I promessi sposi: differenze tra le versioni

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<noinclude>{{Protetta}}</noinclude>
{{nota disambigua}}{{Vaglio|/2|arg=letteratura}}
{{citazione|Quel ramo del [[lago di Como]], che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; […]|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/15{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. I, p. 9]]|quarantana}}}}
{{Libro
|titolo = I promessi sposi
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==== Il legame con ''Il cinque maggio'' e con l{{'}}''Adelchi'' ====
Per la vicinanza della loro stesura la tragedia, il carme in morte di Napoleone e il romanzo mostrano affinità tematiche molto evidenti, come lo sviluppo della ''Provvidenza'', della vanità delle cose umane rispetto alla grandezza di quelle celesti e la negatività [[ontologia|ontologica]] della realtà, dominata dal binomio oppressi-oppressori: quest'ultima concezione maturata nel soggiorno parigino del 1818-1820, grazie alla conoscenza del filosofo [[Augustin Thierry]]<ref name="Tellini2007:114">{{Cita|Tellini, 2007|p. 114}}:{{Citazione|Questa prospettiva d'una storia senza eroi, sconosciuta agli storici ''ancien régime'' […] porta alla ribalta la sorte dei conquistati. Per Manzoni una tale storiografia dei vinti è sussidio prezioso per una conoscenza critica che si addentri nella parte nascosta e recondita degli eventi politici.}}</ref>. [[Ermengarda (moglie di Carlo Magno)|Ermengarda]], tanto quanto [[Napoleone]] e gli ''umili'' del romanzo manzoniano sono, seppur nelle loro diversità biografiche ed esistenziali, soggetti alla legge dell'oppressione che regna nella realtà storica dell'umanità:{{Citazione|Te collocò la provida<br>Sventura in fra gli oppressi:<br>Muori compianta e placida;<br>Scendi a dormir con essi:<br>Alle incolpate ceneri<br>Nessuno insulterà.|[[s:Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/76|''Adelchi'', atto IV, scena I, coro, vv. 103-108]]}}
 
La «provida sventura» di Ermengarda, che è stata liberata dal dolore per il ripudio dell'amato [[Carlo Magno|Carlo]] per giungere alla pace celeste, non è dissimile dalla sorte dell'imperatore francese che, attraverso la dura prova dell'esilio e la riflessione sulla vanità delle conquiste militari<ref>{{Cita|Bellini|p. 524}}{{citazione|Forse il vero spazio in cui la Provvidenza fa le sue prove non è se non quello, immenso e turbato, della "vita interiore dell'uomo".}}</ref>, è salvato dalla "disperazione" per mezzo della "valida man pietosa" che lo prese e lo portò con sé nei campi eterni<ref>[[s:Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/698|''Il cinque maggio'', vv. 85-96]].</ref>.
 
Il concerto operato dalla Provvidenza nella redenzione degli oppressi dalla negatività della storia regna nell'intera economia del romanzo: le conversioni di fra Cristoforo, del Conte del Sagrato (l'Innominato), della monaca di Monza e lo sviluppo umano di Fermo (Renzo) durante le sue traversie e l'incontro finale con don Rodrigo mostrano come, nei disegni di [[Dio]], i vari protagonisti raggiungano quella purificazione che li innalza al di sopra delle tragiche vicende di cui sono stati ora gli oppressi ora gli oppressori a seconda dei casi<ref>{{cita|Momigliano|pp. 203-204}}.</ref>.
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Il ''Fermo e Lucia'' non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, bensì come un'opera autonoma, dotata di una propria struttura narrativa del tutto indipendente dalle successive elaborazioni<ref name="Ferroni1991:161">{{Cita|Ferroni, 1991|pp. 161-162}}.</ref>. Rimasto per molto tempo inedito – fu pubblicato soltanto nel 1916, a cura di [[Giuseppe Lesca]], con il titolo ''Gli sposi promessi''<ref name="GhidettiXVIII">{{Cita|Ghidetti|p. XVIII}}.</ref> –, il ''Fermo e Lucia'' viene oggi guardato con grande interesse.
 
Nei quattro tomi del ''Fermo e Lucia'' si ravvisa però un'opera irrisolta innanzitutto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle soluzioni maturate nel corso di tutti gli [[anni 1820]] e [[Anni 1830|1830]] fino alla pubblicazione della seconda e definitiva edizione de ''I promessi sposi'', crea una prosa in cui s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, [[latinismi]] e [[Prestito linguistico|prestiti]] di lingue straniere<ref>{{Cita|Tellini, 2007|p. 170}}.</ref>: nella prima stesura{{Efn|name="FL.Intr."|Nell'edizione originale postuma del ''Fermo e Lucia'' a cura di [[Giuseppe Lesca]] (1916), così come in quelle a cura di [[Alberto Chiari]] e [[Fausto Ghisalberti]] (1954) e a cura di Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni (2006), la stesura dell'Introduzione che contiene le riflessioni linguistiche dello scrittore è considerata la prima, mentre in {{Cita pubblicazione|autore=Margherita Centenari|titolo=«In quel caos di carte»: i manoscritti manzoniani tra filologia e catalogazione|url=https://www.casadelmanzoni.it/sites/default/files/allegato/Annali%20Manzoniani%20n2%20-%20p69-96.pdf|rivista=Annali manzoniani|serie=ser. 3|volume=2|anno=2019|pp=69-96, in particolare pp. 86-87|ISSN=2611-3287|postscript=nessuno}} è ritenuta la seconda, ovvero una stesura intermedia tra quella riportata come [[s:GliAppendice sposi promessi/Appendici/B|appendice B]] in {{Cita|Lesca|pp. 792-798}} e quella contenuta nel secondo autografo de ''Gli sposi promessi''<ref name="Manz.B.III-IV"/>.}} dell'Introduzione Manzoni definì la lingua usata «un composto indigesto di frasi un po' [[Lingua lombarda|lombarde]], un po' [[Dialetti toscani|toscane]], un po' [[Lingua francese|francesi]], un po' anche [[Lingua latina|latine]]»<ref name="FL.Intr.7">[[s:Pagina:Gli sposi promessi I.djvu/26{{Cita|''Fermo e Lucia'', |Introduzione, p. 7]]|Lesca}}.</ref>. Oltre all'aspetto linguistico, il ''Fermo e Lucia'' differisce profondamente da ''I promessi sposi'' per la struttura narrativa più pesante, dovuta alla mancata scorrevolezza dell'intreccio, dominato dai frequenti interventi dell'autore e dai racconti dettagliati delle vicende di alcuni personaggi (quasi «una cooperativa di storie e "biografie"»<ref>{{Cita|Nigro, 2002|p. XLV}}.</ref>), specialmente della monaca di Monza<ref name="Ferroni1991:161"/>.
 
[[File:Gastaldi-Innominato.jpg|miniatura|verticale|[[Andrea Gastaldi]], ''L'Innominato'', [[olio su tela]], 1860. Nel passaggio dal ''Fermo e Lucia'' a ''I promessi sposi'', la figura del Conte del Sagrato cambia radicalmente.]]
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La struttura più equilibrata (trentotto capitoli raggruppabili in quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della monaca di Monza<ref>{{Cita|Guglielmino-Grosser|p. 232}}:{{Citazione|[…] nel caso di Gertrude quel che diventa la "sventurata rispose" era una lunga dettagliata descrizione della caduta nell'abiezione da parte della monaca, […]}}</ref>, e la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono le caratteristiche di quello che è un romanzo diverso dal ''Fermo e Lucia''<ref>{{Cita|Caretti|pp. 46-53}}.</ref>.
 
Cambiano anche i nomi dei personaggi e, in alcuni casi, persino il loro carattere. Oltre a ''Fermo'' che diventa ''Renzo'', il nobile ''Valeriano'' diventa ''don Ferrante''{{Efn|Don Ferrante, originariamente, nel ''Fermo e Lucia'' aveva il nome di Valeriano. Nel corso della prima stesura del [[s:Fermo e Lucia/Tomo Terzo/Cap IX|capitolo IX del terzo tomo]], però, muta improvvisamente in Ferrante<ref>[[s:Pagina:Gli sposi promessi III.djvu/207{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. III, cap. IX, p. 573]]|Lesca}}.</ref> e tutte le occorrenze precedenti furono corrette nell'autografo, senza una giustificazione del Manzoni stesso per questo mutamento.}}, così come il ''Conte del Sagrato'' diventa il ben più famoso ''Innominato''. In quest'ultimo caso, il personaggio cambia radicalmente: il Conte del Sagrato non possiede l'indole riflessiva, tragicamente esistenziale nel rimembrare le sue colpe, tipica dell'Innominato<ref>{{Cita|Langella, 1986|pp. 190-199}}.</ref><ref>{{Cita|Russo|p. 62}}.</ref>; il Conte del Sagrato, infatti, è «un killer d'alto rango, che delinque per lucro» e ha «una tinteggiatura politica antispagnola»<ref>{{Cita|Tellini, 2007|pp. 186-187}}.</ref>, elementi non presenti nell'Innominato.
 
==== La scelta del toscano ====
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{{vedi anche|Storia della colonna infame}}
[[File:Lapide della colonna infame.jpg|miniatura|La lapide della Colonna infame, conservata a Milano nel [[Castello Sforzesco]]]]
La ''Storia della colonna infame'', ricostruzione del clima di intolleranza, ferocia e alienazione in cui si svolgevano i processi contro gli [[untore|untori]] al tempo della peste raccontata nel romanzo, inizialmente fu un'[[Appendice (testo)|appendice]] nel ''Fermo e Lucia''<ref>{{Cita|Paccagnini|pp. LXIII-LXXV}}.</ref> per poi essere aggiunta, dopo essere stata rielaborata linguisticamente e strutturalmente, alla "quarantana"<ref>{{Cita|Ferroni, 1991|pp. 160, 179}}; {{Cita|Mezzanotte|p. XIV}}.</ref>. L'opera, che narra la tragica vicenda del barbiere [[Gian Giacomo Mora|Giangiacomo Mora]] e dell'ufficiale di sanità [[Guglielmo Piazza]], accusati di aver contribuito a diffondere la pestilenza e giustiziati a Milano nel 1630, è una recisa e violenta condanna della superstizione popolare e della tortura usata nei processi penali per estorcere le confessioni dei presunti colpevoli<ref>[[s:Storia della colonna infame/Introduzione{{Cita|''Storia della colonna infame'', |Introduzione, pp. 750-751]]|quarantana}}.</ref>.
 
=== Le prime edizioni dei tre romanzi ===
* {{simbolo|Wikisource-logo.svg|15}}{{Cita libro|autore=Alessandro Manzoni|titolo=I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta|volume=3 voll. ([https://it.wikisource.org/wiki/Indice:I_promessi_sposi_(1825)_I.djvu I]; [https://it.wikisource.org/wiki/Indice:I_promessi_sposi_(1825)_II.djvu II]; [https://it.wikisource.org/wiki/Indice:I_promessi_sposi_(1825)_III.djvu III])|città=Milano|editore=presso Vincenzo Ferrario|anno=1825-1826|SBN=LO1E002666|cid=ventisettana}}
* {{simbolo|Wikisource-logo.svg|15}}{{Cita libro|autore=Alessandro Manzoni|titolo=I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta. Edizione riveduta dall'autore. Storia della colonna infame. Inedita|url=https://it.wikisource.org/wiki/I_promessi_sposi_-_Storia_della_colonna_infame_(1840)|anno=1840|editore=dalla Tipografia Guglielmini e Radaelli|città=Milano|SBN=LO11464288|cid=quarantana}}
* {{simbolo|Wikisource-logo.svg|15}}{{Cita libro|autore=Alessandro Manzoni|titolo=Gli sposi promessi|url=https://it.wikisource.org/wiki/Gli_sposi_promessi|edizione=per la prima volta pubblicati nella loro integrità di sull'autografo da [[Giuseppe Lesca]]|anno=1916|editore=Francesco Perrella, Società Anonima Editrice|città=Napoli|SBN=LO10260119|cid=Lesca}}
 
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Il romanzo manzoniano presenta varie analogie, ma anche evidenti differenze, con il romanzo storico ''[[Ivanhoe]]'' di [[Walter Scott]]<ref>{{Cita|Guglielmino-Grosser|p. 234}}.</ref>, ambientato nel [[Medioevo inglese]] sullo sfondo delle lotte e della successiva unione tra i [[Normanni]] invasori e le popolazioni preesistenti, soprattutto i [[Sassoni]]. Manzoni, che non conosceva l'inglese, durante il soggiorno parigino del 1818-1820 poté leggere il capolavoro di Scott in una versione francese. Una volta ritornato a Milano nella sua [[villa di Brusuglio]], si fece inviare, per il tramite del direttore della [[Biblioteca di Brera]] [[Gaetano Cattaneo]], altri romanzi di Scott tradotti in francese (tra cui ''[[La sposa di Lammermoor]]'', ''Il monastero'' e ''[[Waverley (romanzo)|Waverly]]'')<ref>{{Cita|Tellini, 2007|pp. 154-155}}.</ref>.
 
Il filo rosso conduttore tra lo scrittore scozzese e quello italiano si riscontra sul piano prettamente storico (anche se Manzoni critica le eccessive libertà creative di Scott, sottolineandone la diseguale fedeltà alle fonti<ref>{{Cita|Varotti|p. 26}}; {{Cita|Tellini, 2007|p. 155}}.</ref>) e sulle ricostruzioni paesaggistiche, mentre il Nostro si disinteressa dell'avvicendarsi dei fatti avventurosi che rendono veloce e spigliata la trama dell{{'}}''Ivanhoe'', che richiama le antiche epopee cavalleresche del [[ciclo arturiano]] e dell{{'}}''[[Orlando furioso]]'' di [[Ludovico Ariosto]]. I personaggi dell{{'}}''Ivanhoe'' non rispecchiano quella complessità d'animo, quel «guazzabuglio del cuore umano»<ref name="PS.X.206">[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/212{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. X, p. 206]]|quarantana}}.</ref> che invece caratterizzano così fortemente i personaggi de ''I promessi sposi'', costantemente immersi in un dinamismo storico realistico che sembra essere molto distante dal mondo fantastico dell'Inghilterra medioevale dipinta da Scott<ref>{{Cita libro|autore1=Émile Legouis|autore2=Louis Cazamian|titolo=Storia della letteratura inglese|traduttore=Eleonora Guicciardi|città=Torino|editore=Giulio Einaudi editore|anno=1966|annooriginale=1924|p=983|SBN=RAV0000014|postscript=nessuno}}:
{{Citazione|La parte della finzione […] è troppo considerevole nel romanzo di Scott […]. La nozione della verità per lui non si identifica ancora nell'esattezza scrupolosa che le conferirà la trasformazione del pensiero nel secolo XIX.}}</ref>.
 
Per di più, se nell'opera manzoniana c'è un forte interesse civile, inteso a fornire, attraverso il romanzo, un'unità linguistica e delle solide basi morali ai lettori, in quella di Scott tale dimensione è totalmente assente, in quanto indirizzata maggiormente al divertimento dei lettori che al formarli secondo precise intenzioni civico-pedagogiche<ref group="N">Oltre alla questione linguistica, vista come impegno civile da parte del Manzoni per la formazione di una lingua unitaria parlata da tutti gli italiani, lo scrittore milanese si sofferma anche sull'impegno civile che il lettore a lui contemporaneo deve manifestare, facendo intravedere nel Seicento e nelle violenze perpetrate dagli spagnoli il paragone con la Lombardia dominata dagli austriaci ({{Cita|Brasioli et al.|p. 23}}).</ref>. Tra i modelli che Manzoni fruì si ritrovano ancora [[Laurence Sterne]], specialmente nel legame che unisce il frate cappuccino manzoniano al frate francescano descritto nel ''[[Viaggio sentimentale|Viaggio sentimentale di Yorik]]''<ref>{{Cita|Nigro, 1988|p. 169}}.</ref>, e i romanzi gotici, quale ''[[Il castello di Otranto]]'' di [[Horace Walpole]]<ref>{{Cita|Stella|p. 660}}.</ref> nella parte relativa al Castello dell'Innominato<ref name="Luperini230">{{Cita|Luperini|p. 230}}.</ref>. Da segnalare ancora ''[[La monaca]]'' di [[Denis Diderot]], modello che ha potuto arricchire d'immaginazione la mente di Manzoni riguardo a suor Gertrude, anche se il critico [[Giovanni Macchia]] ne sottolinea la distanza perché «serrato in tutte le sue parti come un'opera filosofica» e quindi lontana dal realismo che Manzoni invocava<ref>{{Cita|Macchia, 1994|p. 88}}.</ref>; e ''[[Justine o le disavventure della virtù|Justine]]'' del [[marchese de Sade]], per quanto riguarda la tresca tra la monaca di Monza ed Egidio e il legame tra Lucia, pura e casta, e l'Innominato, violento e assassino<ref>{{Cita pubblicazione|autore=Fabio Camilletti|titolo=Il sorriso del conte zio. Manzoni, Sade e l'omaggio alla Vergine|url=https://riviste.unimi.it/index.php/enthymema/article/view/6959/7164|rivista=Enthymema|numero=14|anno=2016|pp=231-246|ISSN=2037-2426}}</ref>.
[[File:Carlo Porta.png|min|Ritratto del poeta milanese [[Carlo Porta]] (1774-1821), in un pastello di [[Fëdor Antonovič Bruni]] (1821). Porta fu, insieme a [[Ludovico di Breme]], uno dei principali ideologi del romanticismo in Italia, corrente letteraria cui appartenne anche Manzoni e che incise sulla scelta da parte di quest'ultimo di avvalersi di «gente meccaniche, e di piccol affare»<ref name="PS.Intr.6">L'espressione è attribuita all'Anonimo manzoniano ne [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/12{{Cita|''I promessi sposi'', |Introduzione, p. 6]]|quarantana}}.</ref> come protagonisti del suo romanzo.]]
 
=== I "generi" del romanzo ===
==== La nascita del romanzo storico italiano ====
Il romanzo manzoniano rientra all'interno del genere del [[romanzo storico]], quello che Manzoni stesso definì come un componimento misto di storia e d'invenzione<ref>[[s:Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/344|''Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione'', p. 338]].</ref>, impresa assai ardua in Italia dove, a causa della mancanza di unità linguistica e della conseguente inesistenza di modelli (se si eccettuano i romanzi [[Barocco|barocchi]], completamente distanti dall'obiettivo della temperie romantica), di romanzi nel senso moderno del termine non erano stati scritti neppure uno<ref>[[Giovanni Macchia]], ''Da Fermo e Lucia alla Colonna infame. Nascita e morte della digressione'', in {{Cita|Pontiggia|p. 170}}; Antonia Mazza Tonucci, ''Alessandro Manzoni'', in {{Cita|Farinelli-Mazza Tonucci-Paccagnini|p. 102}}.</ref>. L'esigenza di passare dalla tragedia al romanzo storico risiedeva in un'esigenza innanzitutto morale per la risoluzione di quello che [[Angelo Stella]] ha definito «pessimismo cristiano»<ref name="Stella661"/>, ovvero della necessità di far vincere in questo mondo a dei personaggi di fantasia le sfide della storia, elemento che non poteva essere accolto nella veridicità storica delle tragedie, ove la rivincita poteva avvenire solo nell'[[Oltretomba|aldilà]]<ref>{{Cita|Tellini, 1998|p. 46}}.</ref>. Inoltre, il genere del romanzo permetteva al narratore di far prevalere la parte del ''vero poetico'' rispetto al ''vero storico'', come delucidato da [[Gino Tellini]]:
 
{{Citazione|Il punto fondamentale è che con il romanzo si ribalta il rapporto tra "storia" e "invenzione" così come si presentava nel teatro. Le tragedie portano in primo piano fatti e protagonisti reali, mentre all'invenzione spettano le comparse e lo scavo entro la coscienza degli eroi. Ora invece in primo piano si accampano fatti e protagonisti fantastici, mentre al vero storico si affidano le figure collaterali, la minuta filigrana degli accadimenti collettivi, del colore locale, dell'ambiente, dei costumi.|{{Cita|Tellini, 1998|p. 45}}}}
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=== Caratteristiche generali ===
==== La finzione dell{{'}}''Anonimo'' del manoscritto ====
Il romanzo prende le mosse da un presunto [[manoscritto]] anonimo del [[XVII secolo]], che racconta la storia di Renzo e Lucia, "scoperta e rifatta" dal Manzoni: un ''[[topos]]'' che nella letteratura mondiale era già stato utilizzato spesse volte e che, nel caso de ''I promessi sposi'', ha il suo precedente più stretto nel ''[[Don Quijote]]'' di [[Miguel de Cervantes]]<ref>{{Cita|Tellini, 2007|p. 190}}.</ref>, basato sul manoscritto fittizio in [[aljamiado]] di Cide Hamete Benengeli<ref>{{Cita pubblicazione|autore=Marta Chini|titolo=Naturalmente un manoscritto: Cide Hamete e l'anonimo manzoniano|url=https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/moderno-e-modernita-la-letteratura-italiana/Chini%20Marta.pdf|pubblicazione=Moderno e modernità: la letteratura italiana. Atti del XII congresso nazionale dell'ADI (Roma, 17-20 settembre 2008)|edizione=edizione online|città=Roma|editore=Università La Sapienza|anno=2009|pp=1-11 del pdf}}</ref>. Nulla è noto dell'autore del manoscritto, tranne che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda<ref>{{Cita|Varotti|p. 24}}.</ref> e che quindi si esprime in uno stile seicentesco, ironicamente criticato dal Manzoni e perciò modernizzato nella prosa<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/12{{Cita|''I promessi sposi'', |Introduzione, p. 6]]|quarantana}}: «Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati».</ref>.
 
Il ''topos'' del rifacimento della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti, inoltre, consente al romanziere di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che spesso non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale e attendibile. Si viene a creare un trinomio Renzo-Anonimo-Manzoni, in cui la finzione letteraria adoperata da quest'ultimo permette una falsa stratificazione delle opinioni dei singoli narratori<ref name="Guglielmino233">{{Cita|Guglielmino-Grosser|pp. 233-234}}.</ref>, determinando di conseguenza una duplice prospettiva nella quale vengono visti gli avvenimenti: una secondo i fatti narrati, attribuiti all'autore del manoscritto; l'altra secondo i commenti e le riflessioni dell'autore del romanzo sulle vicende trattate<ref>{{Cita|Raimondi|p. 120}}:{{Citazione|Il manoscritto […] si presenta proprio come uno spazio teatrale […], mentre il narratore che finge di trascriverlo finisce col comportarsi da spettatore che guarda e giudica, e può sempre interrompere il racconto per correggerne il punto di vista o per sostituire all'ottica del protagonista lo "sguardo" riflessivo della conoscenza storica […].}}</ref>.
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==== I ritagli del narratore/autore ====
[[File:I promessi sposi 389.jpg|min|sinistra|''La processione dei resti di San Carlo''. La funzione religiosa, sconsigliata perché propagatrice del contagio tra i milanesi secondo la scienza moderna, fu criticata dal Manzoni.]]
La finzione [[narrativa]] dell{{'}}''Anonimo'' del manoscritto permette all'autore di intervenire nel corso della vicenda, sentenziando dei veri e propri commenti sulle azioni dei suoi personaggi<ref name="Guglielmino233"/> in modo ironico e paternalistico. Per l'ironia, basti pensare al paragone che Manzoni usò per tratteggiare il carattere pavido di don Abbondio con la risolutezza del [[Luigi II di Borbone-Condé|principe di Condé]] prima della [[Battaglia di Rocroi]]<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/37{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. II, p. 31]]|quarantana}}.</ref> o alla famosa locuzione «La sventurata rispose»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/216{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. X, p. 210]]|quarantana}}.</ref> in riferimento al traviamento interiore di Gertrude<ref name="Guglielmino233"/>; per il paternalismo, concetto sviluppato da [[Antonio Gramsci]] nei ''[[Quaderni dal carcere]]'', s'intende la posizione bonaria e protettrice dell'aristocratico Manzoni, che mostra compassione verso gli ultimi solo in nome della morale cattolica e non per una vera solidarietà tra classi sociali, la cui distanza deve rimanere inalterata<ref>{{Cita|Escher Di Stefano|p. 123, nota 7}}; {{Cita|Ferroni, 1991|p. 171}}.</ref>. Ancora, il narratore Manzoni giudica con acrimonia i vizi del Seicento, la sua corruzione, il suo modo di intendere cultura e tutta l'ortoprassi degli uomini di quell'epoca: l'ironia amara verso la cultura di don Ferrante, che nega l'esistenza della peste e ne resta vittima<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/730{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVII, pp. 724-726]]|quarantana}}.</ref>; la condanna sferzante verso il presunto ruolo malefico degli ''[[Untore|untori]]''<ref>Per esempio, [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/612{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXII, p. 606]]|quarantana}}, in cui si riferisce dell'aggressione di un vecchio, ritenuto un untore soltanto perché in chiesa «con la cappa, spolverò la panca».</ref>; l'ironia patetica mostrata verso la decisione del cardinale Federigo di indire la processione con le reliquie di [[san Carlo Borromeo|san Carlo]] per porre fine alla pestilenza e l'aggravamento della diffusione del contagio il giorno dopo<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/616{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXII, pp. 610-611]]|quarantana}}: «Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, […]. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; […]».</ref> sono solo alcuni dei numerosi interventi dell'autore nel commentare lo sviluppo della storia, rendendo più fluido e diretto il suo ingresso che, nelle tragedie, era relegato ai cori<ref>{{Cita|Varotti|p. 23}}.</ref>. Ne consegue, infine, che il narratore del romanzo è un narratore onnisciente:
 
{{Citazione|[…]: la voce che narra distingue nettamente se stessa dai personaggi, dalle loro azioni, dalla realtà rappresentata, ne conosce dall'esterno i caratteri, gli aspetti particolari, le motivazioni più interne, fruendo di uno sguardo "centrale" che pare avere l'ampiezza di uno sguardo divino.|{{Cita|Ferroni, 1991|p. 170}}}}
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Nel caso del romanzo, il veicolo morale dunque deve passare attraverso una narrazione che attiri l'attenzione del lettore per la veridicità delle vicende<ref>Vedi [[#La scelta del Seicento: un secolo di decadenza e di violenza|La scelta del Seicento]].</ref> in cui, grazie all'infusione della finzione narrativa, si è capaci di rendere attraente e piacevole al lettore la vicenda narrata, purché vi sia ''l'utile'' come finalità. Tale scopo è quello di elevare moralmente il lettore che legge il romanzo, eliminando qualsiasi parte sconveniente o che possa, in qualche modo, traviare la sensibilità di determinati lettori. Questo proposito è soprattutto esposto nel ''Fermo e Lucia'', come risulta dalle stesse parole del Manzoni:
 
{{Citazione|Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d'una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando quietamente, […]; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso, che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, […] si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe una descrizione di quei sentimenti ch'egli debba soffocare ben bene nel suo cuore, […].|[[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/5{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. II, cap. I, p. 157]]|Lesca}}}}
 
Il romanzo, dunque, deve attendere ad altri scopi, che siano di utilità alla società e alla fratellanza umana: «Concludo che l'amore è necessario a questo mondo: ma ve n'ha, quanto basta, […]. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: […]»<ref>[[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/5{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. II, cap. I, p. 157]]|Lesca}}.</ref>.
 
==== La Provvidenza ====
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Oltre al proposito espresso nel ''Fermo e Lucia'', Manzoni spinge l'intenzione moralista a più alte vette. Il romanzo, infatti, assume una forte connotazione morale intrisa dell'[[escatologia]] cristiana, dominata dalla presenza della [[Provvidenza]] nella storia e nelle vicende umane. Il [[male]] è presente, il gioco di forze contrapposte genera effetti a volte disastrosi nella storia dei protagonisti{{efn|[[Italo Calvino]] definì ''I promessi sposi'' come «il romanzo dei rapporti di forza», dove male e bene sono personificati nei vari coprotagonisti del racconto, che si dispongono in un triangolo: personaggi del potere sociale, sempre avverso (don Rodrigo e l'Innominato), del potere ecclesiastico buono (fra Cristoforo e il cardinale Federigo) e cattivo (don Abbondio e la monaca di Monza)<ref>{{Cita|Calvino|p. 271}}</ref>.}}, ma Dio non abbandona gli uomini e la fede nella Provvidenza, nell'opera manzoniana, permette di dare un senso ai fatti e alla storia dell'uomo, come emerge alla conclusione del romanzo stesso:
 
{{citazione|Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/751{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 745]]|quarantana}}}}
Luciano Parisi, sulla scia della conclusione formulata dal Manzoni per bocca di Renzo e Lucia, asserisce per l'appunto che la Provvidenza è «l'oggetto imprecisato ed imprecisabile di una 'fiducia indeterminata'<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/409{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXI, p. 403]]|quarantana}}.</ref> […], di una fede più istintiva che razionale, che sopravvive ai dolori e fortifica contro di essi»<ref name="Parisi100">{{Cita|Parisi|p. 100}}.</ref>.
 
La Provvidenza agisce in modo misterioso e secondo schemi che non seguono i ragionamenti degli uomini, raggiungendo il suo scopo anche attraverso eventi dolorosi, concretizzandosi nella famosa espressione della «provida sventura»<ref>[[s:Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/76|''Adelchi'', atto IV, scena I, coro, vv. 103-104]].</ref>. Si possono recare numerosi esempi al riguardo: le conversioni di Lodovico (fra Cristoforo) e dell'Innominato avvengono nel corso del tempo, dopo eventi traumatici (l'omicidio causato da Lodovico, evento che lo spingerà a farsi frate<ref name="PS.IV.74-75">[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/80{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IV, ppp. 74-75]]|quarantana}}.</ref>) o ripetuti (gli omicidi perpetrati dall'Innominato nel corso degli anni<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/413{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXI, p. 407]]|quarantana}}: «[…]; e il tormentato esaminator di sè stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: […]».</ref>). Nel primo caso, Lodovico si macchia di un delitto e, ricoverato presso il vicino convento dei cappuccini, durante la convalescenza, «gli parve che Dio medesimo l'avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura»<ref name="PS.IV.74-75"/>; nel secondo, la Provvidenza fa breccia nel cuore già tumultuante dell'Innominato per mezzo di una spaventata Lucia che, nella foga, proferisce la frase che scatenerà la conversione del criminale: «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!»<ref name="misericordia">Lucia la dice due volte ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/405{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXI, p. 399]]|quarantana}}) e in seguito l'Innominato la ripete una terza volta tra sé e sé: «Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! —» ([[s:Pagina:{{Cita|''I promessi sposi (1840).djvu/414''|cap. XXI, p. 408]]|quarantana}}).</ref>, conversione che giungerà a pieno compimento dopo la terribile notte e l'incontro col cardinale Federigo Borromeo nel capitolo seguente.
[[File:I promessi sposi 232.jpg|sinistra|min|«"La c'è la Provvidenza!" disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/344{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XVII, p. 338]]|quarantana}}).]]
Ma la questione della Provvidenza delineata da Manzoni è assai diversa, invece, da quella presentata dai suoi personaggi: nessuno di loro (se non fra Cristoforo e il cardinale) definisce in modo nitido come Dio operi nella storia, passando da interpretazioni perlomeno accettabili (il voto alla Madonna che [[Lucia Mondella|Lucia]] compie mentre è prigioniera dell'Innominato, e la sua liberazione intravista quale segno della benevolenza divina) a quelle blasfeme di [[don Abbondio]], dal quale la [[peste]] è vista come «''una scopa''» provvidenziale<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/738{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 732]]|quarantana}}</ref>, e di [[Gonzalo Fernández de Córdoba (1585-1635)|don Gonzalo Fernandez de Cordova]] che, davanti all'arrivo della peste portata dai [[Lanzichenecchi]], invita a sperare nella Provvidenza<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/553{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXVIII, p. 547]]|quarantana}}.</ref><ref>{{Cita|Bellini|p. 524}}, che riprende quanto già esplicitato da {{Cita|Raimondi|p. 218}}; {{Cita|Tellini, 1998|p. 48}}: «Nella trama favolistica […] i personaggi si appellano spesso e volentieri alla Provvidenza. Ma la nominano sempre invano, o in accezione gergale o comunque riduttiva, quando non blasfema». Ne accenna anche {{Cita|Parisi|pp. 103-104}}.</ref>. Si ha quindi una pluralità di visioni, che tolgono a ''I promessi sposi'' l'epiteto di «epopea della Provvidenza»<ref>Così {{Cita|Momigliano|p. 229}} definisce il romanzo manzoniano.</ref>, di cui si parla continuamente<ref>{{Cita|Nef|p. 15}}.</ref>, ma «tali discorsi sono quasi esclusivamente messi in bocca ai personaggi e solo di rado sono propri del narratore», il cui commento occasionale è sempre distinto dalle loro opinioni<ref>{{Cita|Nef|p. 16}}.</ref>. Solo alla fine del romanzo emerge il vero volto della Provvidenza divina, scoperta che illumina la realtà dell'agire di Dio nella Storia e che spinse Parisi a "ridefinire" l'epiteto dell'opera manzoniana: «Si potrebbe dire, in questo senso, che i ''Promessi sposi'' sono il romanzo della fede nella Provvidenza, più che il romanzo della Provvidenza […]»<ref name="Parisi100"/>.
 
==== La scelta del Seicento: un secolo di decadenza e di violenza ====
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{{Citazione|Caso mai egli trova motivazioni per occuparsi del Seicento nel fatto che questa gli appare un'età sostanzialmente negativa, l'osservatorio ideale per cogliere il dramma di due antieroi popolani coinvolti e quasi stritolati negli ingranaggi del potere, […]. Il Seicento può così diventare il simbolo da un lato dell'immobilismo della storia italiana (secondo una polemica di stampo illuministico), dall'altro forse addirittura della condizione umana.|{{Cita|Guglielmino-Grosser|pp. 234-235}}}}
[[File:I promessi sposi 248.jpg|miniatura|sinistra|Il conte zio e il padre provinciale parlano di fra Cristoforo. Il conte zio è l'espressione della rapacità e della corruzione clientelare tipica della nobiltà ispanica.]]
La Lombardia, nella prima metà del XVII secolo, viveva uno dei periodi più bui della [[Storia della Lombardia|sua storia]]. Retta da una classe di potenti inetta e corrotta e da un [[Governatore di Milano|governatore]] assente e dedito esclusivamente all'esecuzione degli ordini imposti da [[Madrid]], quello che era stato il [[Ducato di Milano]] divenne il crocevia degli eserciti [[Spagna degli Asburgo|ispano]]-[[Sacro Romano Impero|imperiali]] impegnati nella sanguinosa [[guerra dei trent'anni]] (1618-1648), che in Italia si declinò nella [[guerra di successione al Ducato di Mantova e del Monferrato]]<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/101{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. V, p. 95]]|quarantana}}: «Il lettore sa che in quell'anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, […]».</ref>. Sul finire degli anni 1620, prima dello scoppio della terribile [[Peste del 1630|pestilenza]] che decimerà la popolazione lombarda, si era abbattuta una rovinosa [[carestia]] – accennata in più passaggi nel corso del romanzo<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/39{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. II, p. 33]]|quarantana}}: «E quantunque quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, […]»; [[s:Pagina:{{Cita|''I promessi sposi (1840).djvu/105''|cap. V, p. 99]]|quarantana}}: «[…]; e tutti parlarono della carestia»; [[s:Pagina:{{Cita|''I promessi sposi (1840).djvu/426''|cap. XXII, p. 420]]|quarantana}}: «[…]; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, […]».</ref> – che porta alla rivolta dei forni nel capitolo XII. Il malcostume, l'inefficacia delle ''[[gride]]'' di giustizia e la violenza che dilaga a livello regionale nel fenomeno dei ''bravi'' si riflettono inevitabilmente nel vissuto quotidiano dei protagonisti<ref>Antonia Mazza Tonucci, ''Alessandro Manzoni'', in {{Cita|Farinelli-Mazza Tonucci-Paccagnini|p. 110}}.</ref><ref>Contro il malgoverno spagnolo si pronunciò, nel 1615, anche [[Alessandro Tassoni]] nelle ''Filippiche contra gli spagnuoli''.</ref>.
[[File:I promessi sposi (1840) 042.png|miniatura|Don Abbondio, dietro la minaccia dei bravi, comunica a Renzo i vari impedimenti alla celebrazione del matrimonio]]
Gli esempi di questa violenza dal sapore – secondo l'espressione di [[Vittorio Spinazzola (critico letterario)|Vittorio Spinazzola]] – "politico"<ref>{{Cita|Spinazzola|p. 251}}: «[…] politici sono tutti i modi tenuti per imporre ad arbitrio la propria volontà, preferibilmente mascherandola con una parvenza di forme legali e morali».</ref> sono molteplici: le minacce compiute dai bravi di don Rodrigo a don Abbondio nel capitolo I; i tentativi, sempre da parte del signorotto spagnolo, di sottomettere Lucia ai suoi desideri; l'inganno pretestuoso che don Abbondio compie su Renzo, sfoggiando una cultura classicheggiante e teologica che il giovane analfabeta non può comprendere<ref>Un esempio lampante si trova ne [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/41{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. II, p. 35]]|quarantana}}: «"''Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,.... ''" cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. "Si piglia gioco di me?" interruppe il giovine. "Che vuol ch'io faccia del suo ''latinorum''?"».</ref>; la coercizione psicologica perpetrata dal [[Padre della Monaca di Monza|padre di Gertrude]] per monacarla forzatamente<ref group="N">Manzoni evidenzia l'uso dei giocattoli come strumento di condizionamento mentale, compiuto dal principe padre per invogliare la figlia sin dalla più tenera infanzia a diventare un giorno monaca: «Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; […]» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/182{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IX, p. 176]]|quarantana}}). Vedi anche ''Gertrude e le bambole'' in {{Cita|Palumbo|pp. 109-112}}.</ref> e quella fisica che la stessa userà contro la conversa Caterina insieme all'amante Egidio per farla tacere della relazione segreta<ref group="N" name="conversa">Mentre nel {{Cita|''Fermo e Lucia'' ([[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/97|tom. II, capp. V-VI, pp. 245-252]])|Lesca}} l'episodio dell'omicidio della suora è descritto nei minimi particolari, invece ne {{Cita|''I promessi sposi'' ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/217|cap. X, pp. 211-212]]|quarantana}} della "quarantana") si parla soltanto della sua scomparsa, alludendo al delitto e lasciando intendere la verità dal rimorso di Gertrude.</ref>. Il culmine della violenza, «nella quale affoga collettivamente una civiltà sbagliata […] per una purificazione […] quale premessa necessaria alla ricostruzione della società»<ref>{{Cita|Nigro, 1988|p. 171}}.</ref>, è la peste finale, in cui le vicende dei personaggi si riallacciano in una Milano completamente devastata in ogni aspetto della vita sociale. Nonostante la desolazione e la morte imperante, è allora che Renzo trova quella pietà che lo spinge a riconciliarsi con don Rodrigo morente e che spinge Lucia a riconsiderare il voto per unirsi definitivamente con Renzo<ref>{{Cita|Ferroni, 2003|p. 60}}.</ref>, aprendo i propri cuori agli imperscrutabili disegni della Provvidenza<ref>{{Cita|Guglielmino-Grosser|pp. 235-236}}: «[…] la provvidenza, sotto forma di divina illuminazione o di grazia, si manifesta nei cuori, nelle anime degli uomini cui spetta la decisione se accoglierla o meno».</ref>.
 
==== Il paesaggio manzoniano ====
Un ruolo fondamentale nell'economia del romanzo è la presenza del [[paesaggio]], inteso sia nella sua veste naturalistica, sia in quella antropologica. Domina, infatti, il paesaggio familiare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque e la sua mite luce autunnale: «quel cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/339{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XVII, p. 333]]|quarantana}}.</ref>. Il paesaggio è calato nella realtà storica e umana del romanzo. La sobrietà delle descrizioni è il risultato di uno scarnimento ricco di possibilità liriche ed evocative; i passi descrittivi sono trascrizioni di un momento di vita interiore. In effetti l'intero ''[[incipit]]'' dell'opera è una dettagliata descrizione del paesaggio del Lecchese che, secondo un andamento geo-descrittivo centripeto adottato dal Manzoni, giunge a inquadrare [[Lecco]] e il viottolo su cui cammina don Abbondio, per poi riportare l'attenzione del lettore all'orizzonte e ai monti circostanti<ref>{{Cita|Brasioli et al.|p. 57, nota 1}}: «Nella prima parte segue un movimento, per così dire, centripeto – dalla catena di monti va restringendosi sul particolare (la città di Lecco) –, nella seconda parte segue un movimento centrifugo dalle strade e stradette fino ai monti e all'orizzonte».</ref>.
 
[[File:Quel ramo del lago di como.jpg|miniatura|Veduta panoramica del ramo lecchese del Lago di Como]]
Un'altra caratteristica del paesaggio, oltre a quella di essere storicamente realistico, come nel capitolo I («Quel ramo del lago di Como»), è di essere funzionale alle esigenze del racconto, per cui esso fa da sfondo e cornice alle vicende dei personaggi, come nella scena dell'incontro di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo<ref>{{Cita|Mazzamuto|pp. 140-142}}.</ref>. Nella concezione propria del [[Romanticismo]] seguita da Manzoni, il paesaggio è anche proiezione degli stati d'animo dei personaggi<ref>{{Cita|Ferroni, 1991|p. 104}}: «[…]: la natura è specchio dei sentimenti e delle passioni che agitano l'uomo perché anch'essa è animata da sentimenti e passioni, […]».</ref>; ad esempio, è descritto con affettuosa nostalgia e profonda, accorata intimità da Lucia nell{{'}}''Addio ai monti'', mentre è percepito come pauroso e ostile durante la fuga di Renzo da Milano verso l'[[Adda]]<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/335{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XVII, p. 329]]|quarantana}}.</ref>. Un discorso a parte merita la descrizione dettagliata del paesaggio minaccioso e solitario intorno al castello dell'Innominato e del castello stesso<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XX{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XX, pp. 377-378]]|quarantana}}.</ref>, che rispecchia la personalità e lo stile di vita del suo proprietario e incute paura, ma, dopo la conversione di quest'ultimo, diventa un luogo di asilo<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXIX{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXXIX, p. 565]]|quarantana}}.</ref>.
 
Nell'indicazione dei luoghi, bisogna ricordare l'uso degli asterischi, come in occasione di due [[analessi]], nella biografia di fra Cristoforo<ref group="N">Il frate è chiamato «padre Cristoforo da ***» ne ''I promessi sposi'', sia nella "ventisettana" sia nella "quarantana" ([[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo IV|cap. IV, pp. 66, 67, 76]]), mentre nel ''Fermo e Lucia'' è specificato «padre Cristoforo da Cremona».</ref> e in quella di Gertrude<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/181{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IX, p. 175]]|quarantana}}.</ref>. L'espediente, come dichiara l'Anonimo manzoniano nell'Introduzione<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/12{{Cita|''I promessi sposi'', |Introduzione, p. 6]]|quarantana}}.</ref>, è motivato con l'opportunità di attribuire un certo anonimato e una certa indefinitezza alla vicenda, per rispetto e prudenza nei riguardi di casate e personaggi che, quando egli scriveva (l'ipotetico autore del manoscritto afferma di raccontare fatti avvenuti al tempo della sua giovinezza), potessero essere ancora vivi: «questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo», riferisce Manzoni nel capitolo IV<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/73{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IV, p. 67]]|quarantana}}.</ref>.
 
==== Il rifiuto dell'idillio ====
Il critico [[Ezio Raimondi]] ha intitolato il volume contenente i suoi saggi sul capolavoro manzoniano col seguente titolo: ''Il romanzo senza idillio''. Nel romanzo manzoniano, difatti, manca il lieto fine tipico delle favole o dei racconti della tradizione letteraria, in nome del realismo cui l'autore intende ispirarsi. Ne sono segno il fatto che don Abbondio si abbandoni ad una "danza macabra" per l'annuncio della morte di don Rodrigo<ref>{{Cita|Tellini, 2007|p. 224}}.</ref>; e che il marchese erede di don Rodrigo non prenda parte al convito nuziale allo stesso tavolo coi due sposi, segno della rinnovata disparità sociale<ref>{{Cita|Raimondi|p. 306}}.</ref>; e che la gente, la quale tanto aveva sentito delle vicende di Renzo e Lucia, al vedere la giovane, ne rimanesse delusa, credendo che la giovane avesse «i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/748{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 742]]|quarantana}}.</ref>. Il matrimonio tra Renzo e Lucia, l'avviamento dell'attività mercantile di Renzo e l'allietamento della loro unione con l'arrivo dei figli si inserisce in un quadro denotato da forti tinte realiste, dove la vita quotidiana è costellata sia da lieti eventi, ma anche da altre sventure o grattacapi<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/750{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 744]]|quarantana}}: «[…], l'uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone».</ref>. Insomma, una «quotidianità disabbellita e diseroicizzata»<ref>{{Cita|Tellini, 2007|p. 226}}.</ref>.
 
=== Struttura ===
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=== Trama ===
==== L'incontro coi bravi e la minaccia di don Rodrigo (capitoli I-II) ====
[[File:I promessi sposi - ch1.jpg|miniatura|sinistra|«Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: […]» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/18{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. I, p. 12]]|quarantana}}).]]
Dopo l'ampia descrizione del paesaggio del Lecchese con cui il romanzo si apre, Manzoni sente la necessità di datare precisamente la vicenda: è la sera del 7 novembre 1628, al tempo della [[Stato di Milano|dominazione spagnola]]<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/17{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. I, p. 11]]|quarantana}}.</ref>. I protagonisti sono [[Renzo Tramaglino]] e [[Lucia Mondella]], due giovani operai tessili che vivono in una località nei pressi del lago di Como. Manzoni non si riferiva a luoghi precisi e nel romanzo gli unici indicati chiaramente sono il quartiere di [[Pescarenico]] a Lecco, dove si trovava il convento di padre Cristoforo, e il castello della guarnigione spagnola, posto in riva al lago.
 
Ogni cosa è pronta per il matrimonio di Renzo e Lucia, quando un signore locale, [[don Rodrigo]], scommette con suo cugino il [[conte Attilio]] che sarebbe riuscito a possedere Lucia<ref>L'accenno alla scommessa è riferito nel dialogo tra Attilio e Rodrigo ne [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/134{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. VII, p. 128]]|quarantana}}.</ref>. [[Don Abbondio]], il curato del paese incaricato di celebrare il matrimonio, viene così minacciato durante la sua solita passeggiata serale da due [[bravi (I promessi sposi)|bravi]] di don Rodrigo, affinché non sposi i giovani. In preda al panico don Abbondio cede subito: il giorno dopo imbastisce delle scuse a Renzo per prendere tempo e rinviare il matrimonio, non esitando ad approfittare della sua ignoranza per utilizzare come spiegazione frasi in [[Lingua latina|latino]]. Stizzito dal comportamento evasivo di don Abbondio, Renzo decide di uscire dalla canonica, dove incontra [[Perpetua (personaggio)|Perpetua]], la domestica di don Abbondio, dalla quale, seppur per vie traverse, comprende la natura della titubanza del parroco e lo costringe a rivelare la verità.
 
==== Dall'Azzecca-garbugli all'incontro tra fra Cristoforo e don Rodrigo (capitoli III-VI) ====
[[File:I promessi sposi - ch6.jpg|miniatura|Fra Cristoforo inveisce contro don Rodrigo: «Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. […] e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verrà un giorno....» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/110{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. VI, p. 104]]|quarantana}}).]]
Renzo si consulta con Lucia e con sua madre Agnese e insieme decidono di chiedere consiglio a un avvocato, detto [[Azzecca-garbugli]]; questi inizialmente crede che Renzo sia un bravo e come tale è disposto ad aiutarlo, ma, non appena capisce che il giovane è venuto a chiedergli assistenza legale nei confronti di don Rodrigo, lo manda via bruscamente<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo III{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. III]]|quarantana}}.</ref>. Così i tre si rivolgono a [[fra Cristoforo]], [[cappuccino (frate)|cappuccino]] di un convento poco distante e loro [[padre spirituale]], che si convertì in gioventù dopo aver ucciso un uomo<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo IV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IV]]|quarantana}}.</ref>. Volendo compiere il proprio dovere di proteggere i più deboli dai soprusi dei potenti, il frate decide di affrontare don Rodrigo e si reca al suo palazzo, ma quegli, intento a pranzare con il cugino Attilio, il podestà di Lecco e l'Azzecca-garbugli, lo accoglie con malumore, intuendo il motivo della visita<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/106{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. V, p. 110]]|quarantana}}.</ref>. Cristoforo tenta di farlo recedere dal suo proposito, ma, vista la risolutezza del nobile, gli ricorda il giorno del giudizio in cui dovrà render conto del suo operato davanti a Dio. Irato e al contempo intimorito nel profondo della sua coscienza, don Rodrigo scaccia in malo modo il frate<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo VI{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. VI]]|quarantana}}.</ref>.
 
==== La notte degli imbrogli e dei sotterfugi: la fuga (capitoli VI-VIII) ====
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{{vedi anche|Addio ai monti}}
[[File:I promessi sposi - ch8.jpg|sinistra|min|L{{'}}''Addio ai monti'' illustrato da Francesco Gonin]]
{{Citazione|Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; […]|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/169{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. VIII, p. 163]]|quarantana}}}}
 
Secondo quanto padre Cristoforo ha preordinato, Renzo, Lucia e Agnese scendono alle rive dell'Adda e salgono su una piccola barca. Lucia medita sull'addio ai monti, in una pagina permeata di spiritualità ed [[elegia]]<ref name="Gaspari147"/> dove domina fin dalle prime note un movimento verticale, che va dal cielo alla terra, per risalire di nuovo al cielo e che è come un preludio all'ascensione spirituale contenuta nella chiusa.
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==== In convento a Monza (capitoli IX-X) ====
[[File:I promessi sposi - Monaca di Monza.jpg|miniatura|La [[monaca di Monza]]. «Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/176{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IX, p. 170]]|quarantana}}).]]
Lucia viene accompagnata dal padre guardiano al convento nei pressi di Monza retto da Gertrude, la "signora" (la cui storia è ispirata a quella di suor [[Monaca di Monza|Marianna de Leyva]]), che prende la giovane sotto la sua protezione. Dopo l'incontro con Lucia, Manzoni racconta la biografia della monaca di Monza. Gertrude è figlia del [[Padre della Monaca di Monza|principe padre]], feudatario di Monza<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/184{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IX, p. 178]]|quarantana}}.</ref>, di cui il narratore, seguendo l'Anonimo, tralascia il nome ([[Antonio de Leyva]]). Per conservare intatto il patrimonio del primogenito si era deciso, prima ancora che nascesse, che sarebbe entrata in convento. L'educazione della bambina è dunque continuamente orientata a convincerla che il suo destino di monaca sia il più desiderabile<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo IX{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IX]]|quarantana}}.</ref>.
 
Divenuta adolescente Gertrude comincia a dubitare di tale scelta, ma un po' per timore, un po' per riconquistare l'affetto dei genitori, compie i vari passi previsti per diventare monaca. In convento soggiace alle attenzioni di [[Egidio (personaggio)|Egidio]], uno «scellerato di professione», in una relazione che avviluppa la «sventurata», colpevole non meno che vittima, in un gorgo di menzogne, intimidazioni, ricatti – proferiti e subiti – e complicità, persino nell'omicidio di una conversa, che minacciava di far scoppiare lo scandalo rivelando la tresca<ref group="N" name="conversa"/>.
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==== I tumulti di Milano e la fuga nella Bergamasca (capitoli XI-XVII) ====
[[File:I promessi sposi 208.jpg|miniatura|sinistra|L'arresto di Renzo a Milano]]
A Milano, Renzo, non potendo subito ricoverarsi nel convento indicatogli da fra Cristoforo poiché padre Bonaventura quel giorno era assente, rimane coinvolto nei tumulti allora scoppiati per il rincaro del pane: il gran [[cancelliere]] spagnolo [[Antonio Ferrer]] aveva fissato un prezzo politico per la vendita del pane, che non era stato rispettato in quanto troppo basso ed era diventato la causa della carestia e dei tumulti popolari che andranno sotto il nome di ''tumulti di San Martino'', perché avvenuti per l'appunto l'11 novembre<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XI{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XI-XIII]]|quarantana}}.</ref>. Renzo si fa trascinare dalla folla e pronuncia un discorso in cui critica la giustizia, che sta sempre dalla parte dei potenti<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XIV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XIV]]|quarantana}}.</ref>; è tra i suoi ascoltatori un «birro» in borghese, intenzionato a trovare il modo per arrestarlo. Renzo si ferma in un'[[osteria]] dove, con uno stratagemma, il poliziotto viene a conoscenza del suo nome. Una volta andato via costui, Renzo si ubriaca e rivolge nuovi appelli alla giustizia agli altri avventori<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XV]]|quarantana}}.</ref>.
 
Il mattino dopo Renzo viene arrestato, ma riesce a fuggire dopo aver incitato la folla contro le poche guardie che scappano, e si ripara nella zona di Bergamo, nella [[Repubblica di Venezia]], da suo cugino Bortolo, che lo ospita e gli procura un lavoro sotto falso nome<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XVI{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XVI-XVII]]|quarantana}}.</ref>. Intanto la sua casa viene perquisita ed egli viene fatto credere che sia uno dei capi della rivolta. Nel frattempo il conte Attilio chiede a suo zio, membro del [[Consiglio Segreto del Ducato di Milano|Consiglio segreto]], di far allontanare fra Cristoforo, cosa che il [[conte zio]] ottiene dal [[Padre provinciale (personaggio)|padre provinciale]] dei cappuccini: in questo modo padre Cristoforo viene trasferito a [[Rimini]]<ref name="PS.XVIII-XIX">[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XVIII{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XVIII-XIX]]|quarantana}}.</ref>.
 
==== Il rapimento di Lucia e l'Innominato (capitoli XIX-XXIV) ====
[[File:I promessi sposi - Innominato.jpg|min|L'Innominato.]]
{{citazione|Di costui non possiam dare nè il nome, nè il cognome, nè un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo.|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/377{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XIX, pp. 371-372]]|quarantana}}}}
Don Rodrigo chiede aiuto all'Innominato, potentissimo e sanguinario signore, che però da qualche tempo riflette sulle proprie responsabilità, sulle vessazioni di cui si è reso autore o complice per attestare la propria autorità sui signorotti e al di là della legge, e sul senso della propria vita. Con l'aiuto di Egidio e la complicità di Gertrude, l'Innominato fa rapire Lucia dal [[Nibbio (personaggio)|Nibbio]], e la fa portare al suo castello<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XX{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XX]]|quarantana}}. Per l'identificazione storica del luogo, vedi anche [[#Luoghi manzoniani|Luoghi manzoniani]].</ref>. Terrorizzata, la ragazza supplica l'Innominato di lasciarla libera e lo esorta a redimersi dicendo che «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia»<ref name="misericordia"/>. La notte che segue è per Lucia e per l'Innominato molto intensa: la prima fa un voto di castità alla Madonna perché la salvi e quindi rinuncia al suo amore per Renzo; l'altro trascorre una notte orribile e piena di rimorsi, e sta per uccidersi quando scopre, quasi per volere divino (le campane suonano a festa in tutta la vallata), che il cardinale [[Federigo Borromeo]] è in [[visita pastorale]] nel paese<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXI{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXI]]|quarantana}}.</ref>. Spinto dall'inquietudine che lo tormenta, la mattina si presenta in canonica per parlare con il cardinale. Il colloquio giunge al culmine di una tormentata crisi di coscienza che egli maturava da tempo e sconvolge l'Innominato, che si converte impegnandosi a cambiare vita, iniziando con il liberare Lucia<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXIII{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXIII]]|quarantana}}.</ref>.
 
[[File:Cardinale&DonAbbondio.jpg|min|sinistra|Il colloquio tra il cardinale Federigo Borromeo e [[don Abbondio]].]]
 
==== Tra calamità naturali ed eserciti (capitoli XXV-XXX) ====
Dopo aver provveduto a far ospitare Lucia presso [[don Ferrante (personaggio)|don Ferrante]] e [[donna Prassede]], il cardinale rimprovera duramente don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio. Quindi Manzoni si sofferma a narrare della permanenza di Lucia nel palazzo dei due aristocratici milanesi e ne descrive le figure: don Ferrante, simbolo della decadenza culturale barocca<ref>{{Cita|Frare|pp. 147-165}} ripercorre la condanna culturale, morale e civile degli intellettuali dell'Ottocento nei confronti del [[Barocco]] e del Seicento, in quanto secolo «sciocco e sfarzoso» (p. 155), «intint[o] di superstizione e di magia, provinciale e attardat[o]» (p. 156) ed espressione, in generale, del malgoverno spagnolo in Lombardia.</ref>, è tutto preso dai suoi studi astrusi; donna Prassede, bigotta e perbenista, si è convinta che Renzo sia un poco di buono, sulla base degli ordini di cattura che pendono su di lui per il coinvolgimento nei tumulti di San Martino, ed è risoluta a far sì che Lucia lo dimentichi<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXV{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XXV-XXVII]]|quarantana}}.</ref>. I capitoli successivi alternano digressioni storiche e le vicende dei vari protagonisti<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXVIII{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XXVIII-XXX]]|quarantana}}.</ref>, sullo sfondo della carestia e della discesa in Italia dei [[Lanzichenecchi]], mercenari tedeschi che combattono nella [[guerra di successione al Ducato di Mantova]], i quali mettono a sacco il paese di Renzo e Lucia e diffondono il morbo della [[peste]]. Agnese, che era rimasta nel suo paese natio, parte insieme a Perpetua e don Abbondio e i tre si rifugiano presso l'Innominato, il quale ha aperto il suo castello ai contadini in fuga dalle soldataglie alemanne.
[[File:I promessi sposi 335.jpg|miniatura|Donna Prassede e Lucia: «"Ebbene?" le diceva: "non ci pensiam più a colui?"» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/524{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXVII, p. 518]]|quarantana}})]]
 
==== La peste (capitoli XXXI-XXXVI) ====
Con i Lanzichenecchi [[Peste del 1630|la peste entra in Lombardia e infine a Milano]], sottovalutata inizialmente dalle autorità, in particolar modo dal governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, preso dall'[[assedio di Casale Monferrato (1628)|assedio di Casale Monferrato]], e dal Senato: solo il cardinale Federigo si prodigherà nell'assistenza ai malati, unica autorità rimasta in una Milano abbandonata a sé stessa<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXI{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XXXI-XXXII]]|quarantana}}.</ref>. Di peste si ammalano Renzo, che guarisce, e don Rodrigo, che viene invece tradito e derubato dal Griso, il capo dei suoi bravi che, contagiato anch'egli dalla peste, non riuscirà però a godere dei frutti del suo tradimento<ref name="PS.XXXIII">[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXIII{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXIII]]|quarantana}}.</ref>.
 
[[File:I promessi sposi 421.jpg|min|sinistra|«Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; […]» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/667{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXIV, p. 661]]|quarantana}}).]]
Una volta guarito, Renzo, preoccupato dagli accenni fatti da Lucia per lettera a un suo voto di castità fatto quando era dall'Innominato, torna nel suo paese a cercarla, ma trova una grande desolazione e scopre da un convalescente don Abbondio della morte di Perpetua. Non incontrando Lucia, il giovane viene indirizzato a Milano, dove apprende che è ricoverata nel [[Lazzaretto di Milano|Lazzaretto]]. Nella descrizione della città colpita dal morbo v'è una spaventevole verosimiglianza: non più la luce dell'alba cara al Manzoni, ma la spietata intensità del sole a picco. La descrizione dei carri dei [[monatti]] è pagina potente e sinistra. L'accordo dei vari temi dell'episodio si rivela però nelle note soavi della scena della madre di Cecilia, nell'umoristico contrasto tra l'angoscia dell'ambiente e il comico errore dei monatti su Renzo scambiato per [[untore]]<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXIV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXIV]]|quarantana}}.</ref>.
 
===== La madre di Cecilia =====
Oltre a raccontare le nuove disavventure di Renzo scambiato per untore e una Milano trasformata in un grande cimitero, il capitolo XXXIV si sofferma anche sull'episodio della [[madre di Cecilia]], una bambina ormai morta la quale è posta sul carro dei monatti dalla madre, che li implora di non toccare il piccolo corpo composto con tanto amore e chiede poi di tornare dopo «a prendere anche me, e non me sola»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/669{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXIV, p. 663]]|quarantana}}.</ref>. La donna è presentata piena di dignità umana e di amore materno che riesce a impietosire anche il "turpe monatto" che le voleva strappare la bambina. Il personaggio è descritto accostando coppie di termini in [[antitesi]] collegati da forme oppositive e negative: «una giovinezza avanzata, ''ma non'' trascorsa», «una bellezza velata e offuscata, ''ma non'' guasta, da una gran passione, e da un languor mortale», «la sua andatura era affaticata, ''ma non'' cascante»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/667{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXIV, p. 661]]|quarantana}}.</ref>.
[[File:I promessi sposi 439.jpg|min|L'incontro tra Renzo e Lucia al Lazzaretto.]]
 
===== Il ricongiungimento di Renzo e Lucia =====
Renzo giunge al [[Lazzaretto (Milano)|Lazzaretto]], dove, in mezzo al dolore e alla morte degli appestati, trova fra Cristoforo, giunto in città per soccorrere i più bisognosi. Benché afflitto dalla malattia che l'ha colpito (mortalmente, come si saprà alla fine del romanzo), il vecchio cappuccino si prodiga con tutte le sue forze per alleviare le sofferenze altrui, e inveisce contro Renzo quando quest'ultimo gli parla dei sentimenti di vendetta che nutre verso don Rodrigo, indegni in un animo che aspira ad essere cristiano<ref name="PS.XXXV.683-688">[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXV, pp. 683-688]]|quarantana}}.</ref>. Pentitosi, Renzo si riconcilia con il nobile, ormai morente, e parte alla ricerca di Lucia, senza sapere se sia viva o morta. Trovata risanata, la giovane manifesta ritrosia nel ricongiungersi al suo promesso a causa del voto pronunciato quando era prigioniera dell'Innominato, ma fra Cristoforo, saputo di tale inghippo (non valido perché non teneva conto della volontà di Renzo), la scioglie dai voti pronunciati. Il seguente arrivo della pioggia purificatrice annuncia la prossima fine della pestilenza<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXVI{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVI]]|quarantana}}.</ref>.
[[File:I promessi sposi 462.jpg|sinistra|min|Il matrimonio tra Renzo e Lucia.]]
 
==== Conclusione (capitoli XXXVII-XXXVIII) ====
Lucia viene a sapere dell'arresto di suor Gertrude e sia lei che Renzo tornano al loro paese insieme ad Agnese per potersi finalmente unire in matrimonio. Don Abbondio prima tentenna ma poi, saputo della morte di don Rodrigo, acconsente a celebrare le nozze, allietate dal benvolere della mercantessa amica di Lucia e del marchese, erede dei beni di don Rodrigo. Finalmente sposati, Renzo e Lucia si trasferiscono nella Bergamasca ove Renzo acquista con il cugino una piccola azienda tessile e Lucia, aiutata dalla madre, si occupa dei figli. Hanno una prima figlia che chiamano Maria, come segno di gratitudine alla Madonna, cui ne seguono altri. Solo alla fine dell'ultimo capitolo, però, viene esplicitato il messaggio che Manzoni vuole trasmettere, quello che lui definisce «sugo di tutta la storia», «che [i guai] quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/751{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 745]]|quarantana}}.</ref>. Il narratore si congeda con una diretta allocuzione al pubblico dei lettori, una ''[[captatio benevolentiae]]'' tipica dei congedi teatrali<ref group="N">Si può rilevare, ad esempio, un'analogia nelle parole di Puck nel congedo della [[commedia]] di [[William Shakespeare]] ''[[Sogno di una notte di mezza estate]]'', [[s:Pagina:Rusconi - Teatro completo di Shakspeare, 1858, III-IV.djvu/160|atto V, scena II]]: «Se le nostre ombre leggere vi hanno offeso, immaginate soltanto, e tutto sarà riparato, di aver fatto qui un breve sonno, mentre queste visioni passavano vicino a voi. Indulgenti spettatori, non biasimate questo debole soggetto, e nol guardate che come un sogno; se miti ci sarete, noi ci ammenderemo» (traduzione di Carlo Rusconi).</ref>. Chiedendo venia per sé e per l'anonimo autore dell'ipotetico manoscritto, Manzoni conclude la storia:
{{citazione|La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/752{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, p. 746]]|quarantana}}}}
 
=== Personaggi ===
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Manzoni, facendo di due semplici popolani i protagonisti del suo romanzo, attua anche un radicale cambiamento delle qualità dei personaggi principali: se prima nella letteratura i protagonisti e gli antagonisti dei cicli [[epici]] o dei [[poemi cavallereschi]] erano presi dal mondo eroico o perlomeno nobiliare e ricalcavano, per quanto riguarda le donne, il modello [[Letteratura provenzale|provenzale]]/[[stilnovista]], ora invece con Manzoni e il romanticismo s'impone un modello di personaggio preso dal mondo degli ''umili'', che ricalca qualità naturali e non stereotipate ed è calato nel quotidiano<ref>{{Cita|Varotti|p. 25}}: {{Citazione|[…] anche i personaggi più umili, finanche i reietti della terra, possono assurgere al centro di vicende gravi e drammatiche.}}</ref>. Infatti, gli eroi della ''cantafavola''{{Efn|Così Manzoni chiama il proprio romanzo, appena pubblicato, in una lettera a [[Vincenzo Monti]] del 15 giugno 1827<ref>{{Cita|''Carteggio''|II, lett. 444, p. 281}}.</ref> e in un'altra a [[Gaetano Cioni]] del 10 ottobre 1827<ref>{{Cita|''Carteggio''|II, lett. 478, p. 340}}.</ref>.}} sono «gente meccaniche, e di piccol affare»<ref name="PS.Intr.6"/>, ossia del volgo, che pratica lavori manuali, «riserva[ndo] finalmente la ribalta a quel 'volgo' senza 'nome' che già aveva bussato, urgendo, alle porte del suo teatro e della sua innografia sacra e patriottica»<ref>{{Cita|Langella, 2014|p. 127}}.</ref>. Per esempio, Lucia rompe definitivamente con il resto della tradizione letteraria italiana su come deve essere rappresentata la donna ideale. Nel capitolo XXXVIII, infatti, la giovane suscita la delusione dei molti che erano venuti a vederla e che si aspettavano una bellissima principessa:
[[File:I promessi sposi - Lucia.jpg|miniatura|sinistra|[[Lucia Mondella]] immaginata da Francesco Gonin]]
{{Citazione|Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciare il naso, e a dire: "eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s'aspettava qualcosa di meglio. Cos'è poi? Una contadina come tant'altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n'è per tutto". Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.|[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/748{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, pp. 742-743]]|quarantana}}}}
Basti pensare a come non molti anni prima [[Foscolo]] aveva rappresentato, nelle ''[[Ultime lettere di Jacopo Ortis]],'' la donna amata da quest'ultimo, Teresa: «Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente... tutto tutto era armonia: ed io mi sentiva una certa delizia nel contemplarla»<ref>{{Cita libro|autore=[Ugo Foscolo]<!--senza nome di autore-->|wkautore=Ugo Foscolo|titolo=Ultime lettere di Jacopo Ortis|url=https://books.google.it/books?id=2v8vR5WU9dkC&pg=PA30|città=Italia|editore=s.t.|anno=1802|p=30}}</ref><ref>{{Cita|Langella, 2014|p. 131}}.</ref>.
 
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{{vedi anche|Don Rodrigo}}
[[File:I promessi sposi 405.jpg|min|Il Griso tradisce don Rodrigo.]]
Nobilotto di provincia, gestisce con tirannia il suo [[feudo]], importunando le giovani donne e punendo chi non gli va a genio. Persecutore di Lucia – oggetto di una scommessa tra Rodrigo e il suo cugino, il conte Attilio –, nei primi capitoli del romanzo è la "macchina" che fa scattare il susseguirsi delle vicende: il mancato matrimonio tra Renzo e Lucia; lo scontro con fra Cristoforo; il tentato rapimento di Lucia ad opera dei suoi bravi capeggiati dal Griso nella ''notte degli inganni''<ref>{{Cita|De Michelis|p. 199}}.</ref>. Infuriato per la dipartita della coppia, non appena sa che Lucia si è riparata a Monza, decide di recarsi dall'Innominato perché si occupi lui di rapire una protetta di un'esponente della potente famiglia [[De Leyva]]<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XIX{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XIX-XX]]|quarantana}}.</ref>. Anche questo tentativo fallirà a causa della conversione dell'Innominato: una frustrazione che spingerà Rodrigo a ritirarsi a Milano, vittorioso soltanto sul fronte con fra Cristoforo, esiliato a Rimini dopo l'intervento dell'influente conte zio. All'arrivo della pestilenza, Rodrigo si trova da tempo a Milano e tenta di ignorare il contagio dedicandosi a una vita mondana: verrà colpito e contagiato poco dopo l'orazione funebre del conte Attilio, morto per il morbo<ref name="PS.XXXIII"/>. Tradito dal Griso, desideroso dei suoi tesori, Rodrigo viene portato al Lazzaretto in condizioni pietose, dove Renzo, guidato da fra Cristoforo, lo trova ormai semincosciente in una capanna e lo perdona<ref name="PS.XXXV.683-688"/>{{Efn|Nel ''Fermo e Lucia'', invece, don Rodrigo anticipa la morte: dopo aver visto e seguito di nascosto Fermo e padre Cristoforo per il Lazzaretto, quando viene riconosciuto da loro e da Lucia, prende un cavallo e fugge a perdifiato fino a crepare<ref>[[s:Gli sposi promessi/Tomo IV/Capitolo IX{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. IV, cap. IX, pp. 771-775]]|Lesca}}.</ref>.}}. Suo erede sarà un lontano parente, anonimamente definito «il signor marchese», il quale si rivelerà l'esatto opposto del defunto<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXXVIII{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVIII, pp. 731, 736-740]]|quarantana}}.</ref>.
[[File:I promessi sposi-026.jpg|min|«Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/29{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. I, p. 23]]|quarantana}}).]]
 
===== Don Abbondio =====
{{vedi anche|Don Abbondio}}
[[Curato]] del paese in cui vivono Renzo e Lucia, l'uomo è presentato, nella sua fragile compostezza morale, già dal primo capitolo, mostrandone poi l'evoluzione nel corso dei capitoli successivi in riferimento alla paura delle minacce di don Rodrigo qualora avesse celebrato il matrimonio dei due giovani. Divenuto sacerdote non per [[vocazione]], ma per avere protezione<ref>Celebre la [[litote]]: «Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/26{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. I, p. 20]]|quarantana}}).</ref>, don Abbondio è dipinto in tinte comiche dal Manzoni, per diventare sempre più fosche (e perciò più odiose) davanti alla persistenza del curato nell'affrontare i suoi compiti di ministro della [[Chiesa cattolica|Chiesa]] e, più in generale, quelli come uomo. Risulta, infatti, avaro, oppressore a sua volta nell'usare la sua cultura ai danni di Renzo, per non parlare di quella che è stata definita una "danza macabra"<ref>Eraldo Bellini, ''L'idillio imperfetto (capitoli XXXVII-XXXVIII)'', in {{Cita|Fandella-Langella-Frare|p. 163}}.</ref><ref>{{Cita|Colombo|p. 45}}.</ref> allorquando sa della morte di peste di don Rodrigo definendo l'epidemia una "gran scopa" voluta dalla Provvidenza. Verso la conclusione del romanzo don Abbondio, resosi certo della morte di don Rodrigo, celebrerà il matrimonio tra Renzo e Lucia.
 
===== Fra Cristoforo =====
{{vedi anche|Fra Cristoforo}}
[[File:I promessi sposi 443.jpg|miniatura|sinistra|Padre Cristoforo nel Lazzaretto scioglie Lucia dal voto: «con l'autorità che ho dalla Chiesa, vi dichiaro sciolta dal voto di verginità, annullando ciò che ci potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione che poteste averne contratta» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/713{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXXVI, pp. 706-707]]|quarantana}}).]]
Fra (o padre) Cristoforo, appartenente all'[[ordine dei Cappuccini]], in gioventù si chiamava Lodovico<ref group="N">Il nome è scritto con la grafia Ludovico nel ''Fermo e Lucia'' e nella "ventisettana", Lodovico nella "quarantana".</ref>. Giovane impetuoso e desideroso di emulare i nobili spagnoli, un giorno per strada entra in lite con uno di essi, causando la morte non solo del gentiluomo, ma anche di un proprio servitore, di nome Cristoforo. Ricoverato presso un convento di Cappuccini, ha quel pentimento che lo spinge alla [[conversione (teologia)|conversione]]{{Efn|{{Cita|Nigro, 1988|p. 169}}, riguardo a fra Cristoforo, scrive che «è assurto dal sangue alla missione religiosa». Sempre {{Cita|Nigro, 1988|pp. 131, 170}}, riprendendo il paragone di un confratello riferito da Manzoni<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo IV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IV, p. 81]]|quarantana}}.</ref>, afferma che fra Cristoforo è «l'"[[eufemismo]]" di Lodovico», di cui conserva la forza e l'intraprendenza.}}, a indossare il saio di frate – con il nome religioso di Cristoforo – e a chiedere pubblicamente perdono alla famiglia di colui che aveva assassinato. Nel palazzo nobiliare alla presenza di tutto il parentado fra Cristoforo s'inginocchia ai piedi del fratello dell'ucciso, che, colpito da un gesto così virtuoso, gli concede il suo perdono e lo invita a rimanere, ma il frate, che deve mettersi in viaggio per il luogo del noviziato, accetta soltanto del pane in segno di riconciliazione<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo IV{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. IV, pp. 78-79]]|quarantana}}.</ref>.
 
Padre Cristoforo è profondamente legato ai due protagonisti del romanzo. Per difenderli, si reca al palazzotto di don Rodrigo e lo affronta in una discussione alquanto tesa, in cui proferisce una profetica minaccia («Verrà un giorno....»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/110{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. VI, p. 104]]|quarantana}}.</ref>), che lascia sgomento il suo interlocutore. Quindi organizza la fuga dei suoi protetti. Il cugino di don Rodrigo, il [[conte Attilio]], da parte sua si rivolge all'influente [[conte zio]], il quale invita a pranzo il [[padre provinciale (personaggio)|padre provinciale]] e in un colloquio privato lo informa dei contrasti di suo nipote con il frate e ne suggerisce l'allontanamento<ref name="PS.XVIII-XIX"/>. Quello, per non inimicarsi il conte zio, decide di trasferirlo a [[Rimini]]<ref>A [[Palermo]] nel {{Cita|''Fermo e Lucia'' ([[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/159|tom. II, cap. VIII, p. 309]]|Lesca}}).</ref>. Nel capitolo XXXV, durante la pestilenza fra Cristoforo si ritrova a Milano a soccorrere gli appestati nel Lazzaretto. Il suo ruolo risulta fondamentale per lo sciogliersi del nodo della vicenda: non solo libera Lucia dal voto fatto alla Madonna, ma convince un vendicativo Renzo a perdonare don Rodrigo ormai semincosciente. Il santo frate muore anch'egli di peste, come si scopre nell'ultimo capitolo.
 
===== La monaca di Monza =====
{{vedi anche|Monaca di Monza}}
[[File:Monaca di monza by Mosè Bianchi.JPG|min|[[Mosè Bianchi]], ''Monaca di Monza'', olio su tela, 1865 (Milano, [[Galleria d'Arte Moderna (Milano)|Galleria d'Arte Moderna]]).]]
Suor Gertrude, personaggio ricostruito sul modello di [[Marianna de Leyva|Marianna]], figlia del principe [[Antonio de Leyva]] feudatario di [[Monza]], è uno dei personaggi più complessi e angoscianti che Manzoni propone al pubblico dei lettori. L'analisi psicologica ed esistenziale della donna dal suo permanere in monastero fino alle scelleratezze compiute con [[Egidio (personaggio)|Egidio]] – dettagliatissime nel ''Fermo e Lucia''<ref>[[s:Gli sposi promessi/Tomo II/Capitolo II{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. II, capp. II-VI]]|Lesca}}.</ref> – si riducono a due capitoli (il IX e il X) ne ''I'' ''promessi sposi''. Costretta a prendere i voti contro la sua volontà, dopo essere stata violentata psicologicamente dal padre<ref>Un esempio innel [[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/60{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. II, cap. III, p. 210]]|Lesca}}: «[Geltrude] alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco […], ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa, che tutto il suo coraggio svanì».</ref> desideroso di non scialacquare parte dei suoi beni in una dote matrimoniale, Gertrude viene coinvolta in una relazione amorosa con un giovane scapestrato del luogo, Egidio<ref>[[s:Pagina:Gli sposi promessi II.djvu/87{{Cita|''Fermo e Lucia'', |tom. II, cap. V, p. 237]]|Lesca}}; [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/216{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. X, p. 210]]|quarantana}}.</ref>, con cui ha dei figli, dai quali è costretta a separarsi non appena li ha partoriti. La figura di Gertrude, capace di suscitare forti sentimenti di rammarico e di compassione verso la sua triste vicenda, subisce una netta svolta quando acconsente, senza parteciparvi materialmente, all'assassinio della conversa Caterina, la quale aveva scoperto la tresca tra i due e minacciava di rivelarla<ref group="N" name="conversa"/><ref>{{Cita|Locatelli Milesi|p. 74}}.</ref>. Da quel momento, la ''sventurata''<ref group="N">Manzoni passa da un atteggiamento di pietà nei confronti di Gertrude fino a una netta condanna, quando la monaca da vittima diventa carnefice della conversa Caterina. Perciò, a partire dal capitolo X, il narratore la definisce ''sventurata'' («La sventurata rispose», ne [[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/216{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. X, p. 210]]|quarantana}}).</ref> continua a vivere nell'oscurità dei rimorsi e dei gravi peccati commessi, stato d'animo da cui sembra che sia risollevata grazie al candore e alla gentilezza della sua protetta Lucia, ivi mandata da padre Cristoforo per sfuggire alle grinfie di don Rodrigo. Davanti però ai ricatti morali di Egidio, incaricato per conto dell'Innominato di indurre l'amante a far uscire la sua protetta dal convento, Gertrude non può che cedere, lasciando che i bravi dell'Innominato la rapiscano<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/389{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XX, p. 383]]|quarantana}}: «Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; […]. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia».</ref>. La conclusione della vicenda della monaca di Monza è descritta nel capitolo XXXVII quando, scoperti i suoi delitti, Gertrude viene trasferita in un monastero a Milano per scontare i suoi peccati; qui comprende i suoi errori e incomincia a condurre una vita di penitenza irreprensibile.
 
===== L'Innominato =====
{{vedi anche|Innominato}}
[[File:I promessi sposi - ch23.jpg|min|«[…]; i suoi occhi, che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta» ([[s:Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/437{{Cita|''I promessi sposi'', |cap. XXIII, ppp. 431]]|quarantana}}).]]
 
L'Innominato (il Conte del Sagrato nel ''Fermo e Lucia'') è uno dei personaggi più complessi e inquietanti dell'intero romanzo. Identificato storicamente con [[Bernardino Visconti]]{{efn|name="Cantù52"|L'identificazione del personaggio manzoniano con Francesco Bernardino Visconti fu divulgata per primo da [[Cesare Cantù]] (''L'Innominato'', in {{Cita|''Sulla storia lombarda del secolo XVII''|pp. 52-57}}), al quale era stata rivelata per lettera dallo stesso Manzoni<ref>{{Cita libro|titolo=Lettere di Alessandro Manzoni in gran parte inedite raccolte e annotate|url=https://books.google.it/books?id=m6YypMuekGsC&pg=PA337|curatore=[[Giovanni Sforza (storico)|Giovanni Sforza]]|città=Pisa|editore=coi tipi dei ff. Nistri|anno=1875|p=337}}</ref>.}}<ref>{{Cita|Russo|p. 39}}.</ref>, nobile che si dedicava a guerreggiare con gli spagnoli, l'Innominato è presentato ormai sul limitare della vecchiaia, e roso interiormente dai dubbi di una vita condotta a perpetrare assassini e altre scelleratezze nei confronti dei più deboli. Incaricatosi di rapire Lucia dal monastero di Monza con un inganno, l'Innominato si lascia turbare dalla semplicità e dalla fragilità emotiva della giovane, che scatenano in lui quel turbamento interiore già iniziato prima dell'arrivo della giovane al suo castello<ref>{{Cita|Langella, 2014|p. 134}}: «[…], per cui la conversione dell'Innominato non segue più il modello [[Paolo di Tarso|paolino]] della folgorazione ''[[ex abrupto]]'', ma quello [[Agostino d'Ippona|agostiniano]] del processo lento e graduale, […]».</ref>. La notte successiva all'arrivo di Lucia, conosciuta come ''notte dell'Innominato''<ref>{{Cita|Tentorio|p. 9}}.</ref>'','' vede l'uomo fronteggiarsi con la propria coscienza, talmente lacerata dal senso di colpa che lo spinge ad un passo dal suicidio. Soltanto l'alba e il suono delle campane, annuncianti l'arrivo del cardinale [[Federico Borromeo]] in visita pastorale presso quei luoghi, lo deviano dal mortale proposito, spingendolo anzi a recarsi al villaggio vicino per parlare con l'alto prelato. Questi, che lo accoglie con fare paternalistico (quasi a ricordare la [[parabola del figliol prodigo]]<ref>{{Cita|Nigro, 1995|p. 477}}.</ref>), lo spinge definitivamente alla conversione: l'Innominato, cambiato radicalmente, si dedica ad una vita di [[Carità|opere buone]] e di [[misericordia]], liberando ''in primis'' Lucia e poi ospitando, durante la discesa dei [[lanzichenecchi]], gli abitanti della zona nella sua fortezza<ref>[[s:I promessi sposi (1840)/Capitolo XXIX{{Cita|''I promessi sposi'', |capp. XXIX-XXX]]|quarantana}}.</ref>.
 
== Fortuna del romanzo e critica letteraria ==
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=== L'Ottocento ===
Già quand'era in vita, Manzoni ebbe ammiratori incondizionati e osteggiatori implacabili: ammirazione sconfinata venne da [[Francesco de Sanctis]], [[Giovanni Verga]], [[Luigi Capuana]]<ref>{{cita|Tellini, 2007|p. 324}}.</ref> e da [[Giovanni Pascoli]], che al suo «immortale romanzo» dedicò in seguito il saggio ''L'eco d'una notte mitica'' (1896), ravvisando nella [[#La notte degli imbrogli e dei sotterfugi: la fuga (capitoli VI-VIII)|notte degli imbrogli e dei sotterfugi]] la trasformazione dell'ultima notte di Ilio<ref>{{cita|Pascoli|pp. 2, 5}}.</ref>. Nel secondo gruppo, invece, rientrano gli [[Scapigliatura|Scapigliati]], che videro in Manzoni l'espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato e che si rivela anche nei confronti del romanzo, pieno di buoni sentimenti e perciò tendente ad un ricercato patetismo<ref>Significativa è ''[[s:Penombre/Preludio|Preludio]]'' di [[Emilio Praga]], in cui lo scapigliato annuncia l'ora degli «antecristi» in contrapposizione al «Casto poeta che l'Italia adora».</ref>; [[Giosuè Carducci]], estimatore dell{{'}}''Adelchi'', fu implacabile critico del romanzo e della scelta linguistica adottata da Manzoni<ref>{{cita|Tellini, 2007|p. 323}}.</ref>.
 
Il successo del romanzo manzoniano diede inoltre il via al fenomeno del ''[[manzonismo]]'', sia in campo linguistico ([[Ruggiero Bonghi]], [[Edmondo de Amicis]]), sia in quello prettamente creativo, originando un «parassitismo manzoneggiante» che spinse [[Luigi Gualtieri]] a comporre ''L'Innominato'' e [[Antonio Balbiani]] romanzi come ''Lasco il bandito della Valsassina: sessant'anni dopo I promessi sposi'', ''I figli di Renzo Tramaglino e di Lucia Mondella'', ''L'ultimo della famiglia Tramaglino''<ref>Ermanno Paccagnini, ''L'"epoca di transizione"'', in {{Cita|Farinelli-Mazza Tonucci-Paccagnini|p. 166}}.</ref>.
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[[File:The betrothed by Charles Swan.png|miniatura|verticale|Frontespizio del primo volume della traduzione inglese di Charles Swan, ''The Betrothed Lovers'' (1828)]]
# ''In [[Francia]]''. Nella patria elettiva di Manzoni, dove lo scrittore risiedette per vari anni e strinse amicizia con gli ''idéologues'' e in particolar modo con il linguista Claude Fauriel, ''I promessi sposi'' ebbero inizialmente un'edizione pirata in italiano, pubblicata a Parigi da Louis Claude Baudry nel 1827. La prima traduzione francese, con il titolo ''Les Fiancés'', fu eseguita da Antoine Rey-Dussueil e fu pubblicata con il permesso dell'autore sempre a Parigi da Charles Gosselin nel 1828; nello stesso anno uscì anche la versione di Pierre Joseph Gosselin per la libreria editrice Dauthereau. Il romanzo riscosse successo presso i letterati del tempo, quali [[Alphonse de Lamartine]], [[François-René de Chateaubriand]] e [[Auguste Comte]], meno invece presso [[Honoré de Balzac]]<ref>{{Cita|''In Francia''}}.</ref>.
# ''Nel [[Regno Unito]]''. La prima traduzione inglese, con il titolo ''The Betrothed Lovers'', fu fatta dal pastore [[Anglicanesimo|anglicano]] Charles Swan e pubblicata a Pisa da Niccolò Capurro nel 1828. A parte un'incomprensione, dovuta alla vena ironica di Manzoni non congeniale ai britannici{{Efn|Nel capitolo VII, citando una frase di [[Shakespeare]] (''[[Giulio Cesare (Shakespeare)|Giulio Cesare]]'', atto II, scena I, vv. 63-65), Manzoni lo chiama «un barbaro che non era privo d'ingegno»<ref>[[s:Pagina:I promessi sposi (1825) I.djvu/209{{Cita|''I promessi sposi'', |tom. I (1825), cap. VII, p. 202]]|ventisettana}}.</ref>. In uno scambio di lettere, di cui dà conto nella prefazione alla sua traduzione, Swan se ne risentì, ma Manzoni se la cavò affermando che l'epiteto era ironico e l'espressione rimase invariata nella "quarantana".}}, il romanzo fu accolto in Inghilterra con luci e ombre: [[Mary Shelley]], ad esempio, l'autrice del ''[[Frankenstein o il moderno Prometeo|Frankenstein]]'', elogiò Manzoni per il suo realismo e per la sua acutezza psicologica, ma ne condannò l'ideologia cristiana e, a suo dire, bigotta di fondo<ref>{{Cita|''In Inghilterra''}}.</ref>.
# ''In [[Spagna]]''. A causa del [[Decennio nefasto spagnolo|decennio nefasto]] (1823-1833), ultima parte del regno di [[Ferdinando VII di Spagna|Ferdinando VII]] determinata dalla lotta al [[liberalismo]] e alla cultura in generale, Manzoni approdò in Spagna solo nel 1823 con la [[rivista]] [[Catalogna|catalana]] «El Europeo». Su questa rivista il letterato italiano esule Luigi Monteggia pubblicò un lungo articolo, intitolato ''Il Romanticismo'', in cui Manzoni figura tra i massimi esponenti del [[Romanticismo|romanticismo europeo]]. Chiusa nel 1824 per ordine reale, l'eredità della rivista catalana fu raccolta poi da «El Vapor», aperta nel 1833<ref>{{Cita|''In Spagna''}}.</ref>.
# ''In [[Germania]]''. Le prime traduzioni tedesche de ''I promessi sposi'', con il titolo ''Die Verlobten'', furono quella di Daniel Lessmann, pubblicata a Berlino nel 1827, e quella di Eduard von Bülow, edita a Lipsia nel 1828<ref name="InGermania">{{Cita|''In Germania''}}.</ref>. Dopo aver letto il romanzo manzoniano appena uscito, in una conversazione del 23 luglio 1827 Goethe espresse a [[Johann Peter Eckermann]] il suo famoso giudizio, secondo cui Manzoni era "un poeta nato" («ein geborener Poet»), ma la sua opera soffriva di "un eccessivo peso della storia" («ein Übergewicht der Geschichte»)<ref>Così Goethe, in {{Cita libro|autore=[[Johann Peter Eckermann]]|titolo=Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens (1823-1832)|url=https://archive.org/details/gesprchemitgoei02goetgoog/page/n7/mode/2up|volume=1|città=Leipzig|editore=F. A. Brockhaus|anno=1836|pp=380-381|lingua=de|SBN=LO11238049}}</ref>. In generale però l'opinione pubblica tedesca, fino agli anni '20 del XX secolo, avrebbe trovato gradevole il romanzo italiano<ref name="InGermania"/>.