Religione dell'antica Grecia
Per religione dell'antica Grecia, in questa voce, si intende l'insieme di credenze, miti, rituali, culti misterici, teologie e pratiche teurgiche e spirituali[4] professate nella Grecia antica, sotto forma di religione pubblica, filosofica o iniziatica.

Le origini della "religione greca" vanno individuate nella preistoria dei primi popoli abitanti l'Europa, nelle credenze e nelle tradizioni di differenti popoli indoeuropei che, a partire dal XXVI secolo a.C., migrarono in quelle regioni, nelle civiltà minoica e micenea e nelle influenze delle civiltà del Vicino Oriente antico occorse lungo i secoli[5].
La "religione greca" cessò di essere con gli editti promulgati dall'imperatore romano di fede cristiana Teodosio I, il quale proibì tutti i culti non cristiani, ivi compresi i misteri eleusini, e con le devastazioni operate dai Goti lungo il IV e il V secolo d.C.[6].
Premessa
L'espressione "religione greca" è di conio moderno. Gli antichi Greci non possedevano un termine che indicava quello che il termine moderno "religione" intende indicare in modo peraltro problematico[8].
Il termine che nella lingua greca moderna indica la "religione" è Template:Polytonic (thrēskeia). Tale termine è collegato a Template:Polytonic (thrēskos; "pio", "timoroso di Dio"). Quindi anche se nella cultura religiosa greco-antica non esisteva un termine che riassumesse quello che noi intendiamo oggi per "religione"[9], thrēskeia[10] possedeva tuttavia un ruolo e un significato precisi[11]: indicava la modalità formale con cui andava celebrato il culto a favore degli dèi[12]. Scopo del culto religioso greco era infatti quello di mantenere la concordia con gli dèi: non celebrare loro il culto significava provocarne l'ira, da qui il "timore della divinità" (Template:Polytonic) che lo stesso culto provocava in quanto connesso con la dimensione del sacro.
Mario Vegetti[13] accosta al termine moderno di "religione" quello greco antico di eusebeia (εὐσέβεια) ovvero la cura nei confronti degli dèi[14].
Se quindi il termine "religione" non appartiene, neppure etimologicamente, alla lingua greca antica, anche il termine "greco" era del tutto sconosciuto agli antichi Greci. Il termine "greco" origina infatti dal latino Graecu(m), a sua volta dall'etnico Graikoi che, originariamente, indicava solo una popolazione di stirpe eolica, proveniente da Tanagra e dall'isola di Eubea, che colonizzò il Mediterraneo occidentale fondando, in particolare, la città di Cuma. Furono i Romani ad estendere il termine Graikoi, da loro reso come Graecu(m), per menzionare tutti i popoli "Greci" originariamente appellati per lo più come Elleni (Ἕλληνες, Héllēnes)[15][16].
Ciò premesso, è indubitabile in questa civiltà il ruolo fondamentale ricoperto dall'esperienza religiosa:
Quindi qualsivoglia aspetto della vita dell'uomo greco aveva sempre e comunque una valenza religiosa, per questo in quella cultura non esisteva un termine per indicare la "religione", ovvero una chiara distinzione dell'ambito "sacro" da quello "profano", nozione, la "religione" che nella sua accezione comune e "moderna" non esiste prima del XVIII secolo[17].
La religione greca come mito, culto e rappresentazione
Seppure nozione dibattuta, la religione, in generale, si esprime per mezzo di racconti, rappresentazioni artistiche, culti.
La religione greca è comunemente conosciuta soprattutto per mezzo dei miti[18] che ne compongono la mitologia. Fin dall'avvio del suo studio nel corso del Rinascimento, infatti, e per tutto il XIX secolo, la religione greca è stata considerata essenzialmente come mitologia:
Nel corso della prima metà del XX secolo questo paradigma è entrato in crisi: autori come André-Jean Festugière[19] hanno considerato lo studio della mitologia greca come fuorviante ai fini di una conoscenza della effettiva religione che andava conosciuta per mezzo dei riti:
Le ragioni di questa crisi sono molteplici e vanno dalla personale impostazione degli studiosi al fatto che «il progresso degli studi classici, lo sviluppo in particolare, dell'archeologia e dell'epigrafia, hanno aperto agli antichisti, a fianco del campo mitologico, nuovi campi di ricerca che hanno indotto a mettere in causa, talvolta per modificarlo piuttosto in profondità, il quadro della religione greca offerto dalla sola tradizione letteraria»[20].
Oggi vi è una riconsiderazione complessiva dello studio della religione greca: «Il mito gioca la sua parte in questo insieme allo stesso titolo delle pratiche rituali e dei fatti di figurazione del divino: mito, rito, rappresentazione figurata, tali sono i tre momenti di espressione - verbale, gestuale, figurata - attraverso cui si manifesta l'esperienza religiosa dei Greci, ciascuno costituendo un linguaggio specifico che, fino nella sua associazione agli altri due, risponde a bisogni particolari e assume una funzione autonoma.»[20].
Le origini
La religione greca nel periodo arcaico e classico
La prima menzione del dio Eros armato di arco e frecce la si riscontra nell'opera di Euripide Ifigenia in Aulide[25]:
della dea dell'amore con
temperanza e misura,
e con grande placidità
lungi dagli estri folli, perché
duplice è l'arco della beltà
che l'Amore (Eros) tende su di noi:
l'uno ci porta felicità,
l'altro la vita torbida fa.»
La statua di Iupiter è probabilmente ispirata alla statua di Zeus, quest'ultima opera di Fidia (cfr. Pausania V, 10,2) e ospitata nell'omonimo tempio a Olimpia, ma andata poi perduta, probabilmente a seguito dell'incendio dello stesso provocato in base a un editto di Teodosio II[26].
Considerata una delle "Sette meraviglie"[27] ne resta la seguente descrizione di Pausania:
«Comunque non solo su tutte le sue statue, ma nel mondo intero, primeggia la sua Venere: molti sono andati per nave a Cnido semplicemente per vederla.»
Alla base della religione greca vi sono, quindi, molteplici fondamenta: la cultura preistorica europea e quella degli invasori indoeuropei, le civiltà minoica e micenea nonché i contributi, come vedremo meglio più avanti, delle civiltà vicino-orientali.
Dal crollo della civiltà micenea (degli Achei), e il seguente periodo dei secoli oscuri e della penetrazione dei Dori, emergono le prime póleis (città) come atto spontaneo di aggregazione delle comunità greche.
Ciò che fondamentalmente differenzia la società micenea da quella delle póleis (πόλεις) è la forma di governo: al dominio centralizzato dal palazzo sede del re (wanáka ) subentra la comunità, aristocratica, degli opliti-contadini.
Il rito religioso del sacrificio subisce in questo quadro una profonda revisione.
Al contempo il crollo della civiltà palaziale micenea libera antichissimi culti
Appaiono le prime statue in bronzo degli dèi nudi, e seppur Dioniso compare nella cultura religiosa micenea ora le «maschere corrono in divina disinibizione.»[34].
Molteplici tradizioni occorrono ora a spiegare i riti a comunità che condividono comunque la medesima lingua[35] e
Accanto al racconto "omerico", rimane fondante il culto che trova nel sacrificio il suo momento supremo. Non solo, la presenza filosofi occorre lungo tutta la storia della religione greca a reinterpretare lo stesso racconto in senso "teologico", anche attraverso una critica radicale dei contenuti "omerici"[36] e con significativi cambiamenti di prospettiva:
Se per la religione greca "omerica" la realtà è divisa tra gli esseri immortali (dèi) e quelli mortali (uomini), dove all'uomo è assegnato un preciso destino[37] che non deve superare, pena di sconfinare nella imperdonabile hýbris (Template:Polytonic)[38], da qui il motto delfico di «Conosci te stesso» (Template:Polytonic, gnôthi seautón) col significato di "non superare la tua condizione mortale" mettendoti sullo stesso piano degli dèi[39], con Platone il paradigma cambia: il filosofo ateniese del IV secolo a.C. assegna all'uomo un diverso posto nel mondo e, facendo leva sulle credenze proprie delle "religioni misteriche", consegna allo stesso la possibilità di divenire immortale, quindi di rendere sé stesso simile a un dio[40].
La presenza del "mito" raccontato dai poeti, l'obbligatoria pratica cultuale cittadina e l'insegnamento teologico dei "filosofi", rappresenta la composita condizione in cui si trovava l'uomo greco di fronte al sacro:
La religione del mondo di "Omero"
Il mondo di Omero è il mondo descritto essenzialmente dai poemi epico-religiosi dell'Iliade e dell'Odissea, come anche dalla Teogonia di Esiodo e dai cosiddetti Inni omerici. La datazione di queste opere è controversa e si situa tra l'VIII e il VI secolo a.C.[41].
Le Muse e l'origine sacra del canto
I poemi "omerici", così come la Teogonia di Esiodo, si contraddistinguono per un preciso incipit che richiama l'intervento di alcune dee indicate con il nome di "Muse" (Μοῦσαι, -ῶν).
οὐλομένην, ἣ μυρί’ Ἀχαιοῖς ἄλγε’ ἔθηκε»
«Canta Musa divina, l'ira di Achille figlio di Peleo
l'ira rovinosa che portò ai Greci infiniti dolori»
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε»
«Narrami, o Musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia»
αἵ θ᾽ Ἑλικῶνος ἔχουσιν ὄρος μέγα τε ζάθεόν τε»
«Dalle Muse Eliconie cominciamo il canto,
loro che di Elicone possiedono il monte grande e divino»
Come nota Walter Friedrich Otto, le Muse sono divinità con delle caratteristiche uniche:
La loro origine è stata raccontata in un "inno" di Pindaro andato perduto, l'Inno a Zeus, ma ricostruibile per mezzo di una preghiera alle stesse redatta da Elio Aristide[42] il quale ricorda come in occasione del suo matrimonio, Zeus domandò agli altri dèi quale fosse un loro desiderio non ancora esaudito e questi gli risposero chiedendo di generare delle divinità «capaci di celebrare, attraverso la parola e la musica, le sue grandi imprese e tutto ciò che egli aveva stabilito.»[43].
Otto[44] evidenzia, con questo accadimento, come non sia il creato «a dover lodare il suo creatore, piuttosto ad esso manca ancora qualcosa: l'essere delle cose non è ancora compiuto finché non si dà una voce che lo esprima. Le cose e la loro gloria devono essere pronunciate: questo è l'adempimento della loro essenza».
Se dunque le Muse sono quelle dee che rappresentano l'ideale supremo dell'Arte, intesa come verità del "Tutto" ovvero l'"eterna magnificenza del divino"[45], i poeti sono da loro 'posseduti', sono entheos, (ἔνθεος "pieni di Dio") come ricorda lo stesso Democrito[46].
Ed essere entheos, "pieno di Dio", è una condizione che «il poeta condivide con altri ispirati: i profeti, le baccanti e le pitonesse»[47][48][49].
Nel caso di Esiodo viene raccontata una vera e propria epifania: le dee incontrano il pastore Esiodo «mentre pascolava agnelli sotto il divino Elicone» apostrofandolo tra i «pastori campestri, vili creature obbrobriose, niente altro che ventri», ma le dee consegnano al pastore Esiodo il bastone (o lo scettro) decorato di alloro trasformandolo da «'ventre', ovvero rozzo contadino e pastore in poeta: una divina grazia tanto eccezionale quanto misteriosa»[50].
Le Muse, dunque, sono le dee che donano agli uomini la possibilità di parlare secondo il "vero" e, figlie di Mnemosýne (Μνημοσύνη), la Memoria, consentono ai cantori di "ricordare" avendo questa stessa funzione uno statuto religioso e un proprio culto[51].
Non solo, Marcel Detienne evidenziano come la memoria dei "poeti" non corrisponda agli stessi fini di quella degli uomini moderni, chiosa:
Quindi la potenza, la dea della memoria, Mnemosine
Il mondo di Omero
Il mondo descritto da questi canti non corrisponde ad uno spazio governato da leggi come quello nostro, ma è un mondo pienamente dotato di vita: tutti gli elementi che lo compongono sono infatti viventi o hanno un volto vivente percepibile o misterioso che sia.
Quindi il mondo omerico è un mondo interamente vivente e in buona parte divino. Così Talete che nel VII secolo a.C. indicò questo mondo pieno di divinità[54].
Il mondo di Omero non è il nostro mondo nemmeno nelle dimensioni. Esso corrisponde a un disco del diametro di quattromila chilometri: Delfi, e quindi la Grecia, è il centro del disco. Questo disco, anch'esso divino e indicato con il nome di Gaia (Template:Polytonic anche Template:Polytonic Gea), è a sua volta circondato da un largo fiume (e dio) indicato con il nome di Oceano (Template:Polytonic, Ōkeanós) le cui acque corrispondono all'oceano Atlantico, al mar Baltico, al mar Caspio, alle coste settentrionali dell'oceano Indiano e al confine meridionale della Nubia. Il Sole (divino anch'esso e indicato con il nome di Helios, Ἥλιος) attraversa nella sua rotazione questo disco, ma il suo volto lucente illumina solo esso, ne consegue che il mondo al di là del disco e quindi della rotazione del sole, ovvero ciò che è oltre il fiume Oceano risulti privo di luce. Da Oceano hanno origine le altre acque, anche quelle infere come lo Stige attraverso connessioni sotterranee[55]. Quando i corpi celesti tramontano si bagnano nell'Oceano[56], così lo stesso Sole, dopo essere tramontato, lo attraversa per mezzo di una coppa d'oro per risorgere da Oriente il mattino seguente[57]. Al di là del fiume Oceano, c'è il buio, vi sono le aperture all'Erebo (Ερεβος), il mondo sotterraneo, lì, presso queste aperture, vivono i Cimmeri (Κιμμέριοι).
Il disco terrestre circondato dal dio-fiume Oceano è suddiviso in tre parti: nord-ovest abitato dagli Iperborei (Ὑπερβόρεοι)[58]; il meridione, dopo l'Egitto, è abitato dai devoti Etiopi (Αἰθιοπῆες), uomini dal volto bruciato dal Sole, oltre le terre dei quali vivono i nani Pigmei (Πυγμαῖοι); tra queste due estremità vi è la zona temperata del Mediterraneo nel cui centro si colloca la Grecia. Dal punto di vista verticale, il mondo omerico ha come tetto il Cielo (divino anch'esso con il nome di Urano, Οὐρανός Ouranós), costituito di bronzo, il quale delimita il percorso del Sole. Ai limiti del Cielo volteggiano gli dèi che amano sedersi sulle cime dei monti e da lì contemplare le vicende del mondo. Dimora degli dèi è uno di questi, il monte Olimpo. Sotto la Terra si situa il Tartaro (Τάϱταϱος, Tártaros; divinità anch'essa), luogo buio, dove sono incatenati i Titani (Τιτάνες Titánes), divinità sconfitte dagli Dei, luogo circondato da mura di bronzo e chiuso da porte fabbricato da Posidone. La distanza posta tra la sommità di Urano e la Terra, ci dice Esiodo nella Teogonia[59], è percorribile da una incudine lasciata da lì cadere che raggiungerà la superficie della Terra all'alba del decimo giorno; medesima distanza oppone la Terra dalla base del Tartaro. Tra l'Urano e il Tartaro si situa dunque quel "mondo di mezzo" abitato da Dei celesti e sotterranei, semidei, uomini e animali, dai vivi e dai morti.
La Teogonia esiodea
Gli Dei e gli Eroi della religione greca arcaica e classica
Gli Dei (Θεοί)
Il termine con cui in lingua greca antica si indica genericamente un dio è Theós (Θεός; pl. Theoí Θεοί)[60]. Se l'equivalenza tra l'italiano e il greco antico è questa, tali termini si differenziano però nei loro significati. Già Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff aveva evidenziato come il termine theós non dispone in greco antico del vocativo, osservazione dirimente se prendiamo in considerazione l'importanza del culto in questa religione. Infatti con il vocativo vengono indicati esclusivamente i nomi propri degli Dei. Károly Kerényi[61] osserva in aggiunta che theós possiede la funzione di predicato, chiarendo che «è specificatamente greco dire di un evento: "È theós!». Kerényi cita ad esempio Euripide che in Elena fa sostenere che «O dèi! Perché è dio quando si riconoscono i propri cari.»[62]. Theós è quindi l'irrompere dell'"evento divino" (theîon θεῖον). E tale "divino" è, per la concezione religiosa dei Greci, nota Walter F. Otto:
La nozione greca della divinità
Come ha acutamente evidenziato Jean-Pierre Vernant[63] gli dèi greci non sono persone con una propria identità, quanto piuttosto risultano essere "potenze" che agiscono assumendo poliedriche forme e segni non identificandosi mai completamente con tali manifestazioni. Gabriella Pironti[64] ricorda a tal proposito l'Anabasi (VII, 8, 6-1) di Senofonte (430-354 a.C.) il quale si trova in condizioni di difficoltà economiche perché pur avendo onorato Zeus Basileus (βασιλεύς, Re) si è dimenticato di onorare Zeus Meilichios (μειλίχιος termine che evoca il miele) collegato alle fortune familiari e quindi economiche.
Queste potenze sono, come già ricordava Walter F. Otto nel classico Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes (Bonn 1929)[65] "il motore del mondo".
E André Motte aggiunge:
Così in Omero non si sostiene che si 'ha' un modo giusto di vedere, ma si 'comprende' tale modo, e lo si comprende perché esso ci appare per mezzo delle divinità[66] (nozione della atē ἄτη espressa anche dal verbo aasasthai, in quest'ultimo caso senza l'intervento divino[67]). E tale apparizione può essere da loro offuscata, come denunciano Omero e i tragici, quindi chi sbaglia non lo fa per cattiva volontà ma perché gli dei decidono di offuscargli la mente[66]. Allo stesso modo «in ogni azione importante dell'uomo agisce un Dio»[68].
Anche se, come evidenzia Max Pohlenz, persino nei momenti in cui è condizionato da tali "potenze" egli non si percepisce come privo di "libera scelta":
Gli dèi greci sono dunque "potenze" caratterizzate dall'essere estranee agli affanni (ἀκηδής akēdḗs) e dalla sofferenza (ἀχεύω acheúō) come ricorda l'eroe Achille:
ζώειν ἀχνυμένοις· αὐτοὶ δέ τ' ἀκηδέες εἰσί.»
«Questo destino hanno dato gli dèi ai mortali infelici:
vivere afflitti, ma loro sono immuni da pena»
Anche se, notano Giulia Sissa e Marcel Detienne[69], questa demarcazione tra dèi e uomini non sempre è rispettata come nel caso, ad esempio, di Efesto e di Teti che si qualificano come colpiti dal dolore (achnymenoi)[70][71].
Il corpo fisico, spesso di forma umana, con cui possono manifestarsi gli dèi non coincide con quello naturale: in esso, infatti, non circola il sangue ma un altro umore, l'ichór (ἰχώρ). Questo perché gli dèi non si alimentano di cereali e di vino[72]:
οὐ γὰρ σῖτον ἔδουσ', οὐ πίνουσ' αἴθοπα οἶνον,
τοὔνεκ' ἀναίμονές εἰσι καὶ ἀθάνατοι καλέονται.
»
«l'icore che scorre nelle vene agli dèi beati,
perché non mangiano pane, non bevono il vino lucente:
per questo non hanno sangue e sono chiamati immortali.»
Purtuttavia questi corpi fisici si manifestano come potenze come quando Apollo colpisce con la mano Patroclo[73], e sono individuabili anche se utilizzano corpi simili agli uomini, proprio per mezzo delle loro tracce (ichnos, ἴχνος) come osserva Aiace Oileo dopo aver scorto Posidone[74].
Resta che, come notano Giulia Sissa e Marcel Detienne:
Gli dèi greci posseggono inoltre la caratteristica di differenziarsi nell'ambito delle loro rispettive "potenze" e di pagarne caro il prezzo qualora si avventurassero in ambiti che non gli sono propri, come ricorda Zeus ad Afrodite ferita da Diomede dopo il suo tentativo di proteggere Enea[75]. O ancora corrono a chiedere il sostegno della potenza altrui, come fa Era, ottenendo il nastro ricamato "dov'erano tutti gli incanti" proprietà di Afrodite, allo scopo di sedurre il re degli dèi Zeus[76].
Separati dagli uomini per natura, condizione e destino, gli dèi vengono rappresentati dai greci secondo i canoni assoluti della bellezza. In questo, sottolinea Mircea Eliade, si distingue un tratto preciso della religione greca:
Termine e nozione di "politeismo"
La religione greca è dunque indubbiamente, almeno nei suoi aspetti più diffusi, una religione politeistica. Occorre tuttavia precisare che sia il termine che la nozione di "politeismo" non sono conosciuti nel mondo greco. Tale termine, "politeismo" (dal greco πολύς polys + θεοί theoi ad indicare "molti dèi"), è attestato solo nelle lingue moderne ed ha origine in Francia a partire dal XVI secolo, esso deriva dall'analogo termine greco polytheia coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C.) per indicare la differenza tra l'unicità de dio ebraico rispetto alla nozione pluralistica dello stesso propria delle religioni antiche[77].
Gli Eroi
Origine del termine Eroe ( ἥρως, Heros)
Il termine ἥρως (Héros, Eroe) ha un'origine incerta[78] ed è comunque attestato già in Lineare B come 𐀴𐀪𐀮𐀬𐀁 (ti-ri-se-ro-e)[79] ("tre volte eroe"[80], dove indica un grande eroe divinizzato; identificato anche con il dio Tritopator[81]). Tale termine, comunque, è per gli studiosi moderni collegabile al sanscrito vedico vīrá (in devanāgarī वीर, sostantivo maschile nel significato di "condottiero" o "eroe") come al latino vir (uomo di valore) ma anche al gotico vair e all'anglosassone wer[82], dal protoindoeuropeo *wih-rós.
Per Pierre Chantraine[83] il collegamento è invece con la radice, sempre indoeuropea, di *ser-, da cui il latino servare ("custodire") come ad indicare che allo hḗrōs viene celebrato il culto affinché egli offra protezione. Che il significato sia religioso è evidenziato, ad esempio, dallo stesso Pierre Chantraine[84].
Origine e natura degli Eroi
Con il termine termine ἥρως (Héros, Eroe) si indica nella religione greca un essere che si pone su un piano intermedio tra l'uomo e la divinità[85]. Ciò è evidente già nel periodo omerico dove tali "esseri" vengono appellati come ἡμίθεοι (semidèi)[86]. Per i Greci, quindi, tra gli esseri che abitano l'universo oltre agli Dei e agli uomini vi sono anche gli Eroi[87]. Platone conferma questa suddivisione aggiungendo anche la categoria dei Dèmoni[88] già presenti in Esiodo[89] ma come stato di post mortem della generazione aurea e in qualità di tutori del genere umano[90].
Esiodo ci dice che gli Eroi sono la quarta generazione (dopo le stirpi dell'oro, dell'argento e del bronzo) subito prima dell'avvento degli uomini:
ancora un'altra, la quarta, sulla terra nutrice di molti
Zeus Cronide creò, più giusta e migliore,
razza divina di eroi, che sono chiamati
semidei: la generazione a noi precedente sulla terra infinita.»
Gli Eroi per quanto di natura eccezionale, sono simili e vicini agli uomini, nelle loro vene scorre sangue e non icore (ichór)[91],
Come già ricordava Erwin Rohde[92] nel testo classico Psiche, tale nozione di "semidei" non inerisce a un loro presunto aspetto "spirituale" o alla natura di uomini "glorificati", quanto piuttosto all'essere uomini ma figli di uomini e di dèi, dove la presenza di quest'ultima parentela occorreva per il loro innalzamento a un rango "divino". Tale parentela veniva collegata da Esiodo al periodo in cui dèi e uomini convivevano, generando insieme la stirpe degli Eroi che combatté a Tebe e a Troia. In occasione di quest'ultima guerra, il re degli dèi Zeus decise tuttavia di allontanare gli dèi dagli uomini[93].
E seppur nella cultura omerica, gli Eroi sono coloro che nei poemi vengono cantati per le loro gesta, successivamente tale termine occorre ad indicare tutti coloro che, morti, dalla loro tomba (ἡρῷον hērōion) sono in grado di condizionare, positivamente o negativamente, la vita dei "vivi" e che per questo richiedono degli appropriati culti[94]. Tale sviluppo è generato dalla convinzione che nei poemi omerici vengano cantati uomini più "potenti" di quanto lo siano "ora" i mortali[95].
Quindi Eroi non sono solo i "semidei" cantati da Omero ed Esiodo ma anche personaggi ben più numerosi, mitici o meno, alla cui tomba si presta un culto, come Giacinto, il giovine amato da Apollo al centro di un complesso rituale iniziatico o, per uscire dall'ambito strettamente "eroico", la vergine Ifinoe a cui sacrificano le fanciulle prima di maritarsi[96].
I primi documenti in nostro possesso che indicano un culto dedicato agli Eroi corrispondono ad un frammento inerente a Mimnermo[97] e a un testo di Porfirio che richiama una legge di Draconte:
Il Daímōn (δαίμων)
Oltre agli "dèi" e agli "eroi", nella religione greca sono presenti delle figure riassumibili nella nozione di δαίμων (Daímōn, «essere divino»). Occorre subito precisare che la nozione comune di "demone" che lo iscrive come essere "inferiore" al dio, e soprattutto di natura malvagia, appartiene all'opera di Platone e Senocrate[98] e non quindi alle precedenti credenze della religione greca che invece non stabiliscono una relazione gerarchica tra "dio" e "demone" quanto piuttosto utilizzano il termine dáimōn anche per indicare delle divinità quali Afrodite o, più generalmente, come daimones gli stessi dèi riuniti sull'Olimpo[99]. Più precisamente se il dáimōn non indica una classe divina, esso indica certamente un modo di comportarsi che può essere anche "umano", ovvero è il comportamento proprio di chi è posseduto da una "forza" positiva con cui egli agisce in accordo (sỳn daímoni) e quindi l'esito del suo destino risulta "favorevole"; ovvero se il destino risulta avverso allora egli è collocato contro questo "demone" (pròs daímoni)[100]. Allo stesso modo quando ci si ammala è possibile che sia stato un "demone" a muoverci contro, allora i theoí (gli dèi) possono soccorrerci. Ma anche:
D'altronde possedere il favore, ovvero lo sfavore, del daímon non dipende dall'uomo, e la sua presenza gli è garantita fin dalla nascita.
In Esiodo, il dèmone è lo stato post mortem della prima generazione aurea vivente al tempo di Crono[101] la quale, sopraffatta dal sonno, venne trasformata da Zeus in "tutrice dei mortali", protettrice del genere umano[102].
essi sono, per volere del grande Zeus, dèmoni
propizi, che stanno sulla terra, custodi dei mortali,
e osservando le sentenze della giustizia e le azioni scellerate,
vestiti di aria nebbiosa, ovunque aggirandosi sulla terra,
dispensatori di ricchezze: questo privilegio regale posseggono»
Uomini e dèi
Acusilao, Epimenide e Ferecide
Acusilao di Argo visse prima delle guerre persiane, compose la Γενεαλογίαι in cui riportò, modificandola, la Teogonia di Esiodo.[103]
La teogonia di Epimenide (Χρησμοί)[104] possiede delle analogie sia con quella esiodea che con quella orfica, individuando le potenze prime nell'Aria e nella Notte, genitrici del Tartaro e quindi del restante cosmo. Taumaturgo, fu anche estatico vivendo al pari di Aristea esperienze di viaggio fuori dal corpo[105]. Il dio principale di Epimenide era tuttavia lo Zeus cretese; Plutarco sostiene che lo stesso Epimenide veniva indicato come Κούρης νεός (nuovo Curete).
Ferecide[106], autore del poema cosmogonico Επτάμυχος (Le sette caverne, indicato anche come Θεοκρασία o Πεντάμυχος), individua invece come divinità primordiali ed eterne: Zas (Ζὰς, analogo a Zeus), Chthonie (Χθονίη, poi dopo aver avuto in dono la Terra diviene Gaia) e Chronos (Χρόνος). Dal seme di Chronos, defluirono gli elementi di terra, acqua e fuoco che allocati in sette (o cinque) antri dell'universo furono all'origine della restante generazione degli dèi e quindi del cosmo. La teogonia di Ferecide influì, o fu influenzata, sulle teogonie orfiche e quindi su quelle pitagoriche.[107]
Secondo alcuni racconti[108], le prime compagne degli uomini furono le Ninfe Melie, le Ninfe dei frassini, nate dal sangue del membro di Urano caduto sulla Terra. In seguito[109] si ritenne che gli uomini fossero frutti caduti dai frassini. Oppure[110] si riteneva che gli uomini fossero emersi direttamente dalla Terra, magari nell'aspetto di "formiche"[111]. Ancora[112] si riteneva che il primo essere umano, di nome Alalcomeneo (Αλαλκομενεύς), fosse nato nei pressi del lago di Copaide (Beozia) avendo come compagna Niobe (Νιόβη). Nell'Argolide era Foroneo (Φορωνεύς) il primo uomo[113], figlio del dio Inaco (Ιναχοσ) e di Melia e avente come compagna sempre Niobe[114], la madre dolorante del genere umano. Nei racconti antropogonici è presente anche il Diluvio universale[115]. Zeus per eliminare la tracotante stirpe di "bronzo" che si rifiutava di eseguire i sacrifici agli dèi, decise di provocare il "diluvio"; Deucalione (Δευκαλίων), figlio di Prometeo, avvertito dal padre, costrui un'arca e vi si rifugiò con la moglie Pirra (Πύρρα), a sua volta figlia del fratello Epimeteo e di Pandora e, navigando per nove giorni, approdò sulla cima del Parnaso dove eseguuì un sacrificio per il re degli dèi. Soddisfatto del comportamento di Deucalione, Zeus gli inviò Ermes affinché esaudisse un suo desiderio, Deucalione chiese quindi la generazione degli uomini allora Zeus lo invitò a scagliare delle pietre dietro la sua testa: dalle pietre di Deucalione ebbero origine gli uomini e da quella lanciate da Pirra, le donne.
Nella Teogonia di Esiodo non si parla della generazione degli uomini[116], fatto salvo della creazione (cfr. 570 e sgg.) della prima donna, quella figura menzionata nelle Opere e giorni come Pandora (Πανδώρα, "[Colei che è fornita di] tutti i doni"): Zeus irato con Prometeo, il quale aveva rubato il fuoco per donarlo agli uomini, decide di inviare all'umanità la donna, colei che, formata da Efesto col fango (γαῖαν ὕδει φύρειν, così precisa in Opere e giorni, v. 61) ma adornata dei doni delle dee, apparentemente possiede una bella presenza ma in realtà, come ancora precisa Opere e giorni (al v. 68), nasconde lo spirito di cagna (κύνεος νόος). La creazione della donna, del "bel male" (καλὸν κακὸν kalon kakon, Teogonia 585), ci dice Esiodo, modifica lo status degli uomini che da anthropoi (ἅνθρωποι) divengono andres (ἄνδρες) e quindi uomini associati alle donne (Teogonia 589-593), destinati alla generazione e alla morte[117].
Questo risultare frutto della mescolanza di acqua e terra, propria della genesi delle donne, nell'Iliade (VII, 99[118]) riguarda pure gli uomini, anche se, l'invettiva di Menelao contro i propri compagni che hanno timore di Ettore, possa in realtà inerire al fatto che si stiano comportando da donne e non da guerrieri[119]. Tuttavia sia Aristofane (Uccelli v. 686) che Callimaco (fr. 192) richiamano l'uomo come fatto d'argilla. Nello specifico a plasmare l'uomo con acqua e terra per Callimaco, come per Apollodoro (I,7,1), Pausania (X,4,4) e Filemone (fr. 89), fu il titano Prometeo.
Prometeo non è l'unico Titano vicino e amico degli uomini, come ricorda anche Diodoro Siculo[120]. il quale riferisce che secondo i Cretesi, i Titani nacquero al tempo dei Cureti. Essi vivevano nei pressi di Cnosso, erano sei maschi (Crono, Iperione, Ceo, Iapeto, Crio, Oceano) e cinque femmine (Rea, Temi, Mnemosine, Febe e Teti), figli di Urano e di Gea, oppure figli di uno dei Cureti andato in sposo a una certa Titaia da cui essi presero il nome. Ognuno di questi Titani ebbe modo di lasciare un dono prezioso in eredità agli uomini conquistando in questo modo un onore imperituro. Crono, dei Titani il più anziano, fu re, e grazie a lui gli uomini passarono dallo stato selvaggio alla civiltà. Insegnò agli uomini anche ad essere probi e semplici d'animo, questa è la ragione per cui si sostiene che gli uomini al tempo di Crono furono giusti e felici.[121].
Se la creazione degli uomini non ha posto nella Teogonia, diversamente questa viene citata nell'altra opera di Esiodo, Opere e giorni, dove ai versi 109-110, 127-128, 143-144, 156-158, viene raccontata la loro genesi in quattro[122] stirpi (aurea, argentea, bronzea e quella degli Eroi; appartenendo noi, con Esiodo, a quella ferrea, la quinta, l'ultima). Il verbo utilizzato da Esiodo per indicare questa genesi è ποιέω (poièo; fare, fabbricare, creare), quindi gli dèi[123] "creano", "fabbricano", "fanno" gli uomini, progressivamente in quattro stirpi differenti, ognuna delle quali sostituisce la precedente. La ragione di questa "fabbricazione" risiede, per Reynal Sorel, nel fatto che «l'ambiente divino non riesce, come tale, a comprendersi da sé stesso»[124]. La differenza tra le varie stirpi umane è determinata dai differenti stili di vita e dal fatto se questi osservino il criterio di giustizia oppure si prestino alla tracotanza[125].
La "fabbricazione" dell'uomo da parte degli dèi è, nella concezione esiodea, resa necessaria affinché questi si voti «all'esercizio del sacrificio»[126]
La condizione umana, segnatamente la condizione della stirpe di "ferro", è una condizione di "mezzo" tra gli dèi e le bestie. Dagli dèi la stirpe degli uomini è separata dalle caratteristiche proprie della sua esistenza caratterizzata dagli "affanni" e dalla morte; dalle bestie si distingue per la consapevolezza del suo inevitabile destino. Tale destino gli è stato consegnato da Zeus in persona il quale, in questo modo, voleva punire l'affronto di Prometeo. Così ora l'uomo della generazione di "ferro" a differenza dell'uomo della stirpe "aurea" è costretto a lavorare duramente i campi e a sacrificare le bestie per poter riempire il proprio ventre, allo stesso modo è costretto a unirsi in matrimonio con la "donna" (il bel male) per poter generare la sua stirpe mortale. Le pratiche cultuali inerenti alla coltivazione dei campi, al sacrificio e al matrimonio ne caratterizzano quindi la vita religiosa, che se da una parte li collega al mondo divino, a cui una volta era unito, ora ne rammenta l'incolmabile distanza. Tale ambiguità ne caratterizza costantemente l'esistenza:
Nei versi 90-105 delle Opere e giorni Esiodo descrive la conclusione della vicenda umana attraverso il mito del "vaso di Pandora". Questo giara (πίθος pithos) che dovrebbe contenere il grano (βίος bios) contiene invece i "mali" che affliggono l'uomo e che sono fino a quel momento separati da lui, ma Pandora apre il vaso e li disperde ovunque facendo sì che l'esistenza umana venga da quel momento da questi caratterizzata. Solo Elpis (ελπίς), la Speranza, «l'attesa o il pensiero del presente-futuro che resta nel "pithos"; riparo al male schiacciante o dominante, in primis quello delle Chere di morte»[127] rimane nel vaso per volere di Zeus.
Da quel momento i "mali" si presentano come "beni" e quando l'uomo li riconosce come "mali" questi ormai lo hanno raggiunto. Per poter raccogliere il bios, il nutrimento, e riempire la giara di "beni" l'uomo deve affrontare la fatica e la sofferenze ormai diffuse ovunque. Solo il lavoro, la costanza e la diligenza possono riempire di beni la giara della vita e nutrirla di buone speranze, regalando così all'esistenza umana momenti di serenità in mezzo ai mali diffusi da Pandora in ottemperanza alla punizione di Zeus.
L'uomo, quindi, plasmato d'argilla[128], si distingue dalle bestie e dagli dèi andando a occupare una posizione tra questi intermedia, resa tale dalla parentela con gli dèi grazie alla pratica cultuale.
Il culto
Le principali modalità con cui l'uomo greco si relazionava al "divino" erano la preghiera, la divinazione e il sacrificio[129].
Mentre «Il luogo privilegiato in cui la divinità incontra l'uomo è il santuario.»[130].
Il luogo sacro (ἱερόν)
L'altare, collocato all'interno del santuario (hierón), era il luogo unitamente alla statua del dio o della dea (ágalma), alla quale accostandosi in qualità di supplice (ἱκέτης hikétes) si poteva ottenere la protezione sacra (ἀσυλία asylía). Questa protezione ineriva allo stesso spazio sacro rappresentato dallo hierón. Tale spazio era immune da qualsiasi atto di violenza che potesse contaminarlo (μίασμα míasma).
L'area del culto greco, il santuario, consiste in un terreno adibito a luogo sacro indicato con il nome di τέμενος (témenos, anche ἱερόν hierón).
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Il témenos è spesso separato dal circostante terreno considerato non puro (βέβηλον, bébelon) da un muro di cinta (περίβολος períbolos) alto più di un uomo e interrotto da un ingresso (πρόπυλον propylon).
All'interno dell'area sacra del témenos si colloca il tempio, la casa (οἶκος oikos) del dio indicata con il termine ναός (naós), che solitamente ne accoglie l'immagine cultuale (άγαλμα, ágalma). Un témenos può contenere più templi (ναοί, naoí). Sempre all'interno dell'area del témenos è collocato l'altare (bomós, βωμός; per i sacrifici agli dèi olimpici) o la fossa sacrificale (bóthros, βόϑρος; per i sacrifici agli dèi ctoni,agli eroi e ai defunti) situati però all'esterno del tempio. È tuttavia sufficiente la sola presenza dell'altare, piuttosto che quella del tempio, per rendere sacro uno hierón[138].
Caratteristica del témenos, quindi dell'area di terreno consacrata che contiene il tempio e l'altare, è la presenza o la vicinanza di acqua pura, quindi di pozzi o di sorgenti, atta dissetare uomini e bestie, nonché a purificare. Altra caratteristica di un témenos è la presenza al suo interno di un elemento assolutamente naturale, come una o più pietre grezze (argoí líthoi αργοί λίθοι), un albero dedicato (ad esempio una quercia phegós φηγός, un salice lýgos λύγος o un olivo kótinos κότινος), o un boschetto sacro (álsos ἄλσος).
Alcuni santuari erano presenti all'interno di stadi e di teatri «le cui attività specifiche erano inconcepibili al di fuori di cerimonie religiose»[138].
All'ingresso dei santuari erano esposte le "leggi sacre" (a volte anche sui cippi che limitavano i confini degli stessi, ὅρῳ hórōi) che ne regolavano l'ingresso: le condizioni che queste leggi stabilivano inerivano alla pietà religiosa, all'onesta e alla purezza[139]. La condizione di purezza poteva riguardare, ad esempio, la lontananza per un certo periodo dai rapporti sessuali, dai lutti, dal mestruo, da cibi come il maiale o le fave, il vestire abiti puliti e di colore bianco. La "pietà" riguardava l'atteggiamento interiore, un atteggiamento di vigilanza e di raccoglimento, allontanando le idee empie. La "modestia" da adottare all'interno di un santuario suggeriva di vestire abiti non sontuosi per evitare di offendere gli dèi ostentando superiorità, altrimenti poteva anche accadere che il sacerdote strappasse di dosso tali vesti[140]. Anche la sobrietà nello scegliere le vittime del sacrificio era importante: «A un tessalo che portava ad Apollo dei buoi dalla corna d'oro e delle ecatombi, la Pizia dichiarò che il dio aveva preferito un uomo Ermione che, come sacrificio, aveva offerto in tutto tre dita di pasta tolta dalla sua bisaccia»[141].
Infine l'onestà, che riguardava la condotta morale: i santuari erano interdetti ai criminali e agli assassini.
Sacerdote (ἱερεύς) e sacerdotessa (ἱέρεια)
Ne consegue che «presso i Greci sacrifica chiunque lo desideri e abbia i mezzi per farlo, anche casalinghe o schiavi.»[143].
Ovviamente nel caso di cerimonie importanti l'incarico di offrire libagioni, pronunciare preghiere a nome della collettività e dirigere il rito era compito di una personalità importante dotata anche dei mezzi economici per ricoprire questo ruolo. Tale personalità poteva essere, a seconda dei casi, il capofamiglia, il magistrato, il basileús. Ne consegue anche che la proprietà del santuario è del dio e non quindi dei sacerdoti officianti, i quali raramente lo abitano anche se, comunque, sono coloro a cui è affidato il compito di gestirlo. Il sacerdote (ἱερεύς) e il suo corrispettivo femminile, la sacerdotessa (ἱέρεια), sono coloro che seguono l'andamento di un santuario dedicato a un dio, sono quindi sacerdoti di quel "dio" e non di un altro, anche se è possibile che un singolo sacerdote possa assumere su di sé più incarichi. Al sacerdote spettano comunque delle concessioni, soprattutto in termini di cibo. A lui, in quanto rappresentante del dio, viene consegnato il "privilegio della carne" (γέρας géras) ovvero alcune precise parti del corpo della vittima sacrificale come le cosce o anche il rene grigliato all'inizio del sacrificio[144]. Anche la pelle della vittima è spesso assegnata al sacerdote celebrante come ciò che fu essa[144]. Successivamente, i premi in denaro consegnati per un sacrificio vengono depositati nel "fondo" proprio del santuario (θησαυρός thesaurós)[145].
Quindi se il sacerdozio nella religione della Grecia antica non è una scelta o una tipo di vita, resta una carica che porta grandi onori, risultando l'uomo o la donna che vi si affidano dei "consacrati" (ιερωμένος hierómenos)[146]. "Consacrazione" che emerge anche dal loro abito particolare, generalmente bianco o porpora, e dal fatto, ad esempio, di lasciarsi crescere i capelli e di portare una fascia intorno al capo (στρόφιον, stróphion) o, ancora, di indossare una corona. Resta per costoro necessario seguire una condotta di purezza (ἁγνεία hagneía), ad esempio evitare il contatto con i morti, con le partorienti ed eventualmente regolare la propria attività sessuale o l'alimentazione[147]. Generalmente la sacerdotessa ha cura di divinità femminile, mentre il sacerdote accudisce quelle maschili, ma non mancano notevoli eccezioni[145].
La preghiera (εὔχομαι, εύχεσθαι)
Il termine greco antico che indica l'atto di preghiera è εὔχομαι (euchomai) "proclamare una giusta pretesa"[148] o anche εύχεσθαι(euchestai), "gettare un grido di trionfo"[149]. Nel primo caso essa si manifesta come una invocazione pronunciata per ottenere "qualcosa" dalla divinità, quindi una petizione alla stessa, anche se, nota Liliane Bodson[150]«Perfino quando è incentrata su vantaggi materiale la preghiera è raramente passiva. Appare, piuttosto, come un'apertura all'azione divina [...] . Le preghiere di domanda, che sono in totale, le più rappresentate dalla tradizione, oltrepassano il principio del do ut des e rivelano, nelle loro diverse forme, un'autentica esperienza religiosa in cui il fatto di rivolgersi agli dèi, anche per un motivo modesto, intensifica e approfondisce la relazione con gli dèi stessi.»; nel secondo caso essa indica piuttosto l'invocazione del sacerdote durante il sacrificio pronunciato a nome della comunità sacrificante.
La preghiera "greca" era pronunciata in piedi, con i palmi e lo sguardo rivolti verso il cielo, quindi assumendo una postura di origine indoeuropea[151]. Nel caso di suppliche, l'uomo greco poteva inginocchiarsi, ma ciò capitava raramente, più facilmente alle donne meno attente in questo caso a tutelare il loro rango sociale che poteva essere sminuito da questo genere di postura. Quando la preghiera era indirizzata a divinità ctonie, ai morti o agli eroi, la postura assunta consisteva in una prostrazione a terra, oppure seduta o accovacciata[152].
La preghiera era comunque sempre pronunciata ad alta voce, fatto salvo quei casi in cui tale modalità era impedita. A volte essa poteva assumere una intonazione musicale in qualità di "inno"[152].
La divinazione e gli oracoli
L'arte divinatoria (μαντική τέχνη) è la modalità con cui gli uomini interpretano i "segni" inviati loro dagli dèi[153]. Nella Grecia antica dubitare di questo è indice di mancanza di religiosità[154]. Se tutti gli dèi sono liberi di inviare agli uomini i loro segni, è Apollo il dio che consente solo ad alcuni di questi ultimi di interpretare correttamente i segni divini[155]. L'indovino, il mantís (μάντις), è l'uomo che possiede questo privilegio, un privilegio che può risultare ereditario[154].
I "segni" inviati dagli dèi corrispondono in genere a tutto ciò che accade in modo casuale: «uno starnuto involontario, un inciampamento, uno scuotimento delle membra; un incontro imprevisto o l'eco di un nome colto casualmente; fenomeni celesti come fulmini comete, stelle cadenti, eclissi di sole o di luna e perfino gocce di pioggia»[156].
Dal che nascono delle pratiche divinatorie come il "tiro a sorte", l'osservazione dei fulmini, dell'immagine restituita da uno specchio[157], l'evocazione degli spiriti dei defunti, l'esame dei visceri delle vittime sacrificali[158], l'osservazione del volo degli uccelli[159].
Particolare interesse si conserva per l'osservazione del volo degli uccelli[160] rapaci (οἰωνός) da parte dello οἰωνοπόλος (oiōnopólos)[161]: lo oiōnopólos sceglie un luogo ben individuato e fisso[162] e da lì indirizzando lo sguardo verso il Nord[163] osserva la direzione del volo degli uccelli.
L'esame dei visceri delle vittime sacrificali svolto dallo ἱεροσκόπος (hieroskópos) è, durante le guerre, il compito proprio del μάντις che segue, unitamente alla mandrie addette allo scopo, l'armata; e non si dà inizio allo scontro se i segni non vengono interpretati favorevolmente[164]. Erodoto[165] ricorda come, a Platea, Greci e Persiani rinviarono lo scontro per giorni in quanto i risultati, ottenuti con la stessa tecnica divinatoria, ne sconsigliavano l'inizio. Ma non sono solo i visceri che vengono esaminati, e tra questi particolare riguardo era riservato al fegato (ἧπαρ hēpar), ma anche se la bestia si reca spontaneamente o meno all'altare, come divampa il fuoco e come le parti dell'animale sacrificato bruciano, come scoppia la vescica[164].
Altra pratica divinitoria piuttosto diffusa, soprattutto per problemi di salute, è l'enkoímēsis (ἐγκοίμησις)[166] consistente nel dormire all'interno di un santuario allo scopo di ricevere un sogno "profetico" dagli dèi, e dove l'interpretazione dello stesso era cura di un corpo sacerdotale (ὀνειροπόλος, oneiropólos) ad essa dedicato.
Gli oracoli (χρηστήριον anche μαντεῖον)
L'oracolo (χρηστήριον chrēstḗrion, anche μαντεῖον manteîon)[167] è quel santuario (τέμενος anche ἱερόν) dove un dio offre un responso (χρησμός, chrēsmós) ovvero dà una risposta (μαντεία manteía) a coloro che cercano il suo consiglio. Erodoto elenca 18 santuari con oracoli, tra questi i più famosi in epoca classica risultano quello di Zeus a Dodona, quello di Amphiáraos (Ἀμφιάραος) a Oropo, quello di Trophṓnios (Τροφώνιος) a Lebadea, quello di Apollo a Didima e, più presitigioso tra tutti, quello di Apollo a Delfi[168].
L'origine di questi oracoli è probabilmente orientale: i Greci del VII secolo a.C. già conoscevano l'oracolo di Ammone situato nell'oasi di Siwa. Nell'antichità, l'oracolo di Zeus a Dodona sosteneva di essere il primo per origine. Nell'Iliade Achille invoca lo Zeus di Dodona, dove vivono i suoi profeti che dormono per terra e mai lavano i piedi[169]; allo stesso modo Odisseo vorrebbe recarsi a Dodona per conoscere i piani di Zeus dal movimento della chioma della quercia a lui dedicata[170]. Esiodo[171] in un testo con lacune, parla di tre colombe che vivono sulla quercia, in testi successivi tali "colombe" altro non sarebbero che le sacerdotesse dell'oracolo[172]. Scavi arecheologici hanno verificato l'esistenza di un santuario, in cui fu eretto, ma solo nel IV secolo a.C., un piccolo tempio[173].
L'Oracolo di Delfi
Il sacrificio
Nella religione greca il sacrificio è il principale atto di culto[176].
Il sacrificio greco si presenta con differenti caratteristiche e nomi a seconda del tipo di offerta e delle divinità o esseri a cui esso è destinato. Come evidenzia, tra gli altri, Paolo Scarpi[180] il sacrificio veniva quindi così distinto:
- Choaí (χοαί)[181]: consiste nelle libagioni di vino oppure di latte e miele o di sola acqua, ed è destinato ai defunti, agli eroi e alle divinità ctonie.
- Spondaí (σπονδαί)[182]: consiste nelle libagioni di vino oppure di latte e miele o di sola acqua, ed è destinato agli dèi dell'Olimpo.
- Aparchái (απάρχαί): consiste nelle primizie dell'agricoltura poste nei boschetti sacri o gettate nei corsi d'acqua e destinate a Demetra, Dioniso o alle ninfe.
- Nephália (νηφάλια): consiste in acqua, miele od olio e destinato ai defunti.
- Thysía (Θυσία): consiste nel sacrificio di uno o più animali (bue, maiale, capra o pecora) ed è destinato agli dèi dell'Olimpo. In genere in questo sacrificio della vittima sacrificale venivano bruciati solo il grasso e le ossa, il restante veniva macellato, cotto e distribuito ai partecipanti al banchetto sacrificale (δαίς daís).
- Enágisma (ἐνάγισμα, anche Haimakouría αίμαχουρία): consiste nel sacrificio di uno o più animali (bue, maiale, capra o pecora) ai defunti, agli eroi o alle divinità ctonie. In genere in questo sacrificio la vittima sacrificale veniva interamente bruciata[179].
I sacrifici solenni e cruenti, sempre e solo di animali domestici[183][184], venivano introdotti da un corteo (pompē πομπή) guidato da una vergine detta kanephoros (κανηϕόρος, "portatrice del cesto") che reggeva un cesto (κανοῦν, kanoun) contenente dei pani, chicchi di cereali, sale e, nascosto sotto di questi, il "coltello sacrificale" (mákhaira μάχαιρα). Tale corteo incedeva ritmicamente al suono di uno o più flauti.
Gli intervenuti si disponevano a semicerchio nell'area posta tra l'altare e il tempio, volgendo le spalle a quest'ultimo[185] davano inizio al sacrificio.
Dopo le libagioni di acqua, vino o latte e miele (a seconda della divinità a cui era destinato il sacrificio), la vittima veniva aspersa con dell'acqua durante la purificazione delle mani, cui seguiva il lancio dei chicchi di cereali, di modo che, raggiunta dall'acqua fredda e dalle granaglie, scuotendosi e chinando la testa (hypokyptein), assentiva al sacrificio[186]. Senza l'assenso della vittima sacrificale, il sacrificio greco non poteva avere luogo[187].
Dopo le preghiere e con il lancio dei chicchi di cereali, alla vittima veniva asportato un ciuffo di peli dal capo che veniva gettato nel fuoco e quindi sgozzata (sphazein). In questo momento i flauti cessavano di suonare mentre le donne presenti alzavano un grido (ololughé)[188].
Nel caso di un sacrificio olimpico il sangue veniva raccolto in un vaso (σφαγεῖον sphageîon) e quindi spruzzato sull'altare (bōmos βωμός ), nel caso di un sacrificio ai morti o alle divinità ctonie, lasciato colare a terra. Sempre nel caso di un sacrificio agli dèi olimpici l'animale sgozzato e dissanguato veniva macellato dal mágeiros[189] (μάγειρος) sul tavolo (trápeza τράπεζα) e la sua carne fatta a pezzi e cotta (bollita in un calderone, il lebēs λέβης)[190], tranne le viscere (splánchna σπλάγχνα[191]) che invece venivano grigliate su lunghi spiedi (ὀβολοί obeloi), e consumate insipide[192] subito dal gruppo ristretto dei sacrificanti, gli splanchneúontes[193]. La suddivisione in parti dell'animale sacrificato era rigidamente stabilità: la pelle andava al sacerdote (hiereús ἱερεύς), così anche le cosce (κωλῆ kōlē̂) che divideva però con i magistrati[194].
Nella Teogonia, Esiodo (VIII sec.-VII sec. a.C.) offre una spiegazione poetica e mitica della spartizione della vittima sacrificale tra uomini e dèi, attribuendo la scelta a un "inganno" di Prometeo [195]. La vicenda raccontata da Esiodo si svolge in un'epoca mitica quando gli dèi e gli uomini convivevano insieme, condividendo lo stesso banchetto. Zeus divenuto re degli dèi decide, dopo avere delimitato compiti e funzioni tra gli immortali, di definire il ruolo spettante agli uomini stabilendo una giusta ripartizione degli onori. Viene chiamato per questo Prometeo, il titano che non ha partecipato al conflitto con gli dèi, il quale si presenta al consesso degli dei e degli uomini con un grande bue che abbatte e macella ripartendone il corpo in due parti rispettivamente destinate agli dei e agli uomini. In questo modo, evidenzia Jean-Pierre Vernant[196], «Il sacrificio appare così come l'atto che ha consacrato, realizzandola la prima volta, la segregazione degli statuti divino e umano.». Ma Prometeo vuole ingannare Zeus: sotto un sottile strato di grasso appetitoso nasconde le ossa del bue prive di carne, mentre, avvolta nella pelle e nello stomaco ripugnante, cela tutto ciò che di delizioso ha la bestia. Zeus deve scegliere per primo, il re degli dèi ha compreso l'inganno ma decide di accettarlo privilegiando la parte di grasso e di ossa nascoste condannando così gli uomini:
Infine, se consideriamo che l'alimentazione carnea dei Greci coincideva con il sacrificio degli animali[197] il rituale sacrificale rispondeva a una sensibilità propria di questa cultura religiosa:
Il tempo sacro: calendario religioso e feste
Da notare il palmo della mano sinistra, che è tutto ciò che ci resta delle braccia, posto sul lato della testa onde tirare, nella lamentazione del morto, i capelli sciolti. La gravità del lamento risulta ben impressa anche nell'inclinazione della testa e nei contratti lineamenti del viso.
figlie della Terra, voi
Sirene invoco, ai pianti miei
venite qua, col libico
flauto o con le cetre: siano per i miei
tristi lutti, consone lacrime,
pianti per pianti, per musiche musiche:
ai gemiti consoni complessi
Persefone mi mandi,
voci di morte, e da me con le lacrime
s'abbia un peana nel regno di tenebra omaggio
per i defunti sepolti là»
La nozione di psyché (ψυχή)
I poemi omerici affrontano più volte il tema di ciò che accade dopo la morte: cessata la vita del corpo, la sua psyché (ψυχή) vola via.
δαμνᾷ, ἐπεί κε πρῶτα λίπῃ λεύκ' ὀστέα θυμός,
ψυχὴ δ' ἠΰτ' ὄνειρος ἀποπταμένη πεπότηται»
«ma la furia impetuosa del fuoco ardente
li disfa non appena θυμός (thumos) abbandoni le bianche ossa
e la ψυχὴ (psyché) come un'immagine di sogno vola via.»
Qui si presentano due nozioni, quello del θυμός (thumos) e quello della ψυχὴ (psyché).
Richard Broxton Onians (1899-1986)[200] osserva che θυμός viene così indicato quando questi è racchiuso nei polmoni (ritenuti organi dell'intelligenza) come un elemento caldo; il termine diviene invece ψυχή quando abbandona il corpo con l'ultimo respiro, divenendo un elemento freddo. Ma accade anche che θυμός e ψυχή lascino insieme il corpo, tuttavia ψυχή lo abbandona giungendo nell'Ade (Ἅδης) come ἠύτ ὄνειρος (un fantasma visto in sogno) mentre θυμός viene distrutto dalla morte.
La nozione di psyché (ψυχή) è difficilmente traducibile in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua moderna, in quanto non si riuscirebbe a coprirne l'intera area semantica. Genericamente il lemma moderno meno inadeguato può essere quello di "anima"[201].
L'uomo greco dei poemi omerici crede dunque che dopo la morte sopravviva solo la psyché del defunto, tale psyché non è altro che una immagine dello stesso che scompare come "fumo"[202] o come un'ombra[203].
Tale 'ombra' disegna la figura del morto quando era vivo, ma poco di più:
Ne consegue che per le credenze proprie dell'"uomo omerico", con la morte non finisce l'esistenza in quanto tale, ma certamente l'esistenza dell'uomo inteso come personalità, volitività, affettività. L'"ombra" che si aggira nell'Ade è solo un 'sogno', un'immagine sbiadita e priva di qualsiasi contenuto rispetto a quello che da vivo egli fu.
Nonostante questa nozione della realtà dei defunti, l'uomo greco tributa agli stessi dei culti familiari presso le loro tombe. I morti vengono quindi percepiti ancora come "potenti", in grado di influire in qualche modo sulla vita dei loro cari[204].
Con il successivo emergere dei culti misterici, si diffonde l'idea che chi muore, qualora avesse praticato quelle "iniziazioni", possa ambire ad un'altra condizione rispetto a quella comune, una condizione simile a quella riservata agli "eroi" rapiti nell'Isola dei beati. Mentre
Le religioni dei misteri (ὄργια) e delle iniziazioni
In lingua italiana il termine "mistero" indica ciò che sfugge alle normali possibilità di conoscenza, quindi ciò è "enigmatico", oppure può significare ciò che è indicato come "segreto". "Mistero" deriva dal termine latino mystērĭum con analogo significato, a sua volta dal greco mystḕrion (μυστήριον), quindi a sua volta da mýstēs (μύστης) col significato di "iniziato".
Per inquadrare correttamente il lemma utilizzato in questa voce occorre ricordare, con l'introduzione di Walter Burkert al suo saggio del 1987 Antike Mysterien, Funktionen und Gehalt[211], come sia più corretto intendere l'accezione riportata dal termine latino initiatio. Infatti:
Quindi l'espressione "religioni dei misteri" non intende tanto indicare credenze o culti greci "segreti" quanto piuttosto un insieme di culti che si fondano sulle pratiche di "iniziazione" laddove questo termine indica ciò che permetterebbe al suo partecipante
I Misteri di Eleusi
Origini mitiche e loro fondamento
Il testo fondamentale dei Misteri di Eleusi, che ne narra sia il mito sia la fondazione, è l'Inno a Demetra collocato come secondo inno nella raccolta degli Inni omerici. La sua datazione è controversa ma si ritiene sia certamente anteriore almeno alla metà del sesto secolo a.C.[212].
Kore (Persefone), figlia di Demetra, viene rapita da Ade, dio degli Inferi: mentre raccoglie dei fiori nella piana di Nysa, insieme alle sue compagne, figlie di Oceano, dal prato fiorito spunta un narciso di straordinaria bellezza, ecco che Kore, immersa in un sacro stupore (θαμβήσασ'), protende le mani per raccogliere il meraviglioso fiore quando dalla base del narciso si apre una voragine da cui emerge il re dei morti, Ade, che la rapisce. Nel momento del ratto, e fino a che ella scorgeva «la terra e il cielo stellato, il mare pescoso dalle vaste correnti, e i raggi del sole [...] sebbene ella fosse angosciata, la speranza le confortava il nobile cuore...»[213].
Demetra disperata la cercò per nove giorni senza nutrirsi (di ambrosia, ἀμβροσία). Helios decise quindi di raccontarle l'accaduto: Zeus, il re degli dèi, aveva concesso Persefone in sposa al fratello Ade che quindi l'aveva rapita.
Ancora più addolorata, e ora anche furente nei confronti di Zeus, Demetra rifiutò quindi di tornare sull'Olimpo e, trasformatasi in una vecchia, si recò a Eleusi sedendosi vicino al Pozzo delle Vergini. Le figlie del re di Eleusi, Celeo, recatesi al pozzo, la interrogarono su chi fosse e da dove venisse. Demetra rispose di chiamarsi Doso e raccontò loro di essere sfuggita ai pirati che l'avevano rapita nei pressi di Creta. Mosse a compassione, le figlie di Celeo la invitarono quindi a palazzo per fungere da nutrice a Demofonte, l'ultimo figlio della regina Metanira, sposa di Celeo. Demetra entrata nel palazzo del re di Eleusi si sedette in disparte su uno sgabello, restando per molto tempo silenziosa e con il volto velato, fino a che la serva Iambe riuscì a farla sorridere con i suoi scherzi. Metanira offrì quindi del vino a Demetra la quale rifiutò chiedendo invece del "ciceone", una bevanda composta da orzo tritato, acqua e foglie di menta.
Demetra non allattò Demofonte, ma segretamente lo massaggiava con l'ambrosia, immergendolo (κρύπτεσκε, coprendolo) di notte nel fuoco; questa operazione trasformava lentamente il figlio di Celeo in un dio, in un immortale eternamente giovane. Ma la madre Metanira scoprì Demetra mentre immergeva Demofonte nel fuoco e si spaventò. Allora Demetra cessò l'opera di trasformazione in dio dell'infante e, manifestandosi come dea, abbagliante, a Metanira, accusò l'umanità di essere stolta.
Ora Demofonte non può più divenire un dio, ma Demetra, lasciando il palazzo, chiese a Metanira di ergergli un santuario con un altare da dove ella potesse insegnare i suoi riti agli uomini. Edificato il santuario, Demetra vi si rifugiò e, ancora adirata per la scomparsa della figlia Persefone, da lì provocò un'aridità che desolò tutta la Terra, generando carestie e impedendo così agli dèi di ricevere sacrifici dagli uomini. Vanamente Zeus le inviò dei messaggi per farla tornare sull'Olimpo. Demetra gli rispose che sarebbe risalita sul monte degli dèi e avrebbe posto termine alla carestia solo qualora avesse potuto rivedere la figlia. Zeus si convinse quindi a intimare ad Ade di restituire la figlia alla dea, ma Ade, prima di rispettare l'ordine del re degli dèi, fece inghiottire a forza a Persefone un chicco di melograno, il cibo dei morti. Per questa ragione Persefone-Kore fu costretta a ritornare presso il re degli Inferi per quattro mesi l'anno.
Ritrovata la figlia, Demetra acconsentì a ristabilire la vegetazione sulla Terra e a rientrare sull'Olimpo, ma non prima di aver insegnato i suoi Misteri a Diocle, Trittolemo, Celeo ed Eumolpo[214].
Così si avvia a concludere l'Inno:
Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso, giammai avrà
simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù nella squallida tenebra.»
André Motte[215] individua nella fase iniziale dell'Inno a Demetra l'elemento portante dell'insegnamento iniziatico: quando Kore raccoglie il narciso si fa donna, sposa di Ade che le spiega che 'quaggiù' ella regnerà «su tutti gli esseri che vivono e si muovono» (δεσπόσσεις πάντων ὁπόσα ζώει τε καὶ ἕρπει) non quindi su un regno di ombre come rappresentato in Omero. La risalita di Kore corrisponde inoltre al ritorno della vegetazione sulla terra.
I Misteri
Mircea Eliade[216] ricorda come l'Inno menzioni due tipi di iniziazione: il primo collegato al ricongiungimento di Demetra con Persefone, il secondo riguardante la mancata immortalizzazione di Deofonte. Così dopo la mancata immortalizzazione di Deofonte Demetra rivela la sua identità e dopo il ricongiungimento con la figlia si decide a comunicare i Misteri agli uomini che non corrispondono tuttavia alla loro divinizzazione in vita ma alla beatitudine ( "beato", ὄλβιος), post-mortem, per gli iniziati.
Il santuario riguardante i Misteri di Eleusi (Telestèrion, τεληστήριον) risulta eretto nel XV secolo a.C. data a cui si può far avviare la pratica degli stessi[217] quindi essi furono praticati per circa duemila anni anche se è probabile una loro rielaborazione nel corso dei secoli[218].
I Misteri di Eleusi vengono distinti in "Piccoli Misteri"[219][220] celebrati nel mese di Antesterione (Ἀνθεστηριών, febbraio-marzo) nella località di Agra (sobborgo di Atene), consistenti in digiuni, purificazioni[221] e sacrifici guidati da un mistagogo (μυσταγωγός); e "Grandi Misteri" celebrati nel mese di Boedromione (Βοηδρομιών, settembre-ottobre), della durata di otto giorni. A questi "Grandi Misteri" poteva partecipare chiunque parlasse greco e non si fosse macchiato di omicidio, compresi quindi gli stranieri, gli schiavi e le donne, purché avessero partecipato precedentemente ai "Piccoli Misteri".
Il primo giorno dei "Grandi Misteri", il 15 di Boedromione, si celebrava ad Atene presso l'Eleusinion (Ελευσίνιο) arredato allo scopo con gli oggetti sacri (Ιερά hierà) del santuario di Eleusi[222] lì solennemente trasportati il giorno precedente, il 14 di Boedromione. Nell'agorà (ἀγορά) si riunivano gli iniziati accompagnati dal loro tutore (mistagogo, μυσταγωγός) ateniese ricevevano le istruzioni dello ierofante (ἱεροϕάντης) che tra l'altro invitava coloro che si erano macchiati di omicidio e coloro che non parlavano la lingua greca ad allontanarsi[223].
Il secondo giorno, il 16 di Boedromione, una processione si recava sulla costa (ἄλαδε μύσται, "al mare, o voi iniziati") dove i nuovi adepti, accompagnati sempre dal tutore già iniziato ai Misteri, si bagnavano al Falero e dove contestualmente lavavano un porcellino che sarebbe stato sacrificato e mangiato al loro ritorno in città[224], da questo momento agli adepti era proibito nutrirsi fino all'arrivo, al quinto giorno, ad Eleusi[223].
Il terzo giorno, il 17 di Boedriomone, alla presenza delle autorità cittadine non solo ateniesi, l'Arconte Basileus (Ἄρχων Βασιλεύ) e la sua consorte eseguivano un grande sacrificio a Demetra e Kore (Persefone).
Il quarto giorno, il 18 di Boedriomone, si svolgeva una processione e un sacrificio ad Asclepio[225].
All'alba del quinto giorno, il 19 del mese di Boedromione, un imponente corteo[226] muoveva dall'agora di Atene, attraversando la "Porta Sacra" del Ceramico, per raggiungere in serata, quindi con l'inizio del ventesimo giorno, il borgo di Eleusi situato a venti chilometri a Occidente. Comuni cittadini, oltre i tutori e neofiti, accompagnavano le sacerdotesse che riportavano al santuario di Eleusi i corredi sacri. Durante tutto il tragitto i partecipanti al corteo intonavano un canto di cui conosciamo solo il titolo: Iacchos (Ἴακχος)[227][228], alternandolo, nell'occasione dell'attraversamento del fiume Cefiso, a scambi di motti scherzosi e osceni[229], astenendosi dall'assumere cibo o bevande. È certo dunque che ogni Ateniese partecipava al corteo e non solo gli iniziati ai Misteri, dal che se ne deduce che questa parte del culto non era affatto segreta[230].
Arrivati al santuario ( τεληστήριον, Telestèrion) di Eleusi, i fedeli si separavano dagli altri partecipanti e, alla luce delle torce, entravano nel cortile davanti al santuario, dove si purificavano nelle vasche e dove le donne danzavano intorno alla fonte di Callicoro. Entrati quindi nel santuario, interrompevano il digiuno bevendo il ciceone (κυκεών)[231][232].
La restante parte del rito di iniziazione risulta "segreta" quindi a noi sconosciuta[233]. Gli storici delle religioni offrono comunque delle ipotesi di una sua ricostruzione[234] partendo da autori "pagani" (più restii a fornire informazioni) ma anche cristiani (i quali potrebbero di converso non essere ben informati)[235].
Nel 395 d.C., nello stesso anno in cui Teodosio I proibì tutti i culti "pagani", i Visigoti guidati da Alarico distrussero una parte del Telestèrion che non fu più ricostruito.
Per quanto attiene il significato proprio dei Misteri di Eleusi, Ugo Bianchi[236] si sofferma su due passaggi a questi inerenti:
conosce la fine della vita,
conosce anche il principio dato da Zeus»
Dove da una parte si conferma che la parola "beati" (olbios, ὄλβιος) apriva l'acclamazione liturgica ma anche che
Evidenziando poi che il termine "vita" viene nominato dopo l'avvio della stessa dato da Zeus, Bianchi sottolinea:
Riguardo al secondo passaggio, inerente al seguente frammento di Sofocle:
quelli fra i mortali, che vanno nell’Ade dopo di aver
contemplato
questi misteri: difatti solo a essi laggiù
spetta la vita[238], mentre agli altri tutto va male laggiù»
Ugo Bianchi osserva come esso «pone come termine di riferimento proprio il vivere, nella sua accezione più ricca di contenuto (zen, in nota critica: Il termine zen è più forte di quello di bios. Quest'ultimo accenna al ciclo vitale, l'altro, invece alla pienezza di vita).»
Dionisismo
Nel suo saggio sul Dionisismo, contenuto nel I volume delle La religioni dei misteri, Paolo Scarpi si avvia così a concludere:
Premesse le difficoltà di descrivere i "misteri" (μυστήρια) propri di Dioniso si può comunque attestare la presenza del suo culto a partire dalle religioni egee, così in due tavolette rinvenute nel Palazzo di Nestore a Pilo di Messenia (PY Xa, 102 e PY Xb, 1419), dove appare il nome del dio in miceneo: Di-wo-nu-so (Lineare B: 𐀇𐀺𐀝𐀰), ma nella forma genitiva di Di-wo-nu-so-jo (Lineare B: 𐀇𐀺𐀝𐀰𐀍). Il suo nome significa "Giovane figlio di Zeus"[239] e la sua figura è legata inequivocabilmente alla "giovinezza"[240]. Quindi dio della vita feconda, in particolare, ma non solo, della vegetazione e quindi della vite, dell'uva e del vino.
L’iniziazione dionisiaca consisteva nella condivisione della teofania di Dioniso da parte delle Menadi (Μαινάδες). Ciò accadeva di notte in luoghi selvaggi e solitari attraverso danze estatiche e per mezzo di un sacrificio nel quale la vittima veniva squartata (σπαραγμός sparagmos) e poi mangiata cruda: questo era il modo di entrare in comunione con Dioniso, in quanto gli animali così sacrificati erano sue incarnazioni[241].
Rammentando la testimonianza di Diodoro Siculo[242] sulla esistenza dei Misteri dionisiaci e sul fatto che questi, a partire dal V secolo a.C., avessero acquisito delle influenze orfiche, Mircea Eliade così si avvia a concludere:
La presenza del dio Dioniso, quindi il differente stato di coscienza che provocava tale estasi, da un parte consentiva alle menadi di profetizzare in modo del tutto differente da quello "omerico" dove, in quest'ultimo caso, la profezia nasceva dalle interpretazioni di segni causali esterni mentre nell'"orgia" bacchica sorgeva invece dall'"entusiasmo", ovvero dalla possessione divina; dall'altra forniva il supporto a credenze secondo le quali la psyché liberatasi del corpo si univa alla divinità acquisendo così uno stato "superiore" all'ordinario[243].
e genera Zagreo, bambino munito di corna, che sale, lui solo,
sul trono celeste di Zeus; con la sua piccola mano
vibra il fulmine, è nelle sue mani puerili
di un neonato che si librano le saette.
Ma non occupa per molto il trono di Zeus, perché i Titani,
astuti, cosparso il volto con del gesso ingannatore,
spinti dalla rabbia profonda e spietata di Era,
lo uccidono con un pugnale venuto dal Tartaro,
mentre guardava la sua falsa immagine riflessa nello specchio.»
L'Orfismo
L'Orfismo consiste in quel movimento religioso sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla figura di Orfeo[253]. Per quanto le tradizioni recenziori lo indichino come "Tracio" è opinione di alcuni autorevoli studiosi, come William Keith Chambers Guthrie, che la figura di Orfeo vada piuttosto collegata a quella, non si sa quanto "storica", di un antico "missionario" greco in terra tracia dove, nel tentativo di trasferire il culto di Apollo, perse la vita[254].
È probabile che la figura di Orfeo possa essere precedente alla sua adozione da parte dei maestri religiosi orfici del VI secolo a.C., ma il suo inserimento nelle correnti che si fanno eredi del suo nome «era dovuta a qualcosa di più che non ad un vago sentimento di venerazione per un grande nome dell'antichità»[255], frutto, piuttosto, da una parte della necessità di ereditare le credenze sulla "possessione" divina propria dell'esperienza dionisiaca, e dall'altra della convinzione di dover prolungare quelle pratiche di "purezza" proprie dei Misteri eleusini; tutto ciò corrisponde ai due elementi fondanti delle dottrine orfiche:
- la credenza nella divinità e quindi nell'immortalità dell'anima;
- da cui consegue, al fine di evitare la perdità di tale immortalità, la necessità di condurre un'intera vita di purezza.
L'innovazione dell'Orfismo
L'importanza dell'Orfismo nella storia della cultura religiosa, e più in generale nella storia del pensiero occidentale, è un fatto più volte sottolineato dagli studiosi.
Così lo storico delle idee Giovanni Reale:
Il testo di Pindaro a cui fa riferimento Reale è un frammento, il 131 b, che così recita:
e poi rimane ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa
viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni
mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza.»
Precedentemente anche il grecista irlandese Eric R. Dodds aveva evidenziato questa importante novità di fondo:
Se quindi nell'Orfismo si riscontra per la prima volta un inequivocabile riferimento a un'"anima" (ψυχή), contrapposta al corpo (σῶμα sōma) e di natura divina, resta non chiara l'origine di questa nuova nozione.
Eric R. Dodds[256] ritiene di individuare questa origine nella colonizzazione greca del Mar Nero avvenuta intorno al VII secolo a.C.[257] che consentì alla cultura greca di venire a contatto con le culture sciamaniche proprie dell'Asia centrale, in particolar modo con quella scita[258].
Tale sciamanesimo fondava le proprie credenza sulle pratiche estatiche laddove però non era il dio a "possedere" lo sciamano quanto piuttosto era l'"anima" dello sciamano che aveva esperienze straordinarie separate dal suo corpo.
Alla base di queste conclusioni Dodds pone l'analisi di alcuni personaggi, degli ἰατρόμαντις ("iatromanti"), veggenti e guide religiose, che, come Abari, giunsero dal Nord in Grecia trasferendo il culto di Apollo Iperboreo; o anche di alcuni Greci come Aristea il quale, originario dell'Ellesponto, si trasferì, almeno idealmente, nel Nord sede delle sue percezioni sciamaniche, così anche un altro Greco d'Asia, Ermotimo di Clazomene. Questi personaggi erano talmente diffusi nell'Atene del VI-V secolo a.C. che Sofocle nell'Elettra[259] vi allude senza la necessità di nominarli.
I Misteri di Samotracia
Pitagora e il pitagorismo
Religioni iniziatiche: sovrapposizioni ed elementi comuni
Nel capitolo riguardante Misteri e ascesi:Orfeo/Pitagora de La religione greca, Walter Burkert riassume alcune considerazioni generali che si possono promuovere rispetto alle religioni iniziatiche:
- le lamine orfiche presentano un sapere che prescinde dalla semplice poesia andando a coprire significati che ineriscono a un sapere esoterico e a una rivelazione;
- di fatto Erodoto indica Orfeo e Pitagora come fondatori di una nuova religione rispetto alla religione greca tradizionale e, significativamente, uno si presenta come "poeta" mentre l'altro come "filosofo": «La più profonda trasformazione della religione greca è legata a questi due nomi»[260];
- la lamina di Hippónion, unitamente al Papiro di Derveni e ai graffiti rinvenuti nei pressi di Olbia Pontica, attestano la presenza di "iniziati" orfici già nel V secolo a.C.;
- tale letteratura iniziatica amplia la tradizionale teogonia esiodea ad altre divinità, a motivi inauditi, ibridi e incestuosi, accogliendo quindi influenze orientali e contenendo anche una Nékyia (νέκυια), una discesa agli inferi, che riguarda l'eroe Eracle;
- queste tradizioni prendono riferimento dai misteri precedenti come quelli afferenti a Eleusi, quelli della Samotracia, di Flia e gli stessi dionisiaci;
- Platone[261] attesta la presenza di sacerdoti orfici itineranti (Ὀρφεοτελεστής), la cui predicazione si fonda su libri attribuiti allo stesso Orfeo; la presenza di libri è una novità assoluta in un campo, quello religioso, fino a quel momento occupato dai riti e dell'oralità mitica;
- nel complesso questi scritti invocano per gli uomini una colpa antica, Platone[262] allude in tal senso a una natura titanica insita negli uomini;
- l'elemento rilevante di tutte queste dottrine è il mutamento della nozione di psyché che inerisce a tutte le creature, uomini e bestie, dotati quindi di psyché (ἐμψύχωσις) che tuttavia non corrisponde alla spenta psyché accolta nell'Ade omerico, ma è viva e immortale (ἀθάνατος), condizione che nella letteratura religiosa omerica inerisce solo alla natura divina;
- quindi la psyché immortale e celestiale proviene dal mondo divino e a tale mondo è destinata a ritornare dopo ripetute prove esistenziali, oppure vaga eternamente nel diverso manifestarsi nel cosmo, un vagare deciso casualmente o da un tribunale dei morti;
- l'uomo, per mezzo di una irreprensibile condotta morale e attraverso delle iniziazioni, può dunque far tornare la propria psyché alla sua iniziale condizione divina.
Le teologie dei filosofi
Significato dei termini "teologia" e "filosofia"
Il termine "teologia" (θεολογία, theología) compare per la prima volta nel IV secolo a.C. nell'opera di Platone la Repubblica (II, 379 A):
"Più o meno queste - risposi - come Dio si trova ad essere, così andrebbe sempre raffigurato, sia che lo si faccia in versi epici, o lirici, o nel testo di una tragedia."»
Nell'opera di Platone il termine theología occorre ad indicare, da parte dei poeti, quel corretto approccio a Dio che deve evitare l'errore di Omero e di Esiodo i quali lo hanno caratterizzato in senso antropomorfo ovvero portatore di debolezze tipicamente "umane". Theología in senso platonico è quindi quell'approccio al "divino" per mezzo del lógos e non per mezzo dei "miti" raccontati dai "cantori" antichi come Omero o Esiodo.
Analogamente anche Aristotele utilizza il termine theología e suoi derivati per indicare quella "prima filosofia" (πρώτη φιλοσοφία)[264] obiettivo dell'indagine sull'"essere". Ma al contempo Aristotele utilizza lo stesso termine per indicare i non filosofi come Esiodo e Ferecide a cui si contrappongono i primi filosofi indicati come "fisici"[265].
La datazione del primo utilizzo del termine greco antico philosophia (φιλοσοφία) e dei suoi derivati philosophos (filosofo) e philosophein (filosofare) è controversa. La maggioranza degli studiosi ritiene che tali termini non possano essere fatti risalire in alcun modo ai presocratici del VII e VI secolo a.C. Secondo Pierre Hadot:
Caratteristiche delle teologie dei filosofi
L'importanza fondamentale delle teologie dei filosofi per la religione greca è un fatto ampiamente dimostrato.
Esse comportano un cambiamento radicale del pensare religioso, anche se ciò non comporta conseguenze pratiche.
Tale cambiamento produrrà una nozione di Dio, razionale, comprensibile mediante l'adozione di uno specifico stile di vita. A tale conclusione era già giunto lo storico francese Jules Michelet (1798-1874):
«La religione greca finisce col suo vero dio: il saggio.»
Laddove Pierre Hadot la intende come «la Grecia supera la rappresentazione mitica che aveva delle sue divinità, nel momento in cui i filosofi concepiscono in modo razionale Dio secondo il modello del saggio.»[266].
I "filosofi" antichi non corrispondono all’idea comune e moderna del "filosofo"[267], in quanto la loro figura ineriva a uno stile di vita profondamente diverso dal comune vivere quotidiano[268]. La profonda differenza nello stile di vita filosofico rispetto a quello della gente comune era particolarmente sentito da quest'ultima. Così il giurista romano Ulpiano indica alle autorità di non occuparsi dei litigi tra i filosofi e il loro debitori perché i primi disprezzano il denaro. «I filosofi sono dunque gente a parte, strana. Strani sono, in effetti, quegli epicurei che conducono una vita frugale praticando, nella loro cerchia filosofica, un’uguaglianza totale fra gli uomini e le donne, e persino fra le donne sposate e le cortigiane;…»[269].
Così Socrate è ἄτοπος (átopos "non qualificabile") perché è filosofo e quindi amante della σοφία (sophía), la sapienza, che risultando perfetta non può che essere divina e quindi non di pertinenza umana: è proprio l’amore (φιλία, philía) per questa sapienza estranea al mondo che rende estraneo al mondo lo stesso filosofo[270][271].
La comparsa del pensare filosofico è tradizionalmente segnalata con le opere dei cosiddetti "presocratici"[272], a seguire con Socrate e i "sofisti" si avviano delle vere e proprie scuole "filosofiche"[273]. All’inizio del periodo ellenistico emergono, sulle fondamenta dell’esperienza sofistica e socratica, numerose scuole filosofiche[274]. Ma già nel III secolo a.C. sopravvivono ad Atene solo le scuole che risultarono ben organizzate ovvero quelle fondate da Platone, Aristotele e Teofrasto, Epicuro, Zenone e Crisippo oltre che due tradizioni strettamente spirituali, lo scetticismo e il cinismo. Tutto questo si osserva per seicento anni, fino al III secolo d.C. quando, grazie a un fenomeno che emerge a partire dal I secolo d.C., determinato da "slittamenti semantici" e "reinterpretazioni delle nozioni filosofiche", il platonismo assorbe l’aristotelismo e lo stoicismo, condannando alla marginalità le altre tradizioni. Tale sintesi, neoplatonica, ha un’importanza fondamentale per l'intera civiltà occidentale perché grazie alle traduzioni arabe e alla tradizione bizantina, tale movimento di pensiero impregnerà il Medioevo e il Rinascimento conquistando il ruolo di denominatore comune delle teologie e delle mistiche ebraiche, cristiane e musulmane[275].
Testi scritti e insegnamenti orali
L'unico strumento a nostra disposizione per conoscere il pensiero dei teologi greci sono quei loro testi scritti che sono giunti fino a noi. La prima difficoltà, rilevante, consiste nel fatto che il numero di questi testi è davvero minimo rispetto alla loro produzione originaria. Così la produzione filosofica ellenistica è del tutto scomparsa. In tal senso Pierre Hadot cita il caso del filosofo stoico Crisippo autore di ben 700 opere delle quali non ne conserviamo nemmeno una[276].
Un altro importante elemento da prendere in considerazione è il fatto che come la "filosofia" antica non corrisponde allo stesso ambito di quella moderna, che fatta eccezione ad esempio per Friedrich Nietzsche e l'esistenzialismo consiste in una produzione prevalentemente "teorica"[277], bensì fonda il proprio scopo nella formazione spirituale dell'uditore, allo stesso modo il testo scritto del filosofo antico non è una produzione coerente, bensì una forma di "appunto" riservato a degli specifici allievi.
«Ogni logos è un "sistema", ma l'insieme dei λόγοι scritti da un autore non forma un sistema. Ciò è evidente nel caso dei dialoghi di Platone. Ma è ugualmente vero per le lezioni di Aristotele: sono precisamente lezioni»[278]. Allo stesso modo, e ad esempio, «i diversi λόγοι di Plotino si adattano ai bisogni dei suoi discepoli, e cercano di produrre in loro un certo effetto psicagogico.»[279].
Quindi il testo filosofico antico non ha la pretesa di contenere una coerente ed esauriente rappresentazione della "verità". Anzi, in tal senso esemplificativa è la Lettera VII di Platone:
Platone avrebbe qui seguito l'opinione del suo maestro Socrate circa l'inaffidabilità dei testi scritti[280], e la sua decisione di affidarsi al metodo orale della maieutica. Giovanni Reale evidenzia infatti come «l'oralità dialettica fu la cifra emblematica del socratismo; e fu questa forma di oralità, e solo questa, che Platone ritenne di gran lunga superiore alla scrittura»[281].
I presupposti del pensare "filosofico": ἀρχή e θεῖον
Nell'ambito storico filosofico e della storia delle idee, l'origine del pensare filosofico è stato ed è oggetto di approfondimento e di dibattito.
Werner Jaeger[282] osserva come la tentazione di assegnare a quei filosofi presocratici, indicati anche come "naturalisti", in qualità di presunti esploratori «della realtà sensibilmente sperimentabile»[283], un rifiuto della spiegazione "metafisica" o "teologica" della medesima realtà, sia profondamente sbagliata qualora si verificassero, dal punto di vista filologico, i termini e le nozioni da loro utilizzate:
Dal che Talete quando indica che l’acqua è origine di tutto[284] seppur rinuncia a qualsivoglia espressione mitica o allegorica è vicino ai «teologemi mitici», anzi in concorrenza con questi.
Così Aristotele introduce il pensiero dei filosofi da lui definiti "fisici" (φυσιολόγος):
Se consideriamo Anassimandro il primo autore di un testo filosofico in prosa[285], si nota che i filosofi più antichi quando trattano del "principio supremo" cambiano stile adottando quello dell'inno[286].
Tale "principio", ἀρχή (archḗ)[287][288], è quindi "divino" θεῖον (theîon), dove però «Il divino non è soltanto un attributo del principio, aggiunto ai suoi altri attributi, ma l'aggettivo sostantivato "il divino" che è tolto come concetto autonomo dal pensiero religioso e identificato col principio razionale dell'illimitato. [...] Partendo dalla natura si svolge l'idea di un principio supremo come, per esempio, in Aristotele l'ens perfectissimus o negli stoici il fuoco formatore del mondo, e di questo principio si dice poi: "E questo deve essere il divino".»[289][290].
Così se nel pensiero teologico di Esiodo si consta la presenza di molti dèi immortali manca l'indagine sulla loro essenza, sulla loro natura immortale e sulla loro capacità di governare tutto; manca, inoltre, la loro origine che resta di tipo "genealogico", con Anassimandro invece si avvia l'indagine sul principio divino e immortale, τὸ ἄπειρον, che non ha inizio[291]: da questo divino immortale ed eterno hanno genesi numerosi 'mondi' divini, gli dèi, che tuttavia nascono e periscono. Nell'opera di Anassimandro (VI secolo a.C.) appare dunque anche quella cosmologia che resterà tale in Occidente fino alla rivoluzione copernicana: la Terra è al centro dell'universo ed è circondata dalle sfere delle costellazioni racchiuse, infine, dall'ultima sfera, quella divina[292].
Ma per quale ragione i "mondi" e le loro "cose" vengono ad essere?
In questo passo, l'unico generalmente riconosciuto come autentico[293] di probabile influenza orfica[294], l'individuazione delle "cose", la loro nascita e differenziazione dall'unità divina viene vista come una colpa, quindi la "volontà di potenza" che consegue all'esistenza individuale viene "punita" all'interno della dimensione temporale dalle altre "cose" determinate dalla stessoa "volontà": «tutta la nostra vita non è determinata dalla divinità, ma è un distaccarsi primordiale.»[295].
Ma vi è una profonda differenza tra le "religioni dei misteri" e la "teologia dei filosofi":
Resta la domanda su quali siano le origini di queste indagini ovvero del pensiero filosofico e teologico, se esso nasca o meno improvvisamente in quel preciso periodo storico. A tal proposito Francis Macdonald Cornford sottolinea come sia fondamentale rinunciare all'idea della nascita improvvisa del pensiero filosofico, in quanto questo pensiero è frutto di un lungo processo di razionalizzazione che ha origini ben prima di Talete [296]. Su questo tema lo studioso britannico evidenzia come le cosmogonie greche abbiano dei paralleli evidenti con quelle vicino orientali (in tal senso, e ad esempio, risulta evidente e indiscusso il collegamento tra la Teogonia esiodea e il precedente Enûma Eliš babilonese) e loro fondamento nei rituali religiosi, ritenendo di collocare l'origine della filosofia ionica lungo il percorso di "unità originaria/separazione" propria di quei più antichi mitologemi.
Walter Burkert, si inserisce nel percorso argomentativo avviato da Cornford, giungendo tuttavia a differenti conclusioni quando ritiene non nel rito ma nel logos, ovvero nella necessità di offrire significati all'esperienza, il fondamento sia del pensiero cosmogonico "mitico" sia di quello "filosofico" differenziandosi l'uno dall'altro in base al gradiente di immaginazione/razionalità[297].
La critica alle credenze tradizionali: Senofane
Vissuto nel VI secolo a.C., l'aedo Senofane è il primo autore a condurre una serrata critica al racconto mitico e religioso così come tramandato nelle opere di Omero e di Esiodo, provocando quella rottura teologica che non verrà più sanata: «La rottura con la tradizione è compiuta. La critica di Senofane alla religione omerica non poteva essere superata e non fu mai confutata»[298]. Tale critica riguardava l'antropomorfizzazione degli dèi, resi simili agli uomini sia nell'aspetto fisico che in quello morale.
Così i suoi "silli" (modello poetico da lui inventato), redatti in distici di esametri misti a giambi o in esametri puri (segue la collocazione del Diels-Kranz in Presocratici, vol. I, a cura di Gabriele Giannantoni, traduzione di Pilo Albertelli, Milano, Mondadori, 2009, pp. 171 e sgg.):
10. «Poiché fin dai tempi antichi tutti hanno imparato da Omero... [che malvagissimi sono gli dèi].».
11. «Omero e Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente. [...].».
12.«così raccontano un numero grandissimo di opere indecenti degli dèi, rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente.».
14. «Ma i mortali credono che gli dèi siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro».
15. «Ma se i buoi <e i cavalli> e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come <ciascuno> di loro è foggiato.».
16. «Gli Etiopi <dicono che i loro dèi sono> camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli.».
Ma cos'è "dio" per Senofane?
23. «Uno, dio, tra gli dèi e tra gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza.».
24. «Tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero ode.».
25. «Ma senza fatica con la forza del pensiero tutto scuote».
26. «Sempre nell'identico luogo permane senza muoversi per nulla, né gli si addice recarsi or qui or là.».
Un "dio" che resta inconoscibile ai mortali:
34. «Il certo nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo colga e relativamente agli dèi e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe per averla sperimentata direttamente. Perché a tutti è dato solo opinare.».
Seppure dopo la critica di Senofane alle tradizioni mitologiche queste vivranno ancora nei culti delle polis, resta il fatto che il filosofo greco diffonderà il proprio pensiero teologico in «circoli sempre più vasti»; erede della rivoluzione religiosa provocata dalle teologie ioniche a cui aggiunge il sentimento di solennità del divino, questo universalismo «è condiviso dalla teologia di tutti i pensatori greci e ne diventa la premessa tacita o pronunciata.»[299].
Note
- ^ Stefania Ratto. Grecia. Milano, Mondadori Electa, 2006, p. 103
- ^ "Apollo accanto a Zeus è il dio greco più significativo. Su questo punto non vi può essere dubbio alcuno nemmeno in Omero" (Walter F. Otto. Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes. Bonn, 1929; in italiano: Gli dèi della Grecia. Milano, Adelphi, 2005, p. 68). Ma anche Martin P. Nilsson (inGeschichte der Griechischen Religion I. Monaco 1967) e Walter Burkert (in Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stoccarda, 1977; in italiano: La religione greca. Milano, Jaca Book, 2003) sostanzialmente concordano.
- ^ Walter Burkert. Op. cit., p. 289.
- ^ Sugli aspetti spirituali delle teologie greche, cfr., ad esempio, Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica. Torino, Einaudi, 2005; ma anche Michel Foucault. Tecnologie del sé. in Un seminario con Michel Foucault - Tecnologie del sé. Torino, Boringhieri, 1992. p. 23: "Nei periodi ellenistico e imperiale, il concetto socratico del «prendersi cura di sé» divenne un tema filosofico comune, universale. La «cura di sé» fu accettata da Epicuro e dai suoi seguaci, dai cinici, dagli stoici come Seneca, Gaio Musonio Rufo, Galeno. I pitagorici si interessarono molto al concetto di una vita ordinata e comunitaria. La cura di sé non costituiva una raccomandazione astratta, ma una pratica ampiamente diffusa, una rete di obblighi e servigi resi alla propria anima."
- ^ Walter Burkert. op. cit. (cfr. capitolo I), ma anche Mircea Eliade. Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1. Milano, Rizzoli, 2006, p. 154: "Non si può dubitare che le tradizioni religiose greche siano stato modificate dalla simbiosi con gli autoctoni, a Creta come altrove nel mondo egeo.". Sulle influenze del Vicino Oriente antico, cfr. in particolare Charles Penglase, Greek Myths and Mesopotamia: Parallels and Influence in the Homeric Hymns and Hesiod, Londra, Routledge, 2005.
- ^ Cfr. ad esempio, Walter Burkert. La religione greca. Milano, Jaca Book, 2003, p. 68.
- ^ Stefania Ratto Grecia p. 113. In Atenagora (cfr. Apologia per i cristiani, XX = OF 58), polemista cristiano del II secolo, i due serpenti "annodati" rappresentano Zeus unito alla propria madre Rea, la quale, rifiutandosi a lui si trasformò in serpente, il re degli dèi fece altrettanto per raggiungere il suo scopo.
- ^ A titolo esemplificativo: "Definire la religione è compito tanto ineludibile quanto improbo. È infatti evidente che, se una definizione non può prendere il posto di una indagine, quest'ultima non può avere luogo in assenza di una definizione." Giovanni Filoramo. Religione in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, p. 621.
- ^ Cfr., ad esempio, Paolo Scarpi. Grecia (religione) in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo). Torino, Einaudi, 1993, p. 350.
- ^ Ionico.
- ^ Questo tuttavia al di fuori del dialetto attico, cfr. in tal senso e per una più approfondita disamina dei termini Walter Burkert, Op. cit. pp. 491 e sgg.
- ^ «Tutti questi dati si intrecciano e completano la nozione che la parola thrēskeia evoca di per sé stessa: quella di 'osservanza, regola della pratica religiosa'. La parola si ricollega a un tema verbale che denota l'attenzione al rito, la preoccupazione di restare fedeli a una regola.» Émile Benveniste. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, voll. II. Torino, Einaudi, 1976, p. 487.
- ^ Mario Vegetti. L'uomo e gli dei in L'uomo greco (a cura di Jean-Pierre Vernant). Bari, Laterza, 2009, pag.259.
- ^ Platone. Eutifrone 12e.
- ^ Cfr., ad esempio, lo Knaurs Großer Religionsführer curato da Gerhard J. Bellinger e pubblicato dalla Droemer Knaur di Monaco nel 1986, edito in italiano dalla Garzanti nel 1989 come Enciclopedia delle religioni.
- ^ Il nome "Elleni" per indicare i Greci probabilmente non è anteriore al VII secolo a.C.. Omero indica i Greci come Achei, Argivi o Danai. Originariamente "Elleni" era limitato ad una tribù della Tessaglia (cfr. Iliade, II, 683 e sgg.), poi trasferito a Sud nel quadro delle migrazioni dei Dori. Il nome dei giudici nei giochi Olimpici era Hellenodikai (Ἑλληνοδίκαι) che suggerirebbe il suo utilizzo generico a partire da questo ambito. Cfr. Victor Ehrenberg. in Oxford Classical Dictionary 1970; trad. it. Dizionario di antichità classiche, San Paolo, 1995, p. 771 e la voce «Denominazioni dei Greci» su Wikipedia
- ^ «In other words, there was no sphere of life without a religious aspect. “Church” and “state” were not yet separated, as is the rule in the modern world, with the exception of a number of countries, such as Islamic Iran and Saudi Arabia or the Roman Catholic Philippines. Consequently, there is no Greek term for “religion,” which as a concept is the product of eighteenth-century Europe. This absence also meant that there was no strong distinction between sacred and profane, as became conceptualized only in Western Europe around 1900. The Greeks did not even have a term for "profane", although they had a relatively large vocabulary for "holy".»
- ^ Da considerare che il termine "mito" (μύθος, mýthos) possiede in Omero ed Esiodo il significato di "racconto", "discorso", "storia" (cfr. «per gli antichi greci μύθος era semplicemente "la parola", la "storia", sinonimo di λόγος o ἔπος; un μυθολόγος, è un narratore di storie» Fritz Graf, Il mito in Grecia Bari, Laterza, 2007, 1; cfr. «"suite de paroles qui ont un sens, propos, discours", associé à ἔπος qui désigne le mot, la parole, la forme, en s'en distinguant...» Pierre Chantraine Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, p. 718). Un racconto "vero" (μυθολογεύω, Odissea XII, 451; così Chantraine (Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, 718: «"raconter une histoire (vraie)", dérivation en εύω pour des raisons métriques».), pronunciato in modo autorevole (cfr. «in Omero mýthos designa nella maggior parte delle sue attestazioni, un discorso pronunciato in pubblico, in posizione di autorità, da condottieri nell'assemblea o eroi sul campo di battaglia: è un discorso di potere, e impone obbedienza per il prestigio dell'oratore.» Maria Michela Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino, Boringhieri, 2009, p. 50), perché «non c'è nulla di più vero e di più reale di un racconto declamato da un vecchio re saggio»(Giacomo Camuri, Mito in Enciclopedia Filosofica, vol. 8, Milano 2006, pp. 7492-3). Nella Teogonia è μύθος ciò con cui si rivolgono le dee Muse al pastore Esiodo prima di trasformarlo in "cantore ispirato" (cfr. 23-5: Τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον)
- ^ André-Jean Festugière La Grèce. La religion. In Historie générale des religions (sotto la direzione di Maxime Gorce e Raoul Mortier), tomo II, pp. 27-197. Parigi, 1944.
- ^ a b Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 10.
- ^ Inni omerici XIX, 47 «e lo chiamarono Pan in quanto a tutti aveva reso l'animo lieto»; o ancora Platone, Cratilo 408c, dove il filosofo ateniese spiega la sua iconografia come comprendente nella parte "inferiore", di disegno caprino, quella umana e falsa, mentre la parte "superiore", di disegno umano, invece indicante la natura divina.
- ^ Polibio Storie XX, 6, 12 «Tuttavia alla notizia che era giunto Filopemene guidando gli Achei, il panico si impossessò dei Beoti che lasciando le scale appoggiate alle mura si volsero in fuga precipitosa verso la propria patria.».
- ^ Teocrito, I, 15 e segg.
- ^ Teocrito, VII, 106.
- ^ George M. A. Hanfmann. Oxford Classica Dictionary. Oxford University Press, 1970. In italiano Dizionario delle antichità classiche Cinisello Balsamo, Paoline, 1995, pag.849.
- ^ Salvatore Rizzo nota 2 p. 485 e nota 1 p. 491, in Pausania, Viaggio in Grecia (Libri V e VI). Milano, Rizzoli, 2001.
- ^ Igino Astronomo, 223.
- ^ «Figlio di Zeus è l’oro, non lo intacca né tarma né tarlo» (Pindaro, fr. 222 M.). «Le statue dedicate a Zeus venivano ritualmente decorate con il prezioso metallo che, essendo l'unico materiale immutabile nel colore, nella lucentezza e nella resistenza veniva destinato in Grecia, come in tutto il Mediterraneo all'ambito del sacro.» Lia Luzzatto e Renata Pompas. Il significato dei colori nelle civiltà antiche. Milano, Bompiani, 2005, p. 189.
- ^ L'avorio è considerato "carne divina" e quindi destinato all'arte sacra, questo sia per la sua preziosità sia per il fatto che rappresentava meglio del "bianco" il fulgore divino (cfr. Valentina Manzelli. La policromia nella statuaria greca arcaica. Roma, L'Erma di Bretschneider, 1994, p. 64; Lia Luzzatto e Renata Pompas. Il significato dei colori nelle civiltà antiche. Milano, Bompiani, 2005, p. 108).
- ^ Cfr. anche: «Sullo scettro di Zeus
l'aquila la regina degli uccelli
dorme calando l'una e l'altra
rapida ala [...]» - ^ Herbert Jennings Rose e Charles Martin Robertson Oxford Classical Dictionary 1970; trad. it. Dizionario di antichità classiche. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, p. 1709.
- ^ Johannes Overbeck, Die antiken Schriftquellen zur Geschichte der bildenden Künste bei den Griechen(1868), 1227-1245.
- ^ Anche Walter Burkert, La religione greca, p. 308.
- ^ Walter Burkert. Op. cit. p. 143
- ^ Qui non si fa riferimento, ovviamente, alla koinè, ovvero alla diffusione della varietà letteraria e quindi della lingua parlata dell'attico fenomeno occorso non prima del V secolo a.C. quanto al fatto che, come evidenzia Luciano Agostiniani:«Ma per il primo millennio, le fonti (epigrafiche e altre) ci mostrano una congerie di dialetti più o meno distanti tra di loro- non tanto, però, da impedire la intercomprensione - con praticamente ogni centro caratterizzato dalla propria specifica parlata.»
- ^ Cfr. ad esempio l'opera di Senofane.
- ^ «Una è la stirpe umana,
una quella divina,
e da un'unica madre l'una e l'altra
hanno respiro: ma un potere
deciso, intero li divide:
e l'uomo è nulla,
ma il cielo, la dimora
di bronzo, senza danno, dura eterna.
Pure profondamente
ci accostiamo agli immortali,
per la grandezza della mente
e per questa natura,
se pure non sappiamo quale termine
scriva il destino a questo nostro andare
nella luce del giorno,
nel cuore delle notti.» - ^ Per un breve approfondimento della nozione di hýbris cfr. la medesima voce curata da Carlo Del Grande vol. 6 Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2006, pp. 5406-7. Per un ulteriore approfondimento cfr. dello stesso autore Hybris: colpa e castigo nell'espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia antica /Da Omero a Cleante, Napoli, 1957.
- ^ Cfr., ad esempio, Jean-Pierre Vernant. Mito e religione in Grecia antica. Roma, Donzelli, 2009, p. 28.
- ^ «The main feature that characterizes traditional Greek religion before Plato is the distinction between gods and human beings, or immortals and mortals. Inspired by minority religious beliefs, Plato reacted against this presupposition and assigned to human beings the goal of assimilating themselves to god.»
- ^ Secondo Erodoto queste opere appartengono al IX secolo a.C.; Teopompo le colloca al VII secolo. La critica moderna non è andata certamente più avanti: per Erich Bethe la loro redazione definitiva è nella seconda metà del VI secolo (epoca di Pisistrato); Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff colloca l'Iliade, da lui considerata opera di un singolo grande poeta con il probabile nome di Omero erede di una tradizione più antica, nell'VIII secolo, mentre l'Odissea, fusione di quattro poemi anteriori, nel VI secolo; Victor Bérard, come Adolf Kirchhoff, colloca i tre poemi all'origine dell'Odissea tra il IX e l'VIII secolo; Paul Mazon li colloca tra il IX e l'VIII; Friedrich Focke colloca l'Odissea nell'VIII secolo; Fernard Robert ritiene le due opere un adattamento geniale realizzato alla fine dell'VIII secolo; Émile Mireaux ritiene sia opera di un singolo poeta del VII secolo, erede di una tradizione più antica e risalente alle ultime decadi del secolo precedente. Per quanto attiene gli Inni omerici sono anch'essi databili nello stesso periodo, così come la Teogonia di Esiodo.
- ^ II, 142 Dind. (Ludwig Dindorf); citato anche in Walter Friedrich Otto, Le Muse e l'origine divina della parola e del canto, Roma, Fazi, 2005, p. 31; nonché da David Bouvier in "Meme". Le peripezie della memoria greca in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 6 La cultura dei Greci (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, pp. 1131 e sgg., il quale ricorda anche un passaggio nella Piantagione di Noè (De plantatione) di Filone di Alessandria ai versi 172 e sgg. (Cfr. nella traduzione di Roberto Radice in Filone di Alessandria. Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia. Bompiani, Milano, 2005, pp. 871 e sgg.).
- ^ Citato in Bouvier, Op. cit. p. 1132
- ^ Le Muse e l'origine divina della parola e del canto, p. 32
- ^ Walter Friedrich Otto. Theophania. Genova, Il Melangolo, 1996, p. 49
- ^ Cfr. fr.18«Bello è assai tutto ciò che un poeta scrive in stato di entusiasmo e agitato da un afflato divino»«è veramente bella qualsiasi opera che un poeta scriva con passione e invasato da spirito sacro»
- ^ Pierre Somville, Poetica in Il sapere greco vol. 1 (a cura di Jacques Brunschwig e Goffrey E.R. Lloyd). Torino, Einaudi, 2007, p. 506.
- ^ Rispetto alla μανία (mania) concessa per donazione divina (θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης) e propria dei poeti, essa appartiene, per Platone, ad uno dei quattro "divini furori": "furore profetico" (da Apollo); furore telestico o rituale (da Dioniso); furore poetico (dalle Muse); furore erotico (da Afrodite ed Eros), in tal senso cfr. Eric R. Dodds. I greci e l'irrazionale, Milano, Rizzoli, 2009, p. 109. «In terzo luogo viene l'invasamento e la mania che proviene dalle Muse, che, impossessatasi di un'anima tenere e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie, e, rendendo onore ad innummerevoli opere degli antichi, istruisce i posteri.»
- ^ Come ricorda Eric R. Dodds. I greci e l'irrazionale. Milano, Rizzoli, 2009, nota 118 p. 146 in molte lingue indoeuropee il "poeta" e il "veggente" sono indicati con la stessa parola: vates in latino; fili in irlandese; thurl in islandese. «È chiaro che in tutte le antiche lingue dell'Europa settentrionale, le idee di poesia, eloquenza e conoscenza (specie delle cose antiche) e profezia sono intimamente connesse.»
- ^ Cesare Casanmagnago in Esiodo, Tutte le opere. Milano, Bompiani, 2009, p. 925
- ^ Marcel Detienne. I maestri di verità nella Grecia arcaica. Milano, Mondadori, 1992, p. 4
- ^ τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα.
- ^ Esiodo, Teogonia 55.
- ^ «Concepì il mondo animato e pieno di Dáimōn (Template:Polytonic)»
- ^ George M.A. Hanffman. Oceano in Oxford Classical Dictionary 1970; trad. it. Dizionario di antichità classiche. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, p. 1489
- ^ Iliade XVIII, 489
- ^ Mimnerno, in Aten. XI 470 a-b
- ^ Da tener presente, tuttavia, che la menzione più antica del popolo degli Iperborei è negli Inni omerici A Dioniso VII,29. E comunque è un popolo adoratore di Apollo cfr. Erodoto IV,33.
- ^ Teogonia vv. 720 e sgg.
- ^ L'origine è incerta, dopo una disamina sulle possibili connessioni, Pierre Chantraine, nel suo Dictionnaire étymologique de la langue grecque Tomo II, Parigi, Klincksiec, 1968, p. 430, conclude: Émile Benveniste, tuttavia, nel suo Le Vocabulaire des institutions indo-européennes(2 voll., 1969, Paris, Minuit. Ed. italiana, a cura di Mariantonia Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1981) collega theós a thes- (relazionato sempre al divino). Quindi thésphatos (θέσφατος stabilito da una decisione divina), thespésios (θεσπέσιος, 'meraviglioso' inerente al canto delle sirene, "enunciato di origine divina"), théskelos (θέσκελος, più incerto, "prodigioso o divino"); e questo a *dhēs che si ritrova nel plurale armeno dikc (gli "dèi", -kc è il segno plurale). Quindi per Émile Benveniste: «è del tutto possibile -ipotesi già avanzata da tempo- che si debba mettere in questa serie Theós 'Dio' il cui prototipo più verosimile sarebbe proprio *thesos. L'esistenza dell'armeno dikc 'dèi' permetterebbe allora di formare una coppia lessicale greco armena»(cfr. Volume II, pag. 385).«Finalement l'ensemble reste incertain»
- ^ Károly Kerényi. Griechische Grundbegriffe. Zurigo, Rhein-Verlag, 1964.
- ^ Károly Kerényi. Religione antica (Antike Religion). Milano, Adelphi, 2001, p. 209.
- ^ Cit. in Gabriella Pironti Op. cit. p. 31
- ^ Gabriella Pironti. Op.cit. p. 31.
- ^ Traduzione in italiano: Gli dèi della Grecia, Adelphi, Milano 2004.
- ^ a b Walter F. Otto. Theophania, pp. 63-4
- ^ Eric R. Dodds. I greci e l'irrazionale. Milano, Rizzoli, 2009, p. 47.
- ^ Walter F. Otto. Theophania, p. 67
- ^ Giulia Sissa e Marcel Detienne. La vita quotidiana degli dei greci. Bari, Laterza, 2006, p. 20
- ^ Iliade I, 588; XIX, 8
- ^ In tal senso Fritz Graf in Gli dèi greci e i loro santuari, "Storia Einaudi dei Greci e dei Romani" vol. 3. Torino-Milano, Einaudi/Sole 24 Ore, 2008, p. 346 dove evidenzia che gli dèi greci conoscono il dolore sia fisico che spirituale: ciò che li distingue dagli uomini è il fatto di essere immortali, sempre giovani e "singolarmente irresponsabili di tutto ciò che fanno".
- ^ Qui va citata la nota n.8 (del capitolo II) di Giulia Sissa e Marcel Detienne. La vita quotidiana degli dei greci. Bari, Laterza, 2006, p. 20 dove si evidenzia che non è la carne a rendere tale il sangue agli uomini.
- ^ Iliade XVI 789 e segg.
- ^ Iliade XIII, 43 e segg.
- ^ Iliade V, 330 e segg.
- ^ Iliade XIV, 198 e segg.
- ^ Gabriella Pironti. Il "linguaggio" del politeismo in Grecia: mito e religione vol. 6 della Grande Storia dell'antichità (a cura di Umberto Eco). Milano, Encyclomedia Publishers/RCS, 2011, p. 22.
- ^ Marella Nappi 231
- ^ Ad es. Tn 316, Pylos fr. 1204.
- ^ Il miceneo ti-ri-se-ro-e viene inteso come "tre volte eroe", Trishéros. Cfr. Walter Burkert p. 386; Monique Gérard-Rousseaus, pp. 222-4; Bengt Hemberg, "Eranos" 52 (1954), pp. 172-90.
- ^ Walter Burkert p. 386; Monique Gérard-Rosseaus pagg. 222-4; Bengt Hemberg, "Eranos" 52 (1954), pp. 172-90.
- ^ Cfr. ad es. Theodor Benfey. Sanskrit-English Dictionary: With References to the Best Edition of Sanskrit Author and Etymologies and Comparisons of Cognate Words Chiefly in Greek, Latin, Gothic and Anglo-Saxon, 1866. p. 885
- ^ Pierre Chantraine. Dictionnaire étymologique de la langue grecque, 1967, p. 417
- ^ «Mais "héros" comporte également une signification religieuse attestée après Homère : "demi-dieu" (déjà chez Hésiode), "dieu local"; il s'agit d'un culte funéraire et le plus souvent d'un humain divinisé, comme Thésée, ou même Sophocle; le mot s'est finalement appliqué (Ar., Alciphr., etc.) à un mort, un revenant. Le mot ἥρως s'appliquant à la fois aux héros d'Hom. et à des dieux doit être un terme de respect et de politesse : « sire », etc. Le culte des héros ignoré des textes homériques est certainement très ancien, puisqu'il est attesté, semble-t-il, en mycénien où le datif *τρισ-ἥρωι signifie "au triple héros", c'est-à-dire "au héros très antique"»
- ^ Cfr. ad esempio Giovanni Reale. Storia della filosofia greca e romana, vol. 9. Milano, Bompiani, 2004, p. 172
- ^ Iliade XII, 23 e Esiodo Opere 159
- ^ Pindaro. Olimpiche II, 1-2
- ^ Platone. Cratilo 415b
- ^ «Poi, dopo che la terra questa stirpe ebbe coperto,
essi sono, per volere del grande Zeus, dèmoni
propizi, che stanno sulla terra, custodi dei mortali,
e osservando le sentenze della giustizia e le azioni scellerate,
vestiti di aria nebbiosa, ovunque aggirandosi sulla terra,
dispensatori di ricchezze: questo privilegio regale posseggono» - ^ Così sostiene lo scoliaste, cfr. 122a, ma è sconosciuto il motivo della scomparsa di questa prima generazione.
- ^ William K. C. Guthrie. I Greci e i loro dèi. Bologna, il Mulino, 1987, p. 151
- ^ Cfr. nota 23, p. 132 di Psiche- Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, Bari, Laterza, 2006
- ^ Catalogo delle donne fr. 1 e 204 M.-W. Come evidenzia Cesare Cassanmagnago alla nota 111 del frammento 204 (p. 990), con la tragedia troiana, l'intenzione di Zeus potrebbe essere stata o quella di distruggere l'umanità del periodo del "ferro" per generarne una nuova, oppure quella di separare definitivamente gli uomini dagli dèi, allontanando questi ultimi anche dagli Eroi, loro figli, i quali verranno condotti nell'Isola dei beati. Cassanmagnago, come il Burkert (cfr. p. 388), propende per questa seconda lettura.
- ^ Walter Burkert Op. cit., p. 386
- ^ Walter Burkert Op. cit., p. 386
- ^ Ileana Chirassi Colombo. La religione in Grecia. Bari, Laterza, 1983, p. 52
- ^ Athen 4, 174A
- ^ Walter Burkert. Op. cit. p. 348
- ^ Walter Burkert. Op. cit. p. 349
- ^ Walter Burkert. Op.cit. p. 349
- ^ Esiodo, Le opere e i giorni 106 e segg.
- ^ Così sostiene anche lo scoliaste, cfr. 122a, ma è sconosciuto il motivo della scomparsa di questa prima generazione.
- ^ Felix Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, 1, 1-2; Karl Wilhelm Ludwig Müller, Fragmenta historicorum graecorum I, 100.
- ^ VI secolo a.C., Sull'aedo e indovino Epimenide cfr.: Diels-Kranz III, A, 4; Plutarco Vita di Solone XII; Diogene Laerzio Vite.... I, 110; Platone Leggi I, 642 d, e III, 677 d; per la sua teogonia cfr. A. Bernabé, La teogonia di Epimenide. Saggio di ricostruzione in E. Federico e A. Visconti (a cura di) Epimenide cretese Napoli, 2001, pp. 195-216; sulla figura G. Pugliese Carratelli, Epimenide in Tra Cadmo e Orfeo, Bologna, Mulino, 1990, pp. 365 e sgg. e Giorgio Colli, La sapienza greca vol. II.
- ^ D-K 3.
- ^ VI secolo a.C.
- ^ DK 7. Su Ferecide cfr. Giorgio Colli, La sapienza greca vol. II.
- ^ Lo scoliaste (187) della Teogonia esiodea sostiene che da queste Ninfe viene la prima generazione degli uomini.
- ^ Scoli alla Teogonia 563
- ^ Ippolito Refutatio Omnium Heresium V, 6,3.
- ^ Esiodo fr. 76.
- ^ Scoli all'Iliade XXIV, 602
- ^ Clemente, Stromata, I, 21.
- ^ Platone Timeo 22A.
- ^ Apollodoro, I, 7,2.
- ^ In "Opere e giorni" (108) Esiodo sostiene tuttavia che uomini e dèi conservano la medesima origine. Era opinione comune, comunque, che la stirpe umana originaria fosse composta da soli uomini e non dalle donne che emergeranno successivamente.
- ^ Jean-Pierre Vernant, in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, p. 52.
- ^ «... si alzò Menelao rimbrottandoli
con aspre parole e gemendo in cuor suo:
"Ahimè, millantatori, Achee e non più Achei,
questa sarà un'infamia più infame di tutte,
se nessuno dei Greci affronterà Ettore.
Possiate diventare tutti acqua e terra,
voi che restate seduti senza coraggio né onore".» - ^ Cfr. nota 52 p. 511 di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant Op. cit..
- ^ In Bibliotheca historica V, 64 e sgg.
- ^ Cfr. qui il mito esiodeo in Opere e giorni, 109-120
- ^ Dell'ultima, la "stirpe ferrea", Esiodo non precisa, lamentando solo il fatto di appartenervi.
- ^ Le prime due stirpi sono "fatte" dagli Immortali, le ultime due dallo stesso Zeus.
- ^ Reynal Sorel, Finalité et origine des hommes chez Hésiode in "Revue de métaphysique et de morale" 1, gennaio-marzo, 1982, pp. 84 e sgg. citato in Reynal Sorel, Orfeo e l'Orfismo. p. 84.
- ^ Jean-Pierre Vernant in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, p. 54.
- ^ Reynal Sorel. Orfeo e l'orfismo. Morte e rinascita nel mondo greco antico. Nardò (Lecce). Besa editrice, 2011, p. 79.
- ^ Cesare Cassanmagnago. Op. cit. p. 952.
- ^ In tradizioni successive a quella esiodea la creazione dell'uomo parte per l'appunto dalla mescolanza di acqua e fango a cui va aggiunto un elemento igneo proprio del Sole, a differenza delle bestie nate solo dall'argilla, Cfr. in tal senso Jean-Pierre Vernant, in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, 1982, pp. 51 e sgg.
- ^ Jan N. Bremmer. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 1 I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, p. 239
- ^ Fritz Graf. Gli dèi greci e i loro santuari, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 3. Torino-Milano, Einaudi/Sole 24 Ore, 2008, p. 352.
- ^ a b Walter Burkert. La religione greca p. 156.
- ^ Ad es. Esiodo Teogonia, 557.
- ^ Walter Burkert. La religione greca pp. 157-8.
- ^ «per chiedere all'anima del tebano Tiresia,
il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:
a lui solo Persefone diede anche da morto,
la facoltà d'esser savio; gli altri sono ombre vaganti» - ^ Ferecide FGrHist 3 F 92, ripreso poi da Callimaco Per il bagno di Pallade 70 e sgg.
- ^ Melampodia fr. 275 M.-W.
- ^ Paolo Scarpi in Apollodoro, I miti greci, p. 565.
- ^ a b Jules Labarbe. Religioni della Grecia, in Dizionario delle religioni (a cura di Paul Poupard), p. 784.
- ^ Paul Veyne. L'impero greco-romano, Milano, Mondadori, 2012, p. 382
- ^ Franciszek Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques cit. in Paul Veyne Op. cit. p. 383.
- ^ Porfirio . Astinenza dagli animali, II, 15-17 citato in Paul Veyne Op. cit. p. 383.
- ^ Euripide, fr. 946 Nauck.
- ^ Walter Burkert. La religione greca, p. 212.
- ^ a b Jean-Louis Durand Bestie greche in Detienne- Vernant p. 107.
- ^ a b Walter Burkert. La religione greca, p. 217
- ^ Walter Burkert. La religione greca, p. 215
- ^ Walter Burkert. La religione greca, p. 218
- ^ (Jan N. Bremmer. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, p. 240.
- ^ Walter Burkert. La religione greca, p. 176.
- ^ Liliane Bodson. Religioni della Grecia, in Dizionario delle religioni (a cura di Paul Poupard), p. 1465
- ^ (Jan N. Bremmer. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, p. 242. Ma anche George Dunkel Periphrastica homerohittitovedica. In Comparative-Historical Linguistics: Indo-European and Finno-Ugric. Papers in honor of Oswald Szemerényi III, Bela Brogyanyi e Lipp Reiner Lipp (a cura di), 1993, pp. 103-118.
- ^ a b Jules Labarbe. Religioni della Grecia, in Dizionario delle religioni (a cura di Paul Poupard), p. 785
- ^ Nel mondo greco-romano si distinguerano due generi di "divinazione" (cfr. ad es. Cicerone, Divinatione I, 109 e II,26), da una parte la mantiké atechnos (μαντική ἄτεχνος) o adìdaktos (ἀδίδακτος) in cui gli dèi inviavano direttamente agli uomini i loro messaggi; dall'altra la mantiké éntechnos (μαντική ἔντεχνος) o techniké (τεχνικός) in cui erano gli uomini a sollecitare un responso degli dèi, cfr. Franco Ferrari, Marco Fantuzzi, Maria Chiara Martinelli, Maria Serena Mirto, Dizionario della civiltà classica vol. I, Milano, Rizzoli, 2001, p. 851.
- ^ a b Walter Burkert. La religione greca p. 238
- ^ Cfr. ad es. Iliade I, 87
- ^ Walter Burkert. La religione greca, p. 239
- ^ Così Pausania descrive la fonte situata a Patrasso di fronte al santuario di Demetra: «Qui c'è un oracolo infallibile che , tuttavia, non dà vaticini per ogni questione, ma solo per gli ammalati. Legano uno specchio a una cordicella e lo calano giù, calcolando la distanza in modo che la funicella non scenda dentro la fonte, ma sfiori solo l'acqua con il bordo dello specchio. Levata quindi, una preghiera alla dea e dopo aver bruciato profumi. guardano nello specchio e lo specchio mostra a essi il malato o vivo o morto.»
- ^ Tecnica divinatoria importata dal Vicino Oriente, cfr. Jan N. Bremmer. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 1, I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, p. 244, anche Walter Burkert, La religione greca p. 240.
- ^ Brigitte Servais Soyez e Paul Wathelet, Oracoli in Grecia, in Dizionario delle religioni (a cura di Paul Poupard) pp. 1341-2
- ^ Forse di origine indoeuropea cfr. Walter Burkert, La religione greca p. 239.
- ^ Così indicato a partire da Calcante, cfr. Iliade (I, 69): «Κάλχας Θεστορίδης, οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος».
- ^ Tiresia in Antigone 999: «Sedendomi sull'antico seggio augurale, dove per me approda ogni sorta di alati» (traduzione di Raffaele Cantarella, in Euripide Tragedie, Milano, Mondadori, 2007, p. 161.
- ^ A differenza degli àugures o àuspices romani che rivolgevano lo sguardo verso il Sud, cfr. Franco Ferrari, Marco Fantuzzi, Maria Chiara Martinelli, Maria Serena Mirto, Dizionario della civiltà classica, vol. I, Milano, Rizzoli, 2001, p. 854.
- ^ a b Walter Burkert. La religione greca, p. 240
- ^ IX, 36-39.
- ^ Il corrispettivo termine latino è incubatio da cui il corrente termine italiano di "incubazione"
- ^ Il corrispettivo termine latino, da cui il termine italiano, è oraculum.
- ^ Pauline Schmitt Pantel. Delfi, gli oracoli, la tradizione religiosa in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 5, pp. 261-262.
- ^ Iliade, XVI, 235.
- ^ Odissea XIV, 327 e XIX, 296.
- ^ Esiodo fr. 240: «Lì Dodona al limite estremo si trova;/quella Zeus ebbe cara e che vi fosse un santuario/venerato dagli uomini < / > avevano dimora nel tronco d'una quercia;/ là gli uomini mortali traggono vaticini./ Chi là arrivando interroghi il dio immortale/ e portando doni giunga, con favorevoli auspici.» (Schol. Soph. Trach. 1167) (p. 334 Papageorgios). Traduzione di Graziano Arrighetti, in Esiodo Opere, Milano, Mondadori, 2007, p. 229.
- ^ Pausania, X, 12,10.
- ^ Walter Burkert, La religione greca p. 243.
- ^ Ateneo, 672f.
- ^ Ateneo 674de; Angelo Brelich, La corona di Prometheus, in "Hommages à Marie Delcourt. Bruxelles", 1970, 234-42; cit. in Jean-Pierre Vernant, in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant. La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, 1982, p. 58.
- ^ «Presso i greci antichi, il sacrificio è l'atto principale del culto.»«Nell'antica Grecia come presso altre civiltà, il sacrificio è l'atto centrale della vita religiosa della comunità.»«Se la preghiera e la divinazione erano importanti mezzi per comunicare con la divinità, non c'è dubbio che il più importante modo di comunicazione con il divino fu, per i Greci, il sacrificio.»
- ^ «I riti sacri agli dèi che sopra ho nominato si svolgono tra i Persiani in questo modo: quando si accingono a fare un sacrificio, non innalzano altari, né accendono il fuoco; non usano libagioni, non suono di flauto, non bende sacre, non salso farro.»
- ^ Il mito è riportato in Apollodoro. Biblioteca, I,4,2.
- ^ a b Jan N. Bremmer (in Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 1 I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, p. 265) ritiene che delle testimonianze epigrafiche dimostrerebbero che questi sacrifici terminavano con lieti banchetti, quindi invita urgentemente a rivedere le nozioni di sacrificio ctonio e di divinità ctonie.
- ^ Sacrificio greco in Op. cit. pp. 659 e segg.; ma anche Paolo Scarpi. La religione greca in Storia delle religioni vol. 1 (a cura di Giovanni Filoramo). Bari, Laterza, 1994, p. 314 e segg.; ma anche Jan N. Bremmer. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 1 I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, pp. 248-82
- ^ Χοή è correlato al titolo sacerdotale indoiranico hotar/zaotar, cfr. Jan N. Bremmer Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 1 I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, p. 267.
- ^ Dalla radice indoeuropea *spend, cfr. Jan N. Bremmer Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. 1 I Greci nostri antenati (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, p. 267.
- ^ «di norma, agli dèi non sono mai offerti animali selvatici.» (Marcel Detienne, La cucina del sacrificio... p. 14.
- ^ I pesci, centrali nell'alimentazione dell'uomo greco, non venivano sacrificati, sui motivi di questa scelta cfr. Giuliano Imperatore Sulla madre degli Dei XVII (cfr. a cura di Jacques Fontaine in Alla madre degli Dei Milano, Mondadori/Fondazione Lorenzo Valla, 1997, pp. 85 e sgg.). L'unico pesce che veniva sacrificato era il tonno (pesce che sanguina), immolato a Posidone.
- ^ Jan N. Bremmer. Op.cit., p. 257; Birgitta Bergquist The Archaic Greek Temenos. A study of Structure and Function. Lund 1967, pagg.112-4
- ^ Cfr. in tal senso le osservazioni Jan N. Bremmer, Op. cit. p. 256 e, più precisamente, quelle di Karl Meuli Gesammelte Schiften, II pp. 907-1021, Basilea, 1975.
- ^ Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca, p. 15.
- ^ ὀλολυγμὸν ἱερὸν. «Ascolta prima la mia preghiera e poi innalza tu il sacro grido, il peana propiziatorio: la voce che accompagna, secondo il costume ellenico, i sacrifici»
- ^ Il quale aveva anche il compito di dividere le ossa e il grasso, destinati alla divinità, dal restante destinato alla comunità sacrificante.
- ^ La bollitura delle carni è il tipo di cottura preferito dai Greci (cfr. Filocoro, FGrHist. 328 F 173 Jacoby) che apprezzavano la carne tenera, in quel contesto era l'unico modo per renderla tale (Cfr. Jean-Louis Durand in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, p. 105)
- ^ Le splánchna, indicano ciò che è interno visto in opposizione alle parti commestibili esterne dell'animale queste indicate con il termine σάρξ, sárx (cfr. Aristotele, Sulle parti degli animali 674 a 4-6).
- ^ Sulle ragioni della loro insipidità cfr. Marcel Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Bari, Laterza, 2007, pp. 133 e sgg.
- ^ Marcel Detienne. Dioniso e la pantera profumata. Bari, Laterza, 2007, pp. 133 e sgg.
- ^ Così il poema omerico Iliade (IX-VIII secolo a.C.) descrive un sacrificio a Zeus e il conseguente banchetto sacrificale:
Cfr. anche Odissea III, 430-74.(greco antico)«αὐτὰρ ἐπεί ῥ' εὔξαντο καὶ οὐλοχύτας προβάλοντο,
αὐέρυσαν μὲν πρῶτα καὶ ἔσφαξαν καὶ ἔδειραν,
μηρούς τ' ἐξέταμον κατά τε κνίσῃ ἐκάλυψαν
δίπτυχα ποιήσαντες, ἐπ' αὐτῶν δ' ὠμοθέτησαν.
καὶ τὰ μὲν ἂρ σχίζῃσιν ἀφύλλοισιν κατέκαιον,
σπλάγχνα δ' ἄρ' ἀμπείραντες ὑπείρεχον Ἡφαίστοιο.
αὐτὰρ ἐπεὶ κατὰ μῆρε κάη καὶ σπλάγχνα πάσαντο,
μίστυλλόν τ' ἄρα τἆλλα καὶ ἀμφ' ὀβελοῖσιν ἔπειραν,
ὤπτησάν τε περιφραδέως, ἐρύσαντό τε πάντα.
αὐτὰρ ἐπεὶ παύσαντο πόνου τετύκοντό τε δαῖτα
δαίνυντ', οὐδέ τι θυμὸς ἐδεύετο δαιτὸς ἐΐσης.»(italiano)
«Dopo aver pregato, e gettato i chicchi d'orzo, tirarono indietro
le teste delle vittime e le sgozzarono e le scuoiarono,
estrassero le cosce e le ricoprirono d'adipe
ripiegandolo e disposero sopra pezzi di carne;
poi le bruciarono sopra gli sterpi secchi,
mettendo sul fuoco le viscere infilzate allo spiedo.
Quand'ebbero arso le cosce e mangiate le viscere, fecero a pezzi
le parti restanti, le infilarono sugli spiedi e con ogni cura
le arrostirono; poi tolsero il tutto dal fuoco.
Così compiuto il lavoro e preparato il banchetto,
mangiarono e non mancò ad alcuno il cibo imbandito.» - ^ Prometeo è come Crono ankylometes, dotato di intelligenza contorta; Zeus è invece metieta: avendo inghiottito la figlia di Oceano, Metis, è dotato di intelligenza astuta. Zeus sceglie consapevolmente le bianche ossa lasciando agli uomini la carne. Zeus accetta l'inganno di Prometeo ponendo fine all'unione commensale con gli uomini condannando questi ultimi a mangiare per sopravvivere la parte degli animali che si decompone, riservando invece agli dèi la parte che non si decompone ovvero il fumo degli altari.(greco antico)«Καὶ γὰρ ὅτ᾽ ἐκρίνοντο θεοὶ θνητοί τ᾽ ἄνθρωποι
Μηκώνῃ, τότ᾽ ἔπειτα μέγαν βοῦν πρόφρονι θυμῷ
δασσάμενος προέθηκε, Διὸς νόον ἐξαπαφίσκων.
Τοῖς μὲν γὰρ σάρκας τε καὶ ἔγκατα πίονα δημῷ
ἐν ῥινῷ κατέθηκε καλύψας γαστρὶ βοείῃ,
τῷ δ᾽ αὖτ᾽ ὀστέα λευκὰ βοὸς δολίῃ ἐπὶ τέχνῃ
εὐθετίσας κατέθηκε καλύψας ἀργέτι δημῷ.
Δὴ τότε μιν προσέειπε πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε•
Ἰαπετιονίδη, πάντων ἀριδείκετ᾽ ἀνάκτων,
ὦ πέπον, ὡς ἑτεροζήλως διεδάσσαο μοίρας.
Ὥς φάτο κερτομέων Ζεὺς ἄφθιτα μήδεα εἰδώς
Τὸν δ᾽ αὖτε προσέειπε Προμηθεὺς ἀγκυλομήτης
ἦκ᾽ ἐπιμειδήσας, δολίης δ᾽ οὐ λήθετο τέχνης•
Ζεῦ κύδιστε μέγιστε θεῶν αἰειγενετάων,
τῶν δ᾽ ἕλε᾽, ὁπποτέρην σε ἐνὶ φρεσὶ θυμὸς ἀνώγει.
Φῆ ῥα δολοφρονέων• Ζεὺς δ᾽ ἄφθιτα μήδεα εἰδὼς
γνῶ ῥ᾽ οὐδ᾽ ἠγνοίησε δόλον• κακὰ δ᾽ ὄσσετο θυμῷ
θνητοῖς ἀνθρώποισι, τὰ καὶ τελέεσθαι ἔμελλεν.
Χερσὶ δ᾽ ὅ γ᾽ ἀμφοτέρῃσιν ἀνείλετο λευκὸν ἄλειφαρ.
Χώσατο δὲ φρένας ἀμφί, χόλος δέ μιν ἵκετο θυμόν,
ὡς ἴδεν ὀστέα λευκὰ βοὸς δολίῃ ἐπὶ τέχνῃ.
Ἐκ τοῦ δ᾽ ἀθανάτοισιν ἐπὶ χθονὶ φῦλ᾽ ἀνθρώπων
καίουσ᾽ ὀστέα λευκὰ θυηέντων ἐπὶ βωμῶν.»(italiano)
«Infatti, quando separarono dèi e uomini mortali
a Mecone, allora un grande bue, con animo consapevole,
offrì, dopo averlo spartito, volendo ingannare la mente di Zeus;
per la stirpe degli uomini, infatti, carni e interiora ricche di grasso
pose in una pelle, nascostele nel ventre del bue,
per la stirpe degli dèi, poi, ossa bianche di bue, per perfido inganno,
con arte dispose, nascoste nel bianco grasso.
E allora gli disse il padre degli uomini e degli dèi:
"O figlio di Iapeto, illustre fra tutti i signori,
amico mio caro, con quanta ingiustizia facesti le parti".
Così disse Zeus beffardo che sa eterni pensieri;
ma a lui risposte Prometeo dai torti pensieri,
ridendo sommesso, e non dimenticava le sue ingannevoli arti:
"O Zeus nobilissimo, il più grande degli dèi sempre esistenti,
di queste scegli quella che il cuore nel petto ti dice".
Così disse meditando inganni, ma Zeus che sa eterni pensieri
riconobbe l'inganno, né gli sfuggì, e mali meditava dentro il suo cuore
per gli uomini mortali e a compierli si preparava.
Con ambedue le mani il bianco grasso raccolse;
si adirò dentro l'animo e l'ira raggiunse il suo cuore,
come vide le ossa bianche del bue, frutto del perfido inganno:
è da allora che agli immortali la stirpe degli uomini sulla terra
brucia ossa bianche sugli altari odorosi.» - ^ Mito e religione in Grecia antica pp. 36 e sgg.
- ^ Non esisteva consumo di carne al di fuori del sacrificio (cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, p. 9).
- ^ Qui Burkert offre gli esempi del sacrificio del bue nelle Bufonie e quello del capro in onore di Dioniso.
- ^ in Oxford Classical Dictionary 1970; trad. it Dizionario di antichità classiche. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, pp. 1952-3
- ^ R. B. Onians, The Origins of European Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1951
- ^ Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana vol. 9. Milano, Bompiani, 2004, p. 286
- ^ Iliade XXIII, 100
- ^ Odissea XI,207
- ^ Erwin Rohde. Op. cit. pp. 205 e segg.
- ^ In una versione minore Trittolemo compare come colui che avverti Demetra del rapimento della figlia Persefone.
- ^ Tale conoscenza è relativa sia alla coltura del grano sia ai contenuti dei Misteri, cfr. in tal senso Iscocrate Panegirico XXVIII; Ugo Bianchi. Misteri di Eleusi, Dionisismo e Orfismo. in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro (a cura di Julien Ries). Trattato di Antrolopologia del sacro vol. 3. Milano, Jaca Book, 1992, p. 271.
- ^ Cfr., tra gli altri, W. Burkert, Op. cit. 318.
- ^ Pausania I, 23, 5.
- ^ Bacchos non è solo Dioniso ma anche chi celebra il rito, cfr. Scoli ad Aristofane I cavalieri 408a.
- ^ Erwin Rohde. Op. cit. pp. 277 e sgg.
- ^ Ancient Mystery Cults, President and Fellows of Harvard College, 1987; trad. it. Antichi culti misterici. Bari, Laterza, 1989, p. 13
- ^ Inni omerici, II, 206 e segg. Traduzione di Filippo Càssola. Milano, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, 2006, p. 33
- ^ Inno a Demetra, Traduzione di Filippo Càssola.
- ^ Eumolpo è l'iniziatore mitico dei Misteri di Eleusi (cfr. Giovanni Tzetzes, ad Aristofane Pluto 842, ma anche Scoli a Sofocle Edipo a Colono 1053). Scoli a Eschine 55a-b (3.18) spiega che tra i suoi discendenti, gli Eumolpidi, veniva scelto lo ierofante, mentre il daduco, così come l'araldo dei misteri e il sacerdote, veniva scelto nella famiglia dei Cerici (Cheryhes), i discendenti di Keryx (la cui origine era fatta risalire da questi a Ermes e non da Eumolpo come un'altra tradizione, rigettata, voleva: in tal senso cfr. Pausania I, 28,3). In un frammento di Porfirio (360F) viene riferito che lo ierofante si vestiva ad immagine del Demiurgo, mentre il daduco ad immagine del Sole, il sacerdote dell'altare ad immagine della Luna, mentre l'araldo ad immagine Ermes. Oscure sono le funzioni che hanno origine dalle discendenze di Diocle, Trittolemo e Celeo (cfr. Erwin Rohde, nota n. 6 p. 234).
- ^ André Motte. Notte e luce nei misteri di Elusi in Simbolismo ed esperienza della luce nelle grandi religioni (a cura di Julien Ries e Charles Marie Ternes). Milano, Jaca Book, 1997, pp. 101 e sgg.
- ^ Mircea Eliade. I misteri di Eleusi in Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1. Milano, Rizzoli, 2006.
- ^ Mircea Eliade. Op. cit. p. 321.
- ^ Mircea Eliade. Op. cit. p. 321. Fritz Graf (I culti misterici in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 5. Torino, Einaudi, 2008 p. 317) evidenzia che «Sulla base di un esame più approfondito dei resti archeologici, gli studiosi sono oggi molto meno certi che il santuario eleusino risalga all'età del Bronzo e che si possa ipotizzare una continuità di culto».
- ^ Collegati al mito eziologico della purificazione di Eracle dopo che questi ebbe ucciso i Centauri, cfr. Apollodoro II, 5, 12 e Diodoro Siculo IV, 14 3 e cfr. in tal senso anche Ugo Bianchi. Misteri di Eleusi, Dionisismo e Orfismo. in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro (a cura di Julien Ries). Trattato di Antrolopologia del sacro, vol. 3. Milano, Jaca Book, 1992, p. 264.
- ^ Giovanni Tzetzes, ad Aristofane Pluto 842 spiega che in realtà Eumolpo, figlio di Posidone, istituì per primo i Misteri (in tal senso a anche Scoli a Sofocle Edipo a Colono 1053) proibendone però la partecipazione agli stranieri, ma, dopo la richiesta di Eracle, "benefattore del genere umano", furono istituiti i "Piccoli Misteri" per consentire la sua partecipazione e quindi il loro "allargamento" "etnico".
- ^ Purezza da conseguire preliminarmente ai "Grandi Misteri" cfr. Scoli antichi ad Aristofane Pluto 845f.
- ^ Pausania, I, 38,3, spiega che dopo la guerra tra Atene ed Eleusi, quest'ultima fu resa soggetta per tutto alla prima, tranne per la celebrazione dei Misteri.
- ^ a b Fritz Graf. I culti misterici in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 5. Torino, Einaudi, 2008 p. 314.
- ^ Scoli ad Aristofane, Acarnesi 747b indica questi animali come "misterici", mentre Giovanni Tzetzes (ad Aristofane Le rane 338a) spiega che il sacrificio del porcellino era motivato dal fatto che questo animale danneggiava le messi di Demetra e le piante di Dioniso. Per questa ragione il maiale, come la capra, perdeva la sua virtù "carnea" per gli stessi "pitagorici" detti "casuisti" (non quindi i "puri", che rimanevano sempre strettamente vegetariani) e quindi erano per costoro commestibili (cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant La cucina del sacrificio in terra greca. Torino, Boringhieri, p. 12.
- ^ In genere questo, come quello precedente, era un giorno di riposo per gli adepti, la processione-sacrificio in onore di Asclepio entra nelle tradizioni tarde, cfr. Fritz Graf. I culti misterici in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 5. Torino, Einaudi, 2008 p. 314.
- ^ Corteo composto anche da carri su cui prendevano posto le donne che tra loro scambiavano motteggi, cfr. Scoli antichi ad Aristofane Pluto 1014a.
- ^ Questi non va confuso con Βάκχος (Bákkhos), ovvero con Dioniso, come invece accade ad esempio nel peana di Filodamo di Scarfia (IV secolo a.C.), essendo Ἴακχος figlio di Zeus ctonio e di Persefone (in tal senso cfr. Erwin Rohde nota n. 9 p. 235). D'altronde Giovanni Pugliese Carratelli (cfr. Orphikòs Bios in Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia della civile e religiosa dei Greci d'Occidente, Bologna, il Mulino, 1990, p. 409) ritiene che nel IV secolo a.C. sia terminata il processo di assimilazione di Ἴακχος eleusino con Dioniso e di Demetra con Rea.
- ^ Una statua di Ἴακχος veniva introdotta nel corteo a partire dal Pompeion (Fritz Graf. I culti misterici in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 5. Torino, Einaudi, 2008 p. 314.
- ^ Pratica consueta nelle cerimonie agricole, nonché presente negli scherzi che la vecchia Iambe fa a Demetra per farla sorridere, allontanando così la sua tristezza causata dalla perdita della figlia rapita da Ade (cfr. Inno a Demetra 192-205).
- ^ Filippo Càssola in Inni omerici, p. 27
- ^ «Allora Metanira, riempita una coppa di vino dolce come il miele,
a lei la porgeva; ma la dea la respinse: disse che in verità le era vietato
bere il rosso vino, e comandò che le offrisse come bevanda
acqua, con farina d'orzo, mescolandovi la menta delicata.
La donna preparò il ciceone, e lo porse alla dea come ella aveva ordinato:
Demetra, la molto venerata, accettandolo inaugurò il rito.» - ^ Il termine κυκεών è comunque un termine generico e può indicare in altri contesti altri tipi di bevande, per uno studio appropriato di queste cfr. Armand Delatte. Le Cycéon, breuvage rituel des mystères d'Éleusis. Belles Lettres, Parigi, 1955
- ^ Erwin Rohde p. 239 evidenzia come tale segretezza abbia avuto successo nonostante che all'inziazione dei Misteri abbiano avuto accesso un notevole numero di Greci nel corso dei secoli. La riuscita della segretezza dei Misteri è stata tuttavia determinata dal fatto che i questi non consistevano in insegnamenti concettuali e quindi verbali, quanto piuttosto in una manifestazione scenica: «Non era facile propalare il "mistero", poiché propriamente non c'era nulla da propalare. La profanazione poteva avvenire soltanto mediante azioni, "celebrando i misteri"».
- ^ Per una disamina di tali ipotesi si rimanda a Mircea Eliade. I misteri di Eleusi in Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1. Milano, Rizzoli, 2006.
- ^ Filippo Càssola. Op. cit. p. 28. Per una esaustiva e sistematica raccolta di queste testimonianze si rimanda all'opera di Paolo Scarpi. Le religioni dei misteri, vol. 1. Milano, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, 2007, pp. 5-219
- ^ Ugo Bianchi. Misteri di Eleusi, Dionisismo e Orfismo. in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro (a cura di Julien Ries). Trattato di Antrolopologia del sacro vol. 3. Milano, Jaca Book, 1992
- ^ Olbios
- ^ Vita= ζῇν, zen.
- ^ L'origine e il significato del nome Dioniso è suggerita dal genitivo Διός e da νῦσος, quindi il nysos di Zeus: il "giovane figlio di Zeus" (Cfr. Filippo Càssola. Inni omerici. Milano, Mondadori/Fondazione Lorenzo Valla, 2006, p. 5).
- ^ A Delfi conosciuto come Liknites (il fanciullo "nella cesta").
- ^ Mircea Eliade. Dioniso o le beatitudini ritrovate, in Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I. Milano, Rizzoli, 2006, p. 395
- ^ Bibliotheca historica V, 75, 4 e III, 65, 6.
- ^ Erwin Rohde. Op. cit. pp. 291 e sgg.
- ^ «Orfeo, fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce nell'Oxford Classical Dictionary (trad. it. Dizionario di antichità classiche. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1995, p. 1521), voce firmata da Nils Martin Persson Nilsson, Johan Harm Croon e Charles Martin Robertson. La voce dell'Oxford Classical Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di cantore nella mitologia greca deriva dalle composizione nelle quali erano esposte le dottrine e le leggende orfiche».
Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La teologia dei primi pensatori greci, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 100). - ^ Giulio Guidorizzi. Il mito greco, vol. 1. Milano, Mondadori, 2009, p. 77
- ^ Anche Conone, f. 45 (115 Frammenti orfici nella edizione di Otto Kern)«Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare all'azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino, attuarono la scellerata impresa. e da quel momento invalse per gli uomini il costume di andare ebbri alle battaglie.»
- ^ «Non onorò (il soggetto sottinteso è Orfeo, reduce dalla catabasi) più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamo anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra.»
- ^ Plates in The Derveni Papyrus (a cura di Theokritos Koueremenos, George M. Parássoglou, Kyriakos Tsantsanoglou) in "Studi e testi per il corpus dei papiri filosofici greci e latini" 13. Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2006, pp. 309 e sgg.
- ^ Angelo Bottini. Archeologia della salvezza. L'escatologia greca nelle testimonianze archeologiche. Milano, Longanesi, 1992.
- ^ Sulla figura di Dioniso/Zagreus cfr. Il nucleo cretese del mito di Dioniso-Zagreus in Károly Kerényi. Dioniso. Milano, Adelphi, 2011, pp. 94 e sgg.
- ^ Marcel Detienne, cit. in Paolo Scarpi. Le religioni dei misteri, vol. 1 nota 695. Milano, Mondadori/FondazioneLorenzo Valla, p. 629.
- ^ Angelo Bottini. Archeologia della salvezza. L'escatologia greca nelle testimonianza archeologiche. pp. 64 e sgg.
- ^ Così la Encyclopedia of Religion (NY, Macmillan, 2005, pp. 6891 e sgg.) avvia la voce Orpheus a firma di Marcel Detienne (1987) e Alberto Bernabé (2005): «In the sixth century BCE, a religious movement that modern historians call Orphism appeared in Greece around the figure of Orpheus, the Thracian enchanter.».
- ^ William Keith Chambers Guthrie. I Greci e i loro dèi. Bologna, il Mulino, 1987, pp. 370 e sgg.
- ^ William Keith Chambers Guthrie. I Greci e i loro dèi. Bologna, il Mulino, 1987, p. 374.
- ^ Gli sciamani greci e l'origine del puritanismo in I Greci e l'irrazionale. Milano, Rizzoli, 2009.
- ^ Per una breve introduzione sul processo di colonizzazione greca di questa area cfr. La regione degli Stretti e il Mar Nero in Hans-Joachim Gehrke La Grecia settentrionale; Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 4. Torino, Einaudi, 1996, pp. 985 e sgg.
- ^ A differenza quindi di Erwin Rohde che invece ritiene la nozione di anima immortale un'eredità e un adattamento orfico dell'esperienze di possedimento estatico proprie del dionisismo.
- ^ Cfr. 62 e sgg.
- ^ Walter Burkert, La religione greca, p. 528.
- ^ Platone, Repubblica, 364 b- 365.
- ^ Cratilo 400 d; Leggi 701 c
- ^ Platone. Tutti gli scritti. Milano, Bompiani, 2008, p. 1127.
- ^ Successivamente indicata come "metafisica". «Quindi ci saranno tre specie di filosofie teoretiche, cioè la matematica, la fisica e la teologia, essendo abbastanza chiaro che se la divinità è presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando» (Aristotele, Metafisica VI (E), 1026a, 19 e sgg., traduzione di Antonio Russo, in Aristotele - Opere vol. I, Milano, Mondadori, 2008, p. 832); anche «Resta chiaro, pertanto, che esistono tre generi di scienze teoretiche: quella fisica, quella matematica e quella teologica. Superiore agli altri è, pertanto, il genere delle scienze teoretiche, e fra queste stesse la più nobile è quella da noi ricordata per ultima, perché essa si occupa dell'essere più venerando [..]» (Aristotele, Metafisica XI (Κ), 1064b, 1 e sgg., traduzione di Antonio Russo, in Aristotele -Opere vol. I, Milano, Mondadori, 2008, p. 979); in tal senso anche Werner Jaeger in La teologia dei primi pensatori greci. Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 6.
- ^ Cfr., ad esempio, Aristotele, Metafisica III (B) 1000a 9; in tal senso anche Werner Jaeger in La teologia..., p. 6.
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e..., p. 13
- ^ Ritenere che la "filosofia" sia una disciplina sistematica con procedere teorico è un atteggiamento moderno ereditato dal Medioevo, quando, con la scolastica, la "teologia" si è differenziata semanticamente dalla "filosofia" svuotando quest'ultima degli esercizi spirituali destinandoli all'alveo della "mistica", restituendo invece al lemma "filosofia" solo il rango di ancilla theologiae, ovvero il ruolo di fornire il materiale teorico alla riflessione teologica. Ad esempio il cristianesimo delle origini indicava sé stesso come φιλοσοφία (cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 67) e non ancora come religio (cfr. Michel Despland, Religione. Storia dell'idea in Occidente, in Dictrionnaire des Religions (a cura di Jacques Vidal). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pp. 1539 e segg.)
- ^ Cfr. anche: «[…] nel mondo antico la filosofia non fu soltanto un corpo impersonale di dottrine, ma in primo luogo una forma di vita, un βίος che pretendeva di avere una posizione di primato rispetto a tutti gli altri modi di vita. […] Per gli antichi il filosofo era una figura riconoscibile non soltanto per ciò che diceva e per come lo diceva, ma anche per ciò che faceva, per come conduceva la propria vita, addirittura per i modi di alimentarsi o di abbigliarsi.» Giuseppe Cambiano, Il filosofo in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 2, (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008 pp. 826-7
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 13
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 12.
- ^ Eugen Fink ricordando come anche Hegel intendeva la filosofia come "mondo capovolto" (cfr. G.W.F. Hegel Fenomenologia dello spirito) aggiunge: «ai tempi di Talete essa era già tale e si trovava in contrasto con le opinioni della massa, non in una saccenteria presuntuosa e arrogante, ma nella rischiosa impresa di lasciar andare il fondamento portante della familiarità dell'ente e di esporsi alla problematicità del mondo. In ciò la filosofia antica diviene accessibile solo a un contegno che a sua volta filosofa.» (Eugen Fink. Le domande fondamentali della filosofia antica, Roma, Donzelli, 2013, pp. 4-5).
- ^ Da evidenziare come il termine di "presocratici" sia moderno. La prima opera in cui si trova l'espressione "età presocratica" corrisponde all'Allgemeine Geschichte der Philosophie di Johann Augustus Eberhard del 1788. A tal proposito occorre rammentare la lezione di Giorgio Colli il quale ricorda che tali autori venivano indicati nell'antichità col termine di "sapienti" (σοφοί), cfr. Criteri dell'edizione in La sapienza greca Milano, Adelphi.
- ^ La "scuola filosofica «si presenta come una organizzazione chiusa, regolata e autosufficiente. Era una "comunità nella comunità", in cui si svolgevano non solo lo studio e il dibattito, ma l'esistenza stessa di scolarchi e adepti.» Luciano Canfora, La trasmissione del sapere- Le scuole dei filosofi in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 2, (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008 p. 649.
- ^ Oltre che Pierre Hadot, cfr. anche «Su questa falsariga si costituirono le scuole filosofiche, come gruppi di individui che intendevano praticare e promuovere un certo tipo di vita, che non si riduceva soltanto all’esercizio di determinate operazioni intellettuali o alla comune credenze in determinate dottrine. La storia della filosofia antica, dal IV secolo a.C. al V secolo d.C. è una vicenda di scuole.» Giuseppe Cambiano, Il filosofo in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani vol. 2, (a cura di Salvatore Settis). Torino, Einaudi, 2008, pp. 826-7
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 11
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 8
- ^ Il termine "teoria" origina dal greco θεωρία (theoria) col significato di "contemplazione", "l'essere spettatore di qualcosa", quindi θεωρέω (theoreo) "contemplare", "meditare". Quindi θεωρεῖν (theorein) rappresenta proprio il fine del filosofare in ambito greco: contemplare il Vero. Hans-Georg Gadamer ha individuato con precisione il mutamento semantico del termine occorso successivamente; theoria «rappresenta ciò che contraddistingue propriamente l'uomo, questo fenomeno frammentario e subordinato di tutto l'universo, che è tuttavia capace, nonostante la sua misura esigua e finita, della pura contemplazione dell'universo. E tuttavia sarebbe impossibile, dal punto di vista greco, formulare delle teorie. Ciò suona come se noi potessimo "fare". La parola non significa il comportamento teoretico pensato dal punto di vista dell'autocoscienza, quella distanza dall'ente che senza prenderne parte ci fa conoscere ciò che è, e con ciò lo sottomette ad un potere anonimo. La distanza della theoria è piuttosto quella della vicinanza e dell'appartenenza. Il senso antichissimo della theoria è la partecipazione alla processione festiva per l'adorazione degli dèi. La visione dell'avvenimento divino non è l'accertamento privo di partecipazione di una circostanza, o l'osservazione di un magnifico spettacolo, ma l'autentica partecipazione a ciò che avviene, un'autentica assistenza. A ciò corrisponde il fatto che la razionalità dell'essere, questa grande ipotesi della filosofia greca, non è primariamente un contrassegno dell'autocoscienza umana, ma dell'essere stesso, che in tal modo è il tutto, e che ci appare in tal modo come il tutto; ciò significa che la ragione umana è piuttosto da pensare come una parte di questa razionalità, e non come l'autocoscienza che si sa come contrapposta al tutto. Si tratta cioè di un'altra via, per così dire, in cui la riflessione umana si approfondisce in se stessa, e si ritrova: non la via verso l'interno dell'anima, a cui ci ha richiamato Agostino, ma la via del pieno abbandonarsi all'esterno, in cui tuttavia colui che cerca trova se stesso. Questa è stata la grandezza di Hegel, l'aver riconosciuto che questa via dei Greci non era una falsa via rispetto a quella moderna della riflessione in sé, che si era lasciata dietro di sé, ma è un lato che appartiene all'essere stesso.»
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 63.
- ^ Pierre Hadot. Esercizi spirituali e filosofia antica, p. 65.
- ^ A tal proposito Mircea Eliade (in Storia delle credenze e delle idee religiose vol. 1, Milano, Rizzoli, 2006, p. 211) nota come sia un tratto caratteristico della tradizione delle religioni indoeuropee quello di avvalersi della trasmissione orale e «al momento dell'incontro con le civiltà del Vicino Oriente, la proibizione di valersi della scrittura.».
- ^ Giovanni Reale, introduzione a Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, di Francesco Sarri, p. X, Vita e Pensiero, Milano 1997).
- ^ Werner Jaeger. La teologia dei primi pensatori greci. Firenze, La Nuova Italia, 1982, pp. 31 e sgg.
- ^ Così anche Giovanni Reale nel suo saggio introduttivo ai Presocratici (Milano, Bompiani, 2006, p. XLIII): «In primo luogo, va detto che non è corretto parlare della filosofia della natura dei Presocratici come di una forma di "materialismo" in senso moderno. Il pensiero presocratico, infatti, si colloca al di qua della distinzione dell'essere fra "fisico" e "sopra-fisico", fra "materiale" e "immateriale". Solo dopo la seconda navigazione (δεύτερος πλους) di Platone, ossia dopo la scoperta dell'esistenza di una realtà soprafisica, si può parlare in modo adeguato di materialismo e spiritualismo. »
- ^ Così Artistotele nella Metafisica A 3, 983 b «Talete, il fondatore di tale forma di filosofica, dice che è l’acqua» (traduzione di Renato Laurenti in Presocratici vol. I a cura di Gabriele Giannantoni, Milano, Mondadori, 2009, p. 90).
- ^ «Talete non scrisse nulla, e quindi comunicò i suoi messaggi mediante l'oralità» Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 1 p. 87; su Anassimandro in tal senso cfr. Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, p. 45;
- ^ Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, p. 44
- ^ Il primo a utilizzare il termine ἀρχή (principio, origine) fu probabilmente Anassimandro: cfr. Giovanni Reale Storia della filosofia greca e romana vol. 1 p. 88 e Giorgio Colli, La sapienza greca vol. 2 p. 32, per approfondimenti ivi nota 11 [B 1].
- ^ «Uno dei concetti più importanti di tutta la filosofia antica, il concetto di ἀρχή, e cioè il principio originario o il primo inizio, che svolgerà una funzione decisiva anche nella filosofia moderna, tradotto nell’equivalente latino «principium» (basta pensare a Descartes), secondo la tradizione è stato introdotto nella filosofia da Anassimandro. Ma nei suoi frammenti il termine non compare affatto. Ora ciò sarebbe impensabile, se questo concetto così importante, intorno a cui possiamo dire che ruota tutto il pensiero dell’ilozoismo antico, della filosofia ionica della natura, se questo concetto fosse stato usato da Anassimandro; poiché tutta questa filosofia è imperniata sul tema dell’ἀρχή), dei principi originari. Il principio di Anassimandro, l’obceipov, l’infinito, è già un concetto relativamente molto spiritualizzato; è assai strano che il filosofo che ha eseguito questa sublimazione nello stesso tempo non abbia affatto elaborato il concetto sulla base del quale si è pensato che essa fosse stata compiuta.»
- ^ Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, p. 45.
- ^ Per quanto attiene l'influenza del termine e della nozione del θεῖον propria dei filosofi naturalisti sul pensiero e sul linguaggio della Grecia classica, ad esempio in Erodoto, nei tragici, nella letteratura ippocratica, cfr. nota 46 p. 63 e anche «In seguito, ai tempi di Erodoto e dei poeti tragici, sostituisce spesso "gli dei" e d'altro canto si trova anche la forma singolare "il dio".» in Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci.
- ^ "A-peiron" ovvero privo di peras ovvero di limiti e di determinazioni, quindi "illimitato" e "indeterminato", cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 1 p. 94.
- ^ Walter Burkert, La religione greca, p. 544.
- ^ Giorgio Colli, La sapienza greca vol. 1 p. 297
- ^ Giorgio Colli, La sapienza greca vol. 1 p. 297 e Giovanni Reale, Storia della filosofia greca... vol. 1 p. 98
- ^ Giorgio Colli, La sapienza greca vol. 1 p. 297.
- ^ «If we give up the idea that philosophy or science is a motherless Athena, an entirely new discipline breaking in from nowhere upon a culture hitherto dominated by poetical and mystical theologians, we shall see that the process of rationalization had been at work for some considerable time before Thales was born.»
- ^ Walter Burkert The Logic of Cosmogony, in Richard Buxton (a cura di) Myth to Reason?, Oxford, Oxford University Press, 1999.
- ^ Walter Burkert, La religione greca, p. 546.
- ^ Werner Jaeger. Op. cit. p. 80
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