Utente:Distico/Sandbox/2


Il pensiero di Jean Sylvain Bailly potrebbe essere descritto in termini di duplice attrazione di scetticismo e credenza. Questi furono i due poli tra i quali fluttuava il suo pensiero. Qualche volta, come nell' Éloge de Leibnitz, egli era attratto dallo scetticismo. Altre volte invece, come nell' Histoire de l'astronomie ancienne e nelle Letters a Voltaire, sotto l'influenza di Court de Gébelin, egli lo respinse. A Voltaire scrisse: «Il dubbio deve avere limiti; non tutte le verità possono essere provate come verità matematiche».[1] Bailly sapeva comunque certamente dubitare ed essere scettico quando la ragione lo richiedeva. La partecipazione all'indagine ufficiale sul mesmerismo ne fu una prova, e gli permise anche di dissipare l'illusione che fosse un frère illuminé.
Contesto generale: il grand ordre
L'ottimismo naïve che portò alla rivoluzione francese era basato su una curiosa miscela di razionalismo e di illuminismo. È una leggenda ormai superata che i grandi philosophes - Montesquieu, Voltaire, Diderot, e Rousseau - fecero la rivoluzione. Questi leader culturali, teorizzatori della libertà politica, erano tutti morti da almeno dieci anni quando essa avvenne. La rivoluzione infatti fu fatta da una generazione successiva di uomini che, ovviamente, furono molto influenzati dalle idee di questi grandi filosofi, ma il cui pensiero era spesso molto meno chiaro, perché caratterizzato dai ripetuti tentativi di risolvere il dilemma essenziale del XVIII secolo, quello del progresso e del primitivismo, della pietà e del Pirronismo. L'umore filosofico di questa generazione trova espressione in quella che vari critici contemporanei chiamano grand ordre. Il grand ordre denota una filosofia di riforma basata sulla convinzione nella perfettibilità dell'uomo, nella virtù e nella felicità del mondo primitivo, nella corruzione e nella sofferenza del mondo moderno, e quindi nel bisogno pressante di una totale rivoluzione. La rivoluzione prevista dal grand ordre sarebbe servita per riportare letteralmente in auge, ovvero per ripristinare, l'età dell'oro attraverso la dissipazione dei pregiudizi, degli errori, della superstizione e con lo sviluppo delle arti, delle scienze, del commercio e dell'agricoltura. Era una filosofia eclettica, che differiva dal pensiero di Voltaire principalmente per l'assenza di scetticismo e da quella di Rousseau per l'assenza di qualunque valore morale reale.
Numerosi critici moderni si sono occupati di uno o più aspetti del grand ordre; tra questi Carl Becker in The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers, Auguste Viatte in Les Sources occultes du Romantisme, Auguste Le Flamanc in Les Utopies prérévolutionnaires e Daniel Mornet in Les Origines intellectuelles de la Révolution française 1715-1787.
Gli schemi utopistici della Francia prerivoluzionaria attraevano numerosi uomini illuminati, perché erano basati sulla scienza e sulla storia e perché indicavano di essere autentiche documentazioni delle grandi leggi cosmiche che, in qualche modo, legittimavano questa tensione a risalire all'origine stessa del mondo. I progenitori del grand ordre furono in effetti, sul lato razionalista, Cartesio, Newton, Leibnitz, Voltaire, e Buffon - gli scienziati, gli archeologhi e gli storici. Ma il grand ordre è stato anche strettamente legato alle società mistiche, i Rosacroce, i massoni, i seguaci di Swedenborg, e i quietisti, che predicavano la dottrina della chiesa interiore, del cripto-cattolicesimo e del millenarismo.
Non ci fu nessun grande leader del grand ordre e nessuno strumento per la sua propagazione. Il più curioso genio del grand ordre fu forse Antoine Court de Gébelin, la cui dottrina è stata definita da Bernard Faÿ come una miscela di «razionalismo filosofico e sentimentalismo filantropico». Come razionalista egli fu anche amico e collega di Benjamin Franklin e Voltaire; come mistico collaborò con Louis Claude de Saint-Martin, l'elegante e criptico teurgo di Lione.
Jean Sylvain Bailly, più conosciuto come presidente dell'Assemblea nazionale e primo sindaco di Parigi, era un discepolo di Court de Gébelin. Scienziato ed illuminista, conservatore e rivoluzionario, Bailly combinava le forze contraddittorie della sua generazione. Nato in un ambiente essenzialmente artistico, egli abbandonò l'arte per studiare la Fisica Newtoniana. Sotto la guida di Alexis Clairaut e Nicolas-Louis de Lacaille divenne un astronomo rispettato ed ottenne un ampio riconoscimento in tutta Europa per le sue ricerche sui satelliti di Giove. Ma, attratto dal mistero dell'antica astronomia, egli abbandonò gradualmente i telescopi in favore della penna da storico. Tra il 1775 e il 1787 egli pubblicò cinque grandi volumi sulla storia dell'astronomia antica e moderna, e tre lavori più brevi in cui cercò di ritracciare il percorso di sviluppo dell'uomo nel quale egli sostenne la teoria di un'età dell'oro primitiva. I lavori accademici di Bailly gli permisero di ricevere numerosi onori pubblici, inclusa l'appartenenza all'Académie royale des sciences, all'Académie française e all'Académie des inscriptions, così come accademie in Italia, Olanda, Germania, e Svezia. Allo stesso tempo però, le sue "speculazioni selvagge" sull'antichità lo coinvolsero in una serie di dispute scientifiche e letterarie in cui frequentemente Bailly si ritrovava a difendere l'indifendibile visione di Court de Gébelin e per questo motivo fu tacciato di essere un frère illuminé da alcuni philosophes; così ad esempio lo accusava il suo grande nemico all'accademia delle scienze Nicolas de Condorcet
L'investigazione sul magnetismo animale, con cui si screditò Mesmer, riportò Bailly di nuovo in contatto con la ricerca scientifica controllata, assieme a scienziati del calibro di Benjamin Franklin, Antoine-Laurent de Lavoisier o Joseph-Ignace Guillotin. La partecipazione alla stesura dei rapporti sull'Hotel-Dieu consolidarono la reputazione di Bailly come un campione riformista, e quando la rivoluzione scoppiò, egli fu tra i primi a servire la causa pubblica.
Impregnato dalle nozioni dell'Illuminismo, Bailly credeva che la Ragione potesse governare la rivoluzione, e fu sorpreso e mortificato nello scoprire sulla sua pelle che invece non era così. La sua ascesa dall'Assemblea elettorale di Parigi attraverso la presidenza prima del Terzo Stato, poi dell'Assemblea nazionale, per arrivare infine al municipio di Parigi terminarono improvvisamente quando, a Campo di Marte, ordinò alle truppe di sparare sulla folla. Due anni più tardi, all'inizio del Terrore, Bailly pagò per i suoi «crimini» con la testa.
La storia di Bailly è la storia di un savant del XVIII secolo, della sua erudizione, delle sue illusioni, del suo ottimismo e del suo fallimento; ed è la storia della realizzazione inconsapevole di una rivoluzione. Da uomo riflessivo, Bailly credeva nel concetto di progresso; la scienza lo ha portato ad accettare la sempre crescente egemonia dell'uomo sulla natura, e ad identificare questa egemonia con la felicità.
Era, però, troppo incline a ridurre le complessità della vita a semplici principi primi, sebbene accettasse l'impossibilità di dimostrare tutto come «verità matematica». Era infatti convinto che l'età dell'oro fosse esistita e sebbene sapesse che non poteva dimostrarlo rigorosamente, cercò in ogni modo di convincere e di convincersi della veridicità delle sue ipotesi. Era anche convinto, ugualmente, che essa sarebbe ritornata, e la rivoluzione fu per lui, come per molti altri contemporanei, il raggiungimento di questo sogno mistico/razionale, e fu la messa in atto, la creazione vera e proria, del grande ordre. Anche Bailly, infatti, da uomo del suo tempo, visse in sé l'eclettismo riformistico del grand ordre, e né subì la mistico-razionalistica contraddittorietà.
Pensiero scientifico
Il concetto di "rivoluzione scientifica"
Il concetto di "rivoluzione scientifica" emerse nel XVIII secolo proprio nei lavori di Bailly, che lo interpretò come un processo a due fasi: una prima, ovvero la distruzione di un sistema concettuale accettato; una seconda, ovvero la costruzione di un nuovo sistema.[2]
Gli scritti di Bailly pubblicati nel decennio antecedente alla Rivoluzione francese mostrano il grado che il concetto di "rivoluzione" aveva raggiunto nelle scienze, ovvero quella forma in cui, con delle variazioni, continuò ad essere percepito anche nel XIX secolo.[2] Nella sua Histoire de l'astronomie moderne Bailly descrive rivoluzioni scientifiche di ogni sorta e grandezza. Queste variano dall'ambito delle innovazioni rivoluzionarie nella progettazione e nell'uso dei telescopi, fino all'elaborazione del sistema copernicano e alla filosofia naturale di Newton.[2] A proposito degli ammodernamenti tecnici dei telescopi Bailly aveva in mente i miglioramenti dovuti all'aggiunta del mirino e, soprattutto, l'uso di calibri ad alta precisione come i micrometri, risalenti agli inizi del XVII secolo.[2]
A proposito di ciò Bailly scrive:
«Questa perfezione raggiunta dagli strumenti, questa precisione nella pratica, influenzò tutte le osservazioni in maniera abbastanza marcata da produrre una rivoluzione. [...] Questa rivoluzione, l'idea di questa applicazione felice, fu dovuta, secondo alcuni, alla bravura di Picard e d'Auzout.»
Nel passaggio Bailly loda gli astronomi Jean-Felix Picard, per l'invenzione del micrometro, e Adrien Auzout per i miglioramenti ad esso apportati.[2]
Bailly discute delle rivoluzioni del passato e della sua epoca, prefigurando anche rivoluzioni future.[2] In realtà egli non predisse alcuna rivoluzione in larga scala ma solo piccole rivoluzioni: in primo luogo l'introduzione di nuovi strumenti e di nuovi metodi computazionali (che riducessero al minimo le approssimazioni) — riprendendo quello che era già stato il sogno di Leibniz per i calcolatori — e l'invenzione di nuovi metodi di integrazione.[2] Non solo, Bailly predisse che prima o poi si sarebbe costruito un moderno rimpiazzo per l'orologio a pendolo.[2]
Già durante il Basso Medioevo, il termine "rivoluzione" incominciò ad acquisire particolari significati.[2] Non solo denotava il movimento dei corpi celesti attraverso orbite chiuse (o il tempo con cui il circuito dell'orbita veniva completato) ma anche una qualunque rotazione o un qualunque girare attorno o all'indietro rispetto a qualcosa, dalla rotazione circolare della ruota fino al senso figurativo del "ripensare", "riconsiderare", "ricordare".[2]
Al tempo del Rinascimento, la parola "rivoluzione" acquisì un significato più ampio. Incominciò ad includere anche il riferimento ad ogni ricorrenza periodica (o semiperiodica) ed eventualmente ad ogni gruppo di fenomeni che accadono in una serie ordinata di stadi ciclici. Ad esempio i flussi e i riflussi della marea, fino ad eventi sociopolitici come l'ascesa o la caduta delle civiltà e delle culture, iniziarono ad essere definiti "rivoluzioni". Tutti questi usi del termine erano ovviamente collegati al senso primario che la parola possedeva in astronomia e in geometria.[2]
Inoltre gli autori che, alla fine del XVII secolo parlavano di "rivoluzione" negli affari politici, economici e sociali, molto spesso avevano in mente una qualche forma di restauro, una sorta di "ritorno" ad una situazione d'origine, antecedente o, al più, il completamento di un ciclo. Locke, ad esempio, usò il termine "rivoluzione" solo due volte, ed in entrambi i casi riferendosi ad un ciclo politico che culminava con il ritorno ad uno stato precedente, o - relativamente agli stati costituzionali - il ripristino di antiche norme costituzionali.[2]
Anche nei lavori di Bailly è presente il vecchio concetto di rivoluzione ciclica, visto in ambito scientifico, assieme però ad un uso completamente nuovo del termine per indicare un cambiamento radicale e drammatico in campo scientifico, il più delle volte effetto del lavoro e dei pensieri di una singola persona, o di un piccolo gruppo di individui.[2] È il concetto, chiaramente elaborato, di una rivoluzione a "due fasi", applicabile alle rivoluzioni scientifiche in larga scala, in cui - secondo Bailly - c'è prima la distruzione di un sistema concettuale accettato, seguita poi dalla costruzione di un nuovo sistema.[2]
Ad esempio, anche se Bailly non usa la vera e propria espressione di "rivoluzione copernicana", non lascia alcun dubbio sul fatto che una delle più grandi rivoluzioni nel campo scientifico fu inaugurata (se non, addirittura, compiuta) da Copernico. Copernico, secondo Bailly, è il responsabile dell'introduzione di un nuovo, «esatto» sistema universale, proprio come Ipparco doveva essere accreditato come il fondatore di un «vero» sistema dell'astronomia. Bailly infatti definisce Copernico come «il rivoluzionario dell'astronomia fisica e l'autore del vero sistema del mondo»[4] e Ipparco come «il fondatore dell'astronomia vera [...] o almeno il suo restauratore» facendo intendere che le conoscenze astronomiche sarebbero potute anche appartenere ad un popolo antichissimo, la cui cultura, anche in ambito scientifico ed astronomico, andò perduta e che Ipparco, con i suoi studi, poté però far rinascere, almeno parzialmente.[2][5]
Bailly disse che un passo radicale fu fatto all'epoca di Copernico: si rese necessario, per l'uomo, dimenticare i moti che potevano effettivamente essere visti all'apparenza, al fine di essere in grado di credere in quei movimenti che invece in quei moti che non possono essere percepiti dall'uomo direttamente attraverso i sensi.[2]
«Dobbiamo dimenticare il movimento che vediamo, a credere in ciò che non percepiamo. C'è stato un uomo solo che ha osato proporlo... e non è tutto: è stato necessario distruggere il sistema precedente... e rovesciare il trono di Tolomeo. Uno spirito sedizioso dà il segnale e la rivoluzione si verifica. Copernico aveva raggiunto la vera sembianza del sistema, aveva osato spezzare il gioco dell'autorità tolemaica, e liberò così l'umanità da un lungo pregiudizio che aveva ritardato ogni progresso.»
Copernico quindi aveva adempiuto alle due funzioni necessarie che, secondo le norme implicite di Bailly, qualificavano il suo lavoro come una rivoluzione.[2] Egli minò l'autorità del vecchio (e accettato) sistema, istituendone uno migliore al suo posto. Per Bailly faceva poca differenza il fatto che il sistema copernicano non fosse altro che il ripristino del vecchio sistema di Aristarco («il sistema di Copernico non fu una creazione, ma un'adozione»[7] precisa Bailly nell'Histoire, puntualizzando che «l'opinione secondo cui è il sole che riposa al centro del mondo con la Terra in movimento attorno ad esso [...] è un'idea trasmessa da Filolao e adottata da Aristarco»[8]); quello che contava era solo il fatto che Copernico avesse rovesciato il giogo dell'autorità tolemaico-aristotelica istituendo un sistema dell'universo diverso da quello che «aveva ricevuto gli omaggi per quattordici secoli».[9]
Il concetto di Bailly di una rivoluzione a due stadi è ancora più evidente in un'altra delle sue presentazioni del lavoro di Copernico. Infatti, nel descrivere brevemente il passaggio dell'astronomia dai greci agli arabi, e dagli arabi agli europei, che avevano cominciato per primi a coltivare veramente questa scienza, Bailly scrive:
«Bernard Walther e Regiomontano, in Germania, costruirono nuovi strumenti e rinnovarono le osservazioni. Ogni qualvolta cambia sede, la scienza è soggetta ad un nuovo esame; le conoscenze trasmesse in altri paesi devono essere verificate: ma a quel tempo ci fu una rivoluzione che cambiò tutto. Il genio d'Europa si fece conoscere e si annunciò in Copernico.»
Nell'annunciare, per di più, che «Copernico aveva fatto un grande passo verso la verità» Bailly indica che «la distruzione del sistema tolemaico è stato un preliminare indispensabile, e questa prima rivoluzione ha preceduto tutte le altre».[11] Anche se Bailly non scrive espressamente che Copernico creò o iniziò una rivoluzione, non vi è alcun dubbio - dal testo, e soprattutto dalla frase precedente - che questa era la spina dorsale del suo discorso.[2] Non solo, è molto probabile che quella di Bailly è stata una delle prime volte in cui, in un testo scritto, si è fatto riferimento ad una rivoluzione scientifica associata a Copernico.[2]
In più di un capitolo della sua storia, inoltre, Bailly fa riferimento alla filosofia naturale di Newton in termini rivoluzionari. Così, dopo aver elogiato Newton per la sua modestia (a proposito della prefazione alla prima edizione dei Principia), Bailly scrive:
«Newton, più di ogni altro uomo, ha bisogno di essere perdonare la sua elevazione; ha preso un volo così straordinario, è ridisceso con delle verità così nuove, che gli fu necessario accompagnare gli spiriti, che altrimenti avrebbero potuto respingere queste verità. Newton inverti o modificò tutte le idee della sua epoca. Aristotele e Cartesio condividevano ancora il dominio [scientifico e culturale], erano i precettori d'Europa: il filosofo inglese distrusse quasi tutti i loro insegnamenti proponendo una nuova filosofia; questa filosofia ha generato una rivoluzione. Newton ha fatto, ma in un modo più morbido e giusto, ciò che hanno tentato qualche volta in Asia i conquistatori che hanno usurpato il trono; volevano cancellare la memoria dei regni precedenti, affinché il loro regno fosse epocale, affinché tutto ricominciasse con loro. Ma queste imprese d'orgoglio e di tirannia sono state generalmente infruttuose; esse non possono che riuscire se spinte dalla ragione e dalla verità, che ottengono questi vantaggi senza pretenderli.»
L'uso, in questo passaggio, di un'ampia panoplia assortita di una metafora politica è ben evidente nell'immagine dei conquistatori che usurpano e spazzano via con violenza ogni traccia dei loro predecessori, un'immagine che contrasta invece la ragione e la verità con le quali si è mosso Newton. Ma, ancora, è da notare che anche in questo caso, con Newton, per Bailly la rivoluzione scientifica agisce in due stadi.[2]
Bailly avverte i suoi lettori, però, che anche se «il libro dei Principia di Newton erano destinati a generare una rivoluzione nell'astronomia» era tuttavia vero che «questa rivoluzione non avvenne improvvisamente».[2][13]
Bailly però, apparentemente, non sembra aver applicato consistentemente i suoi "standard" nell'attribuire la dignità di "rivoluzione" ad altre radicali innovazioni in astronomia. Due esempi lampanti di innovatori geniali dell'astronomia che, per Bailly, comunque non meritavano il titolo di "rivoluzionari", furono Keplero e Galileo che comunque Bailly elogia come grandissimi «benefattori dello spirito umano».[2]
Anzi, il concetto di "rivoluzione scientifica a due fasi" non viene sempre adottato da Bailly. Le due fasi sono presenti nell'illustrazione di Bailly delle grandi rivoluzioni associate a Copernico e Newton, ma non alle rivoluzioni associate all'invenzione del micrometro, né per le altre innovazioni tecniche, anche quelle predette da Bailly.[2] Potrebbe sembrare che il concetto di "rivoluzione scientifica a due stadi" fosse un requisito solo per le rivoluzioni in larga scala, come l'introduzione di un nuovo sistema universale (Copernico), o di una nuova filosofia naturale, e di una nuova dinamica e meccanica celeste (Newton).[2] Ma Bailly non attribuisce la qualifica di "rivoluzione" — expressis verbis — al lavoro di Ipparco, di Galileo o di Keplero.[2] Per descrivere Keplero e Galileo Bailly continua ad usare metafore e immagini storico-politiche. Dopo una vivida descrizione dei risultati di Keplero, Bailly si rivolge a Galileo, e riferendosi ad entrambi scrive: «Tutti e due onorati da scoperte fondamentali, tutti e due ugualmente benefattori dello spirito umano, si elevarono alla stessa altezza e condivisero la stessa ammirazione degli uomini, come in precedenza i Cesari di Roma, seduti su due troni simili, hanno condiviso l'impero del mondo».[14]
Keplero per Bailly ha soddisfatto la qualifica della "doppia fase" rivoluzionaria, dal momento che aveva prima «distrutto tutti gli epicicli che Copernico aveva lasciato sussistere» prima di introdurre i propri concetti di orbite ellittiche e di moto secondo le tre leggi di Keplero.[2] Bailly si esprime sulla sua importanza, scrivendo «il privilegio dei grandi uomini è quello di cambiare le idee, e di annunciare le verità, e diffondono la loro influenza ai restanti secoli. Per questi due titoli Keplero merita di essere guardato come uno dei grandi uomini che sono apparsi sulla terra».[15] In effetti Keplero è, per Bailly, «il vero fondatore dell'astronomia moderna».[15] Nonostante tutto ciò Bailly comunque, inspiegabilmente, non considera che il lavoro di Bailly avesse costituito una "rivoluzione". E lo stesso vale per Galileo Galilei, che prima dovette distruggere le nozioni aristoteliche universalmente accettate sul moto (includendo anche la distinzione tra il moto naturale e violento e la «ridicola», secondo Bailly, distinzione tra i corpi "naturalmente" pesanti e quelli "naturalmente" leggeri) prima di introdurre le sue leggi del moto accelerato e dei gravi, la risoluzione e la composizione del moto (ad esempio come trovare la traiettoria parabolica dei proiettili).[16] Ma tutto ciò apparentemente, anche in questo caso, non meritava per Bailly, la designazione di "rivoluzione".[2]
La stessa sorte è toccata a Cartesio. È degno di nota il fatto che, anche se Bailly apprezzava pienamente i notevoli contributi scientifici di Cartesio, non ha comunque trovato le innovazioni cartesiane degne di essere considerate rivoluzionarie.[2] Bailly infatti riteneva che le osservazioni astronomiche fatte ponessero naturalmente la questione delle cause: «È stata un'idea sublime l'aver osato applicare le leggi del movimento generale dell'universo alle leggi del movimento dei corpi terrestri. Questa idea appartiene esclusivamente ai secoli moderni ed è dovuta principalmente a Cartesio».[2] Naturalmente, per Bailly, la teoria dei vortici di Cartesio era una cattiva spiegazione del peso e, in generale, del sistema del mondo, ma Bailly insistette sul merito di questa teoria perché voleva fornire, almeno, una spiegazione meccanica del mondo.[2] Inoltre, Bailly scrive che «ha scoperto che lo stesso meccanismo fa muovere corpi nel cielo e sulla superficie della terra; sebbene non abbia compreso questo meccanismo, non dobbiamo dimenticare che questo nuovo e grande pensiero è il frutto del suo genio. Quello che Cartesio ha proposto, Newton lo ha rispettato. Non bisogna rubare nulla alla gloria di questo grande uomo anzi, bisogna rendergli giustizia».[2][17] Per Bailly in ogni caso «se Cartesio ha aperto la strada ad altre scoperte grazie sue invenzioni geometriche, Keplero ha comunque ha lasciato più verità fisiche di lui. Cartesio ha osato di più, e la sua audacia è la misura della sua forza, lui non ha mai mancato di essere sempre più saggio; infatti sembrava ignorare i finti fatti accettati del suo tempo».[2][18]
In alcune occasioni, Bailly palesa anche la sua convinzione in un processo ciclico nello sviluppo dell'astronomia. Così una rivoluzione, anche per Bailly, potrebbe significare, in alcune occasioni, il ritorno ad una vecchia idea o un vecchio concetto o addirittura ad un vecchio principio.[2]
Bailly astutamente osserva che non si può assumere sempre che una qualche idea non sia "rivoluzionaria" soltanto perché la stessa idea era stata ipotizzata in precedenza e poi abbandonata. L'esempio che dà è abbastanza curioso: «La terra è uno sferoide, e la sua figura assomiglia a quella di un uovo. Varrone aveva già fatto una comparazione, senza dubbio in conseguenza di qualche idea superstiziosa degli antichi. La teologia pagana supponeva che il mondo avesse la forma di un uovo; questa non è la prima volta che la superstizione e il profondo sapere, pur per cammini opposti, siano giunti alle stesse conclusioni».[19]
Un'espressione più completa di cambiamento attraverso una rivoluzione ciclica è presentata da Bailly all'inizio del secondo volume della sua Histoire:
«Nello scrivere questa Histoire, vediamo da un lato che gli uomini di scienza, convinti della semplicità del meccanismo dell'universo, tendono costantemente a questa idea [di semplicità], anche scartando altre idee più complesse: vediamo dall'altro lato che questa idea è una delle più antiche che abbiamo conservato. La conclusione naturale è che alla fine torniamo dove siamo partiti: questa è la nostra attività, attraversiamo sempre un cerchio. Ma questo termine, questo primo inizio delle opere conosciute, doveva essere sé stesso la fine di una rivoluzione. La semplicità non è essenzialmente un principio, né un assioma, è il risultato di un lavoro; non è un'idea dell'infanzia del mondo, appartiene alla maturità degli uomini; è la più grande delle verità che l'osservazione costante strappa all'illusione degli effetti: questo non può essere che il resto di una scienza primitiva»
Il fatto che Bailly fosse a conoscenza del possibile processo di sviluppo ciclico nelle rivoluzioni scientifiche, così evidente a chiunque praticasse astronomia, non diminuisce comunque la convinzione con cui egli usa il termine "rivoluzione" anche in questi casi.[2] Così il concetto di rivoluzione come fenomeno caratterizzato da un cambiamento a due stadi piuttosto che ciclico non è così netto e anzi, entrambe le definizioni - secondo Bailly - possono coesistere, purché però il cambiamento generato sia di notevole entità.[2] Poi, dal momento che l'astronomo francese utilizza questa parola nella sua Histoire de l'astronomie moderne, si può concludere che da quel momento in poi la parola "rivoluzione" e il suo nuovo, più ampio, significato divennero pienamente accettati nell'ambito della storia della scienza e dell'analisi della crescita dei concetti scientifici, dei metodi scientifici, e dei sistemi di idee.[2]
Nel passaggio, inoltre, Bailly lascia intendere uno dei concetti più importanti della sua analisi storica della scienza: Bailly credeva che l'antica astronomia dei Caldei, degli Indiani, e dei Cinesi non fosse altro che un insieme di «macerie» della scienza di un «popolo anteriore» di cui si erano perse quasi completamente le tracce nel corso della storia. Questo popolo, per Bailly, «era stato distrutto da una grande rivoluzione».[21] La perdita delle idee astronomiche di questa antica civiltà poteva essere avvenuta, per Bailly, «solo a causa di una grande rivoluzione che ne distrusse gli uomini, le città, le conoscenze, non lasciando che detriti». Secondo Bailly, «tutto concorda nel provare che questa rivoluzione ha avuto luogo sulla Terra...».[22] Nella Table generale des matieres, ovvero l'indice, che copre sia i tre volumi della sua Histoire de l'astronomie moderne sia il singolo volume della Histoire de l'astronomie ancienne, i riferimenti a questa "rivoluzione" antichissima precedono addirittura i riferimenti alle rivoluzioni scientifiche dell'astronomia.[2]
Pensiero antropologico
Un sottoprodotto delle indagini sul magnetismo animale svolto da una commissione accademica presieduta da Bailly, fu una lettera scritta da Bailly, la Lettre à M. Leroy, Lieutenant des chasses, sur la question si les animaux sont entièrement privés d'imagination. Essa fu inviata il 23 settembre 1784 a Charles Georges Leroy, luogotenente della capitaneria di caccia del re, membro dell'Accademia delle scienze e autore di una delle prime opere etologiche.[23] Nella Lettre Bailly si interessa principalmente della questione legata alla presenza dell' "immaginazione" negli animali o se esso sia un tratto caratteristico unico degli uomini. Bailly scrisse: «Sento ripetere da ogni parte oggi, signor Leroy, che gli animali sono privi di immaginazione; è diventato un principio; in realtà è una questione aperta».[24]
L'uomo come "animale superiore"
In realtà però il trattato va oltre e diventa una vera e propria trattazione antropologica e spiega bene la visione che Bailly aveva dell'essere umano. Bailly era restio a pensare che l'uomo fosse solo una sorta di animale superiore, ma è a questa conclusione che lo portarono le sue argomentazioni. Egli inizia affermando che la differenza tra l'uomo e animale, è una differenza «ha a che fare con la nostra essenza immortale». Ma le somiglianze, ammette, superano le differenze. Se l'uomo e l'animale si assomigliano fisicamente, se hanno gli stessi organi che svolgono le stesse funzioni, se tutti i processi di pensiero possono essere tracciati dalle percezioni sensoriali, allora è possibile che gli animali sono capaci di pensare come l'essere umano.[24] Bailly definisce il pensiero come un duplice processo: memoria ed immaginazione. La memoria riceve e conserva le immagini e le impressioni; l'immaginazione invece le riproduce a volontà in nuovi arrangiamenti e sequenze. «Pertanto — scrisse Bailly — immaginare è come ricordare. La memoria e l'immaginazione sono differenziate solo dalla forza delle impressioni. La memoria è la storia delle cose, come cose passate. L'immaginazione è invece la pittura di cose presenti».[24] Ridotte a queste dimensioni, allora, la memoria e l'immaginazione degli animali non posso essere discutibili. Anche loro sono in grado dunque di pensare e di immaginare, ma ovviamente «con la misura e i termini imposti alla loro specie».[24] Bailly mostra in questa lettera il suo debito di gratitudine alle interpretazioni di La Mettrie (il primo ad aver ipotizzato, nel 1750, che l'uomo avesse avuto origine dagli animali) e a Condillac (esponente del sensismo secondo cui anche gli animali erano in grado di acquisire e memorizzare le esperienze). E quando Bailly suggerisce una differenza tra l'uomo e gli animali dice che essa esiste ad un solo livello: «la natura ha fatto tutto secondo uno stesso progetto, con delle leggi generali, e non differenzia se non con il più o il meno».[24] Ecco dunque, per Bailly la differenza sta nell'intensità di queste capacità; così come alcuni animali possiedono sensi migliori dell'uomo, l'uomo a sua volta ha capacità intellettive più sviluppate. Anche le specie animali, secondo Bailly, sono in grado di pensare, di avere dunque memoria ed immaginazione, anche se in misura molto inferiore a quelle dell'uomo. Ciò che fa prevalere l'uomo sugli altri animali è allora, secondo Bailly, «l'incontro di tutti i vantaggi e la superiorità di tutti i doni naturali». Mentre nelle altre specie le qualità (soprattutto sensoriali) sono irregolarmente distribuite, l'uomo non solo ha capacità sensoriali equamente distribuite, ma ha anche delle qualità intellettive che negli altri animali non sono mai così sviluppate.[24] «Quello che caratterizza peculiarmente la sua natura — dice Bailly riferendosi all'essere umano — è il potere di richiamare alla mente le sue innumerevoli sensazioni, di rinnovarle quando vuole con tutta la loro energia. L'animale ha memoria e immaginazione, e anche qualche barlume inventivo, ma solo quando le circostanze lo forzano a ricordare o ad immaginare, e quando l'urgenza richiede inventiva; invece l'uomo ricorda, immagina, inventa, per così dire, quando vuole».[24]
Pensiero gnoseologico e metafisico
Bailly fu certamente impressionato dalla qualità universale dei precetti di Leibniz e dalla forza delle sue conclusioni, e aveva imparato dallo stesso Leibniz a mettere insieme le prove più disparate e a trovare un denominatore comune. Scrive Bailly: «Questi fatti dimostrano fin troppo bene che l'uomo modifica per cause fisiche e morali; e tendono tutte verso un centro, che è l'uomo di natura... quanti usi, così diversi tra loro oggi, denaturati dal da tempo, hanno in realtà la stessa origine!».[25]
Nell'elogio, Bailly, per la prima volta, concepisce la civiltà come un grande fiume che scorre attraverso la storia, costantemente dentro di essa, senza mai diminuire la sua portata. E diventa sua propria ambizione prioritaria ritrovare la fonte di questo fiume, l'origine della civiltà, all'inizio dei tempi. Come Leibniz, Bailly guardava con stupore e meraviglia all'immenso quadro della conoscenza umana: paleontologia, geologia, botanica, anatomia, medicina, chimica e addirittura l'alchimia. Ma soprattutto Bailly era affascinato dal fenomeno del linguaggio, che definisce «la chiave di tutte le scienze».[26] Da Leibniz aveva imparato che il linguaggio degli antichi avrebbe rivelato «la loro origine e i loro legami fraterni»[27] e che «la lingua universale»[28] della scienza avrebbe reso di nuovo gli uomini tutti fratelli.[23]
Gli studi in astronomia e matematica avevano insegnato a Bailly la meravigliosa semplicità delle leggi fisiche naturali. L'unicità della verità era diventata un culto. La riduzione di tutto lo scibile alla formula matematica, l′omnia ad unum, il sogno di Leibinz, affascinava Bailly.[23]
Il metodo epistemologico di Bailly
Bailly capì ben presto però che non tutto poteva essere dimostrato come verità matematica, che non tutte le forme di conoscenza potevano essere ridotte a semplici formule matematiche. Spesso in realtà si doveva basare la conoscenza su altri criteri che, almeno nelle scienze non esatte, potevano indirizzare a forme, leggermente differenti, di verità.
«Il dubbio è sempre consentito nella scienza, è la pietra di paragone della verità. Tuttavia il dubbio deve avere dei limiti; non tutte le verità possono essere dimostrate come verità matematiche. Il genere umano avrebbe troppo da perdere se riducesse tutto a questa singola classe. Le testimonianze equilibrate, le probabilità ponderate, le storie raffrontate e chiarite le une con le altre, formano attraverso la loro unione una luce forte che può portare all'evidenza. E quando la filosofia con questi aiuti arriva a dei risultati fondati sulla natura delle cose e degli uomini, vi è ragione di credere e non di dubitare.»
Bailly scrisse, in una lettera a Voltaire, che il dubbio metodologico, deve avere dei limiti, e tutta la ricerca gnoseologico-epistemologica non può ridursi in puro esercizio di scetticismo in quanto non tutte le verità possono essere dimostrate come verità matematiche. Secondo lui, ci sono tre criteri utili per congetturare ipotesi plausibili in qualunque campo della conoscenza:
- le testimonianze equilibrate;
- le probabilità ponderate;
- le storie raffrontate e chiarite le une con le altre.
Questi tre criteri, secondo Bailly, sono una sorta di base di vraisemblance (ovvero la verosimiglianza). Un'ipotesi epistemologica generata a partire da questi criteri, infatti, pur non essendo spesso verificabile matematicamente è comunque, secondo Bailly, "verosimile", ed possiede una certa dignità gnoseologica. Come infatti lui stesso afferma, tali crtieri: «Formano attraverso la loro unione una luce forte che può portare all'evidenza».
Apparentemente, questo approccio appare plausibile e ragionevole nelle scienze non esatte come la paleoastronomia e la filologia comparata, di cui Bailly si occupava. L'astronomo Elio Antonello scrive a proposito di ciò: «Secondo me, ci sono dei problemi cruciali simili nei campi dell'astronomia culturale e nell'archeoastronomia. In particolare, il problema dell'intenzionalità delle orientazioni astronomiche degli antichi edifici: quando è possibile concludere che tale intenzionalità è evidente? C'è per caso una dimostrazione rigorosa?»
L'astrofisico Bradley Schaefer, nel 2006, aveva proposto quattro criteri ragionevoli e plausibili sull'onda di ciò che aveva detto Bailly. L'obiettivo di Schaefer era quello di rispondere proprio alla domanda fondamentale se si è in grado di dimostrare che gli allineamenti scoperti sono stati intenzionalmente costruiti nelle strutture:
- la significatività statistica degli allineamenti;
- le informazioni archeologiche che potrebbero portare all'intenzione;
- l'evidenza etnografica riguardante i desideri e le conoscenze dei costruttori;
- il caso astronomico per l'utilità degli allineamenti annunciati.
Verificando tali criteri era possibile secondo Schaefer stabilire l'intenzionalità degli allineamenti, che in questo modo secondo lui poteva essere dimostrata. Senza la prova dell'intenzionalità, infatti tutto quello che si avrebbe avuto sarebbe stato, citando Antonello, «un divertente mito urbano».
Secondo Antonello esiste una sorta di analogia tra i criteri generali di Bailly e quelli di Schaefer. Ad esempio infatti le proposizioni 2 e 4 possono essere messe in relazione con le «testimonianze equilibrate» di cui parlava Bailly, la proposizione1 con le «probabilità ponderate», mentre la 3 con le «storie raffrontate e chiarite le une con le altre».
Antonello afferma che come quelli di Bailly si potrebbe dire che i quattro criteri di Schaefer «formano attraverso la loro unione una luce forte che può portare all'evidenza»; eppure bisogna chiarificare il significato della parola "evidenza". Questa parola va giudicata rispetto all'asserzione di Bailly secondo cui: «non tutte le verità possono essere dimostrate come verità matematiche». Il senso della frase è chiaro: spesso, quando si ricerca la "verità" nelle scienze non esatte è lecito attendersi che non tutto possa dimostrarsi a partire da principi primi, ma attraverso l′empiria stessa, attraverso cioè una estensione del metodo galileiano che però permette di concludere solo sulla verosimiglianza delle ipotesi (quantificando quanto esse siano d'accordo con le evidenze sperimentali) e non sull'effettiva "verità" delle stesse.
Anche le espressioni "molto probabile" o "probabile" spesso usate dagli archeoastronomi o in generale da chi si occupa di scienze non esatte (Bailly preferirebbe dire "verosimile"), secondo Antonello «devono essere usate con molta cura, a meno che non sono supportate da metodi archeologici». Quali sono quindi le prove, le dimostrazioni e le evidenze nei campi delle scienze non esatte? Secondo lo stesso Antonello, «non c'è ancora una chiara risposta». L'antropologo Anthony Aveni (nel 2006) cercò di discutere in particolare il problema delle prove dell'intenzionalità, sottolineando i limiti e i possibili difetti dell'approccio di Schaefer (e dunque quello dello stesso Bailly), considerato da un punto di vista antropologico ed etnologico. In particolare, egli osservava che gli strumenti e i metodi delle scienze fisiche, non possono essere adattati alle scienze umane che, per loro stessa natura, non sono esatte. L'astronomo e archeologo Clive Ruggles (nel 2011), tuttavia, criticò una dichiarazione così forte, ricordando ad esempio che il «metodo scientifico aderiva alla perfezione agli studi sulla pittura rupestre». D'altra parte, Ruggles concluse che «identificare metodi affidabili per ponderare insieme i diversi tipi di dati che l'astronomo culturale è costretto ad affrontare in diverse situazioni, in modo da dedurre l'interpretazione "migliore", rimane contemporaneamente il più impegnativo e più opprimente problema di fronte alla nostra "interdisciplina" in futuro».
L'importanza della vraisemblance
Anche se Bailly ha alcune incomprensioni circa le idee metafisiche di Leibniz, finisce in generale per giudicarle benevolmente. Egli considera la metafisica come speculazione su domande senza risposta e, in quanto tale comunque, un'attività perfettamente valida plaudendo al fatto che il concetto di verosimiglianza, la vraisemblance, possa sostituire, in una riflessione metafisica, quello di verità inaccessibile.[30] In questo elogio Bailly, infatti, si impegna in un tipo di pensiero che era chiamato, in modo un po' sprezzante da i suoi contemporanei, esprit de système; e il criterio che usa, il suo metro di giudizio in tale tipo di pensiero, diventa proprio questo concetto indefinibile ed indispensabile della vraisemblance. L'applicazione di questo criterio alla metafisica di Leibnitz, tuttavia, permette a Bailly di far trovare spazio ad alcuni suoi dubbi. Sul sistema delle monadi dice ad esempio: «non giudicheremo il grado di verosimiglianza di queste idee: ma converremo che hanno sorpreso per la loro profondità e la loro sublimità».[31]
Sull′harmonie préétablie invece, con un tono un po' critico, si chiede: «forse questo sistema risolve un problema attraverso dei problemi insolubili?». Bailly fa riferimento al fatto che, con tale sistema, Leibniz voleva risolvere le difficoltà nascenti dalla rigida separazione cartesiana della res cogitans (il soggetto pensante, ovvero l’anima) dalla res extensa (la materia, la realtà sensibile, e in particolare il corpo), che rende inintelligibili i rapporti tra le due e quindi il processo della conoscenza e dell’azione.[32] Leibniz intende risolvere tali difficoltà concependo l’Universo come un sistema di monadi, ciascuna delle quali contiene in sé come rappresentazione, implicita o esplicita, la totalità delle altre (il cosiddetto omnia ad unum ovvero il "tutto in tutto"), e svolge tale rappresentazione in modo congruo allo svolgersi di quelle di tutte le altre monadi, pur senza influire direttamente su di esse e senza subirne l’influsso, in una universale harmonie préétablie. Secondo Bailly, probabilmente Leibniz risolve il problema creandone però degli altri, insolubili, citando le obiezione già fatte sul tema da Pierre Bayle sulla paradossalità dell'influsso causale del tutto in tutto.
La critica all'ottimismo tout-court
Bailly è invece solo leggermente critico quando si occupa del mal moral et physique e del concetto ottimistico, sempre leibniziano del «migliore dei mondi possibili»:
«Questo sistema dell'ottimismo consola, almeno per un momento, l'umanità spaventata dai disordini che la circondano; [è una] chimera brillante, il cui prestigio spazza via i mali, e li cede al dolore presente. Sublime filosofo, mentre ragioni, ascolta le grida che ti assediano; l'Asia schiavizzata si chiede se il genere umano è stato creato per [servire] cinque o sei tiranni; l'America, inondata del sangue dei suoi abitanti, [si chiede] se dei barbari avessero il diritto di ucciderli; e l'Europa, seduta su volumi di leggi, ti mostra che il crimine ha scosso la sua catena e che prevale ancora nel migliore dei mondi. Sii giusto, e vedrai l'uomo che va incontro alla morte, consumato dal lavoro e dalla malattia, trainare la sua vita sospesa tra paura e dolore. [...] Cieco, che parli di ordine e felicità, l'umanità piange accanto a voi e si mostra infelice!»
Questa accusa all'ottimismo non è affatto simile a quella che Voltaire aveva fatto nel Candido dove, con acuta ironia, ribaltava le teorie cristiane della vita dopo la morte e le teorie ottimistiche di stampo metafisico sulla vita umana prendendo di mira soprattutto la monadologia di Leibniz, secondo cui la divina bontà sceglierebbe sempre la migliore combinazione possibile tra le infinite combinazioni delle monadi che costituiscono in mondo. Bailly invece non solo considera la vita dopo la morte come un rifugio dall'oppressione terrena e dalla sofferenza ma contesta l'ottimismo solo per il fatto che esso è invraisemblable («inverosimile»), ma non per il fatto che derivi dalla speculazione metafisica.
Concezione storica e mitica
Durante la sua vita Bailly riuscì ad incarnare in sé sia l'establishment scientifico illuminista sia il processo rivoluzionario francese: insieme a Nicolas de Condorcet, suo grande rivale presso l'Accademia delle Scienze, Bailly era uno dei pochi rivoluzionari ad avere prima acquisito notorietà come philosophe e poi in campo politico. Ma la carriera di Bailly da intellettuale percorsa sia in ambito scientifico-astronomico, sia in ambito politico, mostra anche un nutrito interesse verso la storia e soprattutto illustra anche il tentativo da parte sua di trovare punti di convergenza tra la ricerca empirica e la speculazione mitologica. Condorcet infatti faceva riferimento al suo collega come «frère illuminé», alludendo alle presunte simpatie massoniche e metafisiche di Bailly, l'astronomo era ugualmente interessato sia di scienza sia di antiche tradizioni mitiche. Questo lato degli interessi di Bailly, sembrerebbe effettivamente in contraddizione con i suoi studi scientifici e fu per questo criticato dai suoi detrattori.[34][35]
Bailly era affascinato dal mondo preistorico, dal mondo mitico, soprattutto dalla tradizione di Atlantide. Questa sua attività di ricerca parallela fu, molto probabilmente, ispirata dall'opera a nove volumi di Court de Gébelin, Monde primitif, che pretendeva di descrivere in maniera dettagliata ed enciclopedica un mondo antico, preistorico ma abitato da una civiltà sofisticata e tecnologicamente avanzata.[34][35] Il progetto di de Gébelin si era anche legato al mondo semi-segreto della massoneria francese: molte delle caratteristiche e delle usanze che lui attribuiva all'antica civiltà descritta nella sua opera sembravano progettate più che altro per fornire una secolare e venerabile genealogia ai vari rituali massonici. Questa influenza massonica è un po' meno evidente nel caso di Bailly, anche se ci sono prove che testimoniano la sua presenza nella prestigiosa Loge des Neuf Sœurs, a cui erano appartenuti Benjamin Franklin, lo stesso de Gébelin, l'astronomo Jérôme Lalande, e anche (sebbene solo per qualche settimana prima di morire) Voltaire. La loggia in effetti univa vari rappresentanti dell'empirismo settecentesco e degli storici versati nella speculazione mitologica.[34][35]
Fu sotto questo duplice egida di scienza e speculazione mitologica che Bailly decise di abbandonare in parte l'osservazione astronomica al fine di concentrarsi sugli studi di storia e di mitologia e di scavare a fondo alle radici mitiche gli inizi della scienza, del progresso tecnologico ed anche delle conoscenze astronomiche.[34][35] Il suo primo lavoro di questo tipo, vagamente ispirato all'Essai sur les mœurs et l'esprit des nations di Voltaire, fu l'Histoire de l'astronomie ancienne, depuis son origine jusqu'à l'établissement de l'école d'Alexandrie del 1775. Un altro libro, simile, fu anche l'Histoire de l'astronomie moderne, depuis la fondation de l'école d'Alexandrie jusqu'àl'époque de 1730, apparso invece - come già ricordato - in due volumi nel 1779. In questi scritti Bailly formulò la tesi per la quale sarebbe diventato famoso: pre-datando alcuni casi e studi astronomici documentati dalle civiltà del passato, sostenne l'ipotesi che dovesse esistere una civiltà preesistente, "antidiluviana", che prima delle altre aveva eccelso in campo astronomico. Solo l'esistenza di questa civiltà precedente avrebbe infatti potuto spiegare come mai gli indiani, i caldei, i persiani e addirittura i cinesi avevano potuto sviluppare conoscenze e pratiche astronomiche intorno allo stesso periodo (3000 a.C.).[34] La tesi di una grande inondazione globale (l'episodio biblico del "diluvio universale") era ancora largamente accettata dalla comunità scientifica nel XVIII secolo: ad esempio Nicolas Boulanger, nella sua Antiquité dévoilée (1756), aveva tentato addirittura di dimostrarlo scientificamente adducendo varie prove geologiche; anche lui, come Bailly, aveva ipotizzato l'esistenza di una sofisticata civiltà antidiluviana. Bailly unì questa tradizione biblica con un altro classico mito legato all'oceano, il mito di Atlantide. Basandosi in gran parte sugli scritti di Platone, Bailly sostenne che la storia raccontata da Crizia nell'omonimo dialogo platonico, doveva essere presa alla lettera.[34]
Ma Bailly aveva introdotto un elemento importante in questa storia: invece di situare Atlantide nel suo omonimo mare, l'oceano Atlantico, oppure in Estremo Oriente, dove lo stesso Voltaire l'aveva posizionata, Bailly reputò più consistente l'ipotesi che Atlantide si trovasse oltre il lontano nord, al di sopra del circolo polare artico. Del resto a Bailly le osservazioni di alcuni eventi astronomici, che si trovavano negli annali e nei documenti dei vari popoli meridionali dell'Asia, sembravano invece più legati a delle indagini svolte a latitudini più elevate. Così aveva ipotizzato luogo sul globo in cui vissero i popoli primitivi di Atlantide, ovvero il Polo Nord, diversamente dall'ipotesi di Voltaire In passato, inoltre, secondo la tesi baillyiana, questa zona avrebbe conosciuto un clima molto più permissivo e perciò sarebbe stata più facilmente abitabile; e in più solo questo sito settentrionale avrebbe potuto spiegare i costanti ritornelli mitologici e le usanze comuni a tutte le tradizioni religiose delle civiltà antiche: spiegabili perché in realtà tutte le civiltà deriverebbero dall'unico ceppo comune atlantideo. Da questo luogo infatti, gli Atlantidei migrati a Sud, si stabilirono in India, per poi trasferirsi ad Ovest, oltrepassando e colonizzando dopo l'India, anche l'Egitto, la Grecia, per arrivare, infine, in Europa. Prefigurando Hegel, Bailly affermò che: «lo scettro della scienza deve essere stato tramandato da un popolo all'altro» (Histoire, 3). Il movimento di queste conoscenze scientifiche però, diversamente da come Hegel riterrà, non era avvenuto da est a ovest, ma, per Bailly, da nord a sud.[34][35]
Secondo Bailly, perciò, le popolazioni dell'Asia non erano state che eredi delle conoscenze di questo popolo antlantideo settentrionale, che aveva già sviluppato un'astronomia molto precisa. I cinesi e gli indiani, tanto rinomati per il loro apprendimento scientifico, non sarebbero stati per lui che semplici depositari.
Uno dei primi destinatari del lavoro di Bailly fu Voltaire stesso, che riconobbe la plausibilità delle sue tesi con una lettera incoraggiante (anche se leggermente sarcastica), che Bailly pubblicò assieme alla loro conseguente corrispondenza epistolare nella prefazione del libro del 1777, Lettres sur l'origine des sciences, et sur celle des Peuples de l'Asie, destinato proprio a Voltaire.[34][35] In questo testo, Bailly cercò di confutare la convinzione di Voltaire sul fatto che i brahmani fossero il più antico popolo del mondo e che, come Voltaire sosteneva, c'era ancora un grande paese, vicino a Benares, dove l'età dell'oro di Atlantide continuava ad esistere (Voltaire aveva sviluppato questa idea nella sua breve storia La princesse de Babylone). Bailly invece insistette per individuare Atlantide molto più a nord, localizzandola nella mitica terra di Iperborea, la cui capitale era Thule.[34][35] Questa terra doveva essere quella che aveva ospitato l'età dell'oro di cui poeti e storici antichi, come Erodoto o Esiodo, avevano narrato.[34][35]
Anche se intanto Voltaire era morto prima che potesse rispondergli dopo la pubblicazione, Bailly comunque pubblicò un ulteriore libro per difendere la sua tesi, le Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'histoire de l'ancienne Asie (1779).[34][35]
Successive speculazioni sulle tesi di Bailly
L'eredità lasciata da Bailly continuò a vivere anche dopo la sua morte. La sua tesi di una "Atlantide Iperborea" era stata sonoramente respinta in un primo momento. Ad esempio Jules Verne in qualche modo voleva anche prendere in giro Bailly in 20.000 leghe sotto i mari (1869), quando i suoi personaggi scoprirono la "vera" Atlantide nell'Oceano Atlantico. Ma una donna, Helena Blavatsky, prese molto sul serio le idee di Bailly. Blavatsky fu una delle teorizzatrici della teosofia, una dottrina mistico-filosofica, il cui credo fu precisato nel suo libro La dottrina segreta (1888). In questo lavoro ermetico, Blavatsky rispolverò la teoria di Bailly (citandolo addirittura ventidue volte[34]), e incorporò l'ipotesi di un "Atlantide Iperborea" all'interno di una storia fantastica che coinvolgeva i vari continenti e varie razze umane e semiumane. Atlantide era rappresentata come un continente polare che si estendeva dall'attuale Groenlandia fino alla Kamčatka e il suo destino si legò a quello di una razza particolarmente controversa: gli ariani, una razza superiore, seconda in ordine di tempo, costituita da giganti androgini dalle fattezze mostruose. Quando gli ariani migrarono a sud verso l'India, scaturì da loro una "sub-razza", quella dei semiti. Il mito di un "Atlantide Iperborea" fece così ingresso all'interno delle ideologie ariane ed antisemite della fine del XIX secolo.[34][35]
La teoria di Bailly-Blavatsky trovò sostegno tra alcuni degli ideologi ariani viennesi più fantasiosi.[36] Furono proprio questi circoli, come la società "Thule" (che prendeva il nome della mitica capitale di Iperborea), che fecero derivare molte teorie antisemite e ariane dal lavoro mitologico di Blavatsky, e indirettamente da Bailly. I membri della società Thule, in particolare, sono stati fondamentali nell'aiutare Adolf Hitler (che probabilmente aveva letto alcuni libri dei teosofi ariani viennesi quando viveva in Austria) nel fondare il NSDAP, il partito nazista. Uno di loro, Alfred Rosenberg, compagno vicino a Hitler durante gli anni in cui questi stette a Monaco di Baviera, aveva posto il mito di un Atlantide Iperborea al cuore di un suo voluminoso tomo dottrinale, Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo) del 1930.[36] Rosenberg iniziò questo lavoro assumendo come vera la passata esistenza di Atlantide nel lontano nord, riproponendo la tesi baillyiana:
«Tutto sommato, le antiche leggende su Atlantide possono apparire in una nuova luce. Sembra tutt'altro che impossibile che nelle zone in cui scorrono le onde dell'Atlantico e in cui fluttuano iceberg giganti, un continente fiorente sia salito una volta al di sopra delle acque e su di esso, una razza creativa abbia prodotto una cultura lungimirante e abbia inviato i suoi figli nel mondo, come marinai e guerrieri. Ma se anche questa ipotesi di Atlantide dovesse rivelarsi insostenibile, un preistorico centro culturale nordico comunque dovrebbe essere ancora supposto.»
Il mito di un "centro culturale nordico" ha permesso poi a Rosenberg, a partire da questa ipotesi, di accreditare la razza ariana come artefice tutte le grandi conquiste culturali nella storia umana: in momenti diversi nel tempo (in coincidenza con le più grandi fioriture della civiltà), gli ariani discesero dalla loro madrepatria nordica per realizzare le loro prospettive di vita nei climi meridionali.[36] La "prova" della superiorità ariana così poggiava su questa situazione geografica chiave: solo se posizionati nel Circolo Polare Artico gli Ariani avrebbero potuto reclamare plausibilmente ogni responsabilità sia per le realizzazioni orientali sia per quelle occidentali.[34][35][36]
Vi sono notevoli differenze tra Bailly e le interpretazioni di Rosenberg del mito di Atlantide Iperborea, e chiaramente non ha senso considerare Bailly un precursore del nazismo. Va però detto che egli non fu nemmeno totalmente innocente, pur muovendosi in un'ottica tipicamente illuministica.[34][35] Uno dei pochi storici contemporanei ad aver analizzato la preistoria speculativa di Bailly, Dan Edelstein, ha commentato: «Senza razionalizzare con esattezza la sua teoria, Bailly ha comunque cercato di dare il merito del progresso culturale orientale, all'Europa». Costruendo l'ipotesi di un popolo nordico responsabile per i successi culturali e tecnici dell'India e dell'Oriente, secondo Edelstein Bailly «ha con ultimo fine onorato il progresso e la superiorità occidentale, pur lodando i brahamani». L'Europa e soprattutto quella illuminata, insomma, è stata - per Bailly - il vero successore di Atlantide.[35][36] Con queste teorie, pur con tutte le successive differenze e i travisamenti, Bailly ha inconsapevolmente fornito ai movimenti nazionalisti più tardi, una potente narrazione e un valido materiale teorico che autorizzò in qualche modo un certo numero di ideologie razziste.[34][35][36]
Pensiero politico
Nella sua visione politica, Bailly sembra avvicinarsi a Voltaire, che sarebbe diventato più in là il suo nume tutelare, a Montesquieu e, soltanto in alcuni passaggi, Rousseau.[37] La visione contrattualistica invece riprende per certi aspetti John Locke.[23]
Una "monarchia costituzionale"
Grazie al materiale contenuto nelle sue Mémoires, abbiamo alcune informationi sulle visioni politiche di Bailly alla vigilia della Rivoluzione francese. Egli fu di sicuro profondamente influenzato dalle teorie politiche dell'Illuminismo. André Morellet elenca, in parte a torto, Bailly come uno dei membri più fortemente rivoluzionari dell'Accademia di Francia (infatti va detto che le dichiarazioni di Morellet erano comunque influenzate dalle sue tendenze ultramonarchiche).[38]
E soprattutto, in quanto re, Bailly lo vede come l'incarnazione della legge e il simbolo della volontà popolare. «Un re è la legge resa vivente» scrive Bailly.[39] Questi infatti, nella sua ora più rivoluzionaria, quando divenne prima presidente dell'Assemblea nazionale e poi sindaco di Parigi, non perse mai il suo rispetto per la legge, che egli considerava come un'estensione dei principi naturali. Secondo Bailly il sistema monarchico era, in una visione contrattualistica della storia ispirata da Locke, il compromesso che la saggezza umana aveva ideato tra gli eccessi dell'anarchia e quelli del dispotismo. Il monarca era il principale agente della legge. Se anche avesse potuto comandare tutto, era perché avrebbe comunque dovuto rappresentare la somma totale della volontà popolare; se tutti erano obbligati ad obbedirgli, era perché «loro stessi se l'erano proposto».[40] Questa cessione dei diritti della popolo alla volontà di un singolo individuo dipendeva dunque un patto, un vincolo sacro che imponeva al popolo di obbedire al monarca e al monarca di obbedire al popolo. Il monarca quindi aveva l'obbligo di essere giusto, buono e illuminato. In questo tratto la dottrina politica di Bailly riecheggia con forza quella di Montesquieu, Voltaire e Rousseau.[23]
Bailly elogia Carlo anche per la sua alta moralità. Il re infatti, in quanto incarnazione universale della legge, deve vivere egli stesso secondo una legge morale interiore, in modo che la sua condotta sia esemplare davanti al popolo. Qui, in effetti, si può leggere una previsione di quelle che poi sarebbero state le politiche che Bailly avrebbe portato avanti come sindaco di Parigi.[23] Altri motivi di elogio furono: la soppressione, da parte del re, del vizio nella capitale; il suo incoraggiamento all'agricoltura, all'industria e al commercio; e il suo interesse per l'educazione e l'apprendimento. Sull'importanza dell'educazione e della cultura, ben dimostrata dal re, Bailly scrive:
«Ha fondato questa biblioteca ormai così famosa e così bella. Oh [che] re... si deve ricordare che ha anche cercato la verità! Quella [verità] che è pura e genuina: [e l'ha cercata] non nella storia che ha divinizzato i tiranni, o che ha fatto appassire i grandi uomini, ma negli scritti dei saggi di tutte le epoche.»
Nel passaggio Bailly fa riferimento alla fondazione della prima Bibliothèque du roi presso il tour de la librairie dell'antico Louvre.[42]
Bailly era certamente insoddisfatto dell'autocratica ed irresponsabile monarchia francese. Oltre ad essere estremamente critico nei confronti del ministro delle Finanze Brienne e del controllore generale Calonne, Bailly rimproverò l'Assemblée des notables che si era riunita nel 1787 per il fatto che si era preoccupata solo dei propri privilegi ed interessi.
Bailly esaltò solo successivamente Necker e il re, Luigi XVI, come uomini responsabili per aver chiamato gli Stati Generali, e, quindi, per aver fornito alla nazione francese i mezzi per recuperare i propri diritti. Il suo ideale politico, che continuò ad avere durante tutto il periodo rivoluzionario, era la monarchia costituzionale, con un'autorità divisa tra il re e un'assemblea rappresentativa.
La diatriba contro la guerra
Ma Carlo V era anche un re guerriero, e Bailly, non esattamente un militarista, afferma: «Il ferro è malauguratamente l'arbitro delle nazioni».[43] Per giustificare comunque le guerre di Carlo, Bailly le interpretò come difensive, condannando al tempo stesso le guerre di aggressione e gli ingrandimenti territoriali.[23]
«Sento salire le voci dei sostenitori della gloria [militare], di questa vana gloria che genera la sfortuna del mondo: chiedono perché la verità non mescola con dei titoli così belli il titolo di "conquistatore". Perché? Perché il benefattore degli uomini non può anche esserne il distruttore! [...] Non è forse nello scontro tra gli imperi che il dispotismo si rinforza, e le catene dell'umanità si sovraccaricano? [...] Non siamo più ai tempi in cui sciami di barbari giungevano dai ghiacci del nord. [...] È stato allora che serviva un guerriero per fondare un impero; ma questo impero ormai è stato fondato, ed è il saggio che ha il compito di renderlo felice. Se la natura avesse creato solo degli eroi [di guerra], la terra sarebbe stata presto deserta.»
Bailly afferma, polemizzando contro gli effetti nefasti della guerra, che «se la natura avesse creato solo degli eroi di guerra, la terra sarebbe stata presto deserta».[44] Perciò un re che voglia dirsi «benefattore degli uomini non può anche esserne il distruttore», non può essere, cioè, un re-conquistatore che attui infausti conflitti.[44]
L'obiettivo politico di Bailly
L'obiettivo politico di Bailly, quando questi entrò in politica, fu parallelo a quello degli elementi moderati dell'Assemblea nazionale, lo stesso della maggior parte dei suoi colleghi nel governo municipale: ovvero una "rivoluzione limitata", quanto più libera possibile da spargimenti di sangue e disturbi d'ogni sorta e che, soprattutto, mantenesse la monarchia, anche se temperata da una carta costituzionale e coadiuvata da un'assemblea rappresentativa.[45]
Bailly inizialmente pensò, a torto, che il giorno della Presa della Bastiglia aveva segnato la fine definitiva della rivoluzione; in quel giorno infatti, scrive Bailly, la rivoluzione poté «essere considerata come completata...» specificando che «adesso mancherebbe soltanto fissare la questione dei poteri della Costituzione».[46] Nell'applicare tali misure, che erano necessarie per costruire un nuovo ordine politico, Bailly consigliava comunque «cautela». Per esempio, accettò in linea di principio i decreti dell'Assemblea del 4 agosto 1789 che aveva abolito molti dei privilegi feudali, eppure credeva che le misure adottate avrebbero dovuto essere rinviate fino a quando la situazione non sarebbe stata più stabile.[47]
In termini pratici il programma di Bailly coinvolgeva il mantenimento del monopolio politico da parte della classe media, attraverso l'esclusione dal potere dei gruppi privilegiati e delle classi inferiori non affrancate. Un principio cardine, quasi platonico, del suo credo politico era che la rivoluzione dovesse essere diretta e indirizzata dall'intellighenzia, dai lumières, ovvero dall'establishment scientifico.[48] Il «popolo», i "non illuminati", dovevano essere saldamente trattenuti e frenati da intellettuali ben più competenti di loro, in modo da essere "illuminarti" a loro volta. Commentando, ad esempio, l'inclusione dei Droits de l'Homme nella Costituzione nazionale Bailly, pur lodando le idee filosofiche di base, si espresse in modo critico: «stabilire una base costituzionale della dichiarazione dei diritti dell'uomo è un ottimo piano filosofico, ma queste idee metafisiche piuttosto che illuminare la moltitudine la inducono in errore. Questo infatti è un modo per isolare l'individuo e per fargli dimenticare che egli è circondato dai suoi compagni. Insegnargli i suoi diritti prima che i suoi doveri non fa altro che aprire la strada ad abusi di libertà e al dispotismo individuale».[49] Per Bailly è giusto che tutti i cittadini possano godere degli stessi diritti di libertà individuale, però bisognerebbe dare una certa priorità anche ai doveri costituzionali, per impedire che qualcuno, non "illuminato" dai lumi della Ragione, possa abusarne per fini dispotici personali.
Non solo, secondo Bailly, il suffragio doveva essere limitato ad una fetta ristretta della popolazione, ma anche il diritto di portare armi. Ogni uomo, per Bailly, prima di possedere armi dovrebbe avere abbastanza proprietà intellettuale da capire che «ha più da guadagnare sottomettendosi alla legge che violandola».[50] Mai durante i suoi due anni di mandato come sindaco di Parigi Bailly venne meno alla sua politica volta al duplice obiettivo di soffocare quelle forze che si sforzavano a prolungare la rivoluzione, e di prevenire che il potere dell'ancien régime potesse risorgere in modo da distruggere le conquiste rivoluzionarie che erano state ottenute.[51] Avere un re, limitato nell'autorità dalla costituzione, era una parte essenziale del programma rivoluzionario dei moderati come Bailly, eppure la devozione dello stesso Bailly nei confronti dell'istituzione regia era un principio fissato del suo credo politico. Non c'è dubbio sul fatto che questo attaccamento verso la monarchia fosse sincero, anche se Bailly non era affatto un assolutista ma un monarchico moderato.[52]
L'antirazzismo di Bailly
Il mito del buon selvaggio
Allo stesso periodo può essere assegnato l'ultimo elogio di Bailly, l′Éloge du capitaine Cook, dedicato al capitano James Cook, esploratore e cartografo britannico. Questo lavoro fu scritto per l′Académie de Marseille, che aveva proposto già dal 1780 Cook come soggetto di un prix d'éloquence.[53] Poiché tutte le iscrizioni ricevute furono giudicata insoddisfacenti, il premio fu posticipato di anno in anno fino a che non fu vinto, finalmente, dallo storico lionese Pierre-Édouard Lémontey nel 1789. I biografi di Bailly sono stati abbastanza vaghi sulla data di composizione dell'elogio a Cook,[54] che comunque non apparì alle stampe prima del 1790. Un elemento degli Année littéraire dell'ultima parte del 1786, comunque, offre delle evidenze quantomeno conclusive sul fatto che l'elogio fu scritto quell'anno o l'anno precedente.[53] Se il lavoro fu presentato nella competizione per il 1786, si potrebbe constatare che, quasi certamente, fu scritto dopo l′Éloge de Gresset, e non fu probabilmente revisionato a causa della pendenza degli altri lavori che Bailly aveva tra le mani, tra cui le mémoires per l′Académie des inscriptions, i rapporti delle commissioni accademiche sull'Hôtel-Dieu e sui mattatoi e, soprattutto, il Traité de l'astronomie indienne et orientale.[53] L'elogio a Cook non fu, per questo motivo, uno dei lavori di Bailly più riusciti; non dava abbastanza informazioni sul capitano, mancava di continuità e soprattutto, in certi casi, era contraddittorio. Ciononostante, mostrava alcuni tratti importanti del pensiero e dello stile di Bailly, il quale per la prima volta esibì un'inclinazione rousseauiana che non c'era nelle altre opere. Inoltre, con la sua prosa descrittiva, dietro il fascino di un soggetto esotico, Bailly mostrò, secondo alcuni critici, dei lampi di bellezza simili a quelli del romantico Chateaubriand.[53] Nell'opera è presente il primo e unico contributo di Bailly al mito del buon selvaggio. Questo elemento manca, sorprendentemente, dai suoi altri lavori, forse per la sua determinazione nel riabilitare una grande, ipotetica, civiltà antica come quella di Atlantide.[53] Anche quando parlò degli Indiani del Nord America, nell′Histoire de l'astronomie moderne, egli si astenne dalle generalizzazioni sulla loro morale, senza specificare nemmeno se fossero più felici o più infelici rispetto agli europei. Nell'elogio del capitano James Cook, però, le sue dichiarazioni sono inequivocabilmente rousseauiane: «Le nazioni del mare del sud mostrano che l'uomo è buono se proviene direttamente dalle mani della natura. Mi piace dipingere le anime ingenue e pure degli abitanti di Thaiti, gente amica della pace, gente che vive senza barba, ricchi solo doni della terra, liberi nei loro desideri e nei loro piaceri, che non conoscono né l'interesse né l'odio, buoni senza morale, giusti senza legge; questo popolo ha, come nell'infanzia, degli affetti dolci e la tipica virtù dell'innocenza; e conosce, come nell'infanzia, i piaceri vivaci e solo lievi dolori. Questo stato dell'infanzia umana è l'età dell'oro dei poeti».[53]
Pensiero economico
Bailly inoltre si preoccupa particolarmente degli aspetti economici del regno di Carlo e analizza in dettaglio le sue politiche fiscali. Carlo è lodato per aver recuperato i doni eccessivi, dati in forma di terra e subsides (sussidi), con cui i suoi predecessori avevano acquistato l'appoggio della nobiltà. Allo stesso tempo l'autore fa risferimento alla raccolta equa ed efficiente delle tasse, che era stata a lungo fonte di corruzione e di spoliazioni del tesoro nazionale.[23]
Inoltre, il re è elogiato perché praticò l'economia di stato in tempi prosperi e la spesa pubblica in tempi di sventura.[23] Bailly è ansioso di vedere lo governo economizzare, senza però per questo impedire al re di essere generoso se vuole: «la saggezza decide il momento in cui l'economia diventa una virtù».[55]
Bailly si rende conto che una spesa pubblica intelligente può creare capitali di ricchezza e appianare i punti di massima causate da alternanza tra periodi di scarsità e abbondanza. «L'imposta non è mai pesante quando è destinata alle spese della nazione, rifluisce la nazione stessa e va ad alimentare la fonte da dove è venuta».[55]
Per quanto riguarda il valore monetario della valuta, Bailly mostra degli istinti conservatori, ammettendo che è preferibile difendere le ampie fortune dalle incursioni dell'inflazione.[23] L'inflazione, infatti, calcolata per consentire allo Stato di far fronte ai propri impegni, per Bailly non poteva che avere effetti disastrosi per l'economia: serviva solo per rovinare i creditori a beneficio dei debitori. Gli effetti sarebbero stati nefasti: i poveri sarebbero diventati troppo potenti; il tesoro dei ricchi sarebbe diventato il loro oro; il commercio sarebbe entrato in crisi, e la fede delle persone (in tutti i sensi) sarebbe stata scossa. Carlo viene elogiato anche perché, a differenza dei suoi predecessori, evitò l'imprudenza di emettere denaro a basso valore che Bailly definisce una «risorsa vergognosa e momentanea».[56]
Le idee economiche di Bailly sono riconducibili, forse, a due opere economico-filosofiche che erano apparse nel 1763: il libro dell'abate Nicolas Baudeau Idées d'un citoyen sur l'administration des finances du roi (pubblicato ad Amsterdam) e il libro di Roussel de la Tour La Richesse de l'état. Questi due autori proponevano modi e mezzi fattibili per tagliare le spese ed aumentare le entrate e chiedevano specificatamente l'abolizione di numerosi privilegi feudali e i numerose tecniche di riscossione che favorivano la ricchezza delle famiglie nobiliari a svantaggio della nazione.[23]
Bailly non era certamente un economista rivoluzionario nel 1767, né era un esperto banchiere come Necker, ma l'insinuazione di tali idee economiche in un Éloge dedicato ad un sovrano francese è la prova evidente che egli era bene informato in materia economica, e su di essa aveva delle idee molto precise. Bailly, ormai, aveva capito infatti che numerosi mali dell'economia dipendevano dall′ancien régime e dagli antichi retaggi e privilegi, soprattutto di natura economica, che erano concessi ai nobili, e che non potevano che sfavorire il sistema economico nazionale.[23]
Note
- ^ Jean Sylvain Bailly, Lettres sur l'Atlantide de Platon.
- ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z aa ab ac ad ae af ag ah ai aj ak I. Bernard Cohen, The Eighteenth-Century Origins of the Concept of Scientific Revolution, in Journal of the History of Ideas, vol. 37, n. 2, 1976, pp. 257–288, DOI:10.2307/2708824, JSTOR 2708824.
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, 6, XVII, 272-273.
- ^ Histoire de I'astronomie moderne, I, volume 9, I, 337
- ^ Histoire de I'astronomie moderne, I, volume 3, I, 78
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, I, 9, III, 337.
- ^ Histoire de I'astronomie moderne I, libro 9, XXI, 363
- ^ Histoire de I'astronomie moderne I, libro 3, II, 78
- ^ Histoire de I'astronomie moderne I, libro 9, III, 337
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, III, Discours VI ("Resume general"), prima parte "Des progres que l'astronomie a faits", 320
- ^ Histoire de l'astronomie moderne III, Discours VI ("Resume general"), prima parte "Des progres que l'astronomie a faits", 321
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, libro 12, XLII, 560-561
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, volume II, libro 13, I, 579
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, 2, libro 1, XLIX, 75-76
- ^ a b Histoire de l'astronomie moderne, 2, libro 1, I-II-III, pp. 2-5
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, libro 2, II, 79
- ^ Histoire de l'astronomie ancienne, "Discours préliminaire", XI
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, 4, XI, 192
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, libro 12, XXVI, 519
- ^ Histoire de l'astronomie moderne, II, libro 1, I, pp. 3-4
- ^ Histoire de l'astronomie ancienne, libro 1, XII, pp. 18-19
- ^ Histoire de l'astronomie ancienne, libro 2, XXVI, 59
- ^ a b c d e f g h i j k l Edwin Burrows Smith, Jean Sylvain Bailly: Astronomer, Mystic, Revolutionary (1736-1798), American Philosophical Society (Philadelphia, 1954).
- ^ a b c d e f g Jean Sylvain Bailly, Lettre à M. Leroy, Lieutenant des chasses, sur la question si les animaux sont entièrement privés d'imagination (Parigi, 1784).
- ^ Jean Sylvain Bailly, Discours et mémoires, 1: 189
- ^ Ibid., 1: 196
- ^ Ibid., 1: 197
- ^ Ibid., 1: 198-201
- ^ Bailly, Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'ancienne histoire de l'Asie , 1779; pp. 6-7, nota ad una lettera di Voltaire
- ^ Bailly, Eloge de Leibitz, 1: 216
- ^ Ibid., 1: 224
- ^ Ibid., 1: 225
- ^ Ibid., 1: 229-230
- ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q Jean-Sylvain Bailly (1736-1793) by Dan Edelstein
- ^ a b c d e f g h i j k l m n (EN) Dan Edelstein, Studies in Eighteenth-Century Culture, 2006.
- ^ a b c d e f (EN) Nicolas Goodrick-Clarke, The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology, 1985.
- ^ Il catalogo della biblioteca di Bailly mostra che questi possedeva tutte le opere di Montesquieu, Rousseau, e Voltaire così come di numerosi altri pensatori contemporanei; però si deve pur sempre ricordare che tutto ciò rappresenta lo stato della biblioteca alla fine della sua carriera e non al periodo in questione.
- ^ Abbé Morellet, Mémoires inédits de l'Abbé Morellet sur le dix-huitème siècle et sur la Révolution, précédés de l'éloge de l'Abbé Morellet par M. Lemontey ( Paris, 1822), I, 424.
- ^ Bailly, Eloge de Charles V, 1: 9
- ^ Ibid., 1: 3
- ^ Ibid., 1: 21
- ^ Un inventario di questa biblioteca fu scritto e pubblicato da Van-Praet nel 1835
- ^ Jean Sylvain Bailly, Discours et mémoires, 1: 20
- ^ a b c Jean Sylvain Bailly, Discours et mémoires, 1: 23-25.
- ^ L. de Labori, in Jean-Joseph Mounier, sa vie politique et ses écrits (Parigi, 1887), p. 75, cita Mounier che constata la visione politica di Bailly così: «se bornaient à quelques réformes administratives qui auraient respecté le principe du gouvernement absolu» (in italiano: "si sono limitati a un paio di riforme amministrative che avrebbero rispettato il principio di governo assoluto"). Questa è una distorsione completa della posizione politica di Bailly.
- ^ Bailly, Mémoires de Bailly, avec une notice sur sa vie, des notes et des éclaircissements historiques di Mm. Berville e Barrière (Parigi, 1821-22), II, 8.
- ^ Ibid., II, 217-19
- ^ Ibid., I, 254, 281.
- ^ Bailly, Mémoires, I, 301.
- ^ Ibid., II, 237.
- ^ Gene A. Brucker, Jean-Sylvain Bailly - Revolutionary Mayor of Paris - University of Illinois Press Urbana, 1950.
- ^ Naigeon, su Bailly, nelle Mémoires, II, 417, constata che: «si Bailly eut eu plus de tenue dans le caractère, le roi, alors moins flatté, moins respecté... moins adoré... [aurait] remis... à sa vraie place...» Esempi dei discorsi di Bailly al Re sono contenuti nel libro di Sigismond Lacroix, Actes de la Commune de Paris pendant la Révolution (Parigi, 1894- 1907), ser. 1, I, 65; II, 232; ser. 2, I, 387; III, 295, 778
- ^ a b c d e f Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore
<ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatoresmithNCoA - ^ Lalande, "Eloge" 323, sbaglia nel constatare: «Les éloges de Cook, de Lacaille et de Gresset... le firent désirer par Buffon et par plusieurs autres membres de l'Académie des Sciences pour être secrétaire de cette illustre compagnie...», Arago 2: 329 dice soltanto che gli elogi di Cook e Gresset seguirono all′Histoire de l'astronomie.
- ^ a b Bailly, Eloge de Charles V, 1: 17
- ^ Ibid., 1: 18