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Piccolomini
Blasonatura

D'argento, alla croce d'azzurro, caricata di cinque lune montanti d'oro.
D'argento, alla croce d'azzurro, caricata di cinque lune montanti d'oro; col capo d'oro al'aquila spiegata di nero, coronata dell campo


Et Deo et hominibus
Ornamenti:Lambrecchini azzurri e neri
Luoghi:Repubblica di Siena, Stato Pontificio, Regno di Napoli
Titoli:Patrizi di Siena, Conti Palatini, Duchi di Amalfi
Capostipite:Piccolomo
Rami:Ramo di Rustichino
Ramo di Bartolomeo
Ramo di Ugo
Testo ultima riga

Antica famiglia di Siena.

Storia della famiglia

Questa famiglia ha origini molto antiche. Come afferma il Malavolti, è plausibile che i Piccolomini siano di origine franca o germanica, alla stregua di molte altre antiche famiglie senesi del tempo. Così, come sembrerebbe emergere da un atto di compravendita del 1098, ove un Martino di Piccolomo dichiarava di vivere insieme alla moglie Rozza sotto la legge longobarda[1].

Le origini leggendarie

 
Re Porsenna. Secondo Caio Vibenna, chiese l'intervento di Bacco di Piccolomo contro i Romani
 
Orazio Coclite, antenato leggendario dei Piccolomini, in una incisione di Hendrick Goltzius

Intorno alla metà del XV secolo cominciarono a fiorire scritti sulla origine mitica della famiglia. Il poeta fiorentino, Leonardo Dati, alla corte di Pio II, tradusse, dal latino, un libretto di Caio Vibenna, in cui compariva un Bacco di Piccolomo, signore del castello di Montone, chiamato dal re Porsenna a soccorrere, Tarquinio il Superbo scacciato da Roma. "... andò in aiuto a quel re contra i romani con dugento homini a piedi e cinquanta a cavallo, [inalberando] la sua insegna di color bianco con croce azura adentro meze lune d'oro come è oggi l'arme di questa famiglia..."[2] [3]. Il papa Piccolomini, lungi dal farsi tentare da queste suggestioni mitiche, era comunque convinto, che la sua famiglia affondasse le sue radici nell' antica Roma, per il frequente ricorrere dei nomi Silvio, Enea o Ascanio[4] Altri scritti, conservati negli atti della consorteria Piccolomini e custoditi nell'Archivio di Stato di Siena, evocano un'ascendenza dai re di Albalonga[5], con un' improbabile salto indietro nel tempo di oltre duemila anni. È comunque certo che tutta la memorialistica genealogica concorda nell'attribuire a questa famiglia un'origine oltremodo antica.

Nel XVII secolo due fratelli Piccolomini, del ramo di Modanella si accingevano a fare un grande albero genealogico della famiglia. Per suggellare con una certificazione legale la loro antica genealogia diedero incarico ad un notaio, Alessandro Rocchigiani, di mettere ordine nelle varie fonti che dissertavano sull'origine della famiglia. Evidentemente il fascino del mito, misto alla riverenza dovuta agli illustri committenti, invece di eliminare le componenti leggendarie finì per aumentarle. Orazio Coclite, fu indicato, dallo zelante notaio, come nuovo capostipite, certo, della famiglia. Indubbiamente certe coincidenze destano stupore. Infatti, nella colonna che ornava il Campidoglio, risaltava scolpita, nello scudo dell'antico romano, la sua impresa, identica a quella della famiglia senese[6]. Una volta agganciata ad Orazio, la stirpe dei Piccolomini aveva, nell'antica Roma il nome di Parenzi e da qui, poi un suo componente, scelse come nuova residenza la colonia Senese. Dove abbandonò il suo nome , Chiaramontese, per mutarlo in Piccholuomo.[7].

La Storia

In tempi più recenti, il riferimento più antico ai Piccolomini, emerge quando Siena non era ancora eretta a Repubblica. L'imperatore Arrigo II[8], nominò Salamone Piccolomini, suo procuratore e governatore del territorio senese, nel 1055 e secondo quanto asserisce il Bisdomini, lui e suo fratello Matteo costruirono due torri cittadine, di cui, una, sulla strada che conduceva a Roma[6].
In quel tempo il loro stemma non era ancora ben definito, e spesso nella croce azzurra apparivano più mezzelune delle cinque comunemente conosciute.

 
Tavoletta di Biccherna del 1324. È presente un antico stemma Piccolomini con sei lune[9]

Sono ricordati come appartenenti ai Grandi di Siena e furono fra i primi ad essere ascritti al monte dei Gentiluomini. Rustichino di Orlando e Guglielmo di Piccholuomo parteciparono al governo della città come "Consoli" della giovane Repubblica nel 1160 e nel 1170. Rainerio di Montonio e Rustichino di Piccolomo nel 1178 e 1228[1].

Già da tempi antichissimi possedevano il castello di Val di Montone che sorgeva su uno dei tre colli a ridosso dei quali si sarebbe poi sviluppato il tessuto urbanistico della Siena medioevale. Nel 1220, Engelberto d'Ugo Piccolomini ricevette il feudo di Montertari in Val d'Orcia dall'imperatore Federico II come premio per i servizi resi[1].

La famiglia acquisì palazzi e torri a Siena e vari castelli nel territorio della Repubblica. Alcuni fra le più antiche di queste proprietà, come Montone e Castiglione, furono venduti a Siena, nel 1321.

I Piccolomini ottennero grandi ricchezze tramite il commercio e stabilirono uffici contabili a Genova, Venezia, Aquileia, Trieste e in varie città di Francia, Inghilterra, Germania ed Austria.

 
Ufficio contabile e mercantile nel Medio Evo

Sostenitori della causa Guelfa, allorché la parte Ghibellina, nel 1260 con la Battaglia di Montaperti trionfò in Toscana, furono costretti, come tanti altri, a prendere la via dell'esilio e le loro case e possedimenti vennero devastati e distrutti. Rientrarono in patria con l'aiuto francese, ma furono nuovamente scacciati durante il breve regno di Corradino. Dopo le battaglie di Tagliacozzo (1268) e Colle val'Elsa(1269), nelle quali gli Svevi e la parte ghibellina furono definitivamente sconfitti da Carlo I d'Angiò, i Piccolomini tornarono trionfalmente a Siena e perseguirono con determinazione gli appartenenti alla fazione ghibellina[10].

Queste continue lotte fratricide, indebolirono sensibilmente, l'influenza commerciale della Repubblica, a tutto vantaggio dei rivali fiorentini, che forti della vittoria guelfa andarono ad occupare i più importanti nodi commerciali, prima detenuti dai senesi. In questo contesto, i Piccolomini, più lungimiranti di altri si ritirarono dal commercio, evitando la lunga catena di fallimenti che coinvolse altre potenti famiglie senesi. Mentre risolsero di dedicarsi al consolidamento delle loro ricchezze e del loro dominio terriero, seppure con discrezione e riservatezza, rimasero ai vertici dello stato e parteciparono attivamente al governo della repubblica, essendo il loro prestigio rimasto inalterato[10].

Attraverso i vari rami della famiglia, estesero, nel corso degli anni successivi, le loro signoriasignorie ad Alma, Castiglioncello, Amorosa, Roccalbegna, Torre a Castello, Porrona, Triana, Castiglione d'Orcia, Ripa d'Orcia, Batignano, Celle, Castiglion della Pescaia, Radicofani, la citata Montertari, Sticciano, Modanella, Montemarciano, Camporsevoli, l'Isola del Giglio, Castiglion del Bosco, Capestrano, Celano, Amalfi, Nacod in Boemia, Valle nel Regno di Napoli.

Inoltre possedevano Corsignano, chiamato poi Pienza, la fortezza di Castiglion Baroti, Bibbiano Cacciaconti e Bibbiano Guilleschi, Castelnuovo Berzi e vasti territori a Montalcino, Rosia, Radi, Arbiola, Asciano, Abbadia Ardenga, Montefollonico, Rapolano, Poggio S. Cecilia, Montichiello, Bettolle, Vergelle ed altri luoghi minori[10].


Discendenza di Piccolomo

Discendenza di Piccolomo

 
Linee del ramo di Bartolomeo

La discendenza di Piccolomo, tramite i due figli, Bartolomeo e Rustichino, fin dalle origini si divise in due grandi ramificazioni, all'interno delle quali si svilupparono le diverse linee genealogiche. È noto anche un terzo figlio, Ugo, che ebbe discendenza. Tale linea, però non è stata illustrata da nessun genealogista, probabilmente perché estinta in tempi remoti.

 
Le torri di Siena in un antico dipinto

Nel basso Medioevo esistevano diversi istituti giuridici a protezione dell'integrità dei beni familiari, come i fedecomissi, la primogenitura e le commende. La costituzione della Consorteria Piccolomini, rimasta sempre in vigore e voluta da uno dei discendenti di Bartolomeo, il papa Pio II, rafforzò ulteriormente l'unione politica e patrimoniale della famiglia.

La consorteria, prevedeva infatti, là dove un ramo dovesse terminare con un componente femminile, l'aggregazione o adozione dell'eventuale consorte nella famiglia Piccolomini con l' obbligo di sostituire o aggiungere il cognome e sostituire o inquartare lo stemma.

 
Un'esempio di albero genealogico della stessa epoca

Oppure era prevista l'unione matrimoniale con un componente di altra linea genealogica. In entrambi i casi dovevano essere assunti tutti gli obblighi e i benefici conseguenti all'ingresso nella consorteria, con trasferimento del patrimonio, dei titoli nobiliari e dei predicati. Nell'albero genealogico del 1688[11], era posta una puntuale distinzione, tra Piccolomini estranei, ovvero adottati, e Piccolomini aggregati. La distinzione non era solo formale. Gli aggregati, infatti, potevano partecipare alle assemblee consortili, con gli stessi privilegi e attribuzioni dei Piccolomini originari. Inoltre all'epoca le linee genealogiche erano numerosissime, per cui venne fatta una distinzione che, in pratica, divideva la famiglia in tre categorie[11].


I Piccolomini originari, che erano: Piccolomini Alamanni, Guglielmini,Turchi, Montoni, Chiaramontesi, Ugoni, Rustichini, Modanelli o di Modanella, Spinellesi o della Triana, Salmoneschi, Mandoli, i Carli ed i Clementini.
I Piccolomini aggregati, che erano: Piccolomini Todeschini, Piccolomini d'Aragona e di Castiglia.
I Piccolomini estranei, che erano: Pieri o di Sticciano, Del Testa, Ammannati, Loli, Patrizi, Miraballi, Spannocchi, Cesarei, Bandini, Lucentini, Siverii[11].

Tale sofisticata struttura, rende, talvolta, disagevole la lettura della genealogia di questa famiglia. Per questo motivo vengono esposte le linee genealogiche storicamente più significative e quelle superstiti.

Ramo di Bartolomeo

Guglielmo di Bartolomeo detto Cencio attraverso il figlio, altro Guglielmo, detto Guglielmino, diede origine al ra-
mo di Pio II a cui si aggiunsero quelli delle sorelle, detti delle Papesse. Il fratello di Guglielmino, Bartolomeo, attraverso i suoi due figli, Conte e Salomone, diede origine ad altre due importanti linee, denominate rispettivamente di Modanella e dei Salamoneschi

Piccolomini di Modanella

Genealogia essenziale - Piccolomini di Modanella

 
Genealogia essenziale - Piccolomini di Modanella

Questo ramo fu originato da Conte di Guglielmo. Dopo le sanguinose guerre fratricide del XII secolo, Conte insieme al padre fu tra quelli, che giurarono la pace definitiva tra Guelfi e Ghibbelini. Conte ricevette in eredità dal padre il castello di Modanella. Località dalla quale prese il nome questa linea. Probabilmente questa proprietà, che fu edificata dai Cacciaconti, giunse alla famiglia per effetto del matrimonio avvenuto tra Bonizella Cacciaconti ed un certo Taddeo Piccolomini.

 
Fortezza di Modanella - Siena (Castello della famiglia Piccolomini)

I personaggi notabili furono diversi. Se ne ricordano brevemente solo alcuni.

  Liduino - Conte del Sacro Romano Impero (1648)

  • Liduino di Francesco (1615 - 1681). Fu preposto della Cattedrale di Trento, curò il restauro di varie strutture, tra cui il Palazzo della Prepositura, che aveva accolto molti prelati illustri, durante il Concilio, ed in precedenza, lo stesso Enea Silvio, poi Pio II.
     
    La cattedrale di San Vigilio, Duomo di Trento, in un dipinto d'epoca
    Personaggio colto e raffinato, viene ricordato come proprietario della raccolta d’arte [16] più prestigiosa mai sorta in territorio trentino[17],parte della quale è conservata nella Pinacoteca di Siena. Fu il procuratore dei vari vescovi che si succedettero nel Principato Vescovile di Trento. Dotato di una perizia diplomatica non comune, fu ago della bilancia nelle frequenti controversie che avvenivano tra i potenti signori feudali del territorio. Territorio che fra l'altro stava molto a cuore dell'imperatore Ferdinando III d'Asburgo. Tali uffici e i molti altri svolti, durante il suo lungo mandato, gli valsero, nel [[1648], la nomina a conte del S.R.I., titolo che fu esteso ai suoi fratelli e a tutti i componenti maschi della famiglia.
    Fu anche il procuratore del cardinale Ernesto Adalberto d’Harrach, il quale durante il suo breve mandato fu quasi sempre impegnato in altre sedi. Per questo motivo Liduino ebbe un ruolo importante[16] ed esclusivo nell'organizzare l'accoglienza ed il successivo viaggio versoVienna, della Principessa Margherita, figlia di Filippo IV di Spagna, e promessa sposa dell'imperatore Leopoldo I. Circostanza questa che gli permise di acquisire visibilità nei confronti della futura Imperatrice.
    Viene ricordato con un busto marmoreo, lo stemma gentilizio e diverse epigrafi, inseriti sulla facciata del Palazzo della Prepositura. Il suo sarcofago è custodito nella cattedrale.
  • Antonio, nipote(ex frate) di Liduino e figlio di Francesco, anch'egli prelato, seguì lo zio, nel Principato Vescovile di Trento, dove presidiò. il territorio, curando il restaurò di diversi luoghi. In particolare fu a capo dell'antico priorato di Sant'Egidio o di Ospedaletto, di cui curò il profondo restauro, così lontano dalla sua patria senese[18].
     
    Stemma Piccolomini sulla canonica di Sant'Egidio e i pochi resti di un affresco dell'Annunciazione. Ospedaletto
  • Enea, nipote (ex frate) di Liduino e figlio di Francesco ( seconda metà XVII secolo ), si trasferì a Vienna ove ricoprì la carica di Cavaliere delle Chiavi d'Oro e Ciambellano dell'imperatore.
  • Francesco Maria di Niccolò fu l'ultimo vescovo di Pienza, allorché questa diocesi nel 1772 fu unita a quella di Chiusi.
  • Enea Silvio di Niccolò (XVII Secolo), al servizio dell'imperatore, divenne Generale Imperiale. Morì in battaglia inTransilvania.

I Piccolomini di Modanella si estinsero con due femmine entrambe con il nome di Caterina.

  • Caterina di Antonio si unì in matrimonio con il barone Giuseppe Spannocchi nel 1774, che entrò a far parte della consorteria, con partizione dello stemma gentilizio, l'acquisizione del titolo comitale e l'anteposizione al proprio del cognome Piccolomini. I Piccolomini Spannocchi si estinsero nel XIX secolo.
  • Caterina di Muzio si unì in matrimonio con Flavio Naldi, nella seconda metà dell'ottocento. Il padre di Flavio era un Piccolomini Salamoneschi, ma dopo aver rinunciato al cognome, assunse quello di Barbara Naldi, sua moglie, inquartandone anche lo stemma. Ciò al fine di adempiere alle disposizioni testamentarie dello zio di Barbara, Mattias, che in questo modo gli consentiva di succedere nella primogenitura, acquisendo il patrimonio di famiglia.[14]. Flavio, sposando Caterina, ottenne il rientrò nella consorteria, e aggiunse a quello dei Naldi, il cognome Piccolomini Vedi

Ramo di Pio II e delle Papesse

Questa linea, come abbiamo osservato, discende direttamente da Bartolomeo, tramite Gugliemino di altro Guglielmo detto Ciencio. Dotata di grandi mezzi, finanziò la Repubblica in diverse occasione, divenendone largamente creditrice. In particolare durante i conflitti sostenuti nei confronti dei ContiAldobrandeschi di Santa Fiora, Siena dovette dare in pegno alcune località strategiche come Castiglion d'Orcia nel 1315[19] e successivamente per saldare un debito di 17.450 fiorini d'oro dovette vendere il Borgo e la Rocca e Pietra d'Albegna (successivamente chiamata Roccalbegna) nel 1318[20][21]. Attore di queste transazione fu Meuccio di Guglielmino[20], che non avendo mire di dominio su questi territori, di buon grado ne consentì il riacquisto da parte del Comune. Rispettivamente nel 1321 e nel 1324. Insieme al fratello Corrado a cavallo del XIII e XIV secolo, si impegnarono a consolidare il loro patrimonio fondiario e immobiliare, nella zona diCorsignano. Da Corrado dopo tre generazioni troviamo Silvio che nel 1405 sposa Vittoria Forteguerri. Da questo matrimonio nacque Enea Silvio, divenuto poi Papa Pio II.

  Pio II 210º papa della Chiesa cattolica (1459 - 1464)  

  • Enea Silvio (Corsignano 1405 - Ancona 1464). Fu il maggiore di 18 fratelli, iniziato agli studi di giurisprudenza per volere del padre, fin da giovanissimo fu attratto dagli studi umanistici e dal ridondante fascino di Filelfo e di altri umanisti del tempo.
     
    Enea Silvio Piccolomini parte per il Concilio di Basilea
     
    Callisto 0III eleva Enea Silvio Piccolomini a Cardinale
    Spiccata fu la sua cultura nelle lettere latine e classiche]. Compositore di [poesia|poesie in latino e in [[Lingua volgare|volgare**[22].
    Come laico, sin dall'età giovanile, divenne segretario di diversi alti prelati. Nella disputa scaturita durante il concilio di Basilea, tra numerosi padri conciliari ed il papa Martino V prima, ed il suo successore Eugenio IV, dopo, si schierò, apertamente, contro quest'ultimo[23]. Tenne nel 1439 la cura esterna del conclave che elesse l'antipapa Felice V (al secolo Amedeo VIII di Savoia), di cui divenne segretario. Al servizio di Bartolomeo Visconti, Vescovo di Novara, tentò lo stesso anno, di favorire l'arresto di papa Eugenio, che era esule a Firenze, ma scoperto, prese la via dell'esilio[23].
    Al seguito del cardinale Niccolò Albergati, si rifugiò i Borgogna e per conto dello stesso, si recò in Scozia, per poi tornare a Basilea, dove, come scrittore e resocontista del concilio, continuò la sua lotta antipapale. In questo periodo ottenne, per le sue capacità, importante visibilità, ribadita dalla pubblicazione di un un Libellus [24], in cui difese con ardore e determinazione (1440), l'autorità e la supremazia del concilio nei confronti del papa.
    Nel 1442 accadde un episodio importante nella sua vita: inviato alla dieta di Francoforte, fu onorato con la corona di poeta, dall'imperatore Federico III, che, soprattutto, lo assunse come segretario della cancelleria imperiale. Negli uffici di corte, iniziò un nuovo percorso, che mutò profondamente il suo atteggiamento sulla questione conciliare. Questo nuovo corso lo portò a preferire allo scontro diretto, la via diplomatica e della composizione[22]. Fu inviato nel 1445 ambasciatore a Roma, dove ritrattò con convinzione tutte le teorie sostenute in passato, ottenendo l'assoluzione ed il perdono di Eugenio IV[25]. L'anno successivo, nel marzo del 1446, decise di abbandonare la vita laica e preso da autentico fervore religioso, fu ordinato diacono, poi prete per andare, come canonico, nel duomo di Trento.
    Nel 1453, grazie ai numerosi servigi diplomatici resi, ottenne dall'imperatore Federico, il titolo di conte palatino, esteso a tutti i componenti maschi della famiglia, nonché il privilegio di aggiungere nello stemma gentilizio il capo dell'impero[26].
    Nella sua attività di pontefice, non dimenticò mai la sua famiglia, che volle mantenere potente ed unita, istituendo l'accennata Consorteria. Non nascose mai il suo atteggiamento nepotistico[25], combinando prima il matrimonio del nipote Antonio con una figlia naturale di Re Ferrante d'Aragona, dando poi la porpora cardinalizia al nipote Francesco (futuro papa Pio III), distribuendo feudi agli altri figli della sorella Laudomia, sposa di Nanni Todeschini Piccolomini. Per citare solo gli esempi più eclatanti.
    Va inoltre ricordato il suo amore per l'arte. A Siena fece costruire le logge dette del papa, il grande Palazzo delle Papessee diede inizio alla costruzione del palazzo Piccolomini. Trasformò, sotto la guida del Rossellino la sua nativa Corsignano, in quello che sarebbe diventato un gioiello del fiorente rinascimento italiano: Pienza[26].
  Lo stesso argomento in dettaglio: Papa Pio II.

Dalle due sorelle di Pio II, che, per effetto dei vincoli consortili, portarono, ai rispettivi mariti, il cognome Piccolomini, nacquero due ramificazioni importanti, volgarmente dette delle Papesse, qualificazione onorifica, assegnata alle sorelle[27], dallo stesso pontefice. Il predicato delle Papesse, in effetti non fu mai ufficialmente usato, anche se i senesi, solevano attribuirlo ai signori di Sticciano, discendenti di Caterina[28][27][29], che avevano assunto come dimora, il palazzo dedicato alle due sorelle del papa.

Piccolomini Todeschini

Questa linea discende da Laudomia e Nanni Todeschini di Sarteano, che fu adottato nella famiglia da Pio II, con assunzione dello stemma piccolomineo ad esclusione del proprio. Quest'ultimo divenne nel 1460 Governatore dell'Umbria per conto della chiesa[30]. Ebbe oltre Pio III altri tre figli, che generano altrettanti rami.

  Pio III 215º papa della Chiesa cattolica (1503) 
  • Francesco (Siena o Sarteano 1439 – Roma 1503). La sua educazione, fin dai primi anni, fu curata con particolare attenzione dallo zio materno. Questi, nei suoi viaggi in europa, portò con se il nipote, appena adolescente, che già a quattordici anni cominciò a frequentare l'università di Vienna.
     
    Incoronazione di Pio III

    Continuò i suoi studi, umanistici e giuridici, a Ferrara e a Roma, con insegnati di prim'ordine, come Giacomo Tolomei e Andrea Benzi, per poi conseguire il dottorato a Perugia[31]. Subito dopo l'ascesa dello zio al soglio pontificio, a soli ventitré anni, nel 1460, quando già era amministratore della diocesi arcivescovile di Siena, fu nominato Cardinale e, caso assai inconsueto, non essendo stato ordinato sacerdote, intraprese la sua carriera ecclesiastica come diacono[32]. Successivamente ebbe l'investitura di numerose prepositure e diaconati, in Italia e all'estero, con la successiva nomina a legato pontificio nella Marca (circoscrizione) di Ancona[33]. In realtà in questi anni risiedette quasi sempre aRoma, dove aveva un palazzo, di recente acquisizione, che divenne una sede sontuosa dotata di una ricchissima biblioteca e ornata di diverse [[opere d'arte], in particolare da una ricchissima collezione di statue antiche[34]. Nel1464, quando lo zio lasciò Roma, per preparare la crociata contro i Turchi, fu nominato vicario generale "in temporalibus", in un primo tempo di Roma e successivamente di tutto lo Stato Pontificio[35]. Tutte queste prerogative facevano intravedere una minuziosa preparazione ad una probabile successione di Francesco allo zio, sul soglio pontificio.
    L'improvvisa e prematura morte di Pio II colsero, il cardinale ed il partito piesco, di sorpresa. La politica nepotistica e la simonia, sempre praticate dallo zio, avevano creato non pochi malumori nella curia. Di fatto, dopo l'elezione del nuovopontefice, fu allontanato dal potere e relegato nella sua città natale[36].
     
    Libreria Piccolomini nel Duomo di Siena, voluta da Pio III - Un affresco

    La sua fama di uomo probo, la sua cultura giuridica ed ecclesiastica, la sua fine diplomazia gli consentirono di tornare gradualmente in gioco, guadagnandogli una posizione da protagonista nella composizione degli scismi religiosi che scuotevano l'Europa centrale. La sua buona conoscenza della lingua e delle problematiche tedesche, svolsero un ruolo di primo piano nel conseguimento di indiscutibili successi. Dopo la morte di Pio II, nei quaranta anni che seguirono, salirono sul trono di Pietro quattro pontefici e ad ogni conclave il nome del cardinale senese fu sempre tra i papabili. Si seppe destreggiare tra le numerose insidie che scuotevano le fazioni capitoline, appoggiate da una parte dagli Spagnoli e dall'altra dai Francesi. Fu inviso a questi ultimi e da sempre simpatizzante dei sovrani spagnoli e della dinastia aragonese del regno di Napoli. In considerazione della sua comprovata rettitudine, nel 1503, nonostante le divergenze e dopo un periodo di gravi turbolenze fu eletto papa con il nome di [[Pio III]. Le sue precarie condizione di salute, favorirono la sua nomina, in previsione di un pontificato di transizione[37].
    Visse in fama di uomo mite e di pietà, ricordato per la sua onestà di vita e per amore dell'arte, scevro da tentazioni nepotistiche e simonia[38]. Nei suoi ultimi anni diede inizio alla costruzione della Libreria Piccolomini, affrescata dal Pinturicchio[39], dove avrebbe conservato oltre gli importanti codici ereditati dallo zio, la sua importante biblioteca a cui si aggiunsero altre acquisite in seguito. Grazie al suo intervento, la Cattedrale di Siena fu arricchita di dodici statue commissionate a Michelangelo[40] e impreziosita dall'Altare Piccolomini, commissionato ad Andrea Bregno. Frutto del suo mecenatismo furono altre opere commissionate a Siena , Pienza e Roma.
  Lo stesso argomento in dettaglio: Papa Pio III.
Ramo di Antonio - Piccolomini d'Aragona

  Duchi di Amalfi,   Marchesi di Deliceto e Capestrano,   Conti di Celano e Gagliano,   Baroni di Balsorano, Pescina, Scafati e Carapelle

Genealogia essenziale Piccolomini d'Aragona

 
Genealogia essenziale Piccolomini d'Aragona
  • Antonio (Sarteano 1437 - Napoli 1493). Dopo i primi anni dedicati agli studi a Sarteano, si rivolse al mestiere delle armi, come molti altri componenti della sua famiglia. Sotto la guida dello zio Pio II, curò gli interessi della chiesa, nella ancora fragile monarchia aragonese di Ferdinando I (Ferrante) d'Aragona.
     
    Wall Mural coat of arms Piccolomini d'Aragona
     
    La città medievale di Amalfi nel XVII secolo. Sullo sfondo la torre di avvistamento Piccolomini d'Aragona
    Quest'ultimo, figlio naturale del defunto Alfonso V, fu favorito dal papa, che sancì il suo diritto successorio nella monarchia partenopea, ai danni del pretendente angioino Giovanni di Lorena. In questa situazione di instabilità politica e nella necessità di consolidare l'alleanza con il papato, fu deciso il matrimonio tra Antonio e Maria figlia naturale del re aragonese[41]. Circostanza che aprì alla famiglia senese, nuovi orizzonti nel sud della penisola. Il primogenito di Laudomia, ottene così la nomina a [[Ducato di Amalfi|Duca d'Amalfi e poté aggiungere al suo, il cognome degli Aragona ed inquartare il proprio stemma con le insegne reali[42]. Nello stesso anno, il 1458, fu nominato anche Gran Giustiziere del Regno di Napoli e la famiglia fu aggregata al patriziato napoletano nel Seggio di Nilo, uno dei Sedili di Napoli[43]. Le aspettative non furono deluse e il Piccolomini, con le sue milizie, ebbe un ruolo determinante nell'acquisizione, alla monarchia, di Castellammare di Stabia e Scafati. Il 18 agosto del 1462 sotto il comando di Alessandro Sforza, ed alla guida di 2000 fanti e 26 squadre di cavalli, prende parte alla battaglia di Troia.[44][45]. Il rivale angioino di Ferrante I venne definitivamente sconfitto, insieme ai feudatari ribelli del regno. Fu così dato al movimento anti aragonese, la cosiddetta Congiura dei Baroni, un colpo di grazia dal quale non riuscirà, più a risollevarsi[41].
    Dopo la vittoria di Troia, beneficiò della distribuzione di numerosi feudi che il Ferrante assegnò ai difensori della sua causa. Nel 1463 ottenne il titolo di marchese di Capestrano e di Deliceto, il titolo di conte di Celano e Gagliano, il titolo di barone di Balsorano, Pescina e Carapelle; nel 1465 infine divenne barone di Scafati[46].
    Contemporaneamente a questi avvenimenti nel 1462, nelle continue controversie che interessavano i territori marchigiani, il Malatesta perse definitivamente la Signoria di Senigallia ad opera di Guido di Montefeltro, che la restituì allo Stato della Chiesa. L'allora pontefice Pio II la diede in dominio, insieme alla signoria di Moldavio al nipote Antonio[47].
    Nel 1474, però, in tali feudi subentrò Giovanni della Rovere, nipote di Sisto IV, che nei vari giochi nepotistici, risultò vincitore[37].Gli interessi del Piccolomini ormai gravitavano nel regno di Napoli, dove le cariche politiche, l'amministrazione degli innumerevoli feudi, che fra l'altro, portavano ritorni economici di non poco interesse, lo assorbivano completamente. Durante i vent'anni di pace che seguirono, fece costruire i castelli di Balsorano, Celano e Ortucchio e restaurare diversi altri di sua proprietà che, poi, distribuì tra i suoi discendenti.
    Va sottolineato che la figura di Antonio ha una dimensione esemplare. Unico in tutta la sua famiglia dimostrò grande sensibilità nei confronti dello sviluppo manifatturiero amalfitano. In virtù della sua cultura operosa, ereditata nel territorio senese, ed anche alla politica inaugurata da Alfonso il Magnanimo, importò da diversi luoghi delle penisola maestri in grado da dare impulso alla costruzione di diversi opifici. Primo fra tutti fu quello per la lavorazione della lana "all'usanza di Siena e Firenze", nonché diverse gualchiere e tintorie nel territorio amalfitano: a Scala, Pontone, Ravello, Strani e Maiori. Rilanciò ed implementò gli stabilimenti siderurgici preindustriali, le ferriere, già presenti ad Amalfi[48].

Antonio ebbe diversi figli di cui:

 
Castello Piccolomini di Balsorano
  • Francesco. Fu Vescovo di Bisignano dal 1498 fini alla sua morte nel 1530. Di fatto, fino al 1518, in assenza dei Sanseverino, signori del territorio, gestì il principato in autonomia, con saggezza e lungimiranza. Viene ricordato tra le altre cose, per la difficile mediazione tra gli abitanti del luogo ed i flussi migratori dei cristiani albanesi in fuga dall'occupazione musulmana[49].
  • Alfonso I (c. 1462 - † 1503). Condusse una vita, all'ombra della grandezza dl padre non riuscendo mai ad esprimere la sua personalità, compare spesso negli eventi legati alla vita di corte e nelle cerimonie più importanti, come il matrimonio di Eleonora d'Aragona con Lionello d'Este o l'incoronazione di Federico I re di Napoli, a testimonianza di come la famiglia fosse considerata nei più alti ranghi della nomenclatura aragonese. Subito dopo la morte del padre, nella disastrosa conquista di Napoli, da parte di Carlo VIII, che cercò di contrastare, militando nelle fila dell'esercito aragonese, si vide togliere il ducato di Amalfi[50] e la gran parte dei feudi caduti sotto il controllo [[transalpino]. Feudi che comunque riebbe, subito dopo la ritirata delle truppe francesi nel 1495. Morì giovane nel 1503, seguito a poca distanza dalla moglie Giovanna d'Aragona, non riuscendo a trasmettere, ai suoi figli l'educazione e quella tradizione familiare, che avrebbe voluto.
  • Giambattista ( c. 1464 - † 1530). Secondogenito di Antonio, divenne Marchese di Deliceto acquisendone il feudo, con a capo lo storico castello. Ebbe in moglie Costanza Caracciolo, appartenente ad una delle più illustri famiglie di Napoli. Personaggio storicamente non importante, si dedicò essenzialmente alla gestione delle sue proprietà.
     
    Castello di Deliceto
    Di indole mite e religiosa, volle ristrutturare e dotare, di cospicue rendite, la cappella di Santa Maria dell'Olmitello, nei pressi del castello, dove la tradizione narra il ritrovamento, dopo l'apparizione della madonna, di una statuetta lignea tra i rami di un olmo. Statuetta che anche in età moderna si conserva all'interno della chiesa[51]. Inoltre donò un vasto terreno per la costruzione da parte dell'ordine dei frati francescani del convento e chiesa di Sant'Antonio da dove l'occhio spazia su un vastissimo territorio, dal Tavoliere delle Puglie e dal Gargano fino alle alture della Basilicata[52].
  • Alfonso II (1500 ca. - † Nisida 1563). Figlio di Alfonso I. Con l'uscita di scena degli Aragona, cominciò un lento, quanto inarrestabile declino della famiglia, nella gestione del potere. L'avvento degli spagnoli, non comportò tuttavia, un'inversione di tendenza nei rapporti con i sovrani.
     
    Stampa dell'isola di Nisida (1700) con il castello di Alfonso Piccolomini
    La tradizionale fedeltà dei Piccolomini alla casa degli Asburgo, vide confermare i rapporti di stima e fiducia da parte di Carlo V, che era subentrato al posto dello sconfitto Federico I. Divenne generale imperiale e Giustiziere del regno[42]. Elesse a sua abitazione, la grande torre sulla sommità dell'isola di Nisida, già nel feudo dei Duchi di Amalfi, che trasformò in palazzo, dove tenne feste, ricordate per il grande sfarzo e grande profusione di denari[53]. Non riuscì a dimenticare le sue origini senesi e in quel periodo (1528) in cui la repubblica era agitata da gravi scontri tra le diverse fazioni, non seppe rinunciare all'offerta ricevuta, grazie alla sua riconosciuta autorevolezza, di divenire Capitano del Popolo, super partes a Siena[54].
    Questa posizione gli creò non pochi problemi, in quanto la repubblica toscana, sempre di più, contesa, nei giochi di potere della politica europea, per assicurare la propria sopravvivenza, tenne sempre più le parti della monarchia francese. In questa tentazione venne coinvolto anche l'irreprensibile Duca di Amalfi, che perse i favori di Carlo V, il quale lo costrinse a lasciare la Repubblica, esautorandolo, anche degli incarichi ricoperti nel Regno di Napoli. Si ritirò a Nisida dove condusse una vita ritirata, estraniandosi progressivamente, dalla vita sociale ed anche da quella familiare, abbandonando, di fatto, a se stessi la moglie Costanza d'Avalos e i suoi figli di cui Iñigo e Giovanni continuarono la discendenza[55].
  • Iñigo ([[1523 † Roma 1566). Le notizie su questo componente della famiglia non sono numerose. Divenne Duca di Amalfi per rinuncia del fratello Giovanni alla primogenitura. Sposò una Piccolomini, ultima rampolla del ramo di Andrea, Silvia e ultima signora del Giglio e di Castiglion della Pescaia. La vita di Iñigo fu segnata da un infausto episodio che lo vide accusato dell'assassinio di un uomo nel reame di Napoli e lo vide costretto a rifugiarsi, esule, nello Stato Pontificio. Nel corso della sua permanenza a Roma, fu costretto a vendere a Cosimo dei Medici, il feudo toscano portatogli dalla moglie. È sepolto nella chiesa di Santa Maria del Popolo, dove la sua lastra tombale fu ricavata da una cornice delle Terme di Agrippa[56].

La società napoletana stava mutando. Alle lotte tra baroni che si contendevano feudi e territori, in quello, che era stato ormai il tramonto del medioevo, subentrava un periodo di stabilità sociale ed economica, obiettivo questo coincidente con gli interessi della snuova monarchia spagnola.

 
Playing dress renaissance
 
La Corte Napoletana dei Viceré nel XVI Secolo

Alcuni fenomeni nuovi, come la forte e fino ad allora sconosciuta spinta inflazionistica, che interessò parte del XVI e del XVII secolo, unita alla formazione di una classe operosa ed industriosa quale la borghesia, mostrarono l'inadeguatezza di una classe aristocratica, ingessata. Inadeguatezza dalla quale neanche i Piccolomini d'Aragona riuscirono ad essere immuni. L'amministrazione del nuovo regno, seppur fortemente accentrata a Napoli, lasciava tuttavia gli antichi diritti feudali, quasi inalterati. In questa fase di forti cambiamenti, i Piccolomini, non riuscirono a gestire il proprio patrimonio, composto da opifici, miniere e tenute fondiarie. Inoltre subentrò la consuetudine di dare in affitto le proprietà per non essere costretti ad effettuare controlli amministrativi, che in realtà non erano in grado di fare[48]. Così i Duchi di Amalfi si allontanarono sempre più dalle loro realtà produttive, parte delle quali, non potevano essere vendute, in quanto legate da vincoli giuridici alla famiglia. Nel contempo la corte spagnola, introdusse i fasti di un eleganza e di una grandezza fino ad allora sconosciuti nell'aristocrazia napoletana, trasformando la partecipazione alla vita di corte in una necessità quasi imprescindibile e strettamente connessa alla propria posizione sociale[57]. Un elegante ed esclusivo abito cinquecentesco arrivava a costare quanto la rendita annuale di un fondo agricolo. Tutto questo, insieme alle cospicue donazione e atti di munificenza e prodigalità, strettamente legati al proprio rango, portarono ad un aumento vertiginoso delle spese di rappresentanza, con la necessità pressante e continua di nuova liquidità. Ben presto, nonostante la cessione diffusa delle mastrodattie[58] e dei diritti feudali in genere, i soli affitti non furono più sufficienti. Le ingenti spese profuse da Alfonso II da una parte e i suo figlio Iñigo dall'altra, portarono ad una stagione di indebitamento, di cui gli affittuari divennero, i principali finanziatori, con progressivo sgretolamento del patrimonio familiare. L'ultima erede del ramo primogenito, Costanza, si ritrovò, nel corso della sua vita, in condizioni economiche notevolmente diminuite[59] ed enormemente distanti da quelle fondate dal bisnonno Antonio, primo Duca di Amalfi.


  • Costanza (1553 - † 1610 Napoli) e Alessandro (1555 - † 1617). Nel 1566, alla morte del padre Iñigo, il patrimonio dell'ultima nata della linea primogenita, rimaneva comunque formidabile. Per tamponare le posizioni debitorie più urgenti, fu venduta alla zio Giovanni, il fratello del padre, l'isola di Nisida con il castello di famiglia. Inoltre sempre allo zio donò diversi e numerosi feudi, tra cui il castello di Ortucchio, quello di Pescina e quello di Balsorano[60], anche se alcune fonti parlano di vendita. Quando ancora era in possesso di un larghissimo patrimonio, per volontà della famiglia legata a quella politica di endogamia, tipica, della consorteria Piccolomini, fu costretta, non ancora ventenne, a sposare, nel 1572, il cugino Alessandro l'ultimo discendente dei marchesi di Deliceto, linea secondogenita del bisnonno Antonio. fondatore della casata. Non fu questo un matrimonio fortunato. Alessandro infatti, conosciuto come VII Duca d'Amalfi, non ebbe buona fama, dopo aver dilapidato tutto il suo cospicuo patrimonio, si diede a pratiche magiche e sortilegi, tanto da subire un processo per bestemmie ereticali da parte del Santo Officio. Aveva sofferto 12 anni di carcere a Castel dell'Ovo, condanna inflittagli dalla giustizia vicereale del Conte d'Olivares, a cui se ne dovevano aggiungere altri 10 nel Castello dell'Aquila[61].
 
Castel dell'Ovo, Luogo di detenzione di Alessandro Piccolomini - Ultimo Marchese di Deliceto
 
Santa Maria alla Sapienza, nel cui monastero entrò Costanza Piccolomini d'Aragona, VI Duchessa d'Amalfi

In quegli anni la povera Costanza fu costretta a vendere, gran parte di quello che rimaneva dei suoi averi: il Castello di Capestrano e la sua signoria andò al Granduca di Toscana, la contea di Celano fu venduta ai Peretti, la famiglia del papaSisto V[54]. Nel 1600 il marito Alessandro, con l'abiura ottenne da Clemente VII la grazia che accompagnata a quella ottenuta dal nuovo viceré, Conte di Lemos, gli ridonò la libertà, con l'obbligo di condurre una vita militare, che, iniziò al servizio della Repubblica Veneta e durò per molti anni a seguire[62]. Costanza ottenne con potestà pontificia, l'annullamento della sua unione, mettendo in piazza le miserie di un matrimonio fallito, ufficialmente non consumato e costellato di tradimenti, adulterio e umiliazioni. Si tolse il marito di torno a dure condizioni: dovette cedergli il Ducato di Amalfi e concedergli un vitalizio di 2400 ducati.[63]. Nel 1596, divenne monaca dell'Ordine delle Clarisse nel monastero di Santa Maria della Sapienza. Negli ultimi atti della sua vita mondana, fece molte donazioni di notevole entità ad opere pie situate sia a Napoli che a Siena. Inoltre donò il palazzo romano che era stato di Pio III, con all'interno gli inestimabili arredi, all'Ordine dei Teatini[64], che adempirono alla volontà della duchessa di erigere una chiesa adiacente al palazzo dedicata a Sant'Andrea, santo protettore di Amalfi. Chiesa che poi fu chiamata Sant'Andrea della Valle[65]. Costanza morì nel [[1610], seguita nel 1617 dal ex marito Alessandro, ultimo marchese di Deliceto ed ultimo duca napoletano di Amalfi. Il ducato, infatti, benché, fortemente impoverito, fu donato dal re di Spagna, Filippo III, al principe Ottavio Piccolomini, della linea dei signori di Sticciano[66].


  Principi di Valle di Casale, Nachod e Maida   Grandi di Spagna   Duchi di Laconia   Marchesi di Montesoro

Dopo le turbolenze che hanno caratterizzato la fine dei due rami principali della famiglia e cioè i Duchi di Amalfi e i Marchesi di Deliceto, terminati con Costanza e Alessandro, i Piccolomini d'Aragona continuarono la loro permanenza nel reame di Napoli, con la linea di Giovanni, fratello di Iñigo, che abbiamo visto in precedenza. Portavano con sé il titolo ed il feudo della baronia di Scafati e la signoria di Boscoreale, nonché le vaste proprietà pervenute dalla duchessa Costanza, che però vennero in parte vendute da Alfonso figlio di Giovanni. La famiglia continuò a ricoprire un ruolo di primo piano nell'aristocrazia napoletana, continuando una politica di intese matrimoniali che li vedeva uniti con le principali famiglie del regno, come i Caracciolo , i Carafa, i Pignatelli, i d’Avalos d’Aquino d’Aragona, i Ruffo di Calabria e altre. Giovanni, figlio di Alfonso, si sposò con Gerolama Loffredo uno dei nomi più illustri dell'epoca. La linea continuò con un altro Alfonso che rinnovò il peso e la visibilità della famiglia.

  • Alfonso (1630 ca. - † 1694). Ottenne da Filippo III, re di Spagna e di Napoli, il titolo di Principe di Valle di Casale, grande signoria che dalle pendici del Vesuvio si estendeva nel territorio di Pompei. Inoltre sposò Eleonora Loffredo, che portò in casa Piccolomini, Il principato di Maida, feudo in Calabria, il Marchesato di Montesoro, feudo in Sicilia ed il ducato di Laconia. Si occupò essenzialmente dell'amministrazione delle sue proprietà, ricostituendo l'equilibrio economico perduto.
  • Francesco (1654 - † 1686 Buda - Ungheria). Primogenito di Alfonso, fu generale Imperiale di Leopoldo I d'Asburgo. Partecipò a diverse battaglie contro i turchi: dalla presa di Philipsburg alla difesa di Vienna. Trovò la morte in battaglia, nell']]Assedio di Buda (1686)|assedio di Buda]][67].
     
    L'assedio di Buda, dove morì Francesco Piccolomini d'Aragona
     
    Castello di Nachod - Residenza dei Pompeo Piccolomini d'Aragona
  • Giuseppe (1656 ca. - † 1733). Secondogenito di Alfonso, sposò Anna Colonna. Ben introdotto nella corte vicereale di Napoli, ben presto entrò nella considerazione della monarchia spagnola. Impegnato nella professione militare, divenne Maestro di campo del re di spagna, comandante del Tercio di Napoli. Le sue indiscusse capacità ed il valore dimostrato nelle campagne militari gli fecero ottenere numerosi riconoscimenti e Filippo V, nel 1711, introdusse la famiglia tra i Grandi di Spagna[68].
  • Pompeo (1694 - † 1765 Nachod - Boemia).Figlio di Giuseppe, all'estinzione della linea dei Signori di Sticciano, fu depositario[68] di un vasto patrimonio, accumulato per secoli ed ingrandito da quel grande personaggio che fu Ottavio Piccolomini. Aggiunse ai suoi numerosi titoli e feudi, quelli toscani dei Piccolomini detti delle Papesse. Divenne principe del Sacro Romano Impero ed ereditò la prestigiosa signoria del principato di Nachod, con il maestoso palazzo, assimilabile, più ad una reggia che non ad una residenza privata. Lasciò definitivamente Napoli, per ritirarsi in Boemia dove morì.
    Con suo figlio Giuseppe, questa grande casata napoletana si estinse, in grandiosa opulenza, e tutti i titoli e signorie, passarono alla linea dei Piccolomini Salamoneschi, che da allora in poi (1807), subentrarono nei loro diritti, assumendone il cognome[69].
    In questo modo ebbe storicamente fine la dinastia napoletana dei Piccolomini d'Aragona, iniziata da Antonio Todeschini Piccolomini. Tuttavia, bisogna annotare come, nel sud della penisola, sia ancora presente la sua prosapia, in virtù dei molti figli naturali, legati alla sua discendenza.
Ramo di Giacomo - Piccolomini di Castiglia e d'Aragona

  Duchi di Montemarciano e Signori di Camporsevoli

Questo ramo beneficiò, nel nome di Giacomo, del dono da parte dello zio Pio II, del Ducato di Montemarciano nelle Marche e della signoria di Camporsevoli nei pressi di Chiusi[70]. L'avvento sul soglio pontificio di Sisto IV, dei della Rovere, rese quantomai problematica la gestione, da parte dei Piccolomini, del feudo di Montemarciano.

  Giacomo - Conte del Sacro Romano Impero (1458)

  • Giacomo (1441 - † 1507). Con decreto imperiale di Federico III nel 1458 fu nominato conte del S.R.I. Successivamente, nel 1478 ebbe la facoltà di aggiungere dei cognomi di Castiglia e d’Aragona da Re Enrico IV di Castiglia. In precedenza, nel 1472, cercò di riprendere, con un colpo di mano e l'aiuto di fuoriusciti, la signoria di Senigallia[71] , dalla quale, il fratello Antonio Piccolomini d'Aragona, che n'era il legittimo signore, fu scacciato subito dopo la morte di papa Pio II[72]. In queste contese, intervenne infine papa Sisto IV, concedendo il feudo rivendicato, al nipote diciassettenne, Giovanni della Rovere, contro il volere dell'allora cardinale Francesco Piccolomini (poi Pio III)[73]. Giacomo, riuscì, a stento ad evitare la condanna a morte inflittagli dal pontefice. A torto o a ragione, a differenza del fratello Antonio, preso dai suoi copiosi interessi nel regno di Napoli, questo ramo della famiglia, si sentì defraudato e non sopì mai il desiderio di riconquistare quella signoria, senza la quale, in effetti, Montemarciano si trovava ad essere una roccaforte isolata in territorio ostile.
    A questo Giacomo, inoltre, si deve l'ultimazione dell'austero e grandioso Palazzo Piccolomini di Siena[74].
  • Antonio Maria (1490 - † ?). Alla Morte del cugino cardinale Giovanni, entrò in conflitto, anche lui, con lo Stato della Chiesa, occupando i territori di giurisdizione del prelato.
     
    Palazzo Piccolomini, voluto da Giacomo duca di Montemarciano e suo fratello Andrea, a Siena
    Si rinnovò un'aspra contesa ed alla fine papa Paolo III ne ingiunse ed ottenne la restituzione. Suo figlio Scipione morto nel 1608, fondò il Priorato di Pisa nell'Ordine di Santo Stefano. Fu l'ultimo signore di Camporsevoli[74].
  • Alfonso ( 1550 - † Firenze 1591). Figlio di Giacomo e nipote di Antonio Maria fu l'ultimo duca di Montemarciano. È passato alla storia come famigerato bandito.
 
La foresta della Faiola - Luogo dell'ultima schermaglia di Alfonso Todeschini Piccolomini

Sembra che l'abbandono della tranquilla e onorata vita nella repubblica di Siena sia stato originato da un'omicidio avvenuto ai danni di un componente della famiglia Baglioni, di Perugia. In un primo periodo si limitò, dalla sua signoria, a dare asilo ad avventurieri del territorio di Senigallia e della Romagna, nella rocca di Montermarciano[75]. Dopo una serie di alterne vicende, durate fino al 1579, dovette desistere, per l'intervento massiccio di forze militari inviate da Gregorio XIII. I suoi beni furono confiscati ed i familiari arrestati. Solo con l'intervento di Francesco I de' Medici, Granduca di Toscana, ottenne, nel 1584, il perdono papale ed il reintegro nel suo stato[74]. Per un certo periodo, militò al servizio della Repubblica di Venezia, nella guerra contro gli Uscocchi. La sua indole turbolenta, però porto a dei contrasti insanabili con quella Repubblica[76]. Essendo uomo d'armi, non sapendo resistere, probabilmente anche spinto da promesse politiche ricevute da francesi e spagnoli, si mise a capo del malcontento che agitava le campagne dei territori laziali e senesi a causa della grande carestia del 1590. Formò un [[esercito], composto per lo più di contadini mal addestrati, ma stretto tra papalini e medicei, fu facilmente sbaragliato. Riuscì a sfuggire all'arresto e continuò nelle sue scorribande, unendosi al bandito Marco Sciarra e con lui continuò ad imperversare, infestando un territorio che andava dalla Marche fino alle e pendici delVesuvio. La mossa sbagliata del Piccolomini si consumò nella foresta della Faiola, poco distante da Roma e sulla strada per Napoli, dove era giunto in soccorso dell'alleato Sciarra, che in questo frangente riuscì a salvarsi. Non fu così per il Piccolomini, che ebbe il suo manipolo decimato. Braccato e in fuga, fu al fine catturato in una casa di coloni a Forlì. Di lì fu condotto a Firenze, dove il 2 gennaio 1591, fu giustiziato.
Il ducato di Montemarciano passò agli Sfondrati, famiglia dell'allora Papa Gregorio XIV[74].

Ramo di Andrea Signori del Giglio e Castiglione della Pescaia
  • Andrea (1445 ca. - † 1505). Ebbe un'indole diversa dai due fratelli. Non fu uomo d'armi ed è probabile avesse un'inclinazione per lettere[77]. Insieme al fratello Giacomo volle e costruì il Palazzo Piccolomini nella sua città, diventato nel XIX secolo, sede del Archivio di Stato di Siena. Lo zio papa Pio II ottenne per lui, da parte del re di Napoli, Ferrante d'Aragona, la signoria delGiglio e di Castiglion della Pescaia, con il titolo di marchese di quelle terre[78].
     
    Andrea Todeschini Piccolomini e Agnese Farnese con la figlia Montanina nell'affresco del Pinturicchio
    Dal re Ferdinando di Spagna fu fatto Cavaliere dell'Ordine di San Jago[78]. Nel1460 sposò Agnese Farnese, che sarebbe divenuta poi, cugina del papa Paolo III[79]. La sua discendenza, poteva vantare, con ogni probabilità, la più alta concentrazione di caratteri ereditari legati a pontefici.
    Andrea dovette affrontare uno dei periodi più difficili della Repubblica. Ascritto al Monte dei Gentiluomini, come il resto della famiglia, si trovò ad affrontare lo strapotere dei Noveschi, che avevano a capo Pandolfo Petrucci, il quale aspirava a diventare, come poi fu, Signore di Siena. Andrea ebbe con lui profondi contrasti ed al fine, fu costretto ad abbandonare Siena, per ritirarsi nella sua signoria. Da Agnese ebbe diversi figli, di cui Vittoria, contro il volere dei genitori, che però ormai erano morti, fu fatta sposare a forza da Pandolfo Petrucci a suo figlio Borghese[78], per sanzionare l'alleanza dei Noveschi con i Gentiluomini, e favorirne così la successione nella signoria. Andrea tra l'altro fu, nella famiglia, uno dei finanziatori, degli affreschi del Pinturicchio nella Libreria Piccolomini[79]. L'artista ci ha tramandato, nell'affresco raffigurante Enea Silvio, vescovo di Siena, presenta Eleonora d'Aragona all'imperatore Federico III, la sua immagine, che si scorge alle spalle della consorte Agnese,con il corpetto a righe bianche e nere[79] e, probabilmente, della figlia maggiore Montanina, nelle vesti di damigella.
  • Giovanni (Siena 1475 – † Siena 1537). Nominato Cardinale da Papa Leone X, fu arcivescovo di Siena. Durante il Sacco di Roma, nel 1527, fu umiliato dai lanzichenecchi di Carlo V, che lo portarono in giro per la città, legato sul dorso di un mulo. Il suo palazzo fu completamente saccheggiato[78]. Quello che nelle aspirazioni della famiglia doveva essere il terzo papa Piccolomini, si ritirò ed ebbe incarichi minori.
  Lo stesso argomento in dettaglio: Giovanni Piccolomini.
  • Pier Francesco (1478 - † 1525). Non si hanno molte notizie di questo componente della famiglia. Prese a differenza del padre, le parti dei Petrucci e fu grande amico e sostenitore del cognato Borghese. Nel 1513 fu capitano del Popolo a Siena. Con lui il ramo si estinse e la figlia Silvia portò in dote la signoria di Castiglion della Pescaia ad Inigo Piccolomini d'Aragona.
  • Montanina (Siena 1476 - † ?). Alla fine degli anni novanta del XVI secolo, Sposò Sallustio Bandini, appartenente ad una delle più illustri famiglie di Siena.
Ramo di Montanina - Bandini Piccolomini

Il ramo di Montanina, diede alla luce due uomini illustri, che rivestirono un luogo di primo piano, negli ultimi anni della storia della Repubblica di Siena e aggiunsero insieme alla loro discendenza, il cognome dei Piccolomini, entrando così nella consorteria.[80]

  • Mario (1500 - † Montalcino 1558). Era il primogenito di Montanina Todeschini Piccolomini e Sallustio Bandini, signore di Castiglioncello ed originario di Massa di Maremma, dove la famiglia possedeva vasti territori fondiari e doveva la propria ricchezza allo sfruttamento delle miniere di argento e di rame della zona[81].
    Duranre la giovinezza dovette assistere impotente alla tirannia della famiglia di Pandolfo Petrucci giunto al potere, dopo le lunghe ed estenuanti lotte intestine di Siena. Combattute, essenzialmente, tra popolari, di parte ghibellina ed i Noveschi, di parte guelfa
     
    La vittoria di Porta Camollia - 1527
     
    Pandolfo Petrucci entra a Siena - 1487
    . Circostanza che accrebbe, nel Bandini, l'ansia di libertà, radicata sia nei sentimenti familiari che nella gioventù senese in genere. Entrato nel supremo magistrato in età giovanile, come d'altra parte, era d'uso tra gli aristocratici del tempo, a differenza degli altri, partecipò attivamente alla vita politica della Repubblica. Nel 1524, già cancelliere di Balìa, partecipò in prima linea, alla violenta insurrezione che, scacciò Fabio, il mediocre erede di Pandolfo, estromettendo, così, dalla Repubblica, sia i Petrucci, che i Noveschi[81]. Episodio che, insieme ad altri cruenti, svoltisi, nei mesi successivi, ai danni delle forze guelfe, gli valse la personale ostilità di Clemente VII, che organizzò contro i senesi, un esercito insieme ai Fiorentini ed ai fuoriusciti Noveschi. Gli alleati, molto superiori di numero, dopo aver occupato le fortificazioni costiere della Repubblica, Talamone e Orbetello, minacciavano ormai Siena, ma inaspettatamente, la guerra si risolse ai danni, della Repubblica di Firenze, che subì una grave sconfitta alla porta di Camollia [82]. Il Bandini, che ormai aveva sempre un maggior peso, nel presidio delle libertà cittadine, partecipò anche in questa occasione in modo determinante, al comando di una compagnia di armati Lucignanesi[81], come capitano di cavalleria[83].
    In questo periodo, Mario e la sua famiglia raggiunsero il massimo prestigio. Nel 1526 Carlo V lo nominò Cavaliere Aurato, gratificandolo anche con il titolo di Conte Palatino.
    . Successivamente, la repubblica gli permise di acquisire il feudo della Marsiliana confiscato ai figli ribelli del Petrucci[81].
    Il Bandini, divenuto uno degli uomini più potenti di Siena, dopo questi anni di successi, fu costretto a seguire le alterne vicende del declino della Repubblica. L'alleanza con gli Imperiali si rilevò un fallimento. Il Bandini con rammarico dovette assistere al rientro e reintegro dei Noveschi. Inoltre in sostituzione del deposto Petrucci si avvicendarono, inviati del Imperatore, ora in veste di agenti, ora di consiglieri o in alternativa come Capitani generali delle armi, personaggi che altro non erano, che una sorta di viceré di Carlo V. Ultimo di questa serie fu Don Diego Hurtado de Mendoza con il suo duro e repressivo governo[81]. Il Bandini, continuò a ricoprire incarichi militari e politici importanti, sia a Siena che all'estero. In patria, si impegnò per il ripristino della legalità e la sottomissione dei vassalli ribelli, dopo i guasti causati dalla guerra contro i Fiorentini. All'estero, si adoperò, come diplomatico, presso il Regno di Napoli, la corte di Carlo V, il Ducato di Milano e lo Stato Pontificio. Il suo entusiasmo, però, non era, più, quello giovanile di un tempo. Progressivamente si ritirò a vita privata curando gli interessi economici della famiglia.
    Dopo la Cacciata degli Spagnoli, quando, nel 1553, una nuova guerra minacciava la libertà della patria, sollecitato dal fratello Arcivescovo, tornò attivamente nella vita politica e militare[81]. Fu del magistrato degli Otto della guerra e fu l'ultimo Capitano del Popolo della Repubblica di Siena. Nel giorno della sconfitta, denso di significato politico, quanto eroico, fu il gesto, di portare con se in esilio, il sigillo pubblico, simbolo del potere della Repubblica[84]. Dichiarato ribelle dal governo mediceo, dal 1555 fino al giorno della sua morte, fu al governo e alla difesa della Repubblica di Siena Ritirata in Montalcino. I suoi beni furono confiscati[81] e solo dopo la Pace di Cateau-Cambrésis del 1559, furono restituiti alla famiglia.
    * Germanico (1532 - † 1569) di Mario divenne Cavaliere Ordine dello Speron d'oro e Conte del Sacro Palazzo Lateranense. Nel 1560 divenne Vescovo di Corinto[83].
    * Sallustio (1544 - † 1570) di Mario. come il fratello fu Cavaliere Ordine dello Speron d'oro e Conte del Sacro Palazzo Lateranense. Inoltre fu gentiluomo del Granduca Cosimo I de' Medici. Morì senza lasciare discendenza[83].
  • Francesco (Siena 1505 - † Roma 1588). Fratello minore di Mario, ebbe una buona educazione letteraria, ma non completò un vero e proprio curriculum accademico. Nel 1525 concorse nella fondazione dell'Accademia degli Intronati a Siena, assumendo lo pseudonimo di Scaltrito. Fin dall'età di tredici anni, fu preso sotto la protezione dello zio cardinale Giovanni , che gli diede la facoltà di aggiungere il cognome Piccolomini, che Francesco accettò, per sé e la sua famiglia. Essendo molto forte l'attaccamento alle sue tradizioni familiari, non volle rinunciare allo stemma di famiglia. Il cardinale, gli diede allora la possibilità di inquartarlo con quello piccolomineo.[85]
    Fu molto combattuto tra la scelta di una vita laica, per la quale si sentiva maggiormente portato, e una vita clericale, alla quale lo zio voleva introdurlo. Nel 1529, dopo le nefaste turbolenze del Sacco di Roma, il cardinale decise di ridurre la sua presenza, e, mediante resignazione, passò la propria arcidiocesi di Siena al nipote, ordinandolo frettolosamente sacerdote. Francesco, ancora una volta non sicuro delle sue scelte, accettò la consacrazione episcopale, solo dieci anni dopo, nel 1538, dopo aver ricevuto il pieno possesso della diocesi, alla morte dello zio cardinale. Non rinunciò, in questo periodo alla attività politica tesa a preservare la libertà della Repubblica, sempre più precaria negli equilibri internazionali dell'epoca.
    Pur essendo stato ambasciatore presso Carlo V, progressivamente entrò in contrasto con gli interessi imperiali. Tale ritrosia fu manifestamente confermata quando l'imperatore, che nel 1546 non volle riceverlo nella sua missione a favore di Siena. Tali rapporti irrimediabilmente incrinati, gli costarono, nel concistoro del 1551, la porpora cardinalizia[85].
     
    Il Concilio di Trento 1545 - 1564
     
    Il Parco di Villa d'Este, Carl Blechen

    Messo da parte ogni indugio, partecipò attivamente alle guerre contro gli spagnoli, promosse dai maggiorenti della Repubblica, partecipando manu militari al sostegno dell causa senese[86].
    La convinta partecipazione alla vita politica della Repubblica lo portò ad occuparsi solo marginalmente della sua arcidiocesi e della vita clericale. Ciò nonostante, sollecitato dal cardinale Cervini, senese e futuro papa Marcello II, partecipò al Concilio di Trento, ma più di una volta se ne assentò per curare gli interessi in patria, perdendo una chiara occasione di rilancio nella vita ecclesiastica, offertagli dal futuro pontefice. A guerra ormai finita, difese la Repubblica di Siena ritirata in Montalcino insieme ai suoi compagni di lotta ed alleati più vicini. Con la morte del fratello Mario, si allontanò definitivamente dalla patria perduta, tornandovi solo saltuariamente.
    Successivamente si trasferì a Roma dove visse per quasi trent'anni. Inizialmente per un lungo periodo fu ospite dei Cardinali d'Este, Ippolito e Luigi, stabilendo la sua residenza in Villa d'Este. Ormai ben introdotto nell'ambiente della società romana, si fece costruire un palazzo a Tivoli, con un ampio giardino all'italiana ed un monumentale portale attribuito a Sebastiano Serlio[87]. Ottenne il governatorato di Roma, assumendo diversi incarichi nella Curia romana e nello stato della chiesa.
    Nel 1575, ormai rassegnato e provato dagli eventi, volle riconciliarsi con i Medici, incoronando Giovanna d'Austria, Granduchessa di Toscana. Negli anni che seguirono, con nomina da parte del pontefice Paolo IV e coadiuvato dai nipoti Ascanio e Alessandro Piccolomini, tenne una serie ininterrotta di sinodi diocesani, per l'applicazione dei decreti conciliari, fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1588. Dal punto di vista bibliografico, non lasciò però una visibile traccia del suo operato. Dal punto di vista culturale, però, non mancò di lasciare il suo erudito ricordo. Fondò, nel 1571, sul modello della sua vecchia accademia senese, l'Accademia degli Agevoli, che ben presto divenne palestra di idee, di studi e di sapere. Tuttora sopravvive, sebbene ne sia mutato il nome.[88]
    Ottenne la sepoltura nella Basilica di San Pietro, vicino alla tomba dei due papi Piccolomini
Il fedecommesso Bandini e la successione Piccolomini Naldi Bandini

Nel 1570, i due figli maschi del fratello Mario, erano ormai morti senza lasciare discendenza e tutto il cospicuo patrimonio della famiglia si concentrò nelle mani di Francesco[89]. Le figlie superstiti Berenice e Montanina, erano entrambe sposate con prole.

 
Arme dei Bandini
 
Arme dei Bandini Piccolomini

L'epilogo più logico sarebbe stato di farle entrare, con le loro famiglie, nella consorteria Piccolomini, come auspicato dallo zio, ma l'arcivescovo, prese una decisione, che comunque era già maturata qualche anno prima.
La nipote Montanina era, a suo tempo, rimasta vedova del suo primo marito Cerbone Bourbon del Monte Santa Maria , per cui il prelato aveva deciso il suo ingresso in convento, onde poter disporre dell'intero patrimonio a favore dell'altra figlia del fratello, Berenice. In questo modo Montanina doveva rinunciare oltre alla sua parte di eredità, anche alla sua vita mondana. Soluzione questa che non la vide completamente d'accordo. Infatuatasi di un amico e alleato della famiglia, il Cav. Amerigo Amerighi, nel 1562, decise di sposarlo segretamente, in condizioni burrascose e disdicevoli per l'Arcivescovo e l'ambiente aristocratico, al quale entrambi gli sposi appartenevano. Tale evento fu contrastato, in tutti i modi, da Francesco, che vedeva compromessi i suoi piani per la successione. Minacciò sanzioni severe e dispose l'annullamento del matrimonio. Ne nacque una controversia, che divenne pubblica, con l'intervento del governatore di Siena che ne informò il Granduca[90]. Alla fine vinsero le ragioni di Montanina, ma i rapporti con lo zio furono definitivamente compromessi. Liquidò la nipote con la dote principesca di oltre seimila fiorini[91]. Importo che, riferito alle dame del suo rango, era notevolmente superiore all'uso corrente del tempo[92]. Rimase, tuttavia, fermo nelle sue decisioni. Quindi, al fine di preservare la continuità del nome, uscì dalla consorteria Piccolomini e adottò nella famiglia Fedro, figlio di Agostino Bardi e della nipote Berenice, costituendo un fedecommesso, in cui fare confluire tutto il patrimonio Bandini, con l'obbligo di sostituire il cognome e lo stemma[89]. Al fine di evitare, qualsiasi contraddittorio legale, allegò, nel testamento, la copia autentica di tutte le bolle, con le quali, l'arcivescovo aveva avuto dal papa facoltà di testare[85]. Tale scrupolosa stesura era motivata dal fatto che, la nipote esclusa, con l'istituzione del fedecommesso, si trovava ad essere l'ultima della famiglia a portare il cognome e lo stemma Piccolomini. Per questo motivo poteva introdurre il nuovo coniuge nella consorteria. Circostanza, questa, che avrebbe potuto inficiare la validità del fedecommesso e smembrare il patrimonio della famiglia Bandini.

Tutto ciò non avvenne, ma tuttavia, due secoli dopo, le aspettative dell'Arcivescovo andarono deluse.

Nel 1777 l'ultimo Bandini del ramo primogenito di Berenice, l'arcidiacono Giuseppe, moriva, riaprendo la successione nel fedecommesso[93]. L'Arcivescovo aveva indicato, come beneficiario alternativo, la famiglia Piccolomini. La consorteria scelse, un discendente della linea secondogenita dei Salamoneschi, Fabio, che in virtù del matrimonio del nonno Niccolò con Barbara Naldi, aveva assunto il cognome Naldi Piccolomini[93]. Per adempiere alla volontà del testatore, avrebbe dovuto abbandonare la consorteria, il cognome e lo stemma Naldi Piccolomini, per assumere quello dei Bandini[93]. In caso di mancato adempimento delle clausole fedecommissorie, il patrimonio, avrebbe avuto un'altra destinazione, non ultima la Mensa Arcivescovile di Siena. Flavio, non essendo la sua famiglia dotata di grandi beni di fortuna, decise a favore della successione, assicurandosi, il patrimonio, così, come deciso dalla assemblea consortile. Tuttavia, con l'abolizione dell'istituto fidecommissorio, avvenuta alla fine del XVIII secolo i discendenti di Flavio, non avendo più vincoli, che potessero mettere in pericolo i beni ereditati, ottennero dalla consulta la possibilità di assumere nuovamente il cognome e lo stemma Piccolomini a danno di quello Bandini[93]. Il nuovo assetto che ne scaturì, fu una nuova linea familiare che ebbe il cognome Piccolomini Naldi Bandini, che tuttavia non fu omologata dalla consorteria, che non ne legittimò il reintegro, pur essendo questi membri della famiglia, da considerarsi come originari.[93].

Piccolomini Pieri Signori di Sticciano detti delle Papesse

Questa linea discende da Caterina, altrimenti chiamata , secondo alcune fonti, Costanza, che sposata con Bartolomeo Guglielmi, diede alla luce un unica figlia di nome Antonia. Quest'ultima andò in sposa a Bartolomeo Pieri, signore di Sticciano, che, anch'egli, come il Guglielmi, entrò nella consorteria Piccolomini, assumendo lo stemma piccolomineo, ad esclusione del proprio[94]. Da questa coppia, nacque Enea e da questi Silvio, che assunse anche il cognome d'Aragona. Nacque poi Enea Silvio.

 
Alessandro Piccolomini
  • Enea Silvio ( 1515 ca. - † Montalcino 1555). Conosciuto con il predicato della Papesse[95], fu un personaggio, carismatico, di grande rettitudine morale. Ebbe un ruolo determinante quanto sfortunato nella difesa delle libertà repubblicane. Fu ambasciatore presso Enrico II, e tenne le parti degli Amerighi nella congiura contro gli Spagnoli. Dopo la prima effimera vittoria, contro le milizie di Carlo V nel 1552, il popolo per acclamazione lo voleva nuovo signore di Siena. Enea per amore di quelle libertà repubblicane, per le quali appunto si era sempre battuto, rifiutò e continuò a combattere, in modo risoluto, la guerra contro gli invasori spagnoli, fino alla fine. Alla caduta di Siena, non volle arrendersi e, con gli altri irriducibili difensori della patria, si ritirò a Montalcino, dove continuò a combattere nel territorio, ancora libero, della repubblica. Morì, in una delle tante battaglie, nel tentativo di ripristinare la Repubblica.
  • Alessandro (1508 - † 1578) Insigne personaggio, fratello di Enea Silvio, accademico intronato, fu professore di filosofia e astronomo, nonché coadiutore dell'Arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini. Divenne Vescovo di Patrasso, anche se non si occupò effettivamente della diocesi greca. In età giovanile si dedicò al teatro comico. Ha lasciato diverse opere sia in campo filosofico che letterario. Diversi sono i suoi trattati di astronomia.
  Lo stesso argomento in dettaglio: Alessandro Piccolomini.
  • Ascanio I (1548 - † 1597) Fratello di Silvio, fu giurista e poeta. Già Arcivescovo di Rodi divenne, nel 1588, V Arcivescovo di Siena, succedendo allo zio Francesco Bandini Piccolomini, di cui fu coadiutore in quella serie di sinodi, indetti per la corretta applicazione dei decreti conciliari di Trento. La sua rigida [[ortodossia], non mancò di provocare forti tensioni col clero e col governo mediceo[102]. In gioventù scrisse diversi sonetti, di cui si ha ricordo in un libello stampato dal Bonetto nel 1594: Rime del Monsignor Ascanio Piccolomini. A lui si deve il restauro del Palazzo delle Papesse, la cui facciata fino al tetto fu deturpata da un incendio nel 1523[103].
  • Ascanio II (Firenze 1628 - † Roma 1671) Era persona di larghe vedute e di cultura. Nacque a Firenze, dove il padre Silvio, era insegnate d'armi del Giovane Granduca Ferdinando I[96]. Nella corte conobbe Galileo Galilei, che lì esercitava la disciplina della matematica[104]. Nel 1622 intraprese la carriera ecclesiastica e entrò nella corte del cardinale Francesco Barberini, divenendo suo segretario, durante la nunziatura apostolica a Parigi. Nel 1628 divenne il X Arcivescovo di Siena. Il suo mandato durò quarantrè anni, fino al 1671[105].
     
    Galileo Galilei
    Nel periodo in cui fu papa il senese Fabio Chigi, con il nome di Alessandro VII, curò, su commissione del pontefice, la [realizzazione di importanti opere artistiche e architettoniche. Con l'intervento del Bernini, fu edificata, in cattedrale , la cappella intitolata all'Immacolata Concezione. Inoltre l'Arcivescovo assicurò una serie di interventi, rendendo possibile, l'attuale sistemazione della Piazza del Duomo e del Palazzo Arcivescovile. Al fine di ottenere una maggiore visibilità ed un maggiore effetto scenografico, l'edificio della Cattedrale venne isolato, con la demolizione degli edifici adiacenti, che ospitavano appunto il palazzo Arcivescovile. Palazzo che Ascanio fece ricostruire nelle immediate vicinanze[105].
    L'episodio forse più significativo che segnò l'attività di questo Piccolomini, fu il suo rapporto con il Galilei. Quando lo scienziato, venne condannato al carcere nel 1633, vista la stima e l'antica amicizia, che a lui lo legavano e contro le decisioni del Santo Uffizio, si adoperò, presso il Granduca Ferdinando, per ottenere dal pontefice, il suo trasferimento a Siena[104]. Dopo l'esito positivo di questo suo intervento e sotto la sua responsabilità, lo accolse nel palazzo di famiglia, detto delle Papesse. Galileo fu sempre riconoscente nei confronti dell'Arcivescovo e ne conservò grata memoria. Confidava all'amico Elia Diodati, che grazie alla serenità restituitagli dalla premurosa amicizia del prelato riuscì a comporre "... un trattato di un argomento nuovo, in materia di meccaniche, pieno di molte specolazioni curiose ed utili”. Alludeva ai ”Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze" che sarebbe stato pubblicato a Leida nel 1638[106] .
    Da ricordare, qui, per inciso, ciò che accadde in una tranquilla serata di quella Siena del '600. Ascanio donò una memorabile serata ad una congrega di eruditi, docenti ed allievi. Invitati a palazzo, assistettero ad un'inaspettata lezione di astronomia tenuta dal Galileo. Con il suo nuovo Occhiale diede l’emozione di un incontro ravvicinato con Luna e le stelle alla sua colta quanto sbalordita piccola platea. Episodio che a lungo fu oggetto di dibattiti e relazioni nelle accademie e salotti della città[107].
    L'Arcivescovo fu richiamato a Roma nel 1671, dove nello stesso anno morì.

  Ottavio Piccolomini, Principe del S.R.I., Principe di Nachod, Feldmaresciallo dell'Impero, e Cavaliere dell'Ordine del Toson d'oro,   Grande di Spagna,   Duca di Amalfi[108]

  • Ottavio (Pisa 1600 - † Vienna 1656)[109].
     
    Ottavio Piccolomini - Battaglia di Nördlingen
    Ammirato, dai successi militari del padre Silvio e dei suoi maggiori, volle intraprendere, già da adolescente, il mestiere delle armi. Inizialmente, più per censo che per meriti militari, divenne Cavaliere dell'ordine di Malta e Priore di Pisa dell'Ordine di Santo Stefano.[110] Non ancora ventenne, nelle armate spagnole, che esercitavano in Italia, si distinse nelle battaglie di Asti, Vercelli e Mantova. [109] Nel 1620, fu inviato dal Granduca di Toscana, come capitano di una compagnia di cavalli, in Transilvania, per partecipare, al comando del conte Charles Bucquoy, alla battaglia della Montagna Bianca[111]. Dopo un breve periodo passato sotto gli Spagnoli, nel 1627, tornò al servizio degli imperiali, come colonnello della guardia personale di Albrecht von Wallenstein , duca di Friedland, con il quale però non riuscì mai ad avere buoni rapporti. Tuttavia il Wallestein continuò a servirsene, per le sue entrature diplomatiche, visto che il vescovo Ascanio, suo fratello, era stato segretario del Nunzio Apostolico a Parigi, cardinale Francesco Barberini[105].
    Dopo diversi mesi di assenza, in cui continuò, in Italia, la sua attività militare contro i Francesi in Monferrato, venne richiamato dall'Imperatore Ferdinando III, quando Gustavo Adolfo di Svezia invase la Germania. Nel 1632, durante le alterne fasi della Battaglia di Lützen, alla testa dei corazzieri imperiali, ebbe una parte determinante nella distruzione dei due più importanti reggimenti svedesi, composti quasi esclusivamente da veterani[112][113]. Tuttavia la battaglia era incerta ed il Wallenstein, quando arrivarono al fianco degli imperiali, le forze di fanteria di Pappenheim, contro l'opinione di molti suoi ufficiali superiori, decise di abbandonare la battaglia, ritirando il suo esercito in Boemia. Nella battaglia morì il re svedese Gustavo Adolfo, ed il Piccolomini, riportò all'imperatore, il collare di pelliccia che indossava al momento della morte[114]. Dopo questo importante evento fu nominato Comandante Generale della cavalleria imperiale. Al tempo stesso, la mancata vittoria nella Battaglia di Lutzen, fece cadere la fiducia che l'imperatore aveva il Wallenstein, ed anzi tale episodio fu considerato come un atto di tradimento. Ottavio fu mandato a destituirlo[114]. Ma, nelle fasi dell'arresto, nel castello di Cheb, dove si era rifugiato, il Wallenstein fu assassinato, da alcuni suoi stessi ufficiali.
     
    Castello di Nachod, donato da Federico III a Ottavio Piccolomini
    Così fu eliminato un grande rivale, ostile al Piccolomini, che, tuttavia, non riuscì ad ottenere il grado di maresciallo di campo, desiderato, che invece andò al generale Heinrich Holk .
    La riconoscenza dell'Imperatore, comunque, si concretizzò nella grossa ricompensa in denaro di 100.000 fiorini e la prestigiosa signoria di Nachod[114], già residenza del Wallenstein. Nel 1634 alla testa della cavalleria spagnola, nella Battaglia di Nördlingen, svolse un ruolo decisivo, per l'esito finale della battaglia, respingendo ben quindici cariche della cavalleria svedese, per poi, nel contrattacco degli imperiali, inseguire gli svedesi in fuga, facendo molti prigionieri, tra cui il generale Gustav Horn, uno dei due comandanti in capo dell'esercito svedese.
    Non era assolutamente soddisfatto della sua carriera militare, ma continuò nelle sue azioni, ottenendo diversi successi. Con un piccolo esercito occupò il Belgio. Divenuto comandante in capo delle forze militari nelle Friande, difese Ratisbona dagli attacchi francesi, ottenendo poi a Thionville una grande vittoria nel 1639[109] . Dopo queste affermazioni, il re di Spagna lo fece grande di Spagna e lo chiamò anche alla successione del Ducato di Amalfi, rimasto vacante, dopo l'estinzione del ramo primogenito dei Piccolomini d'Aragona[114]. A Vienna, la nomina a Feldmaresciallo dell'Impero tardava a venire. Il Piccolomini ottenne solamente la nomina a luogotenente dell'arciduca Leopoldo Guglielmo d'Austria che affiancò nella seconda e sfortunata Battaglia di Breitenfeld (1642). Dopo questa cocente sconfitta passò per qualche anno al servizio della Spagna, dove il sovrano lo insignì del cavalierato del Ordine del Toson d'oro[114]. La nuova minaccia portata all'Impero, dagli Svedesi, uniti ai Francesi, dopo i rovesci subiti alla Battaglia di Zusmarshausen, indusse l'imperatore a richiamare Ottavio Piccolomini, che finalmente ottenne la carica, tanto agognata, di Feldmaresciallo e comandante generale nell'esercito imperiale[109] . Risollevò le sorti del conflitto e sotto il suo comando ebbe termine la Guerra dei trent'anni. Fu nominato Commissario Imperiale e curò gli interessi degli Asburgo, nel Congresso di Norimberga, che portò poi alla pace di Vestfalia[109]. Federico III, per riconoscenza di tutti i servizi resi, lo nominò Principe del Sacro Romano Impero[109]. Nel 1656, a Vienna, per una malaugurata caduta da cavallo, Ottavio Piccolomini morì senza lasciare figli legittimi. Tutti i suoi titoli, possedimenti ed il castello di Nachod, passarono a Francesco, figlio del fratello Enea.
  Lo stesso argomento in dettaglio: Ottavio Piccolomini.
  • Ottavio Enea (1698 - † 1757). Francesco di Ottavio, ebbe diversi figli di cui solo Lorenzo lasciò seguito. L'ultimo nato fu Ottavio Enea, che, come il prozio, intraprese la carriera militare. Divenne generale delle truppe imperiali e governatore della Moravia. Morì nel 1757, lasciando eredi il cugini , Pompeo e Giuseppe, napoletani ed ultimi Piccolomini d'Aragona, ai quali, andarono, per il breve periodo di una generazione, tutti i titoli e possedimenti, accumulati dalla linea della Papessa Caterina, compreso il ducato di Amalfi. Come si è visto in precedenza, con l'estinzione anche di questa linea, che fu della Papessa Laudomia, tutti i possedimenti, i titoli e la storia del ramo papale passarono nella linea dei Salamoneschi[115].

Piccolomini Salamoneschi

È questa indubbiamente una di quelle ramificazioni, che ha dato alla famiglia diversi personaggi illustri, tra capitani di ventura, notabili e uomini di chiesa.

Gli uomini d'arme di questa linea si sono espressi specialmente nel XIV secolo, quando il potere e la stabilità della repubblica, non si erano ancora consolidati. Tre figli di Salomone Spinello, Pietro e Tommaso furono condottieri dotati di grande carismara la popolazione. Dotati di cospicui mezzi, ebbero con le loro milizie, un ruolo di primaria importanza nei territori della Toscana meridionale, tanto da essere temuti, per le loro iniziative personali, non sempre in linea con le direttive della Repubblica.

 
Perugia difesa da Nanni Piccolomini nel 1412
  • Tommaso, detto Prete Grasso dopo alcune iniziative non gradite, fu bandito da Siena e come soldato di ventura, passò al soldo di Fra' Moriale, condottiero francese, di dubbia fama
     
    , che era di passaggio in Toscana. Effettuò numerose scorrerie, pretendendo consistenti riscatti per la liberazione dei territori occupati. Questa sua attività gli fruttò 13.000 fiorini che la Repubblica fu costretta a pagargli[116].
  • Spinello, nel 1363, si impadronì, insieme ai fratelli, del castello di Batignano, di notevole importanza strategica, e lo restituì a Siena, solo dietro pagamento della considerevole somma di denaro di 6.400 fiorini[117]. Durante questa controversia Spinello, fu imprigionato e rinchiuso a Castiglioncello, da dove però riuscì a fuggire[118].

I figli di Spinello continuarono la tradizione militare della famiglia. Uno dei due, Niccolò, seguì le vicende belliche nel territorio senese, inizialmente affiancato dal fratello Nanni.

  • Nanni di Spinello (Giovanni)[121], Capitano di ventura, ebbe una personalità variegata e turbolenta. Bandito dalla Repubblica, si unì ad Angelo Tartaglia, altro condottiero italiano. Con questi occupò Radicofani, per poi venderlo ai Senesi.
     
    Veduta del castello di Triana
    Nel 1412 si pose a difesa dei territori di Perugia insieme a Ceccolino Michelotti e riuscì a battere Braccio da Montone, che difendeva gli interessi papali. Rimarrà, per qualche anno a difesa di questa signoria al comando di 150 lancieri. Si cimentò nuovamente contro Braccio da Montone, questa volta contro Perugia e a fianco di Muzio Attendolo Sforza, entrambi al servizio di Ladislao re di Napoli. Sempre nel 1417 passò senatore a Roma[122] e successivamente, sempre affiancando Attendolo Sforza, si mise al servizio di Martino V. Ancora una volta affronta Braccio da Montone nella battaglia di Montefiascone (1419), nella quale però questa volta viene sconfitto. Durante tutte queste vicende belliche ed i continui rivolgimenti di fronte, grazie all'intervento del re di Napoli, venne riammesso a Siena, con il ripristino del suo status di cittadino della repubblica.
     
    Francesco Piccolomini, 8° Generale dei Gesuiti
    Nel 1421, insieme ad altri condottieri italiani, passò al servizio degli Angiò. A Cosenza, al comando di Francesco Sforza, combatté una lunga campagna contro le truppe di Alfonso d'Aragona.
    Nei brevi periodi di pace, decise di mettere a frutto i larghi guadagni ottenuti nelle numerose campagne militari, acquistando insieme al fratello Niccolò il Castello di Triana[123], che con i territori di pertinenza rappresentava un importante marca di confine rispetto ai domini del papato.
  • Salamone, nipote di Nanni e figlio del fratello Niccolò ottenne dalla repubblica l'esenzione dei tributi, e la costituzione della Signoria della Triana, per il ramo primogenito, che assunse il nome di Piccolomini della Triana e si perpetuò per altre sei generazioni, fino alla metà delXVII secolo. Durante questo periodo altri uomini diedero lustro a questa nuova linea della famiglia. Tra questi, personaggio di rilievo è un padre gesuita.
  • Francesco, di Lelio di Girolamo nato nel 1582. Figura da sottolineare per la sua rettitudine morale e la sua grande devozione religiosa. Divenne gesuita all'età di 18 anni e successivamente professore di filosofia e teologia nel Collegio Romano. Dopo aver retto diverse provincie del'ordine, divenne nel 1649 Preposito generale della Compagnia di Gesù[124].

La discendenza più antica dei Signori della Triana, continuò fino a quando l'ultima nata, Agnese, sempre in rispetto del patto consortile si sposò, (intorno al 1640) con il cugino cadetto Spinello, appartenente all'originario ramo dei Piccolomini Salamoneschi. Nel 1895 anche questa linea si estinse con Niccolò, che lasciò erede dei suoi beni, che comprendevano anche il Palazzo di Pienza, il lontano cugino Silvio dei Carli Piccolomini, che trasferì così la signoria della Triana nell'altro grande ramo della famiglia scaturito da Rustichino.



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Alessandro I Piccolomini (1535-1554) Senese, fratello del predecessore Girolamo e già Vescovo di Pienza, alla morte di questi divenne Vescovo anche di Montalcino, riunendo le due Diocesi momentaneamente separate. Partecipò al Concilio di Trento. Nel 1554 rinunciò al governo delle Diocesi e morì nel 1563.[8]

Ramo di Rustichino

Piccolomini Carli

Piccolomini Clementini

Piccolomini Mandoli

Membri illustri

Molti membri della famiglia furono ecclesiastici, generali e statisti. Due di loro divennero papi:

Fra gli altri membri importanti:


Note

  1. ^ a b c Vittorio Spreti - Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana 1928-1936 (Ristampa Anastatica Forni Editore Bologna -1981) Vol. V, pag. 325 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "Spreti0" è stato definito più volte con contenuti diversi
  2. ^ Roberta Mucciarelli , L'archivio Piccolomini:Alle origini di una famiglia magnatizia: discendenza fantastiche e architetture nobilitanti - (edito in “Bullettino Senese di Storia Patria”, CIV, 1997, pp. 357-376), (pagg. 1 e 2 del doc. rtf)- Fonte
  3. ^ O. Malavolti, Dell’historia di Siena, Venezia, 1599, [rist. anastatica Bologna, 1968] III, parte prima, p. 23
  4. ^ Roberta Mucciarelli, op. cit.. pg. 2 doc. rtf - Fonte
  5. ^ Roberta Mucciarelli, op. cit. pag. 10 doc. rtf- Fonte
  6. ^ a b Roberta Mucciarelli, op. cit. pag. 6 doc. rtf- Fonte
  7. ^ Roberta Mucciarelli, op. cit. pagg. 1 - 7 doc. rtf- Fonte
  8. ^ Arrigo II detto il terzo - Noto come Enrico III il Nero - Sebastiano Fantoni Castrucci, Istoria della Citta' d'Avignone, e del contado Venesino, stati della sede apostolica nella Gallia,... scritta dal P. M. Sebastiano Fantoni Castrucci...All' illustriss. & eccellentiss. signore il signor D. Maffeo Barberini... Tomo primo [-Tomo secondo] - Gio: Giacomo Hertz, Venezia 1678 Fonte
  9. ^ Si scorgono nella croce blu, sei mezze lune d'oro, anziché cinque. Numero omologato dal XV secolo in poi
  10. ^ a b c Vittorio Spreti Op. cit. Vol. V, pag. 326
  11. ^ a b c Roberta Mucciarelli, op. cit. pag. 5 doc. rtf- Fonte
  12. ^ Gio. Mario de Crescimbeni, Commentari di Gio. Mario de Crescimbeni, intorno alla sua istoria della volgar poesia - Vol. II Parte II, pag. 100 - A. De Rossi 1702 - Firenze (?)Fonte
  13. ^ Alessandro Sozzini, Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555. Firenze, 1842 pag. 279 Fonte
  14. ^ a b Vittorio Spreti - Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana 1928-1936 (Ristampa Anastatica Forni Editore Bologna -1981) Vol. pag. 331 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "spreti" è stato definito più volte con contenuti diversi
  15. ^ Roberta Mucciarelli, L'Archivio Piccolomini. Alle origini di una famiglia magnatizia: discendenze fantastiche e architetture nobilitanti - Bullettino Senese di Storia Patria Siena, 1997, pp. 357-376Fonte
  16. ^ a b Biblioteca Comunale di Trento , ESTeR (editori e Stampatori di trento e Rovereto)- Trapp Carlo Costantino Fonte Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "Ester" è stato definito più volte con contenuti diversi
  17. ^ Luisa Bortolotti, Arte pittorica in Trentino - Luisa Bortolotti - Provincia autonoma di Trento - 2009. Pag.12 Fonte
  18. ^ ISSUU - La Valsugana Orientale[- Fonte]
  19. ^ Terre di Toscana - Storia e cultura Fonte
  20. ^ a b Evidenze di edilizia civile medievale in Roccalbegna pag. 4 in Academia.eduFonte
  21. ^ G. A. Pecci "Lo stato di Siena antico e Moderno (1758)" a cura di M. De Gregorio, in "Castelnuovo e Podesteria", Siena 1992.
  22. ^ a b G. Treccani, Enciclopedia Italiana, Vol. XXVII pag. 310 - Istituto Poligrafico dello Stato - Roma - 1949-Fonte
  23. ^ a b Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  24. ^ Libellus dialogorum de generalis concilii auctoritate et gestis Basileensium.
  25. ^ a b G. Treccani, Enciclopedia Italiana, Op. cit., pag. 310 -Fonte
  26. ^ a b Vittorio Spreti - Op. cit. Vol. pagg. 325, 326 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "Spreti3bis" è stato definito più volte con contenuti diversi
  27. ^ a b Claudio Rendina, Le papesse - Newton Compton Editori -2011 Fonte
  28. ^ Occorre precisare che il nome Caterina da alcuni è indicato come una attribuzione errata. Il nome esatto sembrerebbe Costanza, ma al fine di non generare confusione, si preferisce continuare, sulle indicazioni dello Spreti e di Ludwig von Pastor nella sua Storia dei Papi, ad usare il nome Caterina
  29. ^ Libro d'oro della nobiltà mediterranea della società genealogica Italiana edito on line
  30. ^ Vittorio Spreti - Op. cit. Vol. pag. 327
  31. ^ Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  32. ^ G. Treccani, Enciclopedia Italiana, Vol. XXVII pag. 313 - Istituto Poligrafico dello Stato - Roma - 1949
  33. ^ G. Treccani, Op. cit., pag. 313
  34. ^ Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  35. ^ Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  36. ^ Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  37. ^ a b Treccani, Enciclopedia dei Papi Fonte
  38. ^ G. Treccani, Op. cit., pag. 313
  39. ^ Vittorio Spreti - Op. cit. Vol. V, pag. 327
  40. ^ G. Treccani, Op. cit., pag. 313
  41. ^ a b Dizionario Biografico degli Italiani - FERDINANDO I (Ferrante) d'Aragona, re di Napoli - Volume 46 (1996) - Fonte
  42. ^ a b Vittorio Spreti - Op. cit. Vol. V, pag. 329 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "Spreti6" è stato definito più volte con contenuti diversi
  43. ^ Nobili Napoletani,Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia. Famiglia Piccolomini - I Sedili di Napoli- Fonte
  44. ^ Eugenio Larosa, Biografia del Condottiero Roberto Sanseverino - Associazione Culturale Famaleonis - Fonte
  45. ^ Nobili Napoletani, Op. cit., Le principali battaglie svoltesi nel Mezzogiorno d'Italia- Fonte
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