Discussione:Mantra/sandbox

Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo maschile sanscrito (raramente sostantivo neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare", ovvero una "espressione sacra" e corrisponde ad un verso del Veda, ad una formula sacra indirizzata ad un deva, ad una formula mistica o magica, ad una preghiera, ad un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.
La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è proprio delle culture religiose che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo, Buddhismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo.
Per mezzo del Buddhismo la nozione e la pratica religiosa del mantra si sono diffuse lungo tutta l'Asia giungendo in Tibet e in Cina e, per tramite di quest'ultima, in Giappone, Corea e Vietnam.
Origine del termine mantra e sua resa in altre lingue asiatiche
Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce")[1].
Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione"[2].
Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito mantra viene così reso:
- in cinese: 曼憺羅 màndáluó, ma anche 眞言 zhēnyán;
- in giapponese 眞言 shingon;
- in coreano 진언 jin-eon;
- in vietnamita chân ngôn;
- in tibetano sngags.
Il mantra nella cultura religiosa vedica, brahmanica e induista
Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita[3]:
«śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»
«Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino.»
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda)[4].
I mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa)[5]. Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte[6].
Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo[7].
I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa)[8]. In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa[9]ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.
Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).
Note
- ^ Tra gli altri, Agenanda Bharati. The Tantric Tradition. Londra, Rider, 1966, pag. 103. Su questa definizione etimologica di mantra anche Frederick M. Smith e Sanjukta Gupta rispettivamente nelle edizioni 2005 e 1988 della Encyclopedia of Religion edita dalla Macmillan di New York.
- ^ Su questa definizione tradizionale, cfr., ad esempio, Philippe Cornu. Dizionario del Buddhismo. Milano, Bruno Mondadori, 2003, pag.372.
- ^ Cfr. a tal proposito, Margaret Sutley e James Sutley in Dizionario dell'Induismo, Roma, Ubaldini, 1980, pag.263. Ma anche Frederick M. Smith: «In the earliest Indian text, the Ṛgveda, it often had the sense of “invocation,” while in later literature it is closer to “incantation,” “word(s) of power,” “(magic) formula,” “sacred hymn,” “name of God,” or sometimes simply “thought.”»
- ^ Cfr. Klaus K. Klostermaier
- ^ Margaret Sutley e James Sutley. Op.cit..
- ^ Margaret Sutley e James Sutley. Op.cit..
- ^ Cfr. Frederick M. Smith. Op.cit..
- ^ Cfr. Frederick M. Smith. Op.cit..
- ^ Cfr. Śatapatha Brāhmaṇa V,4,4,13.