, tuttavia, di qualche lucida impennata"[40].

 
Vicenza - Pianta di Vicenza di G.D. Dall'Acqua, 1711
Settecento

Uno dei primi interpreti del rinnovamento culturale nel Settecento fu Francesco Muttoni, un "foresto" che veniva da Cima di Porlezza (Lugano) e, giunto a Vicenza dopo un viaggio a Roma in cui era stto influenzato dalle opere del Borromini, rimase affascinato dai palazzi palladiani. Compì estesi studi sulle opere del Palladio, che gli diedero la possibilità di traghettare Vicenza fuori dalle secche dello stile severo, proponendo un nuovo linguaggio che reinterpretava, secondo il gusto del tempo e dopo l’esperienza barocca, le soluzioni palladiane.

Il Muttoni esercitò la sua influenza sull’architetto veneziano Giorgio Massari quando questi, molto estroso e che difficilmente si rifaceva al Palladio, fu incaricato di progettare villa Cordellina di Montecchio Maggiore. Nel 1730 il Massari firmò il progetto della chiesa di San Filippo Neri - dove la facciata è una rielaborazione dell’idea palladiana – chiesa che fu completata un secolo più tardi su progetto di Ottone Calderari. Nel 1750 costruì il palazzo Vecchia Romanelli, un edificio costruito sull’antica cinta muraria altomedievale, caratterizzato dall’avere facciate su piani di livello molto diverso. La sua originalità sta nell’essere cerniera tra la città vecchia e il Borgo di Porta Nova: in un contesto di valorizzazione del borgo, ad esso si rivolge la facciata più rilevante, mentre quella rivolta alla città è più sobria, più scamozziana.

Enea Arnaldi rappresentò l'aspetto erudito e polemico della cultura illuminista vicentina; la sua notorietà è legata alle doti polemiche con cui, succedendo a Ottavio Bertotti Scamozzi, egli condusse la difesa della tradizione palladiana a Vicenza.

Ottavio Bertotti Scamozzi fu uno dei più illuminati interpreti del palladianesimo nel Settecento, ma filtrato attraverso le lezioni dello Scamozzi e il suo sentire personale. Domenico Cerato fu attivo più in altre città venete che non a Vicenza.

Ottone Calderari, grande interprete del Settecento, forse più d’ogni altro si avvicinò al Palladio. Lavorò quasi esclusivamente a Vicenza, dove realizzò il palazzo Bonin in Borgo di Porta Nova, il palazzo Loschi Zileri Dal Verme in corso Palladio, il palazzo Cordellina in contrà Riale, l'opera 1774 più impegnativa nata da un'idea megalomane. Tra il 1776-78 si dedicò alla costruzione dellavilla Porto Casarotto ai Pilastroni, altra idea megalomane completata solo in parte; entrambe segno di una nobiltà esausta che ancora si illudeva nel momento in cui la Repubblica di Venezia era ormai alla fine.

Età contemporanea

Un nuovo modo di pensare città e territorio

Rispetto ai quattro secoli trascorsi sotto il dominio della Serenissima, nel momento del passaggio sotto l'impero austriaco il ruolo della città era ormai profondamente mutato: non più quello di una piccola signoria di campagna, quanto piuttosto quello di capoluogo amministrativo di una provincia, più vasta di prima perché comprendente anche l'altopiano di Asiago.

Era cambiata anche la classe sociale dominante: non più quell'aristocrazia cittadina di proprietari terrieri che con i patti di dedizione si erano assicurati un insieme di privilegi nei confronti della campagna,  ma una classe emergente di imprenditori - molti dei quali residenti nell'alto vicentino, dove avevano creato le prime industrie tessili - e di commercianti che intendevano investire i proventi.

L'apertura della città e lo sviluppo dei borghi

Di conseguenza, le esigenze della città dal punto di vista urbanistico cambiarono rapidamente. Se già nel Sei-Settecento erano stati aperti nuovi varchi nelle mura, agli inizi dell'Ottocento le esigenze di entrare e uscire dalla città - ma anche di snellire il traffico interno - si fecero sempre più pressanti. Verso la metà del secolo la costruzione della ferrovia e del ponte di Santa Libera dilatarono la città verso sud rendendo anche psicologicamente obsoleta la cinta murata.

D'altronde le mura, le porte e i fossati non servivano ormai più alla difesa della città: la loro ormai accertata inutilità fece sì che non si curasse più la manutenzione di ciò che restava e così si aggiunse un ulteriore problema: il restauro diventava sempre più costoso e chi doveva prendere delle decisioni in proposito preferiva indirizzare i finanziamenti ad altre forme di sviluppo più congeniali ad una città moderna. Nel Novecento, poi, si aggiunse un traffico veicolare sempre più intenso, per cui le antiche porte risultarono del tutto insufficienti.

Conservatorismo asburgico e normalizzazione

Alla fine degli anni 40 Vicenza fu collegata alle altre città padane con la ferrovia; il 15 gennaio 1846 fu inaugurata la Padova-Vicenza e il 5 luglio 1849 la Vicenza-Verona. Entrambi i tratti erano stati costruiti dalla Società delle strade ferrate lombardo-venete nel 1852 furono acquistati dallo Stato[41].

Dagli inizi dell'Ottocento, però, era mutato anche un altro aspetto. Si era ormai concluso il tempo in cui la città dominava la campagna e le famiglie nobili si comportavano come signori del territorio; ora Vicenza era diventata soltanto il capoluogo della provincia e, soprattutto nella fascia pedemontana, stava crescendo una nuova classe sociale di imprenditori.

La cinta murata, che per secoli aveva rappresentato la distinzione tra città e campagna, tra ricchezza e povertà, tra cultura ed ignoranza, tra centro del potere politico e religioso e sottomissione, perse il valore simbolico che aveva avuto per molti secoli. Nel secondo dopoguerra, quando la città si espanse enormemente con la creazione di nuovi quartieri residenziali, una miriade di piccole e medie imprese sparse sul territorio, una rete viaria intasata dal traffico che richiedeva tratti di circonvallazione sempre più esterni, le antiche mura divennero solo un ricordo, un reperto per chi si sentiva legato ad un passato che non esisteva più, a malapena tollerato da chi ormai proiettava i propri interessi verso la modernità.

Alla fine del Settecento la situazione della rete idrica in città si stava notevolmente modificando. La roggia Seriola non riusciva più ad assolvere alle sue funzioni, come nei secoli precedenti, per le troppe derivazioni e l'incuria nella manutenzione[42].

Nell'Ottocento, con l'avvento del vapore, cambiarono radicalmente le modalità di comunicazione e la natura stesso dei traffici. Non più utili per i trasporti e poco per la forza motrice che azionava i mulini, l'importanza dei fiumi fu limitata all'approvvigionamento idrico e semmai furono più evidenti i problemi che essi creavano con le frequenti esondazioni. La città d'altronde si espandeva ulteriormente, la costruzione della ferrovia modificava antichi tracciati, si allargavano ove possibile le strade, durante gli anni ottanta vennero sostituiti i due antichi ponti degli Angeli e di S.Paolo, gli unici che in epoca romana davano accesso alla città e ormai non erano più adeguati alle esigenze moderne.

Tra il 1870 e il 1880, per ridurre il pericolo delle esondazioni in città, l'acqua del Bacchiglione fu fatta scorrere in un canale artificiale (parallelo al corso del Retrone lungo viale Giuriolo) e la confluenza dei due fiumi fu spostata più a sud, all'inizio della Riviera Berica, di fronte alla chiesetta di S. Caterina in Porto[43].

Negli anni trenta del Novecento fu interrato il ramo antico della Seriola, quello che attraversava il quartiere di Porta Nova; nel 1935, in previsione dei lavori che avrebbero ristrutturato tutta la Piarda, fu interrata la Fossetta oltre ponte Furo, tolto il ponte canale e ripristinato lo scarico nel Retrone. Fino agli anni sessanta, il ramo della Seriola che scorreva a cielo aperto lungo viale Trento e viale Mazzini assicurava ancora acque pulite e fresche ai Giardini Salvi. Nel 1973, però, anche questo tratto fu coperto e il tombinamento ridusse la portata della roggia fino al punto da non garantire più il ricambio d'acqua ai Giardini. Così, alla fine del decennio, il percorso della Seriola fu nuovamente deviato e riportato a confluire nel Bacchiglione a nord della città.

Purtroppo, a causa della notevole urbanizzazione del dopoguerra, anche molti altri fossati e canali di scolo sono stati chiusi o intombinati e larghe aree di terreni una volta agricoli si sono trasformate in zone industriali, finendo per convogliare il deflusso delle acque, che dalla cerchia delle montagne e delle colline vicentine giungono in pianura, solo nei fiumi principali.

Borgo Pusterla

Borgo Berga e Campo Marzo

Borgo Santa Lucia

Gli architetti dell'epoca contemporanea

Ottocento

Bartolomeo Malacarne Visse ed esercitò la sua attività di architetto e urbanista sempre nella città di Vicenza, durante il periodo in cui la città era soggetta al Regno Lombardo-Veneto, a sua volta integrato nell’Impero austriaco, cui sentiva lealmente di appartenere[44].

Ultimo interprete del palladianesimo, si occupò del rifacimento di diversi complessi più antichi in forme neoclassiche (per questo molto criticato dal Barbieri, che lo definisce "ostinato seguace del Calderari nel sogno della città totalmente e solo classicheggiante e palladiana, nulla rispettando che si opponesse al suo proposito di moralizzazione")[45].

Quando nella primavera del 1816 il Comune decise di aprire il parco di Campo Marzo a pubblico passeggio in onore di Francesco d’Austria, egli progettò lo spazio e previde, tra l’altro, la creazione di un ampio stradone centrale - quello che fu poi chiamato viale Dalmazia o, nel linguaggio corrente, viale dei Platani - che portava dall’arco trionfale del Revese fino al fiume Retrone dove, nel 1823, fu costruito il nuovo ponte di Santa Libera per raccordare il viale ai portici del Muttoni che portavano al Santuario di Monte Berico[46].

Sempre in Campo Marzo, il Malacarne progettò il Caffè Moresco – distrutto durante l’ultima guerra mondiale - che risentiva del gusto esotico allora di moda - e si occupò del restauro dell’arco trionfale seicentesco del Revese che nel 1838, in occasione del ripristino della Fiera d’agosto, concesso da Ferdinando d’Austria, completò con un prospetto esterno secondo canoni neoclassici[47].

Il suo progetto più importante, quello che lo fece ricordare stabilmente alla città, fu la realizzazione del Cimitero Maggiore di Vicenza, iniziato nel 1816.

Giacomo Verda Palazzo vescovile

Novecento

Lo sviluppo urbanistico del Novecento

I piani regolatori della prima metà del secolo

 
Nella Mappa di Vicenza dell'Atlante Vallardi del 1880 si può notare come, a quella data, tutta l'area a nord-ovest di contrà San Francesco e San Bortolo era quasi priva di costruzioni e coltivata.

Nel 1907 il Comune acquistò - nella parte nord-est del Borgo, il terreno per creare un nuovo quartiere di case popolari. Il progetto iniziale, a cominciare dall'acquisto delle aree ex Zorzi, avrebbe dovuto essere sostenuto, dal punto di vista sia imprenditoriale che finanziario, dall'impegno congiunto pubblico e privato, mentre alla fine fu realizzato dal solo Comune, che ne sostenne l'onere e affidò l'intervento all'Azienda speciale municipalizzata. L'intervento viene considerato il primo qualificato piano urbanistico ed edilizio della prima metà del Novecento a Vicenza[48].

Occupando tutta la vasta area che va da contrà San Bortolo a viale D'Alviano, fu creata una trama di strade a raggiera, che confluivano su una nuova piazza triangolare (l'attuale piazza Marconi); nel 1909 erano stati costruiti 42 nuovi alloggi e nel 1911 altri 8, mentre - mancando il sostegno dei finanziatori privati - non furono realizzati i servizi sociali previsti dal progetto, come l'ambulatorio medico, la casa dei bambini con doposcuola e il laboratorio femminile. Oltre alle strade interne, ricorrendo a modesti sventramenti degli edifici esistenti, furono create le due nuove vie di accesso alla strada principale del Borgo[49].

Una realizzazione particolare fu il cosiddetto casermone. Ideato dall'ingegnere Nicolò Secco, era costituito da quattro blocchi residenziali disposti intorno a un grande cortile rettangolare; rappresentava una soluzione innovativa - anche se tratta dai severi modelli della cultura asburgica - finalizzata a costruire case popolari all'interno della città, dove bisognava sfruttare al meglio i terreni, ormai divenuti molto costosi[50].

Nel 1911 il quartiere era completato e le nuove vie vennero intitolate a illustri scienziati italiani[51]. Un tronco dell'antica strada di circonvallazione - ottenuta dal riempimento della fossa delle fortificazioni progettate nel Cinquecento da Bartolomeo d'Alviano, fu intitolato al condottiero e segnò il limite moderno del quartiere.

Durante il ventennio fascista, a nord di viale D'Alviano furono costruiti nuovi lotti di case popolari: dapprima, negli anni venti, le case rosse fuori porta San Bortolo (l'attuale quartiere di San Bortolo); in un secondo tempo, a metà degli anni trenta e spostato più a ovest quello che fu chiamato Quartiere dei Savoia, dopo la guerra Quartiere dell'Unità d'Italia e infine, dopo la creazione della parrocchia, Quartiere San Paolo[52].

Nel luglio del 1940, in seguito a una deliberazione podestarile, contrà San Marco fu ridedicata al quadrumviro fascista Italo Balbo, con la motivazione che "mentre la denominazione di San Marco non traeva le proprie origini da alcun particolare avvenimento di interesse storico nazionale, ma dal semplice fatto che ivi esisteva una delle sette cappelle cittadine, nella contrada aveva sede la Federazione dei fasci di combattimento, motore dell'attività politica vicentina" (si trattava del palazzo Folco Franceschini, durante il ventennio la Casa del Fascio più grande d’Italia). Nel dicembre 1945 la Giunta municipale del CLN soppresse questo toponimo ripristinando quello precedente[53].

Lo sviluppo urbanistico di Borgo Berga e di Monte Berico

Durante il periodo fascista si ebbe il completo riassetto della Piarda con la concentrazione nell'area di alcune scuole (l'Istituto Magistrale "A.Fogazzaro", la Scuola elementare "Trevisan") e degli edifici dell'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, della Palestra "Umberto I", della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) e il campo per attività sportive lungo il Retrone. L'11 novembre del 1944 in località Ponte dei Marmi, ora intitolato viale Dieci Martiri, i nazifascisti fucilarono per rappresaglia dieci giovani vicentini prelevati dalle carceri di Padova.

Il piazzale della Vittoria Fino al 1920 dalla gradinata della basilica non si aveva la vista della città, nascosta da un dosso piuttosto alto, esistente laddove oggi vi è il piazzale della Vittoria; l'antica aspirazione dei vicentini, di dare alla chiesa un più ampio respiro e di poter spaziare con lo sguardo oltre questa barriera sulla sottostante città, non era mai stato realizzato per l'enorme costo che lo sbancamento avrebbe comportato.

Questa intenzione poté concretizzarsi dopo la fine della prima guerra mondiale, quando si costituì un Comitato cittadino per dare corpo al comune sentimento di riconoscenza verso i caduti con la costruzione di un'opera grandiosa e solenne, che fu individuata, appunto, nella creazione di un piazzale sul quale poi costruire un qualche monumento commemorativo, un arco trionfale o un'ara.

Il Comune se ne assunse l'onere, un gigantesco sforzo economico a quel tempo - alla fine fu quantificato in 5 milioni milioni di lire - ma ne ricavarono un discreto beneficio anche quelle masse di operai che altrimenti, nell'immediato primo dopoguerra, non avrebbero trovato altra occupazione.

L'opera comportò la demolizione di 120.000 metri cubi di roccia, parte della quale fu trasportata sul declivio del monte verso settentrione; ne risultò un piazzale, largo in media 60 m. e con un'area complessiva di 6600 m²; alla fine piacque tanto che non si senti più il bisogno di collocarvi un ulteriore monumento. Sul lato occidentale trovò posto il monumento ai caduti del 1848, dello scultore Antonio Tantardini; di fronte venne murata una lapide di marmo con il Bollettino della Vittoria del 1918. Il piazzale fu solennemente inaugurata da Benito Mussolini il 24 settembre 1924[54]. È inserito nella lista dei monumenti nazionali.

Nel corso della prima metà del Novecento - sul terreno a gradoni prima coltivato a vigneto, come in un immenso anfiteatro aperto sulla città - tutto il versante nord del monte compreso tra il percorso delle Scalette e quello dei Portici e delimitato in alto da Viale Massimo d'Azeglio fu occupato da un nuovo quartiere di ville signorili e di case di civile abitazione, costruite con stili anche molto diversi tra di loro. È attraversato da due strade in salita, viale Dante e via Petrarca, alle quali il nome venne dato con deliberazioni comunali nel 1911[55].

L'architettura del ventennio fascista

La ricostruzione del secondo dopoguerra e l'espansione della città

Lo sviluppo urbanistico di Borgo Santa Lucia

Problemi e realizzazioni del secondo millennio

Gli anni Duemila

i piani regolatori del primo Novecento

  Lo stesso argomento in dettaglio: Borgo Berga § Anni Duemila.

Negli anni più recenti alcuni interventi edilizi di grande rilievo hanno modificato notevolmente l’aspetto, la viabilità e la stessa vivibilità del Borgo.

Nell’area compresa tra viale Margherita e il fiume Bacchiglione nel 2009 sono stati ultimati i lavori per la costruzione di un grande edificio, costituito da tre corpi paralleli con aule, sale riunioni e uffici, laboratori e biblioteca, in cui ha sede il Polo universitario di Vicenza delle Università degli Studi di Verona e di Padova[56].

All’altro capo del Borgo, nel 2004 è stata ristrutturata l'antica struttura del convento di San Silvestro che oggi ospita appartamenti destinati agli studenti universitari e altri alloggi dell’ESU[57].

Nella vasta area compresa tra il Bacchiglione ed il Retrone prima della loro confluenza, in precedenza occupata dall'ex cotonificio "Rossi", invece, è stata ultimata nel 2010 la costruzione, iniziata nell'estate del 2006, del nuovo Palazzo di Giustizia di Vicenza, intitolato al senatore Ettore Gallo. La struttura è destinata ad accogliere tutti gli uffici e le attività connesse ancora funzionanti nella sede di Santa Corona e quelli del Tribunale di Bassano del Grappa. Contestualmente al Tribunale sono stati realizzati nuovi edifici (in corso di ultimazione ad aprile 2013) sia direzionali/commerciali che residenziali, con un parcheggio da 500 posti auto.

La nuova ubicazione del Palazzo di Giustizia ha suscitato molte critiche, sia di tipo urbanistico che funzionale e paesaggistico-ambientale[58]; i problemi di traffico e di viabilità hanno provocato le proteste degli abitanti del Borgo, con la costituzione di un Comitato ad hoc[59].

Note

  1. ^ Cracco Ruggini, 1988,  pp. 205-303
  2. ^ Fatto ormai provato dai ritrovamenti in occasione di ripetuti scavi, dagli anni cinquanta del Novecento, nelle contrade Mure Porta Castello, Mure Pallamaio e Canove vecchie, Barbieri, 2011,  p. 6
  3. ^ Ghedini, 1988,  pp. 45-47
  4. ^ Due lacerti delle mura romane si trovano in Motton San Lorenzo e in contrà Canove vecchie
  5. ^ Il ponte romano, corrispondente all'attuale Ponte degli Angeli, così come il ponte romano sul Retrone corrispondente all'attuale Ponte San Paolo, furono demoliti a fine Ottocento
  6. ^ Una descrizione che può essere interessante per analogia - i Romani costruivano per modelli ripetitivi - è quella del Foro romano di Brescia
  7. ^ Come in contrà Porti, distrutto durante lavori di ristrutturazione
  8. ^ Il percorso e i recenti ritrovamenti sono descritti in: In corso Fogazzaro spunta anche l'acquedotto romano, su ilgiornaledivicenza.it. URL consultato il 25 ottobre 2012.
  9. ^ Per una descrizione dei ritrovamenti e gallerie fotografiche: Regione del Veneto - Musei archeologici, su archeoveneto.it. URL consultato il 25 ottobre 2012.
  10. ^ Compreso tra contrà Santi Apostoli, piazzetta San Giuseppe e via del Guanto
  11. ^ Le Goff, 1981, citato da Barbieri, 2011,  pp. 6-7
  12. ^ Barbieri, 2004,  p. 301
  13. ^ Barbieri, 2011,  pp. 6-9
  14. ^ Nella famosa veduta nella tela di Marcello Fogolino, la Madonna delle stelle nella chiesa di Santa Corona, appare - ancora nel Cinquecento - una Vicenza turrita isolata tra alberi e prati e sullo sfondo delle montagne: unica ad interrompere la solitudine e riproporre la presenza dell’umano e del divino, l’abbazia di San Felice
  15. ^ Barbieri, 2011,  pp. 9-14
  16. ^ Barbieri, 2004,  p. 310
  17. ^ Battista Pagliarini, Croniche di Vicenza, 1663
  18. ^ Corrispondeva allo spazio di fronte all'attuale Chiesa dei Servi.
  19. ^ Le prime corrispondenti all'attuale Piazzetta Palladio, dove si vendeva il pesce di fiume, mentre alle Pescherie Vecchie si vendeva quello di mare.
  20. ^ Corrispondente all'attuale contrà Cavour.
  21. ^ Lo stesso toponimo del Campo Marzo, a indicare una zona ancora paludosa
  22. ^ Corrispondente al tratto di corso Fogazzaro che va dall'incrocio con Pedemure san Biagio alla chiesa dei Carmini
  23. ^ Sono i palazzi dei Da Porto in contrà Porti, Sesso in contrà Zanella, i palazzi dei Braschi, dei Franceschini, dei Dal Toso e dei Da Schio (la Ca' d'oro) in corso
  24. ^ Tra questi, l'Ospedale di San Valentino presso il Retrone, casa Scroffa-Polazzo in contrà Piancoli, palazzo Squarzi-Micheletti in contrà Santi Apostoli, Guerra-Cabianca in contrà Cabianca, il palazzo Garzadori-Fattore in contrà Lioy e Arnaldi-Segala in contrà Pasini
  25. ^ L'unico, seppure tra i più belli, costruito un po' più lontano, nel borgo di San Pietro è il palazzo della famiglia Regaù, di non antica nobiltà
  26. ^ Secondo Barbieri, i palazzi vicentini sono i più belli tra quelli delle città di Terraferma soggette alla Dominante, per la fedeltà alla matrice e l'ampio respiro, Barbieri (3), 1990,  pp. 213-14
  27. ^ Tra gli scultori, da ricordare Antonino da Venezia e Giovanni Grandi da Como, Barbieri (3), 1990,  pp. 215-16
  28. ^ Barbieri (3), 1990,  pp. 220-22
  29. ^ Barbieri (3), 1990,  pp. 227-29
  30. ^ Nome desunto dalla sua opera L'Italia liberata, dove il Palladio è un onnipotente angelo
  31. ^ Aveva avuto grande successo con Le miniere della pittura del 1664 ripubblicato in Le ricche miniere della pittura veneziana del 1674, due guide di Venezia
  32. ^ Nel 1822, quando Giambattista Berti scrive una guida per Vicenza, afferma che l’architettura aveva vissuto un secolo – il Seicento - di torpore, ma ora si è risollevata, perché veniva rivista secondo le proposte dal Palladio
  33. ^ Accantonato il progetto di Guarino Guarini per il costo troppo elevato, fu utilizzata una copia della Basilica di Sant'Andrea della Valle in Roma, dell'architetto Giacomo della Porta che aveva realizzato anche la chiesa del Gesù, punto di partenza del barocco romano.
  34. ^ Che seppe coniugare al palladianesimo imperante nella zona gli stilemi del barocco romano
  35. ^ Il Palladio propose la serliana anche nella Villa Valmarana e nella Villa Pojana in sostituzione della loggia, ma non ne fece un elemento cardine della sua architettura
  36. ^ Più conosciuto per essere autore di una mappa della città nel 1611, con un taglio prospettico diverso dalla pianta Angelica che sarebbe durato fino a tutto il Settecento
  37. ^ Barbieri, 2004, pp. 353, 361
  38. ^ Egli ridussee la profondità delle facciate palladiane, data dal diverso sovrapporsi di piani prospettici e di rilievi architettonici; rifacendosi piuttosto agli insegnamento dello Scamozzi, scarnificò le facciate togliendo i rilievi e sostituendoli con lesene che non danno profondità ma solo ritmo. Altro elemento caratteristico i due grandi finestroni, solo intercolunni centrali per porta d'accesso e oculo che dà luce.
  39. ^ Questa fu attribuita al Pizzocaro, che però all'epoca della costruzione - il 1630 - era ancora troppo giovane
  40. ^ Barbieri, 1990,  p. 252
  41. ^ Geografia storica moderna universale, Napoli 1859, p. 576
  42. ^ Sottani, 2012,  pp. 193-97
  43. ^ F. Barbieri e R. Cevese, Vicenza, ritratto di una città., p. 28
  44. ^ Barbieri, 1993,  p. 31
  45. ^ Barbieri, 2004,  p. 145
  46. ^ Giarolli, 1955,  p. 136
  47. ^ Barbieri, 2004,  pp. 144, 150, 247-48
  48. ^ Soragni, 1988,  pp. 49-51
  49. ^ Via fra Paolo Sarpi, che si collegava a via Santa Maria Maddalena e via Torquato Tasso che si collegava a contrà San Bortolo
  50. ^ Soragni, 1988,  pp. 57-58
  51. ^ Una di queste strade fu intitolata a Emanuele Filiberto, Principe di casa Savoia che nel 1566 era venuto a Vicenza, ospite dei fratelli Giovanni e Guido Piovene nella loro sfarzosa casa all'Isola presso il porto delle barche. La strada fu reintitolata ad Alessandro Volta con una deliberazione del Commissario prefettizio nel marzo 1944 quando, in seguito agli avvenimenti dell'8 settembre 1943, fu dato l'ordine di "sostituire tutti i toponimi riferentisi a personaggi di casa Savoia, anche se da tempo scomparsi" Giarolli, 1955,  pp. 538, 542-43, 606
  52. ^ Giarolli, 1955, pp. 138, 608, 614, 631-32
  53. ^ Giarolli, 1955, p. 590
  54. ^ Giarolli, 1955,  pp. 539-41
  55. ^ Giarolli, 1955,  pp. 141, 341
  56. ^ Università a Vicenza, su univi.it. URL consultato il 2 ottobre 2012. e Università, su comune.vicenza.it. URL consultato il 2 ottobre 2012.
  57. ^ Residenza universitaria “San Silvestro”, su univi.it. URL consultato il 2 ottobre 2012.
  58. ^ Luca Faietti, Domenica Vicenza.it del 1 maggio 2010, su ladomenicadivicenza.it. URL consultato il 2 ottobre 2012.
  59. ^ Dossier, su comitatoborgoberga.blogspot.it. URL consultato il 2 ottobre 2012.

Bibliografia

Testi utilizzati
  • Franco Barbieri, Illuministi e neoclassici a Vicenza, Vicenza, Accademia Olimpica, 1972.
  • Franco Barbieri, Cartografia e immagini di Vicenza cinquecentesca e palladiana, Vicenza, Collana Carnet del turista (E.P.T.), Tip. Rumor, 1980.
  • Franco Barbieri, L'immagine urbana dalla Rinascenza alla Età dei Lumi, in Storia di Vicenza III/2, L'Età della Repubblica Veneta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1990.
  • Franco Barbieri, Tra Neopalladianesimo e Neoclassicismo, in Storia di Vicenza, IV/2, L'Età contemporanea, Vicenza, Neri Pozza editore, 1990.
  • Franco Barbieri e Renato Cevese, Vicenza, ritratto di una città, Vicenza, Angelo Colla editore, 2004, ISBN 8890099070.
  • Franco Barbieri e Mario Michelon, Palazzo Trissino Baston, sede municipale, Vicenza, 2005.
  • Franco Barbieri, Vicenza: la cinta murata, 'Forma urbis' , Vicenza, Ufficio Unesco del Comune di Vicenza, 2011.
  • Daniele Meledandri, Vicenza nuova: La difficoltà della scena urbana', in Storia di Vicenza IV/2, L'Età contemporanea, Neri Pozza editore, 1990
  • Ugo Soragni, Architettura e società dall'Ottocento al nuovo secolo: Palladianisti e ingegneri (1848-1915), in Storia di Vicenza IV/2, L'Età contemporanea, Neri Pozza editore, 1990
Per approfondire
  • Franco Barbieri e Mario Michelon, Palazzo Trissino al Duomo - Scamozzi a Vicenza, Vicenza, Angelo Colla editore, 1989.
  • Franco Barbieri, Vicenza gotica: il sacro, Vicenza, Collana Carnet del turista (E.P.T.), Tip. Rumor, 1982.

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